Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il concetto di "cinema classico" si riferisce solitamente alla storia di Hollywood. Nella storia del cinema europeo i processi di definizione e di suddivisione non sono così certi né unitari, ma può essere interessante comprendere cosa possiamo intendere in Europa con quel termine. Se c’è "classicità" nel cinema europeo, essa va ricercata nelle opere e nei generi che hanno potuto diventare rappresentativi per un vasto pubblico continentale: i generi nazionali, lo stile internazionale, il cinema del secondo dopoguerra.
Il sistema americano e le pratiche europee
Il concetto di cinema classico è comunemente riservato alla storia di Hollywood. Per "classico" si intende solitamente il lungo periodo che va dagli anni Venti, quando il linguaggio del cinema muto giunge all’apice della maturità espressiva, grazie alla fondamentale opera di messa a punto del racconto cinematografico attribuibile a David Wark Griffith, fino agli anni Cinquanta inoltrati. Classico è anche sinonimo di sistema linguistico e narrativo, di codice generale messo a punto ed esportato secondo una strategia di trasparenza comunicativa, imponendo il primato del racconto sugli altri aspetti della realizzazione cinematografica. Il cinema classico hollywoodiano si è quindi sviluppato attraverso una duplice strategia produttiva: il sistema degli studios e il sistema dei generi.
Nel primo caso, si è messo a punto un modello produttivo che, basato di fatto su un oligopolio, sfruttasse la potenza economica di alcune società di produzione (Metro-Goldwyn-Mayer, Universal, 20th Century Fox, RKO) e controllasse il prodotto dal momento della realizzazione fino alla presentazione del film al pubblico (secondo il cosiddetto controllo verticale della filiera cinematografica: produzione, distribuzione, esercizio).
Il sistema dei generi ha invece svolto la funzione di identificazione e differenziazione del prodotto, grazie a una serie di luoghi comuni narrativi di grande respiro, ottenuti contemporaneamente dalla componente storica nazionale e dal serbatoio dei generi letterari e teatrali preesistenti: commedia, avventura, poliziesco, western, melodramma. Inoltre, Hollywood ha ottenuto grandi risultati dall’affermazione di un sistema divistico: gli interpreti di maggior successo sono stati quasi divinizzati grazie a una complessa relazione tra pubblico, mezzi di comunicazione e discorsi sociali così da mettere ulteriormente in gioco i valori presenti nel testo cinematografico e produrre più forti elementi di attrazione per il pubblico e più robusti legami con l’immaginario cinematografico.
Per il cinema europeo, i processi di definizione e di suddivisione dei film non sono così certi né unitari. Se si pensa alla grande stagione degli anni Venti – non solo le avanguardie artistiche ma anche i movimenti cinematografici come l’espressionismo o la scuola sovietica del montaggio –, ci si rende conto che al contrario di Hollywood l’Europa ha sperimentato soluzioni espressive e (di fatto) destini cinematografici diversi da quelli che in seguito si sono affermati grazie al sistema americano. Se c’è classicità nel cinema europeo, essa va dunque ricercata nelle opere e nei generi che hanno potuto diventare rappresentativi per un vasto pubblico continentale, che hanno saputo superare il tradizionale spirito artistico e nobilitante degli autori e delle scuole precedenti, e che sono stati percepiti per lo più come forme cinematografiche intermedie e di facile fruizione. A confronto con le segmentazioni che abbiamo considerato per il cinema americano si mostrano agilmente le differenze.
