I bilanci pubblici dei Paesi del G7
Sebbene sul piano culturale, politico e teorico si sia assistito nei decenni più recenti a una crescente avversione nei confronti della cosiddetta ingerenza dello Stato nell’economia, la realtà dei dati mostra che le principali economie industrializzate, negli ultimi anni, hanno sperimentato una crescente estensione nell’economia del settore pubblico, il quale tende ad affiancarsi, e talvolta a sostituirsi, al settore privato, per garantire sia il mantenimento di condizioni di efficienza allocativa (per es., allargando e diversificando l’offerta di servizi essenziali allo sviluppo economico-sociale, come sanità, istruzione, ricerca scientifica, nei casi in cui il mercato, lasciato da solo, risulti inefficiente), sia il ristabilimento di condizioni di equità e di coesione sociale (attraverso trasferimenti pensionistici, protezione sociale, sussidi destinati alle fasce disagiate). Un altro importante fattore che ha contribuito all’ampliamento dell’intervento pubblico è l’utilizzo di politiche di bilancio espansive (aumento della spesa pubblica o riduzione della tassazione) per sostenere l’economia durante le fasi di ristagno o di recessione produttiva. Il peso effettivo dello Stato nell’economia dipende comunque da un complesso di fattori, che includono sia le priorità assegnate agli obiettivi della politica economica e sociale, a loro volta stabilite in base ai diversi orientamenti ideologici sulla natura dei rapporti tra Stato, mercato e società civile, sia la sostenibilità di un intervento pubblico crescente, che per finanziarsi deve attingere, attraverso il sistema fiscale, alla ricchezza prodotta dal Paese.
Sulla base di un primo confronto delle principali voci aggregate dei bilanci pubblici, e cioè le entrate fiscali e la spesa pubblica complessiva rapportate al PIL, i Paesi del Gruppo dei 7 (o G7; in ordine per dimensione dell’economia: Stati Uniti, Giappone, Germania, Regno Unito, Francia, Italia e Canada) evidenziano un ampio spettro di variabilità (fig. 1; in questa e nelle successive figg., le abbreviazioni utilizzate corrispondono: CA a Canada, DE a Germania, FR a Francia, IT a Italia, JP a Giappone, UK a Regno Unito, US a Stati Uniti, OECD alla media dei 30 Paesi aderenti all’organizzazione). Gli Stati Uniti e il Giappone si caratterizzano per la ridotta dimensione dell’intervento dello Stato, con un prelievo fiscale pari a circa un terzo del PIL, e un livello di spesa pubblica compreso tra il 36 e il 38% circa. Il Canada e il Regno Unito, invece, si allineano alla media dei Paesi OECD (Organisation of Economic Co-operation and Development, l’organizzazione internazionale che raggruppa i Paesi più industrializzati del mondo) attorno al 40% del PIL sia per le entrate fiscali sia per la spesa pubblica. La Francia, l’Italia e la Germania, infine, sono accomunate dalla rilevanza del settore pubblico: negli ultimi due Paesi la spesa dello Stato raggiunge il 47-48% circa del PIL, e il prelievo fiscale è di poco inferiore al 45%; in Francia l’incidenza dell’intervento pubblico in termini di entrate e di spese supera addirittura il 50%, e risulta pertanto maggiore della componente di mercato dell’economia. Nonostante le differenze, anche assai consistenti, nella dimensione relativa dei bilanci pubblici, i Paesi del G7 sono accomunati da una crescita tendenziale della spesa pubblica, che è proseguita quasi senza interruzione negli ultimi cinquant’anni, benché a ritmi e con intensità variabili da caso a caso. Tra il 1960 e il 2007, infatti, la quota di spesa pubblica sul PIL è cresciuta di 10 punti percentuali negli Stati Uniti e nel Regno Unito, di 12 in Canada, di 14 in Germania, di 18 in Francia e Italia, di 20 in Giappone. Tale incremento non si è verificato in modo omogeneo nei diversi Paesi, ma ha assunto un andamento che nel lungo periodo è stato determinato dall’azione di due fattori di base: l’evoluzione delle variabili demografiche e il tasso di crescita dell’economia.
Per quanto riguarda l’evoluzione demografica, il processo d’invecchiamento della popolazione, che caratterizza la transizione demografica di numerosi Paesi industrializzati, ha riguardato soprattutto il Giappone e l’Italia, dove circa il 20% della popolazione aveva nel 2005 un’età superiore a 65 anni, seguiti dalla Germania, dalla Francia e dal Regno Unito, dove tale quota varia tra il 18,7% e il 15,9%. Più contenuta è l’incidenza di popolazione anziana in Canada e negli Stati Uniti, dove oscilla intorno al 12%. L’Italia e il Giappone registrano inoltre tassi di fertilità tra i più bassi in assoluto nell’ambito dei Paesi OECD (1,3 figli per donna nel 2005).
La crescita dell’economia rappresenta un altro importante fattore che condiziona l’evoluzione della spesa pubblica. Come si riscontra nella fig. 2 i tassi di crescita nei Paesi del G7 tendono a differenziarsi, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Novanta del 20° sec., a vantaggio delle economie degli Stati Uniti, del Canada e del Regno Unito. I tre Paesi dell’Europa continentale considerati in questo saggio (Germania, Francia e Italia), che fino agli anni Ottanta avevano mantenuto una dinamica dell’economia più vivace, hanno subito un rallentamento della crescita verso la seconda metà degli anni Novanta, per effetto di rigide politiche fiscali e di bilancio imposte dal Patto di stabilità e crescita come condizione per l’adesione all’Unione economica e monetaria. Del tutto a parte, invece, è il caso del Giappone, colpito da una profonda crisi finanziaria interna all’inizio degli anni Novanta del 20° sec., che ha frenato la crescita anche nel successivo decennio. Nel complesso, se si esclude il Canada, l’unico Paese che è stato in grado di ridurre costantemente il livello della spesa e del debito pubblico (quest’ultimo sceso dall’83% del PIL nel 2001 al 63% nel 2008), tutti gli altri Paesi del G7 hanno dovuto fronteggiare un tendenziale, per quanto disomogeneo, peggioramento dei conti pubblici. In Francia, Germania e Italia, che pure alla fine degli anni Novanta avevano ottenuto importanti risultati in termini di risanamento delle finanze pubbliche, il rapporto tra debito pubblico e PIL ha subito un progressivo deterioramento, soprattutto a causa della stagnazione economica che, dopo la seconda metà del 2008, si è trasformata in una vera e propria recessione. Il debito pubblico è aumentato in particolar modo in Germania e in Francia portandosi, rispettivamente, dal 58,7% e dal 56,9% del PIL del 2001 al 64,4% e al 66,4% del PIL del 2008, mentre in Italia è sceso dal 108,8% del 2001 al 104% circa del 2008, grazie, però, solo alla diminuzione della componente di spesa destinata al pagamento degli interessi sul debito pubblico. In ogni caso, anche per l’Italia le condizioni di stabilizzazione del debito sono rimaste precarie, e la crescita della spesa primaria (al netto degli interessi) continua a esercitare una pressione persistente sulla ulteriore dilatazione del debito pubblico. Il Regno Unito e gli Stati Uniti hanno subito un brusco peggioramento dei conti pubblici soprattutto in conseguenza dell’esplosione della profonda crisi finanziaria del settembre 2008, che ha richiesto ingenti trasferimenti pubblici per il salvataggio dei rispettivi sistemi bancari. Negli Stati Uniti, il debito pubblico è passato dal 55% del PIL degli inizi degli anni Duemila al 74% della fine del 2008, mentre nel Regno Unito è salito dal 37,3% del 2001 al 53% del PIL nel 2008. In Giappone, infine, l’utilizzo della spesa pubblica quale fattore di stimolo dell’economia ha comportato una crescita molto sostenuta del debito pubblico, il quale già nel 1997 aveva raggiunto il valore del prodotto interno, ed è arrivato a toccare nel 2008 quasi il 190% del PIL.
In tutti i Paesi del G7, dunque, il vincolo della sostenibilità di un debito pubblico crescente ha ridotto considerevolmente gli spazi rimasti aperti ai policy makers nell’allocazione delle risorse per la spesa pubblica e ha portato a scelte fortemente selettive riguardo alla tipologia di bisogni presenti da soddisfare o all’alternativa tra bisogni presenti e bisogni futuri. I governi si trovano a dover identificare, selezionare e ordinare su di una scala di priorità i bisogni e le esigenze della collettività e a effettuare scelte che comportano necessariamente conseguenze sul benessere di particolari categorie di cittadini o sulle prospettive di crescita future dell’economia. L’analisi comparativa dei bilanci dei Paesi del G7 si focalizzerà proprio su queste scelte, e cercherà di cogliere le differenze e le convergenze in atto tra Paesi in alcuni dei principali ambiti di intervento della spesa pubblica riguardanti i sistemi nazionali del welfare state e dell’economia della conoscenza.
Il welfare state sotto assedio
La dimensione complessiva della spesa sociale
Nelle economie avanzate, i sistemi di protezione sociale svolgono una duplice funzione: tutelare i cittadini dai rischi sociali (quali malattie, invalidità, disoccupazione e vecchiaia) che possono limitare la loro capacità di produrre reddito, e assicurare una redistribuzione volta a correggere gli squilibri generati dal mercato nella ripartizione delle risorse e a favorire l’inclusione e la coesione sociale.
Al riguardo, i diversi sistemi nazionali si differenziano profondamente, sia per la dimensione quantitativa dell’intervento pubblico, sia sotto il profilo della definizione e dell’estensione dei bisogni e dei rischi sociali ritenuti meritevoli di tutela collettiva.
