I cattolici e la Costituente
L’apertura in Italia di un ‘momento costituente’ non fu affatto un evento inaspettato: sin dalla caduta del regime fascista nel luglio 1943, ma, vorremmo aggiungere, già dal suo evidente stato di crisi a partire da molti mesi prima, era diventato chiaro che si sarebbe assistito ad un mutamento di regime politico. La firma deiPatti Lateranensi nel 1929 e poi un’ambigua apertura del regime alla ‘religione di Stato’ avevano introiettato l’idea che si andasse verso lo smantellamento dello Stato liberale anticattolico, anche se ciò non aveva impedito che si continuasse a ragionare su ulteriori passi da compiere sulla strada di una modificazione ‘costituzionale’ degli assetti dello Stato moderno.
Per capire come avvenne la complessa inserzione dei cattolici nel ‘momento costituente’, cioè in quella fase di destrutturazione e di ricostruzione del sistema politico italiano che si ebbe fra il luglio 1943 e il dicembre 1947, quando fu approvata la nuova Carta costituzionale, bisogna tenere conto di diverse prospettive: la posizione della Santa Sede e il variegato mondo del laicato cattolico, che si trovò peraltro in tensione fra due appartenenze, quelle al servizio più diretto della Chiesa nelle varie formazioni dell’Azione cattolica e quelle sempre più orientate alla riproposizione o alla creazione di un movimento politico cattolico. Il Vaticano fu rapido nel comprendere la piega che prendevano gli avvenimenti sul piano internazionale e a intuire di conseguenza il cambiamento di orizzonti che si sarebbe realizzato. Certo ebbe un ruolo importante la presenza di Eugenio Pacelli prima alla Segreteria di Stato e poi al soglio pontificio, un uomo che aveva un’autentica vocazione alla visione mondiale dei problemi e un’abitudine a misurarsi con piccoli e grandi rivolgimenti. Per questo già nel Natale 1942 il papa pronunciò un radiomessaggio in cui lanciava uno slogan destinato a divenire famoso: «non lamento, ma azione è il precetto dell’ora; non lamento su ciò che è o che fu, ma ricostruzione di ciò che sorgerà e deve sorgere a base della società». Il papa, dunque, invitava implicitamente a non ripetere le geremiadi sul crollo del malvagio mondo moderno, ma ad inserirvisi sfruttandone le opportunità. Non stupisce certo che il più lesto a cogliere l’invito fosse il rettore dell’Università cattolica del Sacro Cuore, Agostino Gemelli, che da tempo operava per l’inclusione dei cattolici nei gangli del rinnovamento politico, sia pure sino ad allora inteso come quello che sembrava stesse aprendosi con il regime fascista.
Gemelli intuì che con quel radiomessaggio non solo il papa ratificava quell’idea della riconquista cristiana che era da tempo una costante, ma la collocava in un orizzonte piuttosto nuovo, tanto da meritare che sul punto si mettesse all’opera un apposito gruppo di studio. I due punti principali del radiomessaggio, così come vennero individuati dagli studiosi che si misero al lavoro, sono stati così ricostruiti da un testimone di quel momento:
«il primo riguardava il giudizio da dare sulla democrazia politica, intesa come controllo del popolo sull’esercizio dei poteri dello Stato mediante libere elezioni o forme analoghe; il secondo riguardava il giudizio da dare sul regime capitalistico come in concreto esso si attua nei paesi europei di civiltà industriale»1.
Quel gruppo di studio, cui parteciparono personaggi importanti per le future vicende del costituzionalismo cattolico, quali Giuseppe Dossetti, Amintore Fanfani, Giuseppe Lazzati e Antonio Amorth, intuì, sotto la spinta diDossetti, che quel messaggio non era affatto una semplice declinazione del tradizionale pensiero sociale cattolico. Ricorda sempre mons. Carlo Colombo, che partecipava come studioso di teologia a quell’impresa:
«E vi era chi (ricordo benissimo che il principale sostenitore di questa tesi era Dossetti; ma a essa accedevano parecchi altri, tra cui fin d’allora anche Fanfani) affermava pure esplicitamente che, con il messaggio del 1942, il pensiero di Pio XII aveva superato la dottrina dello Stato proposta nelle famose encicliche di Leone XIII: mentre questi aveva insistito esclusivamente sui fini, la natura, l’origine dell’autorità dello Stato, lasciando completamente libero il problema della struttura giuridica di tale autorità,Pio XII entrava anche nel merito invece di questo problema, incominciando a delineare una dottrina della forma del potere politico e delle sue condizioni necessarie. Anche la conoscenza e l’insegnamento del diritto naturale può progredire nella Chiesa come qualsiasi altra verità; ed è normale ritenere che esperienze storiche cruciali (come quella delle dittature recenti) esercitino una funzione stimolatrice sulla riflessione cristiana ed il suo sviluppo dottrinale»2.
La svolta non era di poco conto, tanto che padre Gemelli chiese direttamente al papa se avesse veramente inteso pronunciarsi a favore del sistema democratico: la prudente risposta vaticana del 27 maggio 1943, che teneva presumibilmente conto del clima politico di tramonto del regime in cui ancora si viveva, si limitava a dire che sulla questione il papa si riservava di intervenire chiaramente in futuro. Come si capisce, ciò equivaleva a lasciare la porta aperta, visto che in caso contrario non si sarebbe tollerato che circolasse un equivoco su una delicata questione dottrinale (il pronunciamento chiaro del papa che considerava la democrazia come il regime che per diritto naturale la Chiesa riteneva il più rispondente ai suoi valori arriverà solo col radiomessaggio del Natale 1944).
Fu tuttavia sul fronte della partecipazione all’esperienza resistenziale che il movimento del laicato cattolico mostrò la sua adesione ai tempi nuovi. In questo clima la partecipazione di tanti giovani cattolici alla lotta di liberazione nazionale è l’indice del maturare in queste generazioni di un diverso modo di intendere la presenza cattolica in un momento costituente. È naturale che il disfacimento dello Stato, l’8 settembre 1943, spinga questi giovani a radicalizzare la loro scelta. Se all’origine della reazione c’è stato un impulso genericamente patriottico, la decisione di ‘salire in montagna’ prende decisamente la piega di una scelta politica: non si tratterà più semplicemente di essere dei membri il più possibile eminenti di una società civile data, ma di essere nel drappello di testa di quella che apparirà sin da subito una ‘rinascita’. Si tratta naturalmente di esperienze diverse a seconda delle aree dove si è verificata l’azione partigiana, ma tutte sono unite da questa ansia dei giovani formati all’epica del ‘momento fatale’, così tipica dell’educazione tanto cattolica quanto fascista di quegli anni, di non mancare un appuntamento cruciale. Quello con la costruzione di una ‘nuova Italia’ in cui finalmente i cattolici non siano marginali alle grandi evoluzioni, come era toccato fra Settecento e Ottocento, ma possano inserirsi da protagonisti nel nuovo che sta per nascere.
Se non si tiene conto di questo complesso retroterra è difficile capire il cruciale passaggio del 1945-1946, che costituisce il primo snodo del ‘momento costituente’.
La transizione della guerra combattuta sul territorio nazionale aveva posto la Chiesa in una posizione di grande forza, essendo rimasta sostanzialmente l’unica istituzione in grado di mediare fra le forze combattenti, soprattutto nel quadro della guerra civile che si era svolta al Nord. Non tutti i vescovi e non tutto il clero si erano mostrati all’altezza della situazione, ma in molti casi avevano svolto un’opera significativa e talora veramente notevole sia nell’assistenza ai perseguitati sia nella presenza come punto di riferimento in situazioni che conoscevano dei rimarchevoli vuoti di potere. Lo stesso pontificato godeva di grande prestigio, anche, e non è secondario, come punto di riferimento per la diplomazia degli anglo-americani che andava alla ricerca di informazioni attendibili per la gestione del futuro di un paese che essi trovavano abbastanza enigmatico.
Si può capire come questa situazione avesse esaltato nel mondo ecclesiastico la sensazione di avere a portata di mano un’eccezionale opportunità per cancellare quasi un secolo di emarginazione dovuto alle vicende risorgimentali. In quest’ottica si può comprendere perché, come vedremo nel dettaglio in seguito, la Santa Sede attribuisse tanta importanza al solenne riconoscimento del Concordato del 1929, che era considerato la base giuridica del ritrovato ruolo istituzionale della Chiesa cattolica nel quadro politico italiano.
Tuttavia la prima questione che si poneva era quella della concreta gestione di una delicata fase di passaggio, quando era ormai chiaro che la ricostruzione sarebbe stata assai meno lineare di una restaurazione riveduta del vecchio ordine pre-fascista, che del resto non piaceva molto alle alte sfere vaticane.
La prima questione rilevante riguardò ovviamente la soluzione da dare al problema del regime istituzionale, che il decreto legge 151 della primavera del 1944 aveva scelto di affidare alla decisione dell’Assemblea costituente3. Il mondo cattolico costituiva da questo punto di vista una incognita. Tradizionalmente la dottrina cattolica aveva, almeno a livello di volgarizzazione, supportato l’idea che la monarchia fosse la forma di Stato ideale in quanto affine alla stessa istituzione vaticana (il «sovrano pontefice»), e questo era stato suffragato dall’introduzione in epoca fascista del culto di «Cristo Re». Si aggiunga che la diplomazia vaticana tutto sommato inclinava per una preferenza al mantenimento del regime monarchico, al di là del giudizio negativo che veniva dato su Vittorio Emanuele III.