Generi e star in Europa
In gran parte d’Europa la commedia di impianto teatrale ottiene grande successo di pubblico. Nel cinema italiano, non si può che pensare al genere dei "telefoni bianchi", nel quale – grazie a film come La segretaria privata (1931), Gli uomini che mascalzoni (1932), La telefonista (1932), T’amerò sempre (1933), Il signor Max (1937), Mille lire al mese (1939) – domina l’elemento dell’intreccio, con minor investimento sulla dimensione formale o sull’originalità stilistica. Ciò non toglie che in alcuni di questi film, come per il classico americano, il valore estetico vada ricercato proprio nell’articolazione dell’esistente, nei contenuti veicolati, nella semplicità o nella fluidità del ritmo, oltre che nella cura scenotecnica, dove domina l’art déco. Esiste poi un piccolo sistema divistico, formato da attori come Vittorio De Sica o Sergio Tofano, come Assia Norris o Elsa de Giorni , e da registi come Mario Camerini, che giocano su un registro brillante ed educato, dai toni moderati. I telefoni bianchi non sono però un’esclusiva nazionale, anzi bisogna dire che la commedia – "all’ungherese" o "alla viennese", secondo la provenienza – conta in quegli stessi anni decine di opere europee, tanto che si impone il caso delle versioni multiple. Infatti, il rapporto tra le nazioni non si esaurisce certo nella somiglianza che si può individuare tra alcuni film degli stessi anni. Tra muto e sonoro si fa strada la necessità di mettere in circolo idee e storie, e per farlo è naturale sfruttare i maggiori successi dei singoli paesi. Nasce così il fenomeno delle versioni multiple dei film, ovvero pellicole tratte dallo stesso copione realizzate in nazioni differenti. Per citare le più celebri: Die Privatsekretärin (1931), tedesco, di cui esiste anche la versione francese Dactylo (1931), diretta dallo stesso regista, Wilhelm Thiele e La segretaria privata (1931) di Goffredo Alessandrini; o Paprika (1933) di Carl Boese (1887-1958) e l’omonimo film dell’anno successivo di Emerich Walter Emo (1898-1975). Sono numerossisime le pellicole riproposte in diverse nazioni, con cast adeguati e lingua del luogo. La pratica delle versioni multiple si esaurisce con il sorgere della pratica del doppiaggio, visto che attraverso questa tecnica non vi sono più barriere linguistiche che tengano e il film è finalmente esportabile nella sua identità originaria. La versione multipla del film è un agente di omogeneizzazione stilistica, perciò le soluzioni cinematografiche tendono ad appiattirsi e l’utilizzazione di codici formali comuni a solidificarsi.
In Germania, invece, si fa strada il Bergfilm, il film di montagna, dove il mito della conquista delle vette si mescola a un modello piuttosto tradizionale di avventure e melodrammi. Il regista più celebre di Bergfilm è Arnold Fanck, alpinista e appassionato di sport d’alta quota. Un altro genere tipicamente tedesco è lo Heimatfilm, in cui terra patria, ideologia rurale e dramma di provincia alludono a un forte spirito nazionalista; non è un caso che il genere venga riletto polemicamente negli anni Settanta da registi della nuova generazione come Peter Fleischmann (1937) ed Edgar Reitz (1932).
In entrambi i casi, Italia e Germania, il linguaggio classico è anche il frutto della pressione dei regimi totalitari che, esclusi artisti di "corte" come Leni Riefenstahl, non amano certo il concetto di libertà espressiva.
In Gran Bretagna la produzione è molto folta e annovera commedie, drammi, film polizieschi e molto altro ancora. Sempre in Inghilterra, si fa strada inoltre una forma di commedia venata di "humour nero" ed echi letterari per lo più realizzata dalla casa di produzione Ealing. Dalla fine degli anni Trenta e per tutti gli anni Cinquanta, gli Ealing Studios hanno sfornato decine di commedie cinematografiche per un largo pubblico, non solo inglese. Grazie ad alcuni registi come Anthony Kimmins (1901-1964), Charles Crichton (1910-1999), Alexander Mackendrick (1912-1993) o attori come George Formby (1904-1961), e a film importanti quali Forza Giorgio! (Come on George!, 1939), Passaporto per Pimlico (1949), L’incredibile avventura di Mr. Holland (1951), le commedie Ealing hanno conquistato il pubblico europeo con grazia, precisione e facilità di ricezione. Il trionfo di La signora Omicidi (The Ladykillers, 1955) con Alec Guinness e Peter Sellers è probabilmente il punto più alto della fama della casa di produzione e l’inizio dello sfaldamento del modello, assediato dal cambiamento dei gusti e delle generazioni. In Francia, durante gli anni Trenta, la scuola del realismo poetico di Marcel Carné, René Clair e, in certo qual modo, Jean Renoir, costituisce un modello di cinema impegnato e affidabile che viene adottato in molta parte del continente.