Ai fini di un confronto internazionale, è possibile fare riferimento ai settori della protezione sociale presidiati dall’intervento pubblico, che sono classificati dall’OECD in quattro tipologie principali (OECD 2007e): l’assistenza sanitaria; la tutela per invalidità, malattia e vecchiaia (previdenza sociale); la tutela dalla disoccupazione; gli interventi a sostegno delle famiglie e dell’infanzia, per le abitazioni e per l’inclusione sociale (assistenza sociale).
I dati relativi alla dimensione del welfare pubblico consentono di ripartire i Paesi del G7 in due gruppi: da un lato quelli con una tradizione di elevata spesa pubblica a fini sociali, che comprendono la Francia (con oltre il 33% del PIL nel 2003), la Germania (circa il 30%) e l’Italia (quasi il 27%); dall’altro i Paesi con una più bassa propensione all’intervento pubblico, che comprendono il Regno Unito (circa il 23%), il Canada e il Giappone (meno del 20%) e, infine, gli Stati Uniti (poco più del 17%, quasi la metà della quota francese). Tuttavia, se si tiene conto degli effetti dei differenti regimi fiscali vigenti nei diversi Paesi (e cioè delle deduzioni e detrazioni fiscali a scopo sociale, che ampliano la portata dell’intervento pubblico, nonché delle imposte dirette sulle prestazioni sociali e di quelle indirette gravanti sui consumi che invece la riducono), lo scarto si ridimensiona significativamente. Al netto degli effetti dei diversi regimi fiscali nazionali (fig. 3), l’incidenza sul PIL della spesa pubblica sociale si riduce in Francia, in Germania (scendendo in entrambi i casi a circa il 29%), in Italia (circa il 23%) e nel Regno Unito (circa il 21%); rimane sostanzialmente immutata in Canada e Giappone, mentre sale negli Stati Uniti (quasi il 19%). Il differenziale tra gli Stati Uniti e la Francia, che in termini di spesa lorda è di quasi 17 punti percentuali, si riduce a poco più di 10 punti in termini di spesa netta (cfr. Adema 2005).
In sostanza, le differenze tra spesa sociale netta e lorda sorgono perché alcuni Paesi tassano una parte delle prestazioni sociali (soprattutto Francia e Italia), mentre altri (in primo luogo Stati Uniti e Canada, ma anche Regno Unito e Germania) offrono incentivi fiscali a imprese e individui per incoraggiare il ricorso al mercato per l’acquisto di prestazioni pensionistiche o di assicurazioni sanitarie. Da ciò deriva che non è sempre possibile tracciare confini definiti tra interventi che rientrano nel welfare pubblico e interventi che attengono alle decisioni individuali (come, per es. quella di sottoscrivere una polizza assicurativa sanitaria o pensionistica per effetto di incentivi pubblici ai lavoratori e ai datori di lavoro), con la conseguenza che, ai fini di una comparazione internazionale, è opportuno tener conto non solo della componente pubblica del welfare, ma anche delle altre dimensioni della regolamentazione dei bisogni sociali, riferibili al mercato o alle reti familiari di solidarietà e assistenza.
Alla luce di queste considerazioni, le differenze nei livelli di spesa netta complessiva tra Paesi si ridimensionano considerevolmente. La Francia e la Germania risultano ancora i due Paesi con la quota sul PIL di spesa sociale complessiva più alta (tra il 31 e il 32%: fig. 3), ma con la componente privata più bassa (tra il 2 e il 3%). L’elevata incidenza della componente pubblica rappresenta l’eredità storica della matrice bismarckiana che caratterizza i modelli di welfare vigenti nei due Paesi, dove prevalgono gli schemi assicurativi pubblici basati sulla posizione occupazionale e sui contributi obbligatori di lavoratori e datori di lavoro versati su specifici fondi previdenziali di categoria. Nella classificazione dei modelli di welfare di Gøsta Esping-Andersen (The three worlds of welfare capitalism, 1990), i sistemi francese e tedesco sono definiti ‘modelli corporativi’ in quanto i benefici delle politiche sociali sono legati alla condizione professionale del lavoratore che versa contributi previdenziali.
I sistemi sociali adottati nel Regno Unito, negli Stati Uniti e in Canada si connotano invece per modesti livelli di contribuzione della spesa pubblica, a cui si associano quote di spesa privata significativamente elevate (corrispondono al ‘modello liberale’ della classificazione di Esping-Andersen). In questi Paesi, gli schemi pubblici di assicurazione sociale sono circoscritti ai casi di povertà estrema o di emarginazione sociale, e le prestazioni sociali, in genere contenute, sono erogate dietro dimostrazione dell’effettivo stato di bisogno (means-testing). La residualità dell’intervento pubblico implica una forte individualizzazione del rischio sociale: per coprirsi dai rischi di vecchiaia, malattia o perdita di reddito, i cittadini sono infatti incentivati a ricorrere a schemi assicurativi non statali o ad acquistare sul mercato privato i servizi sociali. La componente privata della spesa sociale è pertanto molto elevata e ha rappresentato nel 2003 oltre l’8% del PIL negli Stati Uniti e circa il 6% nel Regno Unito (v. fig. 3). Il sistema italiano condivide caratteristiche simili a quello francese e tedesco, anche per quanto riguarda il basso livello della componente privata della spesa e la maggiore rilevanza dell’intervento pubblico. Quest’ultimo, tuttavia, risulta assai più contenuto, quasi 6 punti percentuali in meno rispetto alla Francia e alla Germania. Pertanto, una ridotta spesa privata, associata a un livello di spesa pubblica leggermente superiore a quello dei Paesi appartenenti al ‘modello liberale’, colloca l’Italia solo al quinto posto tra i Paesi del G7 in termini di spesa sociale complessiva, e contribuiscono a delineare anche una caratteristica peculiare del welfare italiano, nel quale l’intervento dello Stato è rivolto non tanto al singolo individuo quanto alla famiglia e, in particolare, alla figura del capofamiglia lavoratore, il quale resta responsabile del benessere dei suoi membri e il principale soggetto produttore di servizi (alloggio, assistenza anziani e bambini, servizi di cura), che in altri sistemi sono affidati al mercato o forniti direttamente dal settore pubblico. L’Italia, infatti, che pure presenta tassi di fecondità tra i più bassi del mondo, nel 2007 ha destinato ai servizi pubblici a sostegno dell’infanzia solo l’1,1% del PIL, contro il 3,2% della Germania e il 2,5% della Francia, mentre le risorse rese disponibili per gli alloggi sono addirittura risultate nulle. Il Giappone, infine, costituisce un caso a parte: le prestazioni sono erogate direttamente o indirettamente dai datori di lavoro alla generalità dei dipendenti, in sostituzione di analoghi interventi pubblici (‘welfare aziendale’), e la dimensione complessiva del welfare è la più contenuta nell’ambito del G7, sia nella componente pubblica (poco più del 21% del PIL nel 2003), sia in quella privata (0,3%).
Nel complesso, le diverse articolazioni delle soluzioni istituzionali, da cui discendono le varietà strutturali e dimensionali dei sistemi nazionali di protezione sociale, sono il risultato delle esperienze storiche, politiche e sociali dei singoli Paesi. Le trasformazioni demografiche e l’inasprimento della competizione internazionale rappresentano tuttavia i due fattori che più di altri stanno modificando gli equilibri sociali ed economici su cui si sono sorretti gran parte dei sistemi pubblici di welfare. I Paesi europei, in particolare, i cui sistemi di protezione sociale si sono sviluppati pienamente tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta del Novecento, sembrano evidenziare oggi maggiori difficoltà nel garantire una risposta all’accresciuta domanda di protezione sociale perché è mutata la natura stessa del rischio sociale. Le pressioni provenienti da questi mutamenti esterni sembrano tuttavia spingere non soltanto in direzione di un maggior contenimento della spesa pubblica sociale (imposto dalla necessità di riequilibrio dei conti pubblici), ma anche verso un differente orientamento nella protezione dei rischi (in particolare quelli connessi alla disoccupazione e alla vecchiaia), con un conseguente trasferimento della gestione dei bisogni sociali da una forma di tutela collettiva all’assunzione di una maggiore responsabilità individuale. Si tratta di tendenze rinvenibili negli ambiti d’intervento della spesa pubblica riguardanti la previdenza sociale, le forme di tutela contro la disoccupazione e il sistema sanitario.
La riforma dei sistemi pensionistici
In numerosi Paesi industrializzati i fattori legati alla flessione dei tassi di natalità, al progressivo invecchiamento della popolazione e alla tendenziale contrazione delle forze di lavoro dovuta al ristagno occupazionale, hanno determinato una sensibile crescita della spesa pubblica per le pensioni. In diversi casi, inoltre, la generosità dei sistemi pensionistici ha costituito un incentivo ad abbreviare la vita lavorativa e anticipare l’età del pensionamento, determinando le condizioni per un’ulteriore riduzione della base contributiva necessaria al finanziamento del sistema previdenziale. Di conseguenza, soprattutto nei sistemi pensionistici a ripartizione (dove, cioè, i contributi dei lavoratori attivi confluiscono direttamente nelle pensioni erogate), caratterizzanti gran parte dei sistemi previdenziali, un numero crescente di persone inattive (i pensionati) tende a gravare su un numero stabile o in diminuzione di persone attive (gli occupati).