De Gasperi conosceva bene queste inclinazioni d’oltretevere, non fosse altro perché aveva contatti necessari col nunzio in Italia, mons. Borgongini Duca, un diplomatico non molto acuto come osservatore politico (ma la Santa Sede riteneva che di questioni italiane poteva occuparsene direttamente), ma indubbiamente piuttosto incline a quella prospettiva conservatrice di Tardini, che il sostituto continuava a ribadire, non si sa se per convinzione o se per opportunismo, anche in documenti successivi.
Ciò che preoccupava il Vaticano era evidentemente la posizione della Democrazia cristiana nella cui forza si credeva relativamente. Sembra che da un lato i membri del partito, incluso lo stessoDe Gasperi, non si astenessero dal sottolineare la loro debolezza per mettere in allarme il Vaticano in modo che non consentisse a vescovi e clero di far propaganda per le destre, specie monarchiche, come non si era alieni dal fare, mentre gli interlocutori vaticani recepivano questo messaggio a metà e lo piegavano alla loro strategia che avrebbe invece voluto la creazione di un blocco fra la Dc e tutte le destre.
Lo si vede bene nel colloquio che il 25 aprile 1946, dunque il giorno dell’apertura del primo congresso nazionale della Dc, il nunzio ebbe col presidente del Consiglio4. Borgongini si premurò subito di sondare De Gasperi sulla spaccatura che si profilava fra monarchici e repubblicani, chiedendogli come si sarebbe pronunciato il congresso, al che il leader trentino rispose, dopo la sibillina premessa «io volentieri lascerei le cose come stanno», che la grande maggioranza della Dc era di orientamento repubblicano. Il leader trentino rilevava piuttosto con una certa perfidia che si diceva «anche che la monarchia la vogliono i preti», mentre buttava lì che «salvo qualche raro Vescovo, né l’Episcopato né il Santo Padre si sono pronunciati». Era un chiaro messaggio che si mandava per canali diplomatici a continuare così, senza sbilanciarsi a favore della monarchia come si stava facendo da più parti (e forse si faceva notare al nunzio che certi suoi fervori non erano in linea con lo stesso atteggiamento del papa). Effettivamente, per quel che oggi si sa alla luce dei documenti noti, Pio XII non era particolarmente favorevole alla monarchia italiana. Per di più, con la sua esperienza di diplomatico che aveva osservato la crisi tedesca del 1919-1933, sapeva che puntare su un’istituzione in decadenza sarebbe stato un errore fondamentale.
Al contrario, il pontefice era deciso a puntare sulla forza del nuovo partito cattolico, cioè sulla «democrazia cristiana» che era qualcosa di più e di diverso da una semplice etichetta politica. Anche a questo proposito giova ricordare l’esperienza tedesca del papa. Accettando nel 1933 di liquidare il Zentrum in cambio di un Concordato col nuovo regime nazista, il Vaticano aveva commesso un grosso errore di cui si sarebbe pentito in seguito. Senza Concordato, ma con un forte partito cattolico la Chiesa aveva contato in Germania e resistito a nemici agguerriti come Otto von Bismarck o a coalizioni potenzialmente aggressive come quella del cancelliereBernhard von Bülow nel 1906-1909. Con il Concordato, ma senza partito, la Chiesa cattolica si era di fatto consegnata nelle mani di Hitler.
Dunque la nuova strategia doveva ora puntare ad avere insieme la tutela giuridica di un Concordato e la forza politica di una presenza cattolica organizzata all’interno del sistema costituzionale democratico. Se questa presenza dovesse avere la forma di un partito unico, o potesse esplicarsi in più partiti era stato oggetto di una qualche discussione, che si era risolta, anche per la pressione decisa di De Gasperi, nella decisione del partito unico dei cattolici.
Naturalmente questa decisione si rifletteva in maniera pesante anche sulla questione costituente, in primis su quella della scelta istituzionale, perché la spaccatura che De Gasperi presentò al nunzio era più che nota: la dirigenza Dc, sia quella uscita dalla resistenza, sia quella legata alla tradizionale cultura cattolica ‘intransigente’, era di orientamento repubblicano, perché del tutto estranea ai tradizionali circuiti della élite politica post-risorgimentale, mentre nel ‘popolo cattolico’, specie al Sud si conosceva la presenza di sentimenti monarchici (in realtà più per ragioni di inclinazione verso lo status quo che per motivazioni ideologiche, come avrebbe mostrato il subitaneo tracollo delle fedeltà monarchiche immediatamente dopo il referendum).
Con la scelta di mettere la questione direttamente nelle mani degli elettori, De Gasperi, come aveva scritto a suo tempo a Sturzo, si sottraeva al dilemma di come gestire in contemporanea le differenze fra elettorato e quadri del partito, e più in generale, fra partito del Centro-Nord e partito del Sud. Ciò era molto importante nell’ottica del leader trentino che voleva creare un grande partito di massa su cui basare la presenza pubblica del cattolicesimo, anche se questo lo portava ad uno scontro con la componente ‘giovane’ del partito, quella di fatto uscita dal crogiuolo resistenziale e guidata da Giuseppe Dossetti.
Il leader reggiano era stato da subito per una scelta repubblicana, senza tenere alcun conto delle inclinazioni filomonarchiche che dominano in larga parte delle alte gerarchie cattoliche. Per questo aveva accolto male la decisione di De Gasperi che nel Consiglio dei ministri del 27-28 febbraio 1946 aveva fatto decidere, senza aver coinvolto il partito, che la scelta sulla forma da dare al nuovo Stato fosse determinata da un referendum popolare. Immediatamente Dossetti inviava una dura lettera al presidente del Consiglio accusandolo di avere optato per una soluzione che favoriva l’esito monarchico del referendum, ma soprattutto di avere sottomesso il partito alla necessità di tenere insieme molte anime diverse, comprese quelle conservatrici e filomonarchiche prevalenti sia nei militanti che nell’elettorato del Meridione. Quel che è interessante per il discorso che ci accingiamo a fare è il passaggio in cui Dossetti esprime la consapevolezza del ruolo non personale e non subordinato a una eventuale carriera politica che egli ritiene di rivestire nel panorama italiano del momento:
«Io occupavo, se vuoi, un posto superiore alla mia età e alle mie doti, soprattutto alla sensibilità politica e alla capacità realizzatrice che nel mio semestrale esperimento posso aver mostrato, ma tutto questo non toglie che di fronte al partito, di fronte ai molti amici che, specie nell’Alta Italia, confidano in me e sperano che io sappia farmi rappresentante della loro volontà, di fronte al prossimo congresso – che ormai si convocherà e dovrà operare secondo linee già ferreamente prestabilite – io rivesto la qualifica di corresponsabile con te della segreteria del partito.
Pertanto io debbo discriminare la mia responsabilità: lo debbo a me stesso e a coloro, dei quali ho sinora tanto inefficacemente tentato di esprimere il volere, i desideri, le speranze»5.
Era non solo la dichiarazione di una volontà di agire orientandosi in una precisa direzione ideologica («secondo una visione ad un tempo legata alla nostra tradizione e dinamicamente rinnovatrice della funzione politica del cattolicesimo in Italia»), ma anche la dichiarazione di quello che sarà il programma politico a cui vorrà costantemente ispirarsi in questa fase: far «prevalere sul metodo della manovra governativa e del patteggiamento di gabinetto […] il metodo dell’azione organica di partito, formativa e suscitatrice in strati sempre più vasti di uno slancio collettivo vitale e rinnovatore»6.
Si rendevano qui palesi i differenti modi di interpretare il ruolo storico del cattolicesimo sul terreno politico, secondo linee che di fatto continueranno nel tempo ben oltre la questione della fase costituente, ma che segneranno in maniera sensibile anche quest’ultima.
La diatriba riguardava la questione di cosa si dovesse intendere per ‘azione cattolica’. De Gasperi era figlio dell’interpretazione che veniva data al termine fra la fine dell’epoca di Leone XIII e la Prima guerra mondiale. Secondo quella prospettiva era azione cattolica ciò che riportava il cattolicesimo sociale e politico al centro della scena, ciò che lo faceva riammettere a quello spazio pubblico da cui era stato emarginato a seguito della rivoluzione liberale. Per questo lo strumento essenziale era il ‘partito’, ma nel senso ottocentesco del termine, non in quello post 1917 in cui lo avrebbe inteso Dossetti.
Il partito era la forza organizzata e di massa di una cultura sociale fortemente radicata, forza che aveva come obiettivo la conquista dei ruoli dirigenti che a tutti i livelli erano resi accessibili dal sistema costituzionale rappresentativo (incentrato sulla competizione elettorale), cioè da quel sistema in cui De Gasperi aveva da sempre fortemente creduto. Si trattava di una formazione che aveva alle spalle una realtà sociologica, più che una comunità di fede: la religione cattolica era il collante culturale di una comunità, all’interno della quale la gestione in senso proprio del rapporto di fede spettava alla gerarchia ecclesiastica, mentre ai leader politici spettava il compito di tenerla unita e di non incrinarne la forza d’urto, anzi, se possibile, di massimizzarla.
Dossetti era figlio di un’altra generazione, paradossalmente nata sotto il fascismo, quando l’opportunità di contare come componente ideologica distinta dal regime non si poteva neppure porre. Di conseguenza, l’unica comunità rilevante era quella dei credenti, che dovevano in prima istanza rendere testimonianza alla coerenza della loro fede, senza porsi il problema della loro forza in termini numerici, anzi avendo la consapevolezza che si trattasse in definitiva di un «piccolo gregge», di una minoranza che doveva semmai agire da lievito all’interno della massa.
