Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel discorso critico e nelle grandi periodizzazioni relative alla storia del cinema si intende per cinema moderno quel grande mutamento di assetto complessivo che si fa strada a partire dalla fine della seconda guerra mondiale e che modifica profondamente le forme e le pratiche produttive della rappresentazione cinematografica, portando alla ribalta nuovi modi di intendere il cinema, nuovi autori, e cinematografie nazionali tradizionalmente marginali.
In genere nel discorso critico e nelle grandi periodizzazioni relative alla storia del cinema si intende per cinema moderno o della modernità quel grande mutamento di assetto complessivo che viene a determinarsi con la crisi del cinema classico. Si tratta di un mutamento estetico, linguistico, narrativo, ma anche produttivo e più in generale dell’istituzione cinema nel suo complesso, che a partire dagli anni Cinquanta (ma con significative anticipazioni nell’immediato dopoguerra, si pensi al neorealismo) modifica profondamente le forme della rappresentazione cinematografica, portando alla ribalta nuovi modi di intendere il cinema, nuovi autori, cinematografie nazionali tradizionalmente marginali. Tuttavia, così inteso, il cinema della modernità se da un lato va a rubricare sotto un’etichetta comune movimenti come le varie nouvelles vagues nazionali o il neorealismo, autori come Bergman, Fellini o Antonioni, dall’altro si presta a non poche ambiguità, sia per l’eterogeneità dei fenomeni che tende a omologare, sia perché nella riflessione novecentesca il termine modernità assume valenze assai più ampie e generali di quelle che gli assegna la storiografia cinematografica.
Quanto alla prima questione, si tratta di mostrare, ed è ciò che cercheremo di fare, se e fino a che punto sia possibile individuare dei tratti comuni, delle forme proprie che possano ricomporre un’unità di fondo, sia storico-cronologica che estetico-linguistica a partire da fenomeni, stili, scuole, autori dichiaratamente eterogenei se non alle volte antitetici.
Quanto al secondo punto, è bene chiarire subito che se si intende la modernità come quel fenomeno di mutazione globale e radicale delle forme estetiche e comunicative, ma anche produttive e di organizzazione sociale che la tradizione storico-filosofica novecentesca ha riconosciuto in un ambito che va ben al di là del cinema, quest’ultimo appartiene tutto intero, fin dalle origini e complessivamente alla modernità. Se ad esempio si considerano i caratteri che Walter Benjamin, forse il più influente teorico della modernità, mette al centro della sua riflessione sulle nuove forme estetiche, la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte e la conseguente perdita dell’aura, dell’unicità dell’opera, si vede bene che il cinema nel suo complesso appare come la forma estetico-comunicativa che meglio e con più completezza sviluppi tali caratteri. Se dunque il cinema è tutto nella modernità, il cinema moderno si presenta come una sorta di modernità della modernità o di modernità al quadrato. Definizione paradossale, in cui l’ontogenesi finisce col ricalcare la filogenesi, che pone non pochi problemi e qualche dubbio quanto alla bontà delle categorie storiografiche, ma che forse fornisce una prima chiave per individuare quei tratti comuni che sarebbero propri del cinema moderno: essi risiederebbero, allora, nella coscienza della modernità (in questo senso una modernità al quadrato), nell’esplicitazione della modernità implicita nel medium. Esplicitazione che ha bisogno di un punto di cesura: la crisi del modello organico del cinema classico, organizzato secondo una logica transitiva, cioè orientata alla progressione dell’azione e, in ultima analisi, della narrazione come finalità della rappresentazione. Esplicitazione che dunque si afferma in contrasto con il modo di rappresentazione classico, ponendo nuove logiche della concatenazione in cui la transitività verso la risoluzione narrativa è spesso interrotta, deviata, negata, una nuova presenza del soggetto-autore a fronte delle forme di genere proprie del cinema classico; un nuovo modo di ricostruire, o più spesso destrutturare la coordinazione spazio-temporale e l’unità del corpo e della scena.
Il cinema della modernità così concepito ha dunque un termine cronologico – la crisi del cinema classico negli anni Cinquanta, che non a caso viene a sovrapporsi con altri mutamenti esterni al cinema, dall’esperienza bellica al profondo cambiamento del panorama mediale operato dalla televisione, alle modificazioni delle forme di consumo e produzione di massa – e alcune linee portanti che ne definiscono le forme estetiche e linguistiche, forme che vale la pena analizzare con maggior dettaglio.