In sostanza, a partire dalla metà degli anni Ottanta la stabilità finanziaria dei sistemi pensionistici nei Paesi industrializzati è risultata sempre più minacciata da tre fattori di rischio: a) il fattore demografico, dovuto al progressivo invecchiamento della popolazione, che genera una crescente domanda di prestazioni pensionistiche; b) il fattore occupazionale, legato alla stagnazione del mercato del lavoro e alla crescita della disoccupazione di lungo periodo; c) il fattore economico-finanziario, connesso al rallentamento della produttività e della crescita economica e, dunque, alla contrazione delle risorse che finanziano il sistema previdenziale.
La crescente ‘dipendenza’ numerica dei pensionati dagli occupati ha interessato soprattutto i Paesi che si caratterizzano per un più rapido invecchiamento della popolazione. In Italia, per es., che ha un tasso di occupazione tra i più bassi e un indice di vecchiaia tra i più alti nell’ambito dei Paesi OECD, il rapporto tra contribuenti e beneficiari delle prestazioni pensionistiche era nel 2005 di soli 2,2 lavoratori attivi per ciascun pensionato. Tale rapporto si presenta critico anche in Giappone, Francia e Germania (si colloca tra 2,6 e 2,7 lavoratori per pensionato). Meno squilibrata è la situazione nel Regno Unito (3,2) e nei due Paesi dell’America Settentrionale (4,4). L’OECD prevede che, per effetto delle dinamiche demografiche, l’indice di dipendenza dovrebbe aumentare ulteriormente nei Paesi a più rapido invecchiamento: entro il 2050, per es., in Italia e in Giappone è previsto un solo lavoratore per ciascun pensionato.
Non stupisce, quindi, che la crescita più sostenuta della spesa pensionistica si sia verificata nei Paesi con la quota più elevata di popolazione anziana (fig. 4). In Giappone, per es., l’incidenza della spesa previdenziale è quasi raddoppiata in tredici anni, portandosi dal 5% del PIL del 1990 a oltre il 9% del 2003; nello stesso periodo, in Italia è aumentata di circa 4 punti percentuali, raggiungendo quasi il 14%, il livello più elevato tra i Paesi industrializzati (la media dei Paesi OECD è di poco inferiore all’8%). Nel caso italiano, comunque, l’aumento non può essere attribuito al solo fattore demografico, in quanto assorbe altre voci di spesa che, generalmente, non vengono considerate nei conti pensionistici degli altri Paesi, quali i prepensionamenti connessi alle crisi occupazionali e industriali, e la contabilizzazione del trattamento di fine rapporto. Incrementi più contenuti si registrano invece in Germania (1,5%), in Francia (1,4%) e nel Regno Unito (meno di 1 punto), mentre per quanto riguarda il Canada e gli Stati Uniti praticamente non vi è stato alcun tipo di variazioni.
In ogni caso, a partire dagli anni Novanta i Paesi del G7 hanno avviato riforme volte a trasformare, più o meno in profondità, i rispettivi sistemi previdenziali. La necessità di una correzione degli squilibri è stata avvertita soprattutto nei sistemi a ripartizione vigenti in Italia, Francia e Germania, a causa della maggiore velocità di crescita delle spese pensionistiche rispetto al flusso dei contributi in entrata. Anche il Giappone, che ha adottato un sistema misto a capitalizzazione, ha riformato significativamente il sistema pensionistico al fine di contrastare gli effetti negativi legati alla transizione demografica. In Canada, Stati Uniti e Regno Unito, invece, dove il sistema a ripartizione è soltanto parziale, le riforme hanno puntato in modo particolare al rafforzamento della componente previdenziale privata.
Al di là delle misure adottate singolarmente in ciascun Paese, due sono stati gli obiettivi generali che si è cercato di raggiungere attraverso l’attuazione delle riforme: da un lato assicurare l’equilibrio finanziario del sistema attraverso una più stretta corrispondenza tra entrate contributive e spese pensionistiche; dall’altro cercare di ridurre la spesa pubblica spostando una parte significativa delle prestazioni previdenziali sul mercato dei fondi pensione e delle compagnie assicurative. Entrambe le soluzioni hanno permesso il contenimento o la stabilizzazione della spesa pubblica pensionistica, ma al costo di una progressiva traslazione del rischio demografico, di quello occupazionale e di quello economico-finanziario dalla collettività al singolo individuo.
Per es., la riforma del sistema previdenziale italiano del 1992-1995 ha previsto il passaggio graduale da un sistema a ripartizione di tipo retributivo, in cui la pensione viene calcolata in base al valore delle ultime retribuzioni, a un sistema a ripartizione di tipo contributivo, in cui la pensione viene calcolata proporzionalmente ai contributi versati. Nel nuovo sistema previdenziale sono stati previsti due meccanismi di stabilizzazione automatica della spesa pensionistica pubblica: il primo prevede un calcolo dei rendimenti dei contributi versati in relazione alla crescita della produttività e dell’occupazione (e quindi del PIL), mentre il secondo prevede l’adeguamento in senso riduttivo del calcolo pensionistico all’aumento della speranza di vita della popolazione. Isolando il sistema previdenziale pubblico dai fattori demografici ed economici, la riforma garantirà in futuro la stabilizzazione della spesa pensionistica in rapporto al PIL, ma a svantaggio dei futuri pensionati, che potranno subire una decurtazione delle prestazioni a seguito di un rallentamento della crescita economica o di un peggioramento del rapporto tra occupati e pensionati.
Analoghi meccanismi di rimodulazione del calcolo pensionistico in funzione dei rischi demografici ed economici sono stati introdotti anche nei Paesi che hanno mantenuto il sistema retributivo. In Francia, per es., dopo la riforma del 2003 il periodo di contribuzione per giungere alla pensione completa è stato incrementato in funzione della crescita dell’aspettativa di vita, a parità di prestazione pensionistica, mentre in Germania nel 2004 è stato introdotto un provvedimento che riduce i meccanismi di indicizzazione delle pensioni al crescere del rapporto tra pensionati e occupati. Una delle principali conseguenze delle riforme adottate è la diminuzione del tasso di sostituzione delle pensioni, vale a dire del rapporto tra pensione e salario precedentemente percepito. Sulla base di calcoli effettuati dall’OECD, il tasso di sostituzione medio di un individuo di sesso maschile che va in pensione a 60 anni con 35 anni di contributi, passerà in media dal 65% del salario a circa il 51% in Francia, dal 49% al 40% in Germania, dal 90% al 67,9% in Italia, dal 40,7% al 35% in Giappone (OECD 2007c). Il peggioramento degli standard di vita al momento della pensione risulterà inoltre più accentuato per coloro che svolgono attività lavorative discontinue, per i lavoratori parasubordinati e per le tipologie di contratti atipici, per i quali il tasso di sostituzione potrebbe scendere nel 2035 al di sotto del 50% nel caso italiano (Rapporto sullo Stato sociale, 2008). Il problema dell’adeguatezza delle prestazioni costituisce il secondo aspetto che accomuna i progetti di riforma previdenziale. Per garantire la continuità degli standard di vita dopo la pensione, tutti i Paesi del G7 hanno introdotto o rafforzato sia il sistema di previdenza complementare (il cosiddetto secondo pilastro, che si affianca a quello pubblico e che generalmente prevede la stipula di contratti tra aziende e lavoratori per la partecipazione a un fondo pensione), sia il sistema di previdenza integrativa (il cosiddetto terzo pilastro, consistente nell’incentivare l’adesione individuale a piani previdenziali offerti da banche e compagnie di assicurazioni), anche se, sotto il profilo quantitativo, le differenze nazionali rimangono comunque significative. Nel Regno Unito, negli Stati Uniti e in Canada, come si è detto, la parte più sostanziosa delle prestazioni pensionistiche proviene dai fondi privati. Nel 2007, il valore del patrimonio gestito dai fondi pensione ha raggiunto in questi tre Paesi rispettivamente l’86,1%, il 74,3% e il 55,3% del PIL, in linea con la media dei Paesi OECD (75,5%) ma ben al di sopra delle percentuali del Giappone (20%) e degli altri Paesi europei del G7, dove i fondi pensione gestiscono una frazione molto più piccola dei risparmi: solo il 4,1% del PIL in Germania, il 3,3% in Italia e l’1,1% in Francia (si veda la figura 6, in OECD 2008c, p. 12). Tuttavia, proprio nel crescente ruolo assegnato alla componente di mercato si ravvisano i pericoli più insidiosi connessi alla progressiva ‘privatizzazione del rischio’. I fondi pensione, infatti, sono particolarmente esposti alla volatilità dei mercati finanziari e azionistici: negli Stati Uniti, per es., il 47% delle attività dei fondi pensione è investita in azioni; in Canada il 55%, nel Regno Unito il 42% (BIS 2007, dati riferiti al 2005). L’esplosione della crisi bancaria del 2008 ha comportato una perdita per i fondi pensione stimata tra i 125 e i 250 miliardi di dollari (IMF 2008). Negli Stati Uniti, gli aderenti ai fondi di contribuzione definiti 401 k (dal comma della legge fiscale del 1978 che li ha istituiti), che sono andati in pensione al momento dello scoppio della crisi, hanno subito una perdita variabile tra il 20 e il 40% delle prestazioni pensionistiche. I sistemi pensionistici dei Paesi che hanno avviato riforme nelle quali una quota sempre più consistente delle prestazioni dipenderà dagli andamenti dei mercati finanziari, potrebbero dunque essere profondamente scossi dall’eventualità di crisi finanziarie sistemiche simili a quella verificatasi nel 2008.