È improprio rappresentare queste visioni contrapposte come frutto l’una di un approccio laico e liberale, la seconda di un approccio integralistico e totalizzante.De Gasperi era personalmente un uomo di fede e non aveva remore a difendere, sul terreno religioso, la sua visione (con un approccio fortemente personalistico del rapporto con la fede che si disinteressava di qualsiasi disputa teologica, terreno sul quale accettava senza tensioni il predominio delle autorità ecclesiastiche). Sul terreno politico riteneva però che per conquistare lo spazio più ampio e solido possibile per la sua componente culturale occorresse adeguarsi alle regole della competizione politica nel quadro del costituzionalismo occidentale. Dossetti era tormentato dal problema di come rendere evidente che si agiva sul terreno della politica solo per testimoniare la verità superiore di una fede che sapeva vedere oltre il tempo e che, essendo chiamata a trasformare l’uomo, non accettava di piegarsi alle leggi della politica se queste avessero messo in questione il bene supremo della testimonianza completa che l’uomo di fede deve rendere alla sua conversione.
Ciò che sfugge spesso agli osservatori è che entrambe queste posizioni erano rispettose della natura «altra» della sfera politica rispetto a quella religiosa. Tanto per De Gasperi quanto per Dossetti non si trattava di imporre regole religiose a chi non condivideva l’appartenenza al cattolicesimo: entrambi ritenevano, sia pure partendo da punti di vista diversi, che si dovesse realizzare una «città dell’uomo» fondata su principi e valori riconosciuti e condivisi da tutti. Questo valeva, al contrario di quanto talora è stato scritto, anche per i ‘dossettiani’ che, secondo il principio tomista gratia non destruit naturam, pensavano che non vi fosse conflitto tra una proposta rigorosamente fondata sulla natura profonda dell’uomo e quanto suggeriva una fede matura e informata. Così aveva sostenuto anche Jacques Maritain in Umanesimo integrale, in questi anni un testo di riferimento.
Nel mondo cattolico non esistevano però solo le due posizioni riportate. Il tema della riconquista cristiana era stato un cavallo di battaglia anche dell’ala che in maniera più o meno diretta aveva ereditato le pulsioni del revanchismo cattolico seguito alla frattura con la rivoluzione post-illuminista. Tutte queste componenti avevano i loro obiettivi di natura ‘costituzionale’, in quanto erano anch’esse consapevoli del momento assai favorevole costituito da un ripensamento obbligato delle strutture dello Stato. Gedda aveva già cercato al momento dell’insediamento del governo Badoglio di offrire al generale il sostegno dell’Ac, sia come riserva di reclutamento di nuova classe dirigente, sia come sostegno propagandistico di massa, senza tenere conto che il successore di Mussolini era troppo politicamente incapace per prendere anche solo in considerazione l’ipotesi. Ora però, con l’aprirsi di una competizione politica a tutto campo, quell’ipotesi sembrava percorribile in proprio.
Il movimento cattolico non aveva di per sé un retroterra specifico in tema di pensiero costituzionale, sebbene al suo interno l’intellettualità politica e i vertici gerarchici avessero già avuto occasione di intervenire sulle grandi questioni riguardanti l’organizzazione della sfera pubblica. Si era però trattato prevalentemente di temi legati alla contingenza dello scontro sulla secolarizzazione della sfera politica, cioè di interventi a difesa delle prerogative della Chiesa cattolica tanto nella sua dimensione centrale (il papato) quanto nelle sue articolazioni sul territorio italiano. Quando ci si era spinti oltre quei confini, il discorso era divenuto generale e riguardava piuttosto i temi politico-sociali dell’ora (soprattutto la risposta alla sfida ‘socialista’ o, negli ultimi tempi, ‘comunista’): raramente ci si imbatteva in un discorso sui diritti e i doveri dell’uomo e del cittadino o sulla organizzazione concreta dello spazio pubblico coi suoi problemi di checks and balances.
Dal dibattito sulla mancata realizzazione, dopo il Risorgimento, di una ‘costituente’ che legittimasse la nuova unità nazionale, il movimento cattolico e le gerarchie ecclesiastiche erano state assenti. Del resto la polemica contro la violenta usurpazione del potere temporale del papa da parte del nuovo Stato oscurava qualsiasi discorso di quel tipo, anche senza voler rammentare che ‘costituente’ e ‘costituzione’ erano parole legate alla Rivoluzione francese, cioè a una fase che i vertici della Chiesa cattolica ancora condannavano duramente.
Assenti dunque dal dibattito costituzionale nel periodo liberale, a parte qualche gruppo ristretto come i cattolici e conservatori liberali de «La Rassegna nazionale» (quella che recava come sottotitolo «cattolici col Papa e liberali collo Statuto»), gerarchie e vertici del movimento cattolico non si fecero coinvolgere neppure nell’animato dibattito sulla «costituzione fascista» che si sviluppò in Italia tra la fine degli anni Venti e il decennio successivo7. Il fatto che a questa temperie intellettuale partecipasse uno degli uomini chiave poi della Dc nell’Assemblea costituente, cioè l’allora giovane giurista Costantino Mortati, non è significativo per nulla, poiché quello che sarà poi il più insigne costituzionalista cattolico era allora un fervente giovane fascista, sia pure dell’ala ‘sinistra’ e progressista: solo durante l’ultima fase della guerra Mortati riscoperse le proprie radici cattoliche ed entrò poi, abbastanza per caso, nelle fila di quello che era destinato a divenire il partito egemone nel paese.
Pur con questi limiti, le nuove leve del movimento cattolico si incontrarono però durante il fascismo con tutti i problemi di una complessa riforma costituzionale che, per quanto ambigua e non facile da descrivere, aveva inevitabilmente attirato l’attenzione di tutti i giuristi dell’epoca. Frequentando semplicemente le facoltà giuridiche, i giovani di allora si trovarono gioco forza a contatto con riflessioni sul problema dell’organizzazione dello Stato, dei poteri del governo, del ruolo del partito e via elencando. In parallelo i vari sconvolgimenti internazionali, dalle vicende della repubblica di Weimar e dell’avvento del fascismo, all’età dei fronti popolari in Francia e in Spagna, non mancarono di interessare la riflessione delle riviste cattoliche, tanto di quelle ufficiali con in testa «La Civiltà cattolica», quanto di quelle legate ai movimenti intellettuali dell’Azione cattolica.
Anche De Gasperi, nel suo esilio interno, si era occupato di questi temi, che parzialmente e sotto altra veste aveva già affrontato nella sua esperienza di uomo politico nel quadro dell’impero asburgico: basterà rileggere con attenzione i molti interventi dedicati nel periodo fra le due guerre alle questioni tedesche, ai mutamenti degli ordinamenti nei vari stati europei e negli Stati Uniti, e anche al dibattito ideologico suscitato da autori come Mounier e Maritain, in cui pure si era imbattuto.
Tuttavia il leader trentino, una volta arrivato al governo, aveva smesso di interessarsi di questioni per così dire di teoria politica, limitando i suoi interventi ad una generale, per quanto non generica difesa del modello liberal-democratico, così come si era realizzato nella sua fase gloriosa fra Ottocento e Novecento.
La scelta per legare strettamente la conquista dell’egemonia elettorale/politica con la gestione della fase costituente era stata chiara in tutti quei mesi cruciali, ma venne ribadita anche nel discorso di replica cheDe Gasperi tenne al I Congresso della Dc del 27 aprile 1946.
Fu un discorso con molte punte polemiche, in cui però, se da un lato rivendicava il suo diritto di parlare «schiettamente a questa assise del partito, alla quale mi sono presentato quale segretario del partito stesso», dall’altro sottolineava che «non è che io abbia respinto o abbia cercato di attenuare le possibilità di collaborazione che si affacceranno alla Costituente».
L’intervento era molto ampio e articolato e aveva davvero un respiro ‘costituente’ che muoveva da una specie di auto da fé: «Io sono un fanatico della democrazia: mi sono dedicato con particolare impegno, nel governo e fuori, alla causa della libertà e del rispetto delle procedure della libertà. Così siamo giunti ad una conclusione nella difficile questione della scelta istituzionale».
Ci sono molti passaggi in cui De Gasperi espone, sia pure in sintesi, la sua filosofia costituente. Per esempio quando afferma: «I programmi esecutivi non si devono fare semplicemente per confluenza di tendenze, ma sopra concreti oggetti di legislazione e concreti criteri di governo. Spero che alla Costituente troveremo la strada per formare una maggioranza che dia all’Italia una nuova costituzione, ma ho molte pregiudiziali da avanzare e direi che al punto in cui siamo è tutt’altro che certo».
E ancora: «Se la parola ‘repubblica’ – come ha detto al Congresso un colorito oratore napoletano – non deve voler dire tumulto e caos, bisogna che quanto più è largo l’autogoverno del popolo, tanto più si fermi la disciplina degli organi dello Stato sotto un governo che ha tutte le responsabilità». Oppure: «la questione del sistema bicamerale è veramente essenziale perché contiene un principio di equilibrio».
Tutto questo non faceva dimenticare a De Gasperi che sul versante vaticano c’era qualche problema. Si premurava infatti non solo di tornare sul tema della battaglia in difesa della «civiltà italica e cristiana», ma di affrontare espressamente la questione del posto per la religione, sia pure prendendo a spunto la legislazione francese sul matrimonio civile e il divorzio.
Dunque si cercava di dare assicurazioni alla sponda ecclesiastica, ma al tempo stesso di marcare qualche confine. L’atteggiamento non era particolarmente apprezzato in Vaticano, come il direttore padre Martegani riferì alla Consulta de «La Civiltà cattolica», e soprattutto non dava fiducia: oggi sappiamo da due documenti che agli inizi di maggio si tentò, attraverso il rappresentante speciale del presidente statunitense in Vaticano, Myron Taylor, di far presente agli alleati che «sarebbe opportuno rimandare il referendum».
