I campi di concentramento
Con l’espressione «campo di concentramento» si indica in senso lato un’ampia tipologia di luoghi di reclusione e di internamento finalizzati alla deportazione, al lavoro coatto e/o allo sterminio di grandi masse di persone: prigionieri di guerra (militari e civili), oppositori politici, soggetti appartenenti a specifici gruppi considerati a vario titolo «pericolosi», «inferiori». I primi campi di concentramento furono allestiti intorno alla fine del 19° sec. Essi divennero poi i luoghi per eccellenza della repressione e del «terrore» delle grandi dittature totalitarie del Novecento, in special modo del regime hitleriano in Germania e di quello stalinista in Unione Sovietica. Nonostante questa drammatica esperienza, furono ancora e in più occasioni utilizzati nella seconda metà del Novecento. Da ultimo, e in misura rilevante, nel corso della lunga guerra che sconvolse la ex Iugoslavia negli anni Novanta. Secondo lo storico polacco A.J. Kaminski, che ne fece la tragica esperienza negli anni del secondo conflitto mondiale e che li ha poi studiati in una vasta prospettiva storica e comparativa, soprattutto nella loro variante totalitaria, essi hanno costituito «il maggior marchio di infamia» del Novecento e «uno dei più terribili flagelli che l’umanità del nostro tempo ha inflitto a sé stessa».
I primi campi di concentramento. I primi campi di concentramento furono un prodotto del colonialismo europeo e delle molteplici «guerre coloniali» che segnarono la storia mondiale a cavallo tra 19° e 20° sec. I «primissimi esemplari», come sono stati definiti, furono «inventati» e messi in funzione dal generale spagnolo V. Weyler y Nicolau nel 1896 a Cuba, per contrastare l’insurrezione antispagnola delle popolazioni locali. Furono poi gli Stati Uniti, a partire dal 1900, a utilizzarli nelle Filippine (strappate alla Spagna nel 1898) per far fronte ai movimenti di guerriglia che si opponevano al loro dominio. Grosso modo negli stessi anni, e in specie tra il 1900 e il 1902, nuovi e più «barbarici» concentration camps furono infine allestiti dai britannici in Sudafrica nel contesto della guerra anglo-boera. Questi primi campi erano molto diversi da quelli che dovevano poi operare come luoghi e macchine del «terrore» e del «lavoro schiavo» nella Germania nazista e in Unione Sovietica. Essi, infatti, furono utilizzati in specifici e circoscritti contesti di guerra coloniale per l’internamento non degli avversari politici ma dei loro familiari: donne, anziani e bambini. Nel caso di Cuba e delle Filippine, spagnoli e americani ne giustificarono l’istituzione sostenendo di voler «separare» dagli insorti la popolazione civile non combattente, anche e persino per «proteggerla». Di fatto, tuttavia, come fu invece assai evidente soprattutto nel caso dei camps britannici in Sudafrica (dove morirono di stenti, per fame, per le ingiurie del tempo e per malattie circa 20.000 persone su circa 120.000-160.000 deportati), essi funzionarono come veri e propri «campi per ostaggi», tesi in primo luogo a demoralizzare l’avversario e a fiaccarne la volontà di resistenza. Durante la Prima guerra mondiale i campi di concentramento tornarono in auge, soprattutto come «campi di prigionia» per militari, ma anche per l’internamento degli oppositori interni e delle popolazioni civili dei territori occupati, da sfruttare come forza-lavoro coatta. A essi fecero ricorso, per questi diversi scopi, soprattutto l’impero austro-ungarico, la Germania guglielmina e la Russia zarista.