La spesa per gli ammortizzatori sociali
Alcune significative differenze tra i diversi modelli di welfare adottati nei Paesi del G7 emergono anche con riferimento alla quota sul PIL delle risorse pubbliche destinate alla tutela dai rischi di disoccupazione, che nei tre Paesi che storicamente hanno sviluppato per primi i sistemi di sicurezza sociale, Francia, Regno Unito e Germania, risulta da 2 a 1,5 volte superiore al livello dell’Italia e del Canada, da 3 a 2 volte a quello statunitense e da 4 a 3 volte superiore a quello del Giappone che nel G7 è il Paese che evidenzia i livelli più bassi (fig. 5).
Tali difformità nei livelli quantitativi sono il risultato delle diverse esperienze di regolazione socioistituzionale dei rapporti tra imprese e lavoratori che contraddistinguono i modelli neocorporativi e i sistemi di welfare di matrice liberale. Nei primi, il mantenimento di condizioni di relativa stabilità sociale, favorevoli alla crescita dei profitti delle imprese, in cambio di elevate indennità di disoccupazione e malattia, ha consentito una maggiore selettività nella scelta tra lavorare e non lavorare; negli Stati Uniti, invece, le modeste prestazioni assistenziali rivolte ai disoccupati hanno ridotto le alternative all’accettazione di lavori anche poco retribuiti, alimentando la crescita del numero di persone che si collocano al di sotto della sussistenza pur disponendo di un lavoro (working poors). La diversa impostazione del sistema di tutela dai rischi di disoccupazione, se da un lato ha consentito alle economie europee di mantenere bassi i livelli di disuguaglianza dei salari e dei redditi rispetto agli Stati Uniti (dove nel 2002 circa 33 milioni di cittadini vivevano al di sotto della soglia di sussistenza, identificata in 18.000 dollari l’anno), dall’altro ha contribuito a creare un mercato del lavoro meno flessibile di quello statunitense, nel quale le imprese possono rispondere alle opportunità del mercato licenziando più facilmente ma anche offrendo più posti di lavoro (benché non necessariamente tutti di ‘qualità’).
Naturalmente, non tutti i singoli casi nazionali possono essere letti alla luce di questa schematica ripartizione. Nel caso italiano, per es., il basso livello di risorse destinate alla spesa per ammortizzatori sociali si associa a un sistema frammentario e disorganico, in cui l’assegnazione delle prestazioni a tutela della disoccupazione ha risposto più a meccanismi di attribuzione legati alla capacità di lobbying di particolari gruppi di pressione che a un disegno ispirato a criteri standard e a procedure imparziali di individuazione degli stati di bisogno effettivo. Ciò ha comportato una profonda difformità di trattamento, che ha privilegiato i gruppi più rappresentativi ed elettoralmente più forti, e che ha escluso dalla tutela previdenziale e assicurativa le nuove figure di lavoratori ‘atipici’, legati alle imprese da rapporti contrattuali flessibili e a tempo determinato e maggiormente bisognosi di tutela dai rischi di precarietà e instabilità lavorativa. Inoltre, gli elevati esuberi di lavoratori connessi alle crisi industriali intensificatesi a partire dai primi anni Duemila sono stati gestiti attraverso un utilizzo delle pensioni in chiave di ammortizzatori sociali (i cosiddetti prepensionamenti), provocando una lievitazione della spesa previdenziale pubblica, una delle più alte tra i Paesi OECD (su questi temi, v., per es., Boeri 2000).
Nel caso del Giappone, invece, il più ridotto livello di spesa per la tutela del lavoro è riconducibile non solo al tasso di disoccupazione più basso rispetto agli altri Paesi industrializzati (per quanto in crescita dagli anni Novanta del secolo scorso), ma anche al ruolo attivo assunto dalle politiche di welfare aziendale, finalizzate a consolidare la partecipazione al mercato del lavoro dei lavoratori più anziani, per i quali sono maggiori i rischi di espulsione dal mercato in coincidenza con le fasi di ristrutturazione e riorganizzazione aziendale. Il Giappone, infatti, è il Paese con la più alta quota di popolazione anziana ancora attiva: il 66% dei lavoratori di età compresa tra i 55 e i 65 anni, contro il 62-63% di Stati Uniti e Canada, il 52% della Germania, il 38% della Francia e appena il 34% dell’Italia (dati relativi al 2007).
In linea generale, i processi di trasformazione produttiva e di riallocazione del lavoro su scala internazionale hanno aumentato i periodi di discontinuità di reddito conseguenti all’accresciuta mobilità lavorativa, determinando l’emergere di situazioni di bisogno soprattutto per le posizioni lavorative esterne alla protezione neocorporativa e con un basso livello di competenze. Nei sistemi economici caratterizzati da un’elevata rigidità del mercato del lavoro, in cui la maggiore specificità delle competenze e dell’investimento professionale ostacola il trasferimento di lavoratori da un’impresa all’altra o da un settore all’altro, la disoccupazione di lungo periodo tende a essere più elevata. In Germania e in Italia la metà delle persone in cerca di occupazione è costituita da disoccupati di lunga durata (oltre un anno); in Francia tale percentuale è di poco inferiore al 50%. In Giappone e nel Regno Unito, invece, il fenomeno risulta più attenuato, e sembra interessare più gli uomini che le donne, mentre in Canada e negli Stati Uniti assume contorni molto più limitati, con una percentuale di disoccupati di lungo periodo che oscilla intorno al 10% del totale delle persone in cerca di occupazione. In sostanza, l’aumento o il prolungamento del periodo di disoccupazione (che nel caso dell’Italia si associa anche a un basso tasso di partecipazione al mercato del lavoro) determina una contrazione della base imponibile necessaria per il finanziamento del sistema di tutela dai rischi di disoccupazione, creando squilibri finanziari che si ripercuotono in ultima istanza sulla crescita del debito pubblico (o anche, come nel caso italiano, sui conti del sistema previdenziale). La ricerca di nuove forme di flessibilità, sollecitata dall’urto della nuova competizione, sembra inoltre produrre un risultato contraddittorio soprattutto nei sistemi europei neocorporativi: se, infatti, essa determina un aumento del fabbisogno di welfare per chi ne è escluso, dall’altro impone un suo ridimensionamento a causa dei maggiori oneri in termini di spesa pubblica e prelievo fiscale e contributivo che comporta. Per riconciliare i termini della contraddizione, sono stati avviati diversi tentativi di riforma, volti a subordinare la concessione di sussidi a un coinvolgimento più attivo dei beneficiari nella ricerca di nuovi posti di lavoro. In quest’ottica si possono leggere il sistema di welfare-to-work (o workfare), introdotto nel Regno Unito alla fine degli anni Ottanta, che prevede l’erogazione di sussidi come contropartita della ricerca attiva di una nuova occupazione, e il sistema della flexicurity, avviato in Danimarca nei primi anni Novanta, che prevede libertà di licenziamento alle imprese e la concessione di sussidi di disoccupazione (fino al 90% del vecchio salario) ai lavoratori, chiamati però a impegnarsi attivamente nella riqualificazione delle proprie competenze e nella ricerca di una nuova occupazione. Riforme dei sistemi di welfare in questo senso sono allo studio in diversi Paesi. Tuttavia la loro efficacia è strettamente connessa allo sviluppo di altre complementarietà e, in particolare, al rafforzamento qualitativo e quantitativo dell’intervento pubblico nel sistema educativo e in quello dell’istruzione.
La sanità: i livelli di spesa e la qualità delle prestazioni
La sanità è un altro settore in cui le variabili demografiche e sociali hanno dato impulso alla crescita della spesa pubblica. L’incremento della spesa sanitaria costituisce infatti un tratto comune ai Paesi maggiormente industrializzati, ed è direttamente correlato all’invecchiamento della popolazione e all’allungamento della speranza di vita. A questi aspetti propriamente demografici si affiancano poi fattori riconducibili al miglioramento dei livelli di benessere e di capacità di spesa della popolazione, che a loro volta si sono tradotti in un ampliamento della nozione e delle aspettative di salute. Infine, anche il mutamento del quadro epidemiologico e l’evoluzione tecnologica della strumentazione clinica hanno determinato l’aumento dei costi per le diagnosi e le cure e, di conseguenza, una crescita della spesa sanitaria pro capite.
In ogni caso, il livello effettivo della spesa sanitaria varia in maniera sensibile da Paese a Paese, anche in funzione di diversi aspetti riguardanti l’assetto istituzionale del servizio sanitario e le modalità di finanziamento adottate a seconda della combinazione di spesa pubblica e compartecipazione dei cittadini al finanziamento del servizio sanitario.
Con l’eccezione degli Stati Uniti, tutti i Paesi del G7 condividono una concezione ‘universalistica’ del diritto alla salute, che viene garantita attraverso l’istituzione di sistemi sanitari pubblici finanziati con la fiscalità generale, oppure attraverso contributi versati mensilmente da lavoratori e datori di lavoro nell’ambito degli schemi di assicurazione sociale. Nel sistema sanitario statunitense, invece, la copertura pubblica è riservata solo alle fasce più deboli della popolazione, e viene assicurata attraverso due programmi pubblici istituiti nella seconda metà degli anni Sessanta del secolo scorso: Medicare, riservato ai cittadini di oltre 65 anni d’età, e Medicaid, agli indigenti. Questi programmi, tuttavia, non garantiscono l’accesso a tutte le prestazioni sanitarie e, per tale motivo, sono stati affiancati da un’assicurazione privata integrativa, la Medigap insurance, che copre i servizi non erogati dagli altri due programmi. Negli Stati Uniti, in ogni caso, quasi il 14% della popolazione (corrispondente a oltre 40 milioni di cittadini) non dispone di alcuna tutela sanitaria, né privata, né pubblica.