Come si vede, De Gasperi affrontava il problema costituente dal punto di vista del leader di partito che guarda alla Costituzione da scrivere come strumento per garantire l’equilibrio politico e alla costituente come un corpo politico per legittimare il passaggio di regime.
Diversa la prospettiva in cui si muoveva la ‘seconda generazione’, cioè quei cattolici che non avendo conosciuto l’esperienza del cattolicesimo politico del Ppi e dintorni si avvicinavano all’esperienza costituente con l’obiettivo di contribuire a scrivere una pagina nuova del sistema di organizzazione politica del paese.
Se prendiamo a titolo di esempio la conferenza che Giuseppe Dossetti tenne a Reggio Emilia il 18 maggio 1946 al Teatro municipale presentando le sue tesi sulla Costituente, vedremo rivendicati come caposaldi del programma Dc «repubblica democratica, profonda e pronta riforma economico e sociale», cioè «trasformazione della struttura industriale, nazionalizzazione delle grandi industrie monopolistiche, consigli di gestione, […] abolizione del latifondo […] riforma finanziaria, energici provvedimenti fiscali […] imposta straordinaria sui grandi patrimoni». Il leader reggiano negava che questo fosse il programma delle sinistre, rivendicandolo invece come un aggiornamento e ripensamento del «vecchio programma sociale dei cattolici».
Per Dossetti si dovevano mettere insieme la democrazia politica, la democrazia economica e la democrazia morale in quella che egli chiamava una «democrazia integrale». Nella democrazia politica propugnava, contro il monocameralismo delle sinistre, «una seconda Camera, pure elettiva, che rappresenti comunità locali, regioni, sindacati, ecc., organizzazioni tutte che debbono avere una reale autonomia perché il cittadino non sia isolato di fronte allo Stato e quindi da esso soffocato, ma tra cittadini e Stato ci siano delle realtà intermedie, non semplicemente riconosciute o tollerate dallo Stato accentratore, ma operanti a salvaguardia di una vera libertà politica». Quanto alla democrazia economica, sulla scorta di quanto andava elaborando il suo amico Amintore Fanfani, difendeva la volontà di «mantenere e potenziare quella proprietà che è frutto onesto del lavoro, difesa contro lo schiacciante abuso dello Stato», ma affermava al tempo stesso la necessità di «distruggere le grandi proprietà». Infine per democrazia morale chiariva doversi intendere quel complesso di norme che garantivano «il rispetto di quelle libertà di religione, di stampa, di scuola, ecc.» la cui tutela andava allargata dalla sfera dei singoli a quella delle organizzazioni8.
Naturalmente l’elaborazione di un pensiero forte sul momento costituente era andato oltre il semplice gruppo dei seguaci di Dossetti, anche se essi avevano assunto ben presto una posizione di leadership in questo mondo. Un po’ tutto l’universo dell’associazionismo cattolico si era mobilitato a sostegno del partito dell’unità politica dei cattolici e dell’avventura costituente che lo aspettava, e questo sin da quando si era prospettata quella eventualità.
Lo si vide precocemente nella XIX settimana sociale dei cattolici italiani che si tenne a Firenze dal 22 al 28 ottobre 1945 sul significativo tema: Costituzione e costituente. A essa intervennero tanto gli uomini che ormai cominciavano a far capo al cenacolo dossettiano e che avevano cominciato a riflettere sul tema dello ‘Stato nuovo’ nella temperie del 1943-1944 (sino a stendere, si narra, un documento propositivo per una futura costituzione che poi Dossetti avrebbe smarrito durante la sua partecipazione alle attività della resistenza), quanto alcuni esponenti del vertice Dc a cominciare da Alcide De Gasperi, e infine un autorevole scrittore de «La Civiltà cattolica», il padre Antonio Messineo, che rappresentava una tendenza non certo progressista. Si noti che questo oratore sostenne in quella occasione che per l’affermazione della sovranità popolare era necessario il referendum istituzionale, solo strumento veramente democratico, poiché i partiti erano strutture che in qualche modo mortificavano la libera espressione popolare. Sappiamo da una serie di fonti che negli ambienti vaticani non era forte solo il timore di una egemonia delle sinistre, ma anche quello di una vittoria repubblicana che le avrebbe favorite. Anzi sappiamo che ambienti vaticani, di cui iGesuiti de «La Civiltà cattolica» costituivano la punta di diamante, avrebbero voluto prendere direttamente la guida del momento costituente per giungere ad una carta di netta impronta confessionale. I padri redattori della rivista avevano anche stilato, a loro dire su richiesta del pontefice, ben tre progetti di costituzione, uno come «programma desiderabile», uno come «programma accettabile (medio)», uno come «programma non accettabile dalla Santa Sede – Minimo assoluto cui i cattolici potrebbero per sé collaborare».
I testi, giuridicamente poco brillanti e poco informati dello stato di sviluppo della giuspubblicistica, erano stati trasmessi il 25 ottobre 1946 al principe Carlo Pacelli, fratello del pontefice e una delle anime nere del cosiddetto ‘partito romano’ (il gruppo del cattolicesimo conservatore integralista), ma con l’avvertenza che non si sapeva se fosse opportuno «far conoscere il limite stremo cui potrebbe giungere, in linea di principio, astrattamente, la concessione da parte cattolica. Se non si corra, cioè, il rischio, in persone di non sicura fede, di indurre il falso concetto che dal momento che fin là può giungere un cattolico, salva l’ortodossia, non si possano abbandonare senz’altro le posizioni più vantaggiose»9. A testimonianza di quanto questi testi venissero poco considerati in Vaticano, si tenga conto che mons. Dell’Acqua, che alla Segreteria di Stato era personaggio assai legato a Pio XII, in una nota li giudicava velatamente, ma in maniera tale che si capisse il messaggio, eccessivi e troppo clericali. È invece interessante la notazione per cui ci si proponeva di farlo conoscere solo in parte a Dossetti e a Meuccio Ruini, confermando che la Santa Sede in materia di influenza sulla Costituente (cioè ormai sulla commissione dei Settantacinque, incaricata di redigere la bozza del testo), giocava su due tavoli.
Sta di fatto che questa situazione di concorrenza di autorità nella pretesa di esprimere la linea ufficiale della Chiesa avrebbe portato non pochi problemi alla presenza cattolica in Assemblea costituente. Come si vide chiaramente nella campagna elettorale, la attività di agguerriti movimenti di Ac che sognavano la restaurazione di una egemonia cattolica (era il caso, pur anch’esso non privo di ambiguità, delle organizzazioni giovanili guidate da Luigi Gedda) e alcune tendenze ‘revanchiste’ presenti nella dirigenza vaticana, imposero nell’agenda politica alcuni temi peculiari che non era certo semplice poi eludere. Essi sono noti: si parte dalla richiesta di conferma dei patti Lateranensi e ci si estende poi alla richiesta di difesa dell’istituto familiare contro ogni ipotesi di introduzione del divorzio, della scuola cattolica e in genere della necessità di salvaguardare uno statuto speciale alla religione cattolica in quanto unica religione «vera». «L’Osservatore romano», iniziò a pubblicare dal 1 aprile 1946 una apposita rubrica intitolata Verso la Costituente, ma soprattutto la rivista dei Gesuiti si assunse il compito di indicare una serie di limiti all’azione ipotetica della futura assemblea, memore forse della tentazione di onnipotenza che indubbiamente assemblee di questa natura avevano altre volte avuto nella storia.
Un intervento assai interessante venne dai Gesuiti de «La Civiltà cattolica». Padre Antonio Messineo pubblicò ben tre articoli sulla questione del «potere costituente», poi raccolti in volume. Il gesuita si poneva subito il problema se «il pensiero cattolico [potesse] riconciliarsi con la sovranità popolare» e, respinta l’idea che essa potesse significare «la tirannia della maggioranza», la accettava «purché per popolo si intenda l’intero organismo sociale, scompaginato in ente politico e non in pulviscolo di individui, e per sovranità popolare il potere originario che la collettività possiede di provvedere alla propria vita, creando istituzioni adatte al suo ordinato svolgimento […]. Accettati tali correttivi, […] possiamo anche noi dichiararci fautori della sovranità popolare»10.
Si può capire che con un simile retroterra il compito dei costituenti espressi dal partito cattolico non sarebbe stato agevole. Aggiungiamo che la stessaAc aveva diffuso una circolare, L’Azione Cattolica italiana di fronte alla Costituente, in cui venivano elencati le richieste indirizzate alla futura Assemblea.
«1. Apertura della carta costituzionale con una invocazione a Dio “come atto di fede nazionale”; 2. inviolabile rispetto della persona umana “come la religione, la filosofia e la sociologia cristiana la intendono”; 3. considerazione del carattere speciale della religione cattolica “elemento essenziale e primario del carattere della civiltà e della grandezza della nazione”; 4. Accettazione dei patti Lateranensi; 5. Difesa della famiglia e riconoscimento degli effetti civili del matrimonio religioso; 6. libertà della scuola “conforme alla tradizione cristiana del paese”; 7. garanzia della proprietà privata; 8. dichiarazione della funzione sociale della ricchezza; 9. affermazione del principio della cooperazione fra capitale e lavoro; 10. adeguate provvidenze che assicurino la pace e la cooperazione interna consentendo a tutti l’accesso i livelli superiori; 11. ripudio della guerra».