Si è detto che il cinema classico – e sotto questa etichetta va inteso principalmente il cinema americano, anche se è possibile individuare una linea di classicità europea – è un cinema transitivo volto e finalizzato all’azione: il duello, lo scontro armato, lo svelamento della verità, la condanna o la morte del colpevole sono altrettanti topoi del culminare dell’azione. E se anche John Wayne potrà girare in tondo per anni in Sentieri selvaggi (The Searchers, 1956), combattuto tra il sentimento della wilderness e la necessità delle relazioni sociali e di parentela, prima o poi dovrà scegliere e agire di conseguenza: salvare la giovane nipote rapita e riportarla al vivere sociale o ucciderla purificandola dal contagio dell’altro, da una naturalità selvaggia a cui egli stesso pure appartiene. Per quanto complessa, articolata e mirabile sia la costruzione fordiana, per quanto doppio e anfibolico ci appaia il personaggio interpretato da Wayne, il film ci dice comunque come è andata a finire.
Un carattere proprio del cinema moderno è rappresentato dal venir meno di quest’organizzazione transitiva: si parlerà dunque di forme di narrazione debole o di antinarrazione intendendo con questo l’allentarsi o il dissolversi di quei legami di concatenazione che spingono necessariamente verso l’azione. Così in Quarto potere (Citizen Kane, 1941), di Orson Welles, nel contempo anticipazione e film feticcio del moderno, se la ricostruzione della vita di Kane è costellata di un infinito susseguirsi di azioni, ciò che manca e che il film volontariamente elide è la concatenazione tra queste, come totalità organica e dunque vera. Ciò che nel cinema moderno viene meno è la fede nella ricostruzione del tutto come via d’accesso al senso, al reale, al vero. E così il reale, la verità sensibile è nelle pieghe dell’azione o tra le azioni, nella profondità di campo, come vorrebbe Bazin, o in un gesto apparentemente insignificante, come in Il ginocchio di Claire (Le Genou de Claire, 1970) di Rohmer, o ancora nel perdurare della passione nonostante e contro qualunque azione, come in La mia droga si chiama Julie (La sirène du Mississipi, 1969) di Truffaut . C’è dunque nel cinema moderno la tendenza a sottolineare una sorta di scarto, di insopprimibile residuo che non soggiace alla logica dell’azione. L’erranza dei personaggi del neorealismo è dettata assai più da una serie di gesti e azioni automatiche che non da una costruzione organica, e quando questi automatismi si rompono, come in Ladri di biciclette (1948) o anche Viaggio in Italia (1953) o in Stromboli terra di Dio (1950) ciò che appare è una realtà intrattabile, radicalmente altra, che spesso assume la forma dell’incubo. Ancora, nei primi film di Godard, Fino all’ultimo respiro (À bout de souffle, 1959) e Il bandito delle 11 (Pierrot le fou, 1965), la forma della ballata e dell’erranza finisce con l’assorbire la logica dell’azione, a vantaggio di un susseguirsi di situazioni disconnesse che fanno emergere l’autonomia degli elementi ottico-sonori per se stessi, come accade del resto anche nel primo Wenders. Né sarà difficile individuare forme di assenza o paralisi dell’azione, sostituita o assorbita dall’affiorare di ricordi e immagini del passato ne L’anno scorso a Marienbad (1961) di Resnais, da sogni, fantasticherie e immagini mentali in Rivette, Malle, Tati. Il cinema moderno opera dunque una sistematica svalutazione di quei procedimenti di relazione sintagmatica, di costruzione orientata che animano il cinema classico, fino ad arrivare a una evidente, voluta e consapevole negazione di questi stessi processi, ad esempio nel Godard "politico" dei film a ridosso del 1968.