La diversa impostazione dei sistemi sanitari non è senza conseguenze sui costi della tutela della salute. Negli Stati Uniti, per es., la spesa sanitaria (pubblica e privata) è molto elevata, e ha raggiunto nel 2005 il 15,3% del PIL (fig. 6). Nessuno degli altri Paesi del G7 devolve alla sanità una quota altrettanto elevata di risorse: in Francia e Germania, Paesi in cui vige il sistema di assicurazione sociale, il livello di spesa raggiunge circa l’11% del PIL; in Canada sfiora il 10%; in Italia e nel Regno Unito, che hanno adottato un sistema sanitario nazionale finanziato attraverso la fiscalità generale, si colloca su valori superiori all’8%. Il Giappone, invece, è il Paese con la spesa complessiva più contenuta, pari all’8% del PIL. In termini pro capite, la spesa sanitaria degli Stati Uniti, misurata a parità di potere d’acquisto (PPA), risultava, nel 2005, pari a 6400 dollari, quasi il doppio di Canada, Francia e Germania (3300 dollari circa) e circa il triplo di Italia e Giappone (che con 2300 dollari evidenziano il livello di spesa pro capite più basso tra i G7).
Un ulteriore fattore di distinzione tra Paesi è il diverso rapporto fra la componente pubblica e quella privata nel finanziamento della spesa sanitaria. L’affiancamento del settore privato a quello pubblico nella funzione di soggetto erogatore di prestazioni sanitarie domandate dal cosiddetto terzo pagante (per es., lo Stato o l’impresa che stipula un contratto di assicurazione collettiva per i dipendenti) e la compartecipazione diretta dei cittadini all’acquisto dei servizi sanitari (spese out of pocket) rappresentano le formule di estensione della sanità sul mercato maggiormente utilizzate. Nei principali Paesi industrializzati, compresi quelli del G7, l’esigenza di contenere la spesa pubblica e di accrescere l’efficienza dell’offerta di servizi sanitari attraverso l’introduzione di meccanismi concorrenziali (detti di ‘quasi mercato’) tra sistema pubblico e sistema privato, ha portato all’allargamento della quota privata nel finanziamento della spesa sanitaria. L’incidenza del settore privato e di quello pubblico differiscono però in misura significativa tra i vari Paesi (fig. 6). In Francia, Giappone e Regno Unito, infatti, la quota pubblica supera l’80% della spesa sanitaria (dati 2005; 2004 per il Giappone); arriva al 75% in Germania e Italia; si attesta a un livello leggermente inferiore al 70% in Canada. Negli Stati Uniti, invece, la quota associata ai due programmi pubblici Medicare e Medicaid è solo il 45% della spesa totale. Nonostante ciò, tuttavia, la spesa sanitaria pubblica pro capite degli Stati Uniti è la più elevata tra i Paesi del G7 (quasi 2900 dollari misurati a PPA contro i 2600 circa di Francia e Germania e i poco più di 1900 di Italia e Giappone). In effetti, negli Stati Uniti la componente pubblica della spesa sanitaria è cresciuta tra il 1990 e il 2005 a un tasso quasi due volte superiore a quello della spesa privata (fig. 7). Anche in Francia, nel Regno Unito e in Giappone la spesa pubblica ha avuto una crescita altrettanto rapida, a fronte, però, di un incremento limitato della spesa privata. Il Canada, la Germania e l’Italia hanno fatto registrare un minor tasso di crescita della spesa pubblica, ma allo stesso tempo sono stati anche i Paesi che hanno prodotto l’incremento più significativo della spesa privata dopo gli Stati Uniti. Per quanto riguarda l’Italia, in particolare, hanno contribuito al contenimento della spesa pubblica e alla crescita di quella privata sia la riforma del 1992, che ha introdotto elementi di ‘quasi mercato’, separando gli acquirenti di servizi sanitari (Aziende sanitarie locali, Regioni) dai fornitori (aziende ospedaliere pubbliche, cliniche private), sia le esigenze di controllo della spesa pubblica legate all’ingresso del Paese nell’Unione monetaria europea.
Un giudizio comparativo dei diversi sistemi sanitari nazionali a partire dal semplice dato di spesa risulta piuttosto difficile, in quanto elevati livelli di spesa complessivi possono associarsi a inefficienze oppure all’utilizzo di tecniche di cura e di diagnosi tecnologicamente più avanzate e quindi di conseguenza più costose; essi possono dipendere inoltre dalla distribuzione per età della popolazione, con una più alta percentuale di malattie croniche, le quali necessitano di cure più intense e prolungate, nei Paesi in cui si registrano più elevati indici di anzianità. È tuttavia possibile tracciare alcune valutazioni sui diversi sistemi in relazione a tre gruppi di parametri: la disponibilità e il grado di utilizzazione delle strutture sanitarie; la quantità delle prestazioni erogate; l’intensità e l’efficacia delle cure mediche (OECD 2007a; tutti i dati, se non specificato diversamente, si riferiscono al 2005).
La disponibilità di attrezzature e di personale sembra dipendere dalla particolare configurazione dei rapporti pubblico-privato nei singoli sistemi sanitari, e dal livello di copertura dal rischio malattia, senza che vi sia tuttavia un’evidente correlazione con i livelli di spesa sanitaria pro capite. In Giappone, per es., che nel G7 si caratterizza per il livello di spesa più basso, il numero di letti ospedalieri per le lungodegenze (riservati alle persone anziane) è di 15 ogni 1000 abitanti di età superiore ai 65 anni, mentre negli Stati Uniti e in Italia è minore di 1. Con riferimento al personale ospedaliero, l’Italia ha un numero di medici in rapporto alla popolazione tra i più alti al mondo (3,8 ogni 1000 abitanti), mentre in termini di personale infermieristico la più alta dotazione è quella del Canada (10 infermieri ogni 1000 abitanti).
Per quanto riguarda la quantità delle prestazioni sanitarie erogate, un indicatore di massima è fornito dal numero totale di ricoveri in ospedale ogni 100.000 abitanti. Al riguardo, il Giappone e gli Stati Uniti presentano un indice di utilizzazione dei servizi particolarmente basso (rispettivamente 106 e 126 ricoveri), all’opposto di Francia e Germania (oltre 250). Un ulteriore indice di quantità, fortemente correlato con il volume della spesa sanitaria, è dato dalla spesa farmaceutica pro capite, che risulta particolarmente elevata (e superiore alla media dei Paesi OECD) negli Stati Uniti (quasi 800 dollari misurati a PPA), in Canada (590), in Francia (554) e in Italia (509): in Italia, per es., la sola componente farmaceutica rappresenta oltre il 21% della spesa sanitaria complessiva (17,8 nella media OECD). La spesa sanitaria è influenzata, oltre che dal numero delle prestazioni effettuate, anche dall’intensità delle cure richieste, che per alcune malattie possono risultare particolarmente costose in termini di tecnologia delle attrezzature, livelli di specializzazione del personale e durata delle degenze. Nel caso di malattie cardiache, i tempi di permanenza media più elevati rispetto alla media OECD (8,3 giorni) si registrano in Germania (10), Regno Unito (9,7) e Italia (8,6) mentre, nel caso di ricoveri per maternità, tempi superiori alla permanenza media dei Paesi OECD (3,6 giorni) si hanno in Francia (4,7), Germania (4,1) e Italia (3,7). Oltre che da fattori di efficienza, la degenza è influenzata anche dalla complessità del trattamento sanitario. Per es., sempre con riferimento alla maternità, la percentuale di parti con taglio cesareo, che richiedono una maggiore e più prolungata assistenza, è in Italia del 37% (uno dei Paesi industrializzati con la più alta incidenza di questo genere di operazioni), a fronte di meno del 30% della media OECD. Le attrezzature tecnico-sanitarie più avanzate per la diagnosi e il trattamento di malattie particolarmente gravi rappresentano un ulteriore fattore intensivo di cura. Da questo punto di vista, il Paese con la più elevata dotazione di strumenti diagnostici avanzati risulta il Giappone, con 92,6 apparecchi per la tomografia assiale computerizzata (TAC) e 40 apparecchi per la risonanza magnetica (RM) ogni 100.000 abitanti, a fronte di 32,2 TAC e 26,6 RM negli Stati Uniti, di 27,7 e 15 in Italia, di 20,6 e 9,8 nella media OECD. Un indicatore della qualità delle prestazioni sanitarie di particolare rilievo è dato anche dal tasso di sopravvivenza ad alcune malattie particolarmente gravi: nel caso dei tumori cerebrali, i tassi di sopravvivenza più alti rispetto alla media OECD (71,6% di casi di sopravvivenza) si registrano in Canada (73%), negli Stati Uniti e nel Regno Unito (72%); nel caso, invece, dei tumori al seno, i tassi più alti di sopravvivenza superiore ai 5 anni rispetto alla media OECD (83,6% dei casi) si registrano negli Stati Uniti (88,9%), in Canada (86%) e in Italia (85%). Altrettanto significativo, infine, è l’indicatore dato dal numero di morti riconducibili a errori medici (dato riferito al 2004): sotto questo profilo, il risultato migliore è conseguito in Giappone (2 morti ogni milione di abitanti), seguito dall’Italia (4 morti, in linea con la media OECD), dal Canada, dalla Francia e dal Regno Unito (5), dalla Germania (6) e, infine, dagli Stati Uniti (7). I tassi di mortalità infantile invece sono particolarmente elevati negli Stati Uniti (6,9 morti ogni 100.000 nascite) e superiori alla media OECD (5,4), cui si allinea anche il Canada; in Italia, invece, sono 4,7, in Germania 3,9, in Francia 3,6 e in Giappone, infine, 2,8.