Non si trattava certo di richieste di poco conto e la Dc aveva i suoi problemi sia ad accoglierle integralmente, sia a distanziarsi da esse.
Fu il 15 luglio del 1946 che la Giunta per il regolamento propose la costituzione di una speciale commissione di 75 membri che avesse come compito la «elaborazione, redazione e presentazione» di un progetto diCarta costituzionale, constatando che un dibattito a tutto campo tra i 556 membri dell’Assemblea sarebbe stato semplicemente ingestibile. Nella commissione, la scelta dei cui componenti fu delegata al presidente dell’AssembleaSaragat che doveva tenere conto dei rapporti proporzionali fra i gruppi, il partito cattolico ebbe 25 membri, molti dei quali però non giocarono che un ruolo marginale11. Alla Dc toccò una delle vicepresidenze della Commissione (presidente era stato eletto Meuccio Ruini) nella persona di Umberto Tupini, un membro influente della vecchia guardia popolare, che godeva di un buon rapporto con De Gasperi.
Tuttavia, sin dall’inizio ad imporsi nei lavori come leader della componente cattolica fu un «giovane», il trentatreenne Giuseppe Dossetti, al momento professore di diritto canonico all’Università di Modena. Fu certamente il suo carisma personale ad affidargli quella posizione, che non gli derivava né dalla sua storia passata, per quanto niente affatto banale (essendo stato il presidente del Comitato di liberazione nazionale di Reggio Emilia e per un periodo uno dei vicesegretari nazionali della Dc), né dalla sua attuale posizione nel partito (per quanto rientrato in Direzione, era reduce da uno scontro piuttosto aspro con De Gasperi sulla questione del referendum istituzionale e sospettato di voler fondare una sua «corrente»). Il fondamento di questa posizione non poteva neppure essere ricercato sul versante dei movimenti di Ac: altri erano ben più titolati di lui su questo terreno (Aldo Moro era presidente del Movimento laureati cattolici ed ex dirigente degli universitari cattolici, mentreDossetti non aveva mai avuto alcun incarico di anche minimo rilievo). Dunque la sua posizione gli sarebbe derivata dal combinarsi di due fattori, pressoché unici all’interno del gruppo democristiano.
Il primo è dato dalla sua notevole capacità di organizzazione procedurale dei lavori: sin dalla prima effettiva riunione di lavoro della commissione dei 75, il 23 luglio 1946, fu lui a proporre una «mozione d’ordine» che segnasse il piano di lavoro: approvata il giorno seguente, essa prevedeva l’articolazione in tre sottocommissioni, la prima sui diritti e doveri dei cittadini («tranne gli economici»), la seconda sull’organizzazione costituzionale dello Stato, la terza sui diritti e doveri nel campo economico e sociale. Lo schema riproponeva alcune direttive di lavoro già adottate dalla «commissione Forti» incaricata di predisporre lavori preparatori prima della convocazione dell’Assemblea, ma in quel momento era accettato come una iniziativa di Dossetti. È possibile che proprio questa dote gli sia anche valsa l’attenzione del conterraneo presidente Ruini.
Il secondo fattore è costituito dalla sua capacità di leadership che gli aveva già consentito di organizzare in qualche modo intorno a sé un gruppo in cui si riconoscevano, per restare ai membri della Commissione, La Pira,Fanfani, Moro e, sia pure in misura più sfumata, Mortati. Questo gli permise l’organizzazione di un certo gioco di squadra estremamente importante nei lavori di una commissione parlamentare.
Capacità organizzativa e gioco di squadra continuarono a espletarsi nella prima sottocommissione, cui per la Dc parteciparono oltreDossetti, La Pira e Moro, anche Tupini, Corsanego e Umberto Merlin. Fu La Pira infatti a esordire chiedendo di «definire un sistema integrale organico dei diritti della persona e dei diritti degli enti sociali – compresi quelli economici – in cui la persona si espande», rinviando come modelli alla Costituzione Sovietica e a quella di Weimar, mentre suggeriva di «differenziarsi dal progetto francese [anche in Francia si stava lavorando in una Assemblea costituente] che riecheggia il tipo di Costituzione dell’89 che ritiene debba essere da tutti respinto».
Dossetti intervenne proponendo una commissione che formulasse un indice dei lavori. Essa fu formata da Basso, Cevolotto e Moro, il quale, illustrando l’ampio schema che questa aveva prodotto, insistette sull’importanza di inserire delle dichiarazioni di principio, perché «una costituzione deve avere valore di insegnamento per il popolo. Queste dichiarazioni di principio dovrebbero corrispondere all’orientamento antifascista che è comune a tutti i membri della Commissione».
Come si vede, vennero posti sin dall’inizio i due temi che il gruppo dossettiano riteneva fondamentali e che, solo in parte, rispondevano alle esigenze prospettate dalla Santa Sede e dai movimenti di Ac: la necessità di scrivere una Costituzione innervata di dichiarazioni di principio che superasse l’impianto del liberalismo classico e l’ancoraggio di questo testo alla prospettiva dell’antifascismo.
Qualche rilievo si deve fare sui due punti, che sono realmente importanti. Il primo rinviava a una lunga diatriba presente nella vicenda del cattolicesimo politico, ed era la sua polemica col liberalismo, identificato soprattutto nella rivoluzione francese e nei principi del 1789. Riproponendolo, i dossettiani si muovevano nell’alveo di una tradizione consolidata, ma al tempo stesso la ribaltavano con il riferimento allo sviluppo del pensiero costituzionale del primo Novecento, esemplificato nelle Costituzioni sovietica e di Weimar (che in realtà erano, da molti punti di vista, figlie del 1789). Ciò si saldava col discorso dell’antifascismo, che non significava semplicemente rifarsi all’esperienza resistenziale, pur ritenuta importante, ma a tutta la dinamica politica europea degli anni Trenta e Quaranta, che aveva visto la reinserzione del pensiero cattolico, specie francese, nella più generale vicenda politica, con la riconquista di una posizione di presenza paritaria e interattiva con le altre culture, posizione che esso aveva di fatto perduto dopo le crisi di metà Ottocento.
Con queste prime azioni il gruppo dossettiano guadagnò una posizione dominante nella prima sottocommissione, che si sarebbe rivelata come un momento chiave nell’elaborazione della futura Carta. Quando Dossetti propose di elaborare «uno schema molto sintetico, che non pregiudichi le definitive soluzioni, nel quale distinguerebbe una prima parte, l’uomo e il cittadino, come titolo generale, comprendente tre capitoli: i rapporti civili, i rapporti sociali ed economici, ed i rapporti culturali; una seconda parte sulla famiglia ed una terza parte sullo stato e sull’ordinamento giuridico», non solo trovò l’assenso della sottocommissione, ma costruì un ulteriore momento di sviluppo della sua strategia. Infatti, accettato il principio di avere due relatori per ognuno degli argomenti proposti, La Pira con Basso fu designato per i principi dei rapporti civili, Moro conConcetto Marchesi per quelli dei rapporti sociali e culturali, Dossetti con Cevolotto per la questione dello Stato come ordinamento giuridico («rapporti con gli altri ordinamenti: internazionali ed ecclesiastico»). Altri due democristiani parteciparono a questo schema di lavoro: Umberto Merlin (con Mancini) per i principi dei rapporti politici, e Camillo Corsanego (uomo ben introdotto con le gerarchie come dirigente dell’Ac) per il delicatissimo tema della famiglia (con Nilde Iotti).
La posizione particolarmente autorevole di Dossetti nei lavori della Costituente, significa che egli godeva in qualche misura di un’importante investitura informale. Non solo veniva considerato referente autorevole da personaggi come Togliatti e Basso, certo non accusabili di ingenuità politiche, ma la stessa direzione del partito lo lasciava agire nonostante la durezza della sua contestazione alla leadership degasperiana (e questi non era uomo da compiacersi di contrapposizioni nei suoi confronti). Da chi proveniva dunque la ‘copertura politica’ di cui godeva il «professorino» di Reggio Emilia? La sola risposta possibile è che questa venisse direttamente da ambienti del Vaticano, pur non essendo chiaro se si trattasse della positiva valutazione di una posizione di vivace leadership intellettuale cattolica che veniva dalla Segreteria di Stato (il sostituto monsignor Montini, monsignor Dell’Acqua; in parte lo stesso monsignor Tardini) o di un più alto avvallo. Certo, la situazione è difficilmente valutabile: la stampa cattolica, che può essere considerata entro certi limiti un termometro degli umori delle gerarchie vaticane, era oscillante nella valutazione dell’apporto dossettiano: ad una apertura di settori molto qualificati (i movimenti intellettuali di Ac) corrispondeva grande cautela nella stampa a diffusione più generale, che se dava risalto ai lavori parlava piuttosto genericamente di apporti cattolici senza sottolineare posizioni individuali di particolare rilevanza. In aggiunta, i padri de «La Civiltà cattolica» non di rado mettevano riservatamente in guardia contro presunti cedimenti dossettiani eDe Gasperi non si trattenne in qualche occasione dall’avvallare queste posizioni.
Ma, al di là di questo, rimane il fatto che in Segreteria di Stato si era impressionati per la capacità di intervento di Dossetti e dei suoi amici e per la sua abilità politica, che del resto il leader reggiano usava anche verso i suoi interlocutori di Oltretevere, facendo spesso credere loro di seguirne gli indirizzi, mentre in realtà glieli rigirava fra le mani.
Dal lato opposto va valutato però cheDossetti e i suoi non intendevano affatto muoversi come corifei delle posizioni del mondo ufficiale cattolico, verso cui erano anche più critici che non verso l’assetto interno dellaDc.