Kolyma e Auschwitz: i campi di concentramento nei regimi «totalitari». I campi di concentramento dei due grandi regimi totalitari del Novecento, quello nazista in Germania e quello staliniano in Unione Sovietica, segnarono, come si è detto, un vero e proprio salto di qualità rispetto ai camps coloniali. Con molte analogie e alcune importanti differenze, essi rappresentarono infatti il principale strumento della repressione e del «terrore» sistematico posti in essere da quei regimi, nel contesto di una radicale e generalizzata negazione di qualsiasi civiltà dei diritti dell’uomo e di qualsiasi pur debole parvenza di Stato di diritto. Secondo una celebre (ancorché discutibile) tesi di H. Arendt, i campi in quanto luoghi di una totale disumanizzazione dell’uomo e della sua riduzione a mero «fascio di reazioni» non costituirono soltanto un semplice mezzo di repressione dei totalitarismi novecenteschi. Essi furono innanzitutto la tragica rappresentazione dell’ideale sociale e politico del nazismo e del comunismo staliniano. Al di là di questo, essi, insieme alle due guerre mondiali, diedero un rilevantissimo tributo di sangue e di orrore a quello che Z. Brzezinski ha chiamato il «secolo della Megamorte». Simboli estremi di questo orrore furono la Kolyma, il cuore dell’«arcipelago Gulag» staliniano, e Auschwitz, uno dei più famigerati Konzentrationslager nazisti, che dal 1942, nella sezione di Birkenau, cominciò anche a funzionare a pieno ritmo come Vernichtungslager, come campo di annientamento, soprattutto nei confronti di ebrei, zingari e prigionieri di guerra sovietici.
Seppure con tempi e modi differenti, sia i campi di concentramento nazisti sia quelli sovietici funzionarono secondo due modalità fondamentali, talora alternative e talora (assai più spesso) strettamente intrecciate tra loro: come luoghi e strumenti di «terrore politico» e come luoghi e strumenti di «lavoro coatto» o «schiavo». Nel primo caso essi rispondevano allo scopo di recludere, isolare, neutralizzare e al limite eliminare una assai articolata fattispecie di soggetti: oppositori politici, avversari presunti o potenziali del regime, persone con una specifica identità sociale (per es. i kulaki in Unione Sovietica), etnica e/o religiosa (per es. ebrei, polacchi, zingari), prigionieri militari e civili di guerra, e ancora elementi variamente considerati pericolosi o indesiderabili come i criminali comuni, gli omosessuali, le prostitute. Nel secondo caso essi rispondevano all’esigenza di trasformare quei soggetti, o almeno parte di essi, in un vero e proprio esercito di lavoratori schiavi da inserire attivamente, anche se in condizioni estreme e perciò molto spesso antieconomiche, nel processo produttivo. In linea di massima, anche se con bruschi ritorni all’indietro (per es. nel 1937-38 in Unione Sovietica, durante la «grande purga» staliniana) sia i campi sovietici sia quelli nazisti divennero nel corso del tempo prevalentemente serbatoi di manodopera coatta: i primi intorno al 1928-29, nel quadro del gigantesco sforzo di collettivizzazione e industrializzazione forzata del Paese intrapreso da Stalin; i secondi a partire dal 1941-42, nel contesto della guerra, quando i deportati-schiavi furono messi a disposizione dell’industria di guerra del Terzo Reich. Questa linea di sviluppo non significò in alcun modo che i campi di concentramento – i «campi di lavoro correzionale» o di «rieducazione al lavoro», come venivano chiamati a partire dal 1922 in Unione Sovietica – non costituirono al tempo stesso luoghi di un vero e proprio sterminio di massa, dovuto per l’appunto a massacranti condizioni di lavoro, di nutrizione e più in generale di vita. Del resto, proprio in Germania e nei territori da essa occupati, accanto e parallelamente ai Konzentrationslager, iniziarono a operare dal 1942 i Vernichtungslager, i famigerati campi di annientamento, nei quali i deportati venivano non «concentrati», ma immediatamente uccisi in massa con il gas Zyklon B.