Istruzione e ricerca
L’istruzione come fattore di crescita
Il conseguimento di livelli di istruzione più elevati per ampie fasce della popolazione riveste un’importanza fondamentale nella creazione di condizioni favorevoli alla crescita della produttività e del reddito nel medio e lungo periodo. Per tale ragione, i governi dei Paesi industrializzati investono nel sistema dell’istruzione rilevanti quote della ricchezza nazionale. Nei Paesi OECD, la quota media di spesa (privata e pubblica) destinata alle istituzioni scolastiche di ogni grado è stata nel 2005 pari al 5,8% del PIL (OECD 2008a): con riferimento ai Paesi del G7, al di sopra di questo livello si collocano gli Stati Uniti (che con il 7,1% raggiungono il secondo valore più alto tra i Paesi OECD, dopo la Corea del Sud), il Canada e il Regno Unito (entrambi al 6,2%) e la Francia (6%). Livelli di spesa inferiori alla media OECD si registrano invece per la Germania (5,1%), il Giappone (4,9%) e l’Italia (4,7%). Nel decennio 1995-2005, la spesa per l’istruzione nei Paesi del G7 è cresciuta meno del PIL, eccetto che negli Stati Uniti e nel Regno Unito. È diminuita di 0,7 punti percentuali in Canada, di 0,6 in Francia, di 0,3 in Germania, di 0,1 in Giappone e Italia. Negli Stati Uniti è invece aumentata di 0,6 punti e nel Regno Unito di 1 punto. Questo andamento della spesa disallineato alla crescita del PIL non va necessariamente interpretato come un allentamento degli sforzi dei governi per incrementare gli investimenti nell’istruzione. Gli obiettivi di equilibrio di bilancio pubblico hanno certamente comportato, soprattutto nei Paesi europei vincolati dal rispetto del Patto di stabilità, un freno alla crescita della spesa, compresa quella per l’istruzione, ma hanno contribuito a determinare questo risultato anche le dinamiche demografiche relative all’andamento della popolazione scolastica nei diversi gradi di istruzione. Per quanto riguarda l’istruzione primaria e secondaria, per es., tutti i Paesi hanno evidenziato tra il 2000 e il 2005 una crescita della spesa per studente (fig. 8; per il Canada il dato non è disponibile a livello disaggregato), ma per effetto di dinamiche diverse. Nel caso di Francia e Giappone, i modesti incrementi di spesa per l’istruzione primaria e secondaria si sono accompagnati a un calo della corrispondente popolazione scolastica, con il risultato che la spesa pro capite risulta più elevata in quanto distribuita tra un numero ridotto di studenti. Per quanto riguarda la Germania, invece, si è verificata una contrazione sia della spesa sia degli studenti ma, poiché questi ultimi sono diminuiti a un tasso più elevato della spesa, vi è stato comunque un aumento della spesa pro capite, per quanto molto contenuto. Nel caso del Regno Unito, dell’Italia e degli Stati Uniti, infine, il più elevato livello della spesa pro capite è stato determinato sia dall’incremento delle risorse destinate alla scuola primaria e secondaria sia dalla crescita del numero di studenti. Il quadro relativo all’istruzione terziaria si caratterizza, invece, per la crescita in tutti i Paesi del G7 del numero degli studenti (fig. 9; per il Canada il dato non è disponibile a livello disaggregato), aumentati, sempre nel periodo 2000-2005, dell’1,2% in Giappone, del 4,9% in Francia, del 7,9% in Germania, del 12% in Italia, del 12,8% negli Stati Uniti e del 18,4% nel Regno Unito. In questi stessi Paesi la spesa complessiva per l’istruzione universitaria è aumentata, ma in misura non sempre corrispondente all’incremento della popolazione studentesca. Di conseguenza, in Germania la spesa pro capite per l’istruzione terziaria è diminuita del 2%, in Italia è rimasta invariata, in Francia, negli Stati Uniti e in Giappone è aumentata rispettivamente del 2%, del 4% e del 5% (fig. 9). Nel complesso, come si può vedere dalla tabella, gli Stati Uniti sono il Paese che destina la maggiore quantità di risorse pro capite in tutti i gradi di istruzione (dati del 2005). Se tuttavia si normalizza la spesa pro capite rapportandola ai livelli di reddito pro capite, in modo da tener conto dei differenti standard di ricchezza tra Paesi, il quadro si modifica parzialmente. Riguardo alla spesa per l’istruzione primaria, è adesso l’Italia il Paese che investe più risorse in rapporto alla ricchezza pro capite, mentre nel caso dell’istruzione secondaria è la Francia a evidenziare la quota più elevata, seguita a breve distanza dall’Italia. Per l’istruzione terziaria, invece, lo scarto degli Stati Uniti rispetto agli altri Paesi risulta ulteriormente accentuato: qui, infatti, il livello di spesa risulta superiore di 16-17 punti percentuali a quelli della Francia e del Regno Unito (i due Paesi del G7 a più elevata intensità di spesa universitaria dopo gli Stati Uniti stessi) e di quasi 30 punti a quello dell’Italia, che è il Paese che dedica meno risorse all’istruzione terziaria in termini sia assoluti sia relativi.
In ogni caso, ai fini di un confronto internazionale il semplice livello di spesa (in termini assoluti o normalizzato) non è sufficiente per valutare la sua adeguatezza rispetto ai fabbisogni dei singoli sistemi scolastici nazionali, in quanto occorre considerare alcuni specifici indicatori, quali il livello d’istruzione della popolazione totale, il tasso di completamento degli studi da parte della popolazione scolastica e il livello delle capacità cognitive degli studenti.
Sotto il profilo dei livelli d’istruzione conseguiti, quasi tutti i Paesi del G7 sono accomunati da un grado di formazione scolastica della popolazione molto elevato. I dati relativi al 2005 evidenziano infatti come in Canada, Giappone e Stati Uniti il numero delle persone in possesso di diploma di istruzione secondaria vari dall’80% al 90% della popolazione adulta, mentre la percentuale di laureati supera il 40%. La Francia, la Germania e il Regno Unito si collocano su posizioni vicine alla media dei Paesi OECD, con un quoziente di diplomati vicino al 66% (oltre l’80% in Germania) e un quoziente di laureati tra il 25% e il 30%. L’Italia rappresenta invece un’eccezione: solo il 50% della popolazione adulta possiede un diploma di scuola secondaria, mentre i laureati sono appena il 13%, un valore tra i più bassi nell’ambito dei Paesi OECD. Da questo punto di vista, il ridotto livello di spesa pro capite destinata al sistema universitario italiano appare molto poco congruente con la necessità di alzare il livello complessivo di istruzione della popolazione.
Riguardo ai tassi di completamento degli studi universitari, sempre con riferimento al 2005, sono il Giappone, la Germania e il Canada a evidenziare le percentuali più alte di studenti che hanno portato a termine il ciclo di studi, con livelli che raggiungono rispettivamente il 91%, il 77% e il 75%. Su valori più bassi e al di sotto della media dei Paesi OECD (69%) si collocano invece la Francia (64%), il Regno Unito (63%), gli Stati Uniti (56%) e l’Italia (45%). L’Italia è anche il Paese con il minore tasso di completamento degli studi tra i 27 sui quali è stata effettuata questa rilevazione (si veda la figura A4.1, in OECD 2008a). La riforma del sistema universitario italiano del 1999, che ha introdotto tre cicli di studio (con programmi della durata di 3 anni, 4-6 anni e oltre 6 anni), ha permesso di portare i tassi d’ingresso nell’università in rapporto alla popolazione in età tipica dal 39% del 2000 al 55% del 2006 (riallineando l’Italia alla media OECD, che è del 56%). La riforma, tuttavia, ha generato anche diverse criticità, quali l’eccessiva proliferazione di corsi di laurea triennale e specialistica, non sempre rispondenti ai bisogni effettivi della società, la conseguente moltiplicazione dei costi per i docenti aggiuntivi e l’aumento del carico didattico a scapito della ricerca, lo sviluppo irrazionale di sedi universitarie di ridotta dimensione e il conseguente abbassamento della mobilità degli studenti. Una bassa mobilità emerge anche in relazione alla scarsa affluenza di studenti stranieri. Da questo punto di vista, le università italiane appaiono veramente poco attrattive rispetto a quelle di altri Paesi, se si considera che nel 2006 contavano tra i loro studenti solo l’1,7% di stranieri, contro il 25,3% delle università statunitensi, il 21,7% di quelle tedesche e il 16,1% di quelle del Regno Unito (si veda la tabella C3.3, in OECD 2008a).
Infine, relativamente allo sviluppo delle capacità cognitive degli studenti, l’indagine campionaria PISA (Programme for International Student Assessment), effettuata con periodicità triennale dall’OECD per monitorare le competenze linguistiche, matematiche e scientifiche di circa 40.000 quindicenni nei Paesi dell’OECD, mette bene in luce la bassa correlazione tra entità della spesa e qualità dell’istruzione. I risultati, classificati in sei livelli di competenza per la matematica e le scienze e in cinque livelli per la comprensione di un testo scritto, evidenziano come il posizionamento dei diversi Paesi nella graduatoria risulti poco correlato al livello di spesa per studente. L’Italia, per es., per l’istruzione secondaria ha una spesa annua per studente in rapporto al PIL pro capite superiore a quella di tutti gli altri Paesi del G7 esclusa la Francia; tuttavia i risultati dei test PISA relativi al 2006 (PISA, 2007) evidenziano come solo il 4,6% degli studenti italiani raggiunga risultati elevati nelle materie scientifiche, rispetto alle percentuali assai più elevate di Paesi come il Giappone (15%) e la Germania (11,8%), che pure presentano livelli di spesa per studente in rapporto al PIL pro capite inferiori a quelli italiani del 10-15%.