I dossettiani dunque continuarono a tenere la leadership della prima sottocommissione anche alla ripresa dei lavori il 9 settembre, quando si esordì con la presentazione del rapporto di La Pira, che si batteva per l’apertura della nuova Carta con una dichiarazione sui diritti, mentre, come è noto, vi era fra i giuristi una forte corrente di pensiero che riteneva questo tipo di premesse come scarsamente significative nel contesto del Novecento.
Il punto di partenza di La Pira era invece che fosse necessaria, dopo «la dura esperienza dello stato totalitario, il quale non si limitò a violare questo o quel diritto fondamentale dell’uomo: negò in radice l’esistenza di diritti originari dell’uomo anteriori allo stato», un’affermazione «metagiuridica e metapolitica dei valori della persona». Proponeva pertanto la costruzione di un «sistema integrale» di diritti che non si limitasse ai soggetti individuali, ma comprendesse quelle che definiva «comunità naturali», cioè «comunità familiare, comunità religiosa, comunità di lavoro, comunità locale, comunità nazionale».
Movendo da questi presupposti, La Pira sviluppò la tesi che fossero gli status sociali forniti dalle comunità naturali ai singoli a «fondare la struttura costituzionale dello stato»: proponeva così una dottrina di «pluralismo giuridico», termine poi impiegato anche daDossetti e da Moro.
La discussione su questa impostazione fu vivacissima, perché le tesi del costituente fiorentino erano certamente inconsuete, maDossetti si affrettò a presentarle come frutto della «ideologia comune a tutti», che era l’antifascismo, richiamando un accordo raggiunto in tema di pluralismo da «tutto il pensiero moderno, anche quello che potrebbe essere vicino alle ispirazioni dell’on. Togliatti». Anche Moro intervenne a sostegno dell’impostazione di La Pira, non solo per ragioni pedagogiche («la funzione educativa che deve esercitare la costituzione»), ma anche per un fine di indirizzo politico. «Non si tratta di limitare il potere esecutivo soltanto, si tratta di limitare anche il potere legislativo di fronte a determinate aberrazioni».
A conclusione di questa importante fase del dibattito costituente (sedute del 1 e 2 ottobre), La Pira propose un articolo di indirizzo che suonava in questo modo: «Tutte le libertà garantite dalla presente costituzione devono essere esercitate per il perfezionamento integrale della persona umana, in armonia con le esigenze della solidarietà sociale ed in modo da permettere l’incremento del regime democratico, mediante la sempre più attiva e cosciente partecipazione di tutti alla gestione della cosa pubblica».
La proposta suscitò una vivacissima reazione da parte della destra e un contrasto anche con gli altri democristiani (Merlin, Corsanego e Tupini): per quanto difesa strenuamente da Dossetti e da Moro, essa alla fine sarebbe stata lasciata cadere.
Ciò che interessa rilevare è come qui si assista ad una peculiare declinazione della tradizione del cattolicesimo politico: sebbene alcuni temi siano comuni con la tradizione oppositiva del pensiero cattolico all’evoluzione dello Stato liberale, ora la declinazione che ne offrono i dossettiani si inserisce nell’alveo del nuovo pensiero politico che si è sviluppato fra le due guerre, in gran parte anche nella nuova sensibilità verso lo «stato sociale».
Non è qui ovviamente possibile seguire l’impegnativo lavoro che questo gruppo svolse all’interno della prima sottocommissione: si è dato spazio alla relazione di La Pira per il suo ovvio carattere ‘programmatico’; prenderemo in considerazione ora alcuni altri passaggi egualmente importanti.
Un posto a sé occupa la relazione di Moro sui «rapporti sociali (culturali)», perché conteneva la difesa non solo dell’insegnamento religioso obbligatorio nella scuola pubblica, ma anche la difesa della scuola cattolica. Il costituente pugliese cercò di muoversi con tatto, per evitare un urto con la parte laica, ma prestò il fianco agli attacchi dell’on. Lucifero (monarchico-liberale) che lo accusava di cercare il compromesso coi comunisti: un’accusa che Dossetti respinse con sdegno ricordando di avere dato a qualsiasi articolo votato una «approvazione convinta» al di là di qualunque negoziato. Tuttavia va anche menzionato che proposte di accordo avanzate dalla sinistra in accoglimento di tesi dossettiane, che mettevano le proposte ecclesiastiche in forme più accettabili, furono in seguito lasciate cadere dal gruppo perché i suoi membri rilevarono di essere stati su questi punti scavalcati dalle pressioni esterne.
A dare comunque il polso della situazione venne il dibattito sulla questione della famiglia, altro tema che il Vaticano e la stampa cattolica avevano posto come non negoziabile. Qui la relazione era affidata a Camillo Corsanego, ma lo sforzo di tutti i dossettiani fu di cercare una fondazione delle pretese ecclesiastiche in termini storici e razionali. Ma veniamo ora a quello che era indubbiamente il tema più delicato con cui doveva misurasi la delegazione cattolica alla Costituente: la questione della ricezione dei Patti Lateranensi.
Su questo punto la Santa Sede non intendeva transigere. Si poneva dunque per il gruppo dossettiano il problema di arrivare a un sostanziale accoglimento di questa pretesa, senza però accettare il principio su cui la Santa Sede pretendeva di fondarlo: il principio pacta sunt servanda, che implicava il riconoscimento della continuità storica fra lo Stato fascista e il nuovo Stato repubblicano. Come vedremo Dossetti costruì in questo caso il suo capolavoro giuridico, anche se finì sconfitto dalla logica politica.
Nella prima fase il leader reggiano scelse di tentare un inquadramento della questione in un contesto complessivo che ridimensionasse e rinnovasse la questione concordataria: nei termini proposti daDossetti essa non aveva più, dal punto di vista della teoria politica, alcun legame coi sistemi giuridici precedenti, né quello liberale, né quello fascista. Anziché presentare una relazione,Dossetti presentò un progetto in 11 articoli commentati, sette con il titolo Lo stato come ordinamento giuridico e i suoi rapporti con gli altri ordinamenti, quattro con il titolo Libertà di opinione, di coscienza e di culto.
Riprendendo l’impostazione di La Pira, il primo articolo definiva «la funzione giuridica e politica dello stato» come ente di secondo livello, il quale «protegge, favorisce, coordina e, dove occorra, integra» le forme di vita sociale. «Norma cardine di tutto il sistema» era la seguente: «La sovranità dello stato si esplica nei limiti dell’ordinamento giuridico costituito dalla presente costituzione e dalle altre leggi ad essa conformi». Seguiva un articolo, modestamente presentato come «abituale principio» e «logico corollario»: «La resistenza, individuale e collettiva, agli atti dei pubblici poteri che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino».
Questi articoli non trovarono alcuna risonanza, poiché vennero letti come preamboli all’articolo 4, dove si affermava che lo Stato si riconosceva membro della comunità internazionale e riconosceva «come originari l’ordinamento giuridico internazionale, gli ordinamenti degli altri stati e l’ordinamento della chiesa». Seguiva l’articolo 5 che prevedeva la «rinunzia alla guerra come strumento di conquista o di offesa alla libertà di altri popoli», per arrivare all’articolo 6 che recitava: «Le norme di diritto internazionale, come gli accordi attualmente in vigore fra lo stato e la chiesa, e gli altri che, eventualmente, secondo modalità previste dalla presente costituzione, venissero stipulati in avvenire, fanno parte dell’ordinamento dello stato senza che occorra emanarle con apposito atto. Le leggi dello stato non possono contraddirvi».
Dossetti aveva però inserito un ulteriore comma che non poteva passare senza contrasti. «Fermi restando i principi della libertà di coscienza e dell’eguaglianza religiosa dei cittadini, la religione cattolica – religione della quasi totalità del popolo italiano – è la religione dello stato. Le relazioni fra lo Stato italiano e la chiesa cattolica restano regolate dagli accordi lateranensi».
Alla fine non restò in piedi quasi nulla dell’originaria impostazione dossettiana. Si tratta di uno dei passaggi più tormentati della intera discussione: apertasi il 21 novembre con la presentazione della proposta Dossetti, la discussione si chiuse, fra intervalli e rinvii, l’11 dicembre. A parte qualche passaggio sulla materia delle relazioni internazionali, il progetto Dossetti fu scompaginato dall’azione dello stesso presidente democristiano della sottocommissione, Umberto Tupini, che alla fine si fece promotore direttamente di quello che sarebbe stato il testo finale: «Lo Stato e la Chiesa Cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi».
Oggi sappiamo che dietro quella formula finale ci fu un intervento diretto del Vaticano e che il primo comma, che riproduce una famosa formula diLeone XIII, fu steso da La Pira in accordo con monsignor Montini in segreteria di Stato. È tuttavia significativo che fosse Tupini, sempre meno disponibile a lasciare spazi ai dossettiani, a farsene promotore (quasi a sottolineare l’impegno del vertice degasperiano in quella direzione) e che Dossetti si astenesse dall’operazione (passata peraltro di misura: 10 voti contro 7). Egli votò anche contro un emendamento Lucifero che prevedeva il non ricorso al procedimento di revisione costituzionale per modifiche dei patti (anche questo passato di stretta misura: 8 a favore e 7 contrari): evidentemente il leader reggiano non voleva accettare che per questa via si introducesse una costituzionalizzazione surrettizia dei patti che egli rifiutava (e l’avrebbe detto poi pubblicamente in Aula).
Come si è visto, la presenza nella prima sottocommissione è essenziale per capire l’apporto del cattolicesimo politico italiano alla nostraCarta costituzionale. Assai più problematica è la valutazione della presenza degli esperti democristiani nelle altre due sottocommissioni.