I primi grandi campi di concentramento finalizzati al «terrore» e soprattutto al «lavoro schiavo» furono istituiti nella Russia bolscevica (dal 1922 Unione Sovietica) all’indomani della Rivoluzione d’ottobre (1917) e della fine della Prima guerra mondiale (1914-18). A teorizzarli e in qualche modo a «inventarli» e a istituirli, nel contesto drammatico della «guerra civile», furono Lenin e Trockij. Essi acquisirono poi un ruolo centrale in età staliniana e furono riorganizzati, sotto la giurisdizione della polizia politica, nel 1930 nella Direzione centrale dei lager, nota con la sigla GULAG. Continuarono altresì a operare dopo la fine della Seconda guerra mondiale (1939-45), dopo la morte di Stalin (1953) e dopo la stessa «destalinizzazione» (1956). Furono smantellati soltanto nel corso degli anni Ottanta del Novecento. La loro drammatica realtà fu resa nota all’opinione pubblica mondiale dal celebre Arcipelago Gulag di A.I. Solženicyn (1973-75).
I campi di concentramento nazisti furono teorizzati da A. Hitler già nel 1921. Essi furono istituiti, al di fuori del controllo della magistratura, dopo l’avvento del nazismo al potere e all’indomani dell’incendio del Reichstag (28 febbraio 1933), sulla base del «decreto per la protezione del popolo e dello Stato» promulgato allora dal presidente della Repubblica P. von Hindenburg. In una prima fase – dal 1933 al 1936 (nel 1934 i campi passarono sotto la direzione di H. Himmler, il capo delle SS) – vi furono deportati principalmente oppositori politici del regime e criminali comuni. Fra il 1936 e il 1942 i campi aumentarono di numero e di dimensioni, in relazione ai preparativi di guerra e poi al suo effettivo inizio, quando essi furono messi in funzione anche nei territori occupati. Al loro interno furono deportati in misura crescente varie figure di «asociali» (piccoli delinquenti, prostitute, omosessuali, persone senza fissa dimora ecc.); poi, a partire dal 1938, gli ebrei; e quindi, con l’inizio del conflitto, prigionieri militari e civili di guerra. Sempre in questo periodo i campi cominciarono ad assumere una funzione più propriamente economica, che divenne sempre più importante negli anni tra il 1942 e il 1945, quando peraltro i tassi di mortalità all’interno dei campi crebbero in maniera esponenziale: per il sovraffollamento, per i maltrattamenti inflitti ai deportati, per il superlavoro cui erano costretti, per denutrizione e malattie, e ancora per i mostruosi esperimenti pseudoscientifici cui essi furono sottoposti come vere e proprie «cavie umane». Soprattutto in quest’ultima fase, infine, si consumò nei campi di annientamento lo sterminio degli ebrei.
I campi di concentramento oltre il «totalitarismo». L’orrore dei campi di concentramento non ebbe termine con la fine del secondo conflitto mondiale. Come infatti abbiamo visto, esso proseguì nell’universo concentrazionario sovietico sino agli anni Ottanta, seppure non con la stessa drammatica e sistematica asprezza dell’era staliniana. L’esperienza dei campi, tuttavia, continuò a riprodursi in diversi contesti e situazioni. A essi, per citare solo alcuni casi, fece ampiamente ricorso il regime comunista cinese nella seconda metà del Novecento. Gli stessi Stati Uniti li utilizzarono dapprima durante il secondo conflitto mondiale, per internare circa 100.000 giapponesi residenti nel Paese e un gran numero di «nippoamericani» (cioè di cittadini americani di origine giapponese), e poi durante la guerra del Vietnam, per reprimere la guerriglia locale. E così fecero diversi Stati africani, molti regimi dittatoriali sudamericani (in particolare in Argentina e in Cile), un ampio numero di Paesi comunisti e non comunisti in Asia, e per molti anni la Grecia dei colonnelli. I campi di concentramento, legati questa volta anche a politiche di «pulizia etnica», hanno infine fatto nuovamente la loro comparsa, e in misura rilevante, durante il drammatico conflitto che ha devastato per quasi un decennio, negli anni Novanta, la ex Iugoslavia.
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