Anche con riferimento alle competenze in matematica, i risultati degli studenti italiani si situano molto al di sotto di quelli conseguiti dagli studenti degli altri Paesi del G7: solo il 6,3% degli studenti italiani riesce infatti a raggiungere i livelli di competenza più alti, contro il 15,5% in Germania, il 17% in Canada e il 18,3% in Giappone. Infine, anche i risultati relativi alle competenze di lettura confermano il basso posizionamento degli studenti italiani. Complessivamente, in tutti e tre gli ambiti di valutazione l’Italia si colloca tra il 23° e il 26° posto, notevolmente al di sotto degli altri Paesi del G7, tre dei quali (Canada, Giappone e Germania) si collocano addirittura nei primi dieci posti della classifica.
In conclusione, anche se i nessi tra l’efficienza dei sistemi scolastici nazionali e i livelli di spesa per l’istruzione sono complessi e spesso indiretti, è indubbio che la diffusione di più elevati livelli di istruzione generi impatti positivi sulle economie nazionali e riduca i costi sociali connessi alla bassa occupazione e all’aumento della disoccupazione. Infatti, in tutti i Paesi OECD i tassi di occupazione aumentano al crescere del livello di istruzione. Per es., in Italia, il tasso di occupazione, che è molto più basso rispetto agli altri Paesi OECD (63% contro una media del 72%), sale al 74% per gli individui in possesso di un diploma di scuola superiore e all’81% per quelli con una laurea (dati 2005). A elevati livelli d’istruzione si associa inoltre un minore tasso di disoccupazione: in Germania, per es., è disoccupato ben il 25% dei titolari del solo diploma di scuola primaria, ma solo il 5% dei laureati; in Italia è disoccupato appena il 4% dei laureati, e negli Stati Uniti e nel Regno Unito meno del 3%. Infine, nei Paesi OECD le persone in possesso di laurea o diploma di specializzazione postlaurea guadagnano dal 44% al 92% in più di coloro il cui livello scolastico si ferma al diploma di istruzione secondaria superiore (si veda la figura A9.1a, in OECD 2008a). Per tali ragioni, la spesa per la qualificazione dell’istruzione diventa un fattore complementare e di sostegno ai sistemi di welfare.
La leva competitiva della ricerca e sviluppo
Il principale obiettivo dell’intervento pubblico nel settore della ricerca e sviluppo (R&S) è quello di produrre e diffondere nuove conoscenze scientifiche. Gli investimenti, specie nella ricerca di base, sono assai ingenti e rischiosi e non generano ritorni immediati, e per tale motivo gli Stati intervengono sia finanziando direttamente la ricerca delle imprese attraverso meccanismi d’incentivazione automatica, sia effettuando direttamente le attività di R&S in strutture pubbliche e mettendo a disposizione della collettività i risultati della ricerca, sia, infine, commissionando l’attività di ricerca alle imprese attraverso commesse pubbliche. È inoltre fondamentale la ricerca di complementarietà e di coerenze con l’insieme delle altre politiche pubbliche, in particolare quelle riguardanti il mercato del lavoro, gli interventi a favore del settore industriale, le politiche per l’istruzione e la formazione avanzata, gli interventi finalizzati allo sviluppo del venture capital. Una misura dell’intensità degli sforzi in R&S nei diversi Paesi è data dal livello della spesa per le attività di ricerca (pubblica e privata) in percentuale del PIL. Al riguardo, occorre specificare che la spesa in R&S è fortemente concentrata nei Paesi industrializzati: oltre l’80% della spesa mondiale è riferibile ai 30 Paesi dell’OECD, e circa i 2/3 di questa sono riconducibili ai Paesi del G7. Gli Stati Uniti investono più di tutti, e da soli realizzano un terzo della spesa mondiale, con un volume che nel 2006 ha sfiorato i 370 miliardi di dollari misurati a PPA (pari al 2,6% del PIL; fig. 10). Seguono quindi il Giappone con quasi 140 miliardi di dollari (3,3% del PIL), la Germania con quasi 70 (2,5%), la Francia con 43 (2,1%), il Regno Unito con 35 (1,8%), il Canada con 24 (1,9%) e infine l’Italia, che tra i Paesi del G7 è quello con i valori più bassi, sia in termini di volume di spesa (19 miliardi, circa un ventesimo rispetto agli Stati Uniti) sia in termini di PIL (1,1%). Sotto il profilo dell’evoluzione della spesa, per gran parte dei Paesi del G7 il livello di investimenti in R&S in rapporto al PIL è rimasto pressappoco quello raggiunto all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso. Nel caso della Gran Bretagna è addirittura diminuito di 0,5 punti percentuali di PIL, mentre è aumentato in misura sensibile in Canada e in Giappone: nel primo caso in conseguenza di una crescita significativa del PIL; nel secondo a causa dell’effetto statistico dovuto alla stagnazione economica (il rapporto aumenta perché si riduce il PIL al denominatore). Negli Stati Uniti, l’andamento dell’investimento pubblico in R&S ha risentito nel tempo del mutamento di priorità della spesa pubblica decisa del governo, soprattutto riguardo alla componente finalizzata alla ricerca per scopi militari (che rappresenta una quota variabile, a seconda dei periodi, tra il 50% e il 60% della spesa complessiva). Il livello massimo di spesa in rapporto al PIL è stato raggiunto nel 1964, in periodo di piena guerra fredda, e successivamente è diminuito in conseguenza dei tagli federali alle spese militari, per riprendere a salire tra il 1980 e il 1988 e successivamente dal 2000 al 2007. Fattori di natura geopolitica hanno influenzato l’andamento della spesa in Germania, che dal 2,8% della fine degli anni Ottanta è sceso al 2,2% del periodo immediatamente successivo alla riunificazione, per ritornare nei primi anni Duemila al 2,5%. Per quanto riguarda l’Italia, infine, la quota massima di spesa in R&S è stata raggiunta all’inizio degli anni Novanta (quasi l’1,3%) ed è poi diminuita, stabilizzandosi su valori oscillanti tra l’1 e l’1,1%.
Esaminando la composizione della spesa in R&S per fonti di finanziamento, emergono due indicazioni interessanti (v. fig. 10). La prima è che la spesa finanziata attraverso le risorse pubbliche, misurata in rapporto al PIL, non si discosta eccessivamente tra i vari Paesi. Il differenziale massimo si riscontra tra la Francia, dove lo Stato mantiene un forte ruolo di indirizzo nell’economia e destina alle spese in ricerca un volume di risorse pari allo 0,81% del PIL (dati del 2005), e l’Italia, i cui investimenti pubblici in ricerca sono pari allo 0,55% del PIL. La seconda è che il diverso peso degli investimenti in ricerca sulle economie del G7 è da attribuire essenzialmente al ruolo svolto dal settore delle imprese. La spesa in ricerca delle imprese è elevata soprattutto in Giappone, dove raggiunge il 2,5% del PIL, in Germania e negli Stati Uniti (1,7%). Si colloca intorno all’1% in Canada e Francia, si riduce allo 0,8% nel Regno Unito mentre scende a poco più dello 0,4% in Italia. Il ruolo dello Stato quale soggetto finanziatore delle spese in R&S è diminuito in tutti i Paesi, sia per le ragioni specifiche accennate in precedenza, sia per motivi di controllo della spesa pubblica. Accanto alle fonti pubblica e privata vanno considerate le spese in ricerca finanziate da enti di ricerca non-profit o attraverso investimenti diretti esteri: queste presentano in tutti i Paesi un carattere di residualità, con l’eccezione del Regno Unito e del Canada, dove la quota dei finanziamenti in R&S realizzati dalle imprese a controllo estero e dagli enti non-profit raggiunge rispettivamente lo 0,5% e lo 0,4% del PIL.
Per quanto riguarda la componente pubblica della spesa, dall’esame della fig. 11 è possibile identificare le priorità delle scelte dei singoli governi in relazione agli obiettivi socioeconomici da raggiungere. Negli Stati Uniti, come si è già accennato, la componente di ricerca pubblica connessa a obiettivi militari costituisce la quota più rilevante della spesa complessiva (57% nel 2005). Oltre che a scopi prettamente strategico-politici, l’intervento pubblico nel settore della ricerca militare svolge una funzione di commessa pubblica, con l’obiettivo di sostenere l’innovazione tecnologica del sistema (numerose innovazioni nate da finanziamenti di progetti nel settore militare hanno avuto forti ricadute civili, come nel caso della rete Internet). È da rilevare che negli Stati Uniti la spesa pubblica in R&S esclude completamente l’università, che è invece destinataria di consistenti investimenti pubblici in altri Paesi, e in particolare in Italia e in Germania, dove concentra il 40% della spesa per la ricerca. Un settore molto importante nella funzione obiettivo della spesa pubblica statunitense è quello delle ricerche sulla salute, che coinvolge circa il 23% della spesa totale. Negli altri Paesi del G7 la spesa pubblica è indirizzata in prevalenza nel settore dell’economia (28% in Giappone, 20% in Italia e 17% in Germania) e nel settore della ricerca non orientata (quasi il 18% in Francia e intorno al 16% in Germania, Giappone e Regno Unito).