Il caso più complesso è quello della seconda sottocommissione, che si occupava dell’ordinamento dello Stato. Qui le figure dominanti furono quelle diCostantino Mortati e, sebbene in misura minore, di Egidio Tosato. Relazioni importanti vennero tenute anche da Giovanni Leone e daGaspare Ambrosini. Si trattava in tutti i casi di giuristi già affermati, e per di più, nel caso di Mortati, di un personaggio che aveva giocato un ruolo non certo marginale nel pensiero giuspubblicistico degli anni Trenta come esponente del dibattito costituzionale interno al fascismo. È vero che egli aveva aderito alla Democrazia cristiana nell’ultima fase della Resistenza ed era stato poi introdotto daDossetti come esperto costituzionale in vari contesti, ma è anche vero che il suo pensiero costituzionale, originale, forte e di sicura presa, non aveva molto a che fare con il retroterra del pensiero cattolico, quanto piuttosto con il vivace dibattito giuspubblicistico internazionale della prima metà del Novecento.
Mortati legò il suo nome nel lavoro alla Costituente soprattutto alla sua relazione su Il potere legislativo, sebbene sia poi stato attivo in molte occasioni del dibattito costituzionale, sempre intervenendo con molta puntualità. In quella occasione egli svolse in realtà una complessa relazione che abbracciava tutti i problemi chiave del sistema politico da costruire, soprattutto sotto il profilo delle forme giuridiche che potevano assicurargli la stabilità. La sua preoccupazione fondamentale era di trovare una formula per unire i pregi dei regimi presidenziali (che traevano dall’elezione diretta del vertice rappresentativo un’indubbia stabilità) con quelli dei regimi «direttoriali», cioè di quei regimi dove la sede reale del potere politico era posta in organismi della rappresentanza concorrenti, ma a loro modo stabili nel tempo (in pratica, i moderni partiti politici). L’ulteriore problema era come si potesse combinare questo con un regime parlamentare, quale era quello verso cui inclinava la restaurata tradizione italiana, ma che già una volta aveva manifestato le sue debolezze.
Il disegno presentato in questo intervento era molto complesso e articolato. Presentava una acuta interpretazione del travaglio del costituzionalismo europeo delle due guerre, ma avanzava al tempo stesso soluzioni interessanti e innovative per il dibattito italiano, sia dando forma rigorosa a questioni storiche del movimento cattolico (come era il caso del regionalismo), sia intervenendo sulla spinosa questione del bicameralismo, con un tentativo di delineare un senato su base rappresentativa in parte regionale e in parte «corporativa».
L’impostazione di Mortati, assai coraggiosa, ma anche tecnicamente complessa e di non facile ricezione da un corpo politico che aveva molte incertezze, se non paure, circa l’evolversi del futuro, non ebbe, come è noto, molta fortuna. La discussione fu troncata da un ordine del giorno dell’on. Perassi che suonava: «La seconda Sottocommissione, udite le relazioni degli onorevoli Mortati e Conti, ritenuto che né il tipo del governo presidenziale, né quello del governo direttoriale risponderebbero alle esigenze della società italiana, si pronuncia per l’adozione del sistema parlamentare, da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo».
Egidio Tosato intervenne esplicitamente sul problema de Il capo dello stato e il governo, dopo l’approvazione di questo ordine del giorno e dunque tenendo ormai conto della direzione verso cui si voleva marciare. In quest’ottica propose una costruzione che, a suo giudizio, garantisse «che il Governo governi e non si trasformi in una commissione parlamentare», senza tuttavia riuscire a trovare una soluzione adeguata, anche perché nel sistema italiano mancava quella che i costituzionalisti dell’epoca consideravano come la condizione ideale per il governo parlamentare, cioè l’esistenza di due soli partiti, entrambi egualmente legittimati a governare.
Qualcosa di simile può essere detto per la questione del Presidente della Repubblica, che avrebbe dovuto essere il garante contro il fatto che «il governo parlamentare degeneri nella forma di governo di assemblea», ma che poi non si sapeva bene come attrezzare per far fronte a questo compito. Per far sì «che il Capo dello Stato non sia né troppo debole, né troppo forte», Tosato si limitava a consigliare che l’Assemblea nazionale da cui sarebbe stato eletto non fosse formata dai soli parlamentari delle due camere, ma fosse integrata dai presidenti delle Assemblee regionali.
Un altro intervento importante svolto in sede di seconda sottocommissione da un costituente democristiano, fu quello di Giovanni Leone, già allora illustre avvocato penalista e docente universitario, che si occupava di Potere giudiziario e corte di garanzia costituzionali. Anche qui la parte politicamente più rilevante è quella riferita alla Corte costituzionale, il cui schema è preso dalla costituzione austriaca del primo dopoguerra (ne era stato ispiratore Hans Kelsen): questa sarebbe stata una proposta destinata alla fine a essere recepita dal testo, benché incontrasse diffuse ostilità durante la discussione in Assemblea, da quelle di un maestro della giuspubblicistica del peso di Vittorio Emanuele Orlando a quelle di vari esponenti della sinistra che non tolleravano un sindacato di fatto sull’attività svolta da un Parlamento, il quale traeva i suoi poteri dall’investitura della sovranità popolare.
Come si è potuto vedere, sin qui ci siamo trovati di fronte a proposte tecniche che non si possono propriamente definire come patrimonio del pensiero politico cattolico. Fu senz’altro rimarchevole che laDc avesse scelto di portare in Parlamento alcuni costituzionalisti e giuristi affermati (e si tenga conto che l’operazione fu tentata anche con Antonio Amorth, che però non riuscì a essere eletto), ma è una questione aperta quanto queste proposte ricevessero un reale appoggio politico dai vertici del partito o comunque provenissero da discussioni diffuse. L’impressione è che in realtà si trattasse di questioni «strettamente professionali» per quel che riguardava il dibattito, mentre alla fine, nella traduzione in articolato, riaffioravano le preoccupazioni dei «politici di professione», quando non le più tradizionali interpretazioni del costituzionalismo prefascista.
L’unico fra i giuristi coinvolti dallaDc che abbia esercitato nella seconda sottocommissione un ruolo ben inserito nelle tematiche tradizionali del movimento politico cattolico fu Gaspare Ambrosini, che redasse la relazione sulle Autonomie regionali. Questo costituzionalista, che era in contatto con Sturzo (un campione dell’ideologia regionalista) e che si era occupato anche dello Statuto regionale siciliano, approvato prima dei lavori della Costituente, doveva trovare il modo di far passare un concetto che non solo aveva contro una cospicua tradizione storica di centralismo, ma che era inviso anche alle sinistre (tanto Nenni quanto Togliatti parleranno contro di esso in sede di intervento generale sul progetto di costituzione). Da una lettura attenta del dotto intervento emerge chiaramente che alla fine l’argomento forte usato per far passare l’idea della ricezione dell’istituto regionale era la constatazione che comunque si erano già costituite almeno tre regioni a statuto speciale: la Sicilia che aveva già un suo «Statuto», la Valle d’Aosta con un suo «ordinamento» e il Trentino-Alto Adige che doveva averlo a seguito degli accordi De Gasperi-Gruber (firmati il 5 settembre 1946). Se dunque esistevano delle regioni a statuto «speciale» (era alle viste anche la Sardegna), diventava impossibile non individuarne una tipologia a statuto «ordinario».
Per completare il quadro sull’apporto dei democratici cristiani alla fase ideativa della nuova Carta rimane da esaminare la loro presenza nella Terza sottocommissione. Qui il personaggio di assoluto rilievo fu Amintore Fanfani; Paolo Emilio Taviani svolse alcuni interventi interessanti su questioni relative ai sindacati nonché una relazione sul Diritto di proprietà e Giuseppe Togni su Assistenza e Previdenza. Fanfani esercitò nella terza sottocommissione il ruolo di Dossetti nella prima: fu lui a proporre lo schema di lavoro con l’elencazione degli argomenti e fu lui ad animare i lavori con una statura intellettuale certamente superiore a quella degli altri membri. Va anche notato che questa sottocommissione fu la meno «impegnata», poiché decise di accelerare molto i propri lavori (il 26 ottobre 1946 li aveva già conclusi) e poiché le assenze e le sostituzioni fra i suoi membri furono continue.
Il costituente di Arezzo, docente di storia economica e studioso di dottrine economiche, era indubbiamente attrezzato per il suo compito, ma si scontrò sia con la vaghezza del tema proposto (che rischiava di essere una mezza via tra l’utopismo e le velleità rivoluzionarie), sia con la difficoltà di calare i temi cari al pensiero sociale cattolico in leggi costituzionali. Va notato che Fanfani fu il solo, fra i dossettiani, a ritenere che la Costituzione avrebbe fatto meglio a evitare di esporsi molto in affermazioni dottrinali e inoltre sostenne da subito che la riforma dello Stato doveva prevedere la necessità di «leggi che accompagnano a mo’ di appendice la Costituzione», cioè «leggi fondamentali […] senza le quali la Costituzione sarebbe un magnifico vestito che non si sa su quale corpo adattare». Anche in questo caso la saggezza della proposta non trovò riscontro nella sensibilità della classe politica italiana.
Quanto al suo lavoro, Fanfani si dimostrò sia realista, sia ambizioso elaboratore di prospettive di intervento sulla scia degli ultimi indirizzi della dottrina sociale cattolica. Per il primo versante si possono ricordare le sue critiche alla relazione del collega Taviani, che aveva riproposto per la riforma agraria (tema allora molto sentito) le consuete tesi contro il latifondo e per la riforma della proprietà agraria: qui il costituente aretino mise in guardia contro lo schematismo di questa interpretazione, che rischiava di «provocare la paralisi totale dell’agricoltura italiana».