Uno stile internazionale
Dalla fine degli anni Venti, si afferma l’esistenza di un cosmopolitismo molte volte sottovalutato dagli storici e dai critici: cosmopolitismo di guerra, figlio delle emigrazioni forzate, e cosmopolitismo borghese e aristocratico, praticato con dovizia di mezzi personali. Sulla base poi di studi dettagliati, che hanno dimostrato l’esistenza di tratti comuni tra alcuni autori e alcuni generi dello stesso periodo, si è cominciato a parlare di International Style, riferendosi a un modello simile a quello hollywoodiano anche se più elaborato da un punto di vista
formale. I protagonisti di questo stile internazionale sono cineasti come Marcel L’Herbier con Il denaro (L’argent, 1928), La donna di una notte (1930), Augusto Genina con Addio giovinezza (1927), Miss Europa (1930), Ewald André Dupont con Moulin Rouge (1928), Atlantis (1930), Paul Fejós con Primo amore (1929), Fantômas (1932), il già citato Camerini, e molti altri ancora.
Il secondo dopoguerra
Si potrebbe pensare che il concetto di classico tramonti con il neorealismo, considerato punto di partenza per tutte le teorie della modernità cinematografica. Tuttavia, per poco più di un decennio il cinema classico europeo gioca ancora le proprie carte. Non è un caso, infatti, che nel 1954 François Truffaut, all’epoca nelle vesti di critico, scriva un tagliente e polemico articolo sulla rivista "Cahiers du Cinéma", intitolato Une certaine tendence du cinéma français, attaccando aspramente il cosiddetto cinema di qualità francese. Con questa espressione, Truffaut identificava la gran parte della vecchia generazione di cineasti che aveva dato vita alla classicità del cinema francese. Cineasti come André Cayatte, Claude Autant-Lara, Yves Allégret, colpevoli di proseguire una produzione esausta di film nobilmente tratti da opere letterarie e pomposamente sostenuti dalla cultura ufficiale, vengono attaccati da Truffaut in nome di un rinnovamento delle forme poetiche (poi regolarmente messo in atto dallo stesso autore dell’articolo e dai suoi compagni di strada della nouvelle vague). Ma lo stesso neorealismo italiano, in fondo, viene presto riaccolto nell’alveo del cinema classico europeo, quando le tematiche della povertà e del dopoguerra si depositano all’interno di filoni popolari permeabili, che altro non sono che modelli di commedia. Il neorealismo rosa è formula attraverso la quale si definisce l’avvenuta normalizzazione dei germi neorealisti all’interno di strutture narrative e di genere più consone ai gusti del grande pubblico (Due soldi di speranza, 1951, Poveri ma belli, 1956).
Classico (e transnazionale) è anche il divismo del secondo dopoguerra, che unisce nella fama europea attori come Charles Boyer, Maurice Chévalier, David Niven, Gérard Philipe, Dirk Bogarde, Romy Schneider, Michèle Morgan, Gina Lollobrigida. Il cinema europeo non possiede le caratteristiche di un sistema, per come esso è stato definito a Hollywood, ma mostra sufficienti elementi di riconoscibilità e di unitarietà da superare i confini nazionali. Il movimento delle nouvelle vague ha modificato dalle fondamenta il cinema europeo, anche se evidentemente non ogni fattore della realizzazione cinematografica internazionale ne è stato modificato.