La componente privata della spesa dipende invece in misura cruciale dalla struttura industriale dei singoli Paesi. Va sottolineato che in generale i Paesi con i volumi di spesa in R&S più elevati sono anche quelli caratterizzati da un solido nucleo di imprese industriali e con una pronunciata specializzazione in attività a elevato contenuto tecnologico. In tutti i Paesi del G7, i settori che contribuiscono maggiormente allo sviluppo della ricerca sono quelli chimico-farmaceutico, dell’elettronica e delle macchine da ufficio, delle telecomunicazioni e dei mezzi di trasporto. Anche il comparto dei servizi contribuisce alla formazione degli investimenti in R&S, con percentuali variabili che vanno da quasi il 40% del Canada a oltre il 25% di Stati Uniti e Italia e a meno del 10% di Francia, Germania e Giappone.
La dimensione complessiva delle spese in R&S determina anche il numero degli addetti alla ricerca, sia in termini assoluti sia in rapporto agli occupati (fig.12). Il Giappone ha la più elevata concentrazione di ricercatori al mondo (11 per 1000 occupati), seguito dagli Stati Uniti (9,7), che invece dispongono del più alto numero di ricercatori al mondo (quasi 1,4 milioni); all’estremo opposto vi è l’Italia, con soli 3,4 ricercatori per 1000 occupati (un’incidenza tra le più basse nell’ambito dei Paesi OECD), corrispondenti a 82.500 unità (anno 2005). Una valutazione dei risultati degli investimenti in ricerca in termini di capacità innovativa può essere ottenuta dalla quota di famiglie di brevetti triadici (cioè i brevetti depositati simultaneamente negli Stati Uniti, in Giappone e nella UE, allo scopo di proteggere l’invenzione): gli Stati Uniti, ancora una volta, sono il Paese con la quota più alta in assoluto, pari, nel 2005, al 31% del totale mondiale (comunque in diminuzione rispetto al 34,4% del 1995), seguiti dal Giappone (28,8% nel 2005 e 27% nel 1995), dalla Germania (11,9% e 13,5%), dalla Francia (4,7% e 5,4%), dal Regno Unito, che fa risaltare il calo più forte (3% contro 4,3%), dal Canada, che è invece il Paese a maggior crescita (1,6% contro 1,1%), e dall’Italia, che oltre a evidenziare la quota più ridotta mostra anche un sensibile arretramento (1,4% contro 1,7%). Una misurazione dei risultati delle spese in R&S in termini di avanzamento scientifico può invece essere effettuata sulla base del numero di articoli scientifici per abitante. Sotto questo profilo il Regno Unito si colloca in testa al G7, con oltre 800 articoli per milione di abitanti nel 2005 (e con una quota sul totale degli articoli scientifici mondiali pari al 6,9%), seguito dal Canada con poco meno di 800 articoli (3,5%), dagli Stati Uniti con circa 700 (ma con una quota del 30,2%, che ne fa il principale produttore di articoli scientifici al mondo), dalla Germania e dalla Francia con oltre 500 (rispettivamente 6,3% e 4,6%), dal Giappone con meno di 500 (ma con una quota del 9,6%, che lo colloca al secondo posto mondiale) e, infine, dall’Italia con circa 400 (3,5%). In ultimo, con riferimento alla capacità di tradurre i risultati della ricerca scientifica in innovazioni di prodotto, emerge la posizione di relativa forza della Germania, che nel 2005 deteneva il 16,4% della quota mondiale di esportazioni di prodotti a tecnologia medio-alta, in crescita di 1,1 punti percentuali rispetto al 1995, seguita dagli Stati Unti con il 15,6% (in calo, però, di 2,8 punti dal 1995) e dal Giappone, la cui quota è scesa drasticamentedal 15,1% all’11,8%. Nonostante l’ingente spesa in R&S e l’elevata disponibilità di ricercatori, infatti, il Giappone non sembra riuscire pienamente a tradurre i progressi nel campo della ricerca in innovazione tecnologica in campo economico: a causa dei deboli rapporti tra ricerca pubblica e settore delle imprese, e in conseguenza del limitato sviluppo delle forme di finanziamento tipiche degli investimenti in ricerca a elevato rischio (venture capital), solo il 26% delle grandi imprese e l’11% delle piccole e medie imprese ha introdotto nel 2005 prodotti tecnologicamente innovativi sul mercato. Problemi di scarsa capacità d’innovazione tecnologica condizionano lo sviluppo competitivo dell’industria francese (6,8% delle esportazioni di prodotti a tecnologia medio-alta) e soprattutto dell’industria italiana, che più delle altre sembra soffrire di una duplice limitazione, dovuta, da un lato, alla sua struttura, incentrata sulle imprese di piccole e medie dimensioni (specializzate in settori a tecnologia media o bassa), e, dall’altro, alla scomparsa dell’industria pubblica, che ha provocato la dissipazione del patrimonio di conoscenze e di know-how accumulato in settori a elevata tecnologia (industria aeronautica, chimica, informatica ecc.); questi ultimi sono infatti in larga parte scomparsi dalla struttura produttiva del Paese in seguito al processo di privatizzazione dell’industria statale negli anni Novanta (Gallino 2003).
Conclusioni
La lettura comparata dei bilanci ha evidenziato scelte molto diverse tra i Paesi del G7 nell’allocazione delle risorse pubbliche. Pur in presenza di una comune esigenza di controllo dell’espansione della spesa, le scelte dei singoli Paesi relativamente alla tipologia di interventi a cui dare priorità si presentano piuttosto differenziate. Gli Stati Uniti, il Canada e il Regno Unito affidano maggiormente ai cittadini la responsabilità (e il rischio) di farsi carico individualmente dei servizi di welfare acquistati sul mercato. Il Giappone, che tra i Paesi del G7 è quello con la quota di spesa pubblica più bassa, costituisce una variante di questo modello, fortemente incentrata sul ruolo dell’azienda quale soggetto produttore di servizi di welfare. Allo stesso tempo, questi Paesi destinano un elevato volume di risorse (pubbliche e private) agli investimenti nel settore dell’istruzione e della ricerca, favorendo la creazione di importanti sinergie tra le diverse funzioni della spesa pubblica: l’alta flessibilità sul mercato del lavoro e i ridotti sussidi alla disoccupazione si affiancano infatti a elevati livelli d’istruzione scolastica, che oltre ad accrescere i tassi di occupazione favoriscono salari più elevati e consentono una più fluida ricollocazione dei lavoratori sul mercato. La scarsa protezione sociale, l’iniquità delle condizioni di accesso ad alcuni servizi sociali (soprattutto negli Stati Uniti) nonché il ‘fallimento’ del modello di welfare privato nel garantire le prestazioni in situazioni di rischio sistemico (come nel caso, per es., di crisi finanziaria generalizzata) rappresentano invece i fattori limitativi dei sistemi di intervento pubblico di questi Paesi.
I Paesi dell’Europa continentale, invece, presentano una struttura del bilancio pubblico maggiormente incentrata sulle prestazioni sociali e sulla tutela dei lavoratori, e meno orientata verso l’istruzione e la ricerca. Questa struttura, che rappresenta l’eredità storica di modelli di welfare sorti all’inizio del secolo scorso e consolidatisi nel corso degli anni Sessanta, risulta oggi fortemente scossa da due spinte che agiscono in direzione opposta: da un lato, il rallentamento dell’economia, che sollecita una maggiore spesa pubblica e, dall’altro, la disciplina fiscale imposta dal Patto di stabilità e crescita, che invece ne invoca la riduzione.
Particolarmente anomala, in questo contesto, risulta la situazione dell’Italia. Tra i Paesi industrializzati, l’Italia ha un tasso di occupazione tra i più bassi, ed è quello che cresce di meno e che ha la quota più elevata di popolazione anziana. Tuttavia gli orientamenti e le finalità dell’intervento pubblico che emergono dall’analisi del bilancio italiano appaiono del tutto inappropriati rispetto alla dimensione di questi problemi. La spesa sociale italiana, infatti, è destinata per oltre il 50% alle pensioni, a fronte di risorse marginali, se non nulle, per coprire i nuovi rischi sociali derivanti dalle trasformazioni dell’economia e dalla transizione demografica. Diversamente dagli altri Paesi, l’Italia si caratterizza per l’assenza di soluzioni innovative tese ad accrescere e a stabilizzare la partecipazione al mercato del lavoro, e a garantire un futuro pensionistico adeguato soprattutto di giovani e donne. A ciò si aggiunge un impegno pubblico nel settore dell’istruzione inadeguato a recuperare la distanza dell’Italia dagli altri Paesi in termini di livelli di istruzione, partecipazione scolastica e capacità cognitive degli studenti. Anche nel settore della ricerca, che nella nuova economia della conoscenza diventa una fondamentale variabile di competitività e crescita, il ritardo italiano, già molto forte, aumenta in maniera preoccupante. Per invertire questa situazione, che inevitabilmente scivola nel declino economico, occorre che il sistema pubblico rafforzi le complementarietà della spesa. La difesa del welfare, il mantenimento degli standard di vita, l’adeguatezza delle prestazioni pensionistiche e sanitarie possono infatti essere garantiti aumentando la produttività e favorendo una maggiore crescita dell’economia, e questi risultati possono essere ottenuti solo potenziando l’investimento della collettività nell’istruzione e nella ricerca.
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