Si è detto che una delle discriminanti del cinema postclassico è rappresentata dalla coscienza della intrinseca modernità del mezzo. Questa coscienza si esplica nella esibizione, più o meno evidente, delle convenzioni estetico-linguistiche e anche dei processi produttivi che sono sottesi alla costruzione del film. Se il cinema classico sistematicamente occulta la propria natura discorsiva, offrendosi come una sorta di finestra sull’azione narrata, trasparente allo sguardo della spettatore, il cinema moderno abbonda di costruzioni metalinguistiche che portano in primo piano il farsi del film, sia dal punto di vista estetico che produttivo. Ma ancora più evidente è la presenza, per nulla dissimulata, di un soggetto che è il responsabile ultimo del discorso del film. Il cinema moderno si avvale di un rimando costante alla figura dell’autore, una sorta di personaggio esterno, spesso nascosto ma alle volte esplicitamente rappresentato nel film, che agisce da fonte del discorso, istanza comunicativa e garanzia estetica della rappresentazione. Il cinema moderno è dunque essenzialmente un cinema d’autore, così come il cinema classico è essenzialmente un cinema di genere. D’altra parte l’idea di autore è uno dei caratteri fondanti dell’identità cinematografica europea, almeno dagli anni Venti. Questo spiega le ragioni per cui il cinema della modernità nasce e si sviluppa, al contrario del cinema classico, come fenomeno europeo: quando attecchisce in altri contesti, dagli USA ai paesi dell’America Latina, esporta di fatto un vero e proprio modello europeo, formale, linguistico produttivo, certo declinato secondo le specifiche tradizioni culturali e cinematografiche. E del resto per certi versi è possibile vedere quello che definiamo correntemente come cinema postmoderno come la risposta competitiva della grande industria hollywoodiana, ma non solo, al modello autoriale europeo.
Questa messa in scena più o meno esplicita dell’autore come soggetto responsabile e garante dell’opera la si troverà certo in maniera evidente in cineasti come Fellini o Godard, che assai spesso hanno rappresentato il loro fare cinema, ma anche nella forte coesione interna di una produzione strutturata per capitoli o parti di un unica grande opera, come accade in Kieslowski e in parte in Rohmer, o anche nell’estrema coerenza tematico-stilistica rinvenibile in una produzione anche eterogenea, come in Marker o in Tarkovskij.
Va anche detto che il modello autoriale europeo ha dato luogo a forme sclerotizzate, in cui la relazione tra autore e opera diventa fine a se stessa e serve da giustificazione per una sterile contemplazione narcisistica e privata del proprio essere autore: è ciò che è accaduto a molto cinema italiano e francese degli anni Novanta, che ha trasformato il modello autoriale in una convenzione di genere quantomai frustra e usurata.
La trasparenza del cinema classico consiste anche nella capacità di ricostruire virtualmente, attraverso il montaggio, l’unità di corpi e spazi, pur frammentati dalla segmentazione in inquadrature, in modo che lo spettatore li percepisca come totalità organiche. Così i primi piani, i dettagli, le singole parti dello spazio scenico vengono riarticolate in una percezione complessiva che connette il primo piano alla totalità del corpo, il dettaglio al totale, il campo al fuori campo. La perdita di organicità del cinema moderno comporta anche in questo caso significativi mutamenti che molto spesso danno luogo a una più o meno evidente disarticolazione di spazi e corpi o piuttosto a una nuova articolazione dichiaratamente fittizia e artificiale. Del resto anche in questo caso il cinema della modernità può attingere a una linea di esperienze estetiche e linguistiche profondamente europea e ben rappresentata da cineasti come Dreyer – disarticolazione – e Ejzenstejn – nuova articolazione.
Così ad esempio Pasolini in Accattone (1961), Teorema (1968) o Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) prescinde dalla ricostruzione per contiguità dell’unità di spazi e corpi per ritrovare nuove forme di concatenazione in cui le relazioni logiche, di pensiero sostituiscono le relazioni figurative e sensibili. Altri cineasti, come Garrel o Duras, seguiranno questa strada, ma l’artificialità della ricostruzioni di corpi e scena fa emergere nel cinema della modernità una profonda indiscernibilità tra realismo della rappresentazione e artificialità della messa in scena, come in Il fuorilegge (Perceval le Gallois, 1978) di Rohmer. Ma in questa linea va segnalata soprattutto l’esperienza seminale di Max Ophuls, regista tra i più influenti nella costituzione di una identità moderna nel cinema europeo. In film come I gioielli di Madame de... (1953), Lola Montés (1955) o La Ronde (1950) i personaggi, rinchiusi nei confini di una scena invalicabile e fortemente teatralizzata, recitano un ruolo pur appartenendo nello stesso tempo al piano del reale. La scena, non più finalizzata alla ricostruzione spaziale, diviene una sorta di teatro-acquario che rappresenta il motore e la ragione stessa del film. Del resto Ophuls come pochi altri riesce a sintetizzare mirabilmente l’esperienza europea d’anteguerra traghettandola verso la modernità.