Tuttavia i temi portanti degli interventi diFanfani dovevano essere altri e su tutt’altro fronte. Si iniziò con l’occuparsi della questione dei «consigli di gestione», che gli fornisce l’occasione per sottolineare l’importanza del coinvolgimento dei lavoratori nelle dinamiche aziendali, come momento di crescita degli stessi, ma anche come una via d’uscita dall’impostazione del capitalismo classico. Una prospettiva che non trovò alcuna solidarietà: la deputata comunista Teresa Noce gli obiettò duramente che sarebbe solo servito a creare «aristocrazie operaie» che avrebbero rotto la solidarietà di classe.
Seguì un altro famoso intervento in tema di diritto di sciopero, dove Fanfani riconobbe la difficoltà di disciplinare la materia in sede costituzionale e provò a proporre un invito al governo a elaborare una legge apposita che abrogasse fra l’altro i divieti fascisti in merito. Anche in questo caso non si riuscì ad andare oltre la formulazione di un articolo molto generico.
L’intervento più rilevante fu però senza dubbio la sua relazione su Il controllo sociale dell’attività economica. In esso si affrontava la questione, destinata a diventare un cavallo di battaglia nella crisi economica fra il 1949 e il 1951, dell’intervento dello stato nell’economia. Fanfani definiva la sua prospettiva come un’alternativa «tra l’estremo della cosiddetta ‘terza via’ di cui parlano i neo-liberali e l’estremo della ‘pianificazione’ di cui sono fautori non soltanto i collettivisti». Per lui «una società la quale si proponga la piena espansione della persona umana non può ritenere estranea alle proprie preoccupazioni quella di attuare un sistema economico che realizzi la massima efficienza, cioè la massima produzione ai minimi costi».
Il peso della componente democristiana nell’evolversi dell’elaborazione costituzionale avrebbe conosciuto altri due momenti topici: la commissione in seduta plenaria e poi l’aula. I lavori della commissione plenaria in parte si intrecciarono coi lavori delle sottocommissioni e in parte furono dedicati a valutarne i risultati una volta che questi ebbero termine. Nella prima fase, nella famosa riunione del 25 ottobre 1946, si ebbe la presentazione dell’ordine del giorno Bozzi, che in sostanza auspicava la scrittura di una costituzione che fosse, secondo una espressione allora corrente, «senza prediche». Benché Fanfani avesse sottoscritto quel documento,Dossetti vi si oppose duramente, sostenuto da Mortati che fece notare come «la materia costituzionale non può essere predeterminata, ma è qualche cosa che si precisa di volta in volta, secondo gli interessi politici della classe dirigente, che provvede alla compilazione della costituzione».
Il tema sarebbe stato sollevato nuovamente da Calamandrei nella seduta del 28 novembre, e in quella occasione furono La Pira e di nuovo Mortati a sostenere la tesi dell’importanza di conferire al testo costituzionale uno spessore ideologico e programmatico.
Ma ancora una volta il momento cruciale è quando torna in scena l’esame di quello che alla fine sarà l’art. 7 sui rapporti tra lo Stato e la Chiesa. La documentazione d’archivio oggi disponibile ci rende edotti di quanto la Santa Sede avesse investito in quella operazione e di quali condizionamenti avesse posto in capo ai costituenti cattolici. Per esempio abbiamo prove concrete della diffidenza di una parte importante dei vertici vaticani verso l’impostazione assunta da Dossetti e delle pressioni di Gedda e del suo entourage per entrare pesantemente in campo in luogo del partito democratico-cristiano.
Non stupisce dunque che nella seduta della commissione plenaria del 23 gennaio 1946, Dossetti riservi a sé un ruolo quasi di testimone silente, lasciando ad Aldo Moro (e in misura minore aLa Pira) la gestione del delicato dibattito:Moro era un pupillo di mons. Montini e almeno per quel verso contava su una copertura più efficiente. È da rilevare che nella difesa dell’impostazione uscita dalla sottocommissione, Moro farà ricorso prevalentemente ad argomenti «politici»: l’importanza della pacificazione religiosa per l’inserzione delle masse cattoliche nel nuovo Stato democratico e la «occasionalità» della firma di Mussolini sotto quegli atti che erano già maturi prima della presa di potere del fascismo.
Il giorno dopo Fanfani proporrà di inserire nel primo articolo della Costituzione un passaggio che sottolinei «la caratterizzazione della Repubblica con il suo fondamento sul lavoro». Un tema che ebbe una sua importanza nella gestione degli equilibri politici, perché veniva incontro a una domanda delle sinistre, ma evitava la formula, ritenuta «classista», che voleva definire il nuovo Stato «una repubblica di lavoratori». Questa proposta sarebbe poi stata formalizzata nel testo costituzionale definito con un voto dell’aula il 22 marzo 1946, su una proposta sempre di Fanfani, ma sottoscritta anche da Grassi, Moro, Tosato, Bulloni, Ponti e Clerici.
Un ultimo punto assai importante riguarda la discussione del 31 gennaio 1947 sul tema della seconda camera. Si era giunti in questo caso, battuta la proposta tradizionale cattolica di una «camera degli interessi», a immaginare la differenziazione del senato rispetto alla camera nell’origine da diversi sistemi elettorali: proporzionale per la camera, uninominale maggioritario per il senato. Qui Dossetti intervenne con forza, giudicando che «il voto che si sta per dare è uno dei più gravi su cui la Commissione per la Costituzione sia stata chiamata»: sostenuto anche da Fanfani, rigettava l’idea di un ritorno al vecchio notabilato liberale, che era quanto, a suo giudizio, stava dietro questa proposta. Come è noto, anche questa querelle si trascinerà sino al dibattito nell’Aula, dove sarà ancora una volta Dossetti, con un intervento procedurale molto raffinato, a vanificare l’efficacia dei meccanismi maggioritari che comunque alla fine erano stati previsti per il Senato.
La battaglia per la nuova costituzione non si era però affatto esaurita nel lavoro fra commissione e sottocommissioni, come pure all’epoca fu ritenuto da non pochi osservatori. Il dibattito in aula fu importante per molti aspetti, non da ultimo perché fu in questa sede che vennero elaborate le autentiche «strategie di legittimazione» della nuova Carta: un’operazione gestita dai leader dei costituenti della Dc con grande passione, emulati in questa dal solo Togliatti.
Da questo punto di vista il discorso più importante fu senz’altro quello di Giorgio La Pira, tenuto in Aula l’11 marzo 194612. La Pira partiva da quella «letteratura della crisi» che aveva animato il periodo fra le due guerre, ma anche più in generale il passaggio fra il secolo XIX e il XX. Lo faceva per superare, pur riconoscendone gli apporti positivi, tanto le impostazioni liberali derivanti dal 1789 quanto le impostazioni marxiste culminate nella costituzione sovietica del 1936. Il suo punto d’approdo era «la concezione detta dai francesi, con parola molto efficace, la concezione pluralista»: solo a partire da questa si poteva arrivare ad «una carta integrale dei diritti dell’uomo [che] non può essere una carta dei diritti individuali, ma accanto ad essi deve porre questi diritti sociali, e quindi i diritti delle comunità e delle collettività di cui gli uomini fanno parte necessariamente». La Pira si preoccupava però, in polemica con Pietro Nenni, di respingere la tesi che si stesse costruendo un edificio fondato su basi confessionali: la sua proposta era quella di una «costituzione umana», il che non contrastava con la sua fede, secondo il noto principio tomista, espressamente richiamato, gratia non destruit naturam.
I sentimenti espressi da La Pira si ritrovano peraltro anche in interventi di costituenti democristiani che si muovevano su lunghezze d’onda diverse da quelle dei dossettiani. Per esempio Umberto Tupini, nel suo intervento13, parlò sin dall’inizio «del nostro mandato che non esito a definire storico», per aggiungere subito dopo che ci si sentiva «protagonisti di una grande pagina di storia». Per questa ragione l’accettazione della posizione vaticana sui patti Lateranensi premeva tanto ai costituenti cattolici: per dirla con le parole di Tupini, essa «riconsacrerà nel piano democratico la fine del dannoso divorzio tra la coscienza cattolica e la coscienza nazionale del nostro popolo, che nella sua quasi totalità rimane fedele alla religione dei Padri».
Dobbiamo ricordare anche che i maggiori discorsi dei costituenti cattolici non mancavano di far riferimento in negativo all’esperienza fascista e in positivo al suo superamento. L’aveva fatto anche Tupini, ma ad avere parole molte chiare su questo punto fuAldo Moro nel suo intervento del 13 marzo14:
«Non possiamo dimenticare quello che è stato, perché questa costituzione oggi emerge da quella resistenza, da quella lotta, da quella negazione per le quali ci siamo trovati insieme sul fronte della resistenza e della guerra rivoluzionaria ed ora ci troviamo insieme per questo impegno di affermazione dei valori supremi della dignità umana e della vita sociale».
Secondo Moro
«l’effetto giuridico [della nuova Carta] è quello di vincolare il legislatore, di imporre al futuro legislatore di attenersi a questi criteri supremi che sono permanentemente validi. Ciò significa stabilire la superiorità della determinazione in sede di costituzione di fronte alle effimere maggioranze parlamentari. Quando si parla di tante norme che andiamo discutendo e ci si scandalizza che siano norme costituzionali, bisognerebbe dire: ma in fondo questo non significa altro che sottrarle all’effimero gioco di alcune semplici maggioranze parlamentari. Quindi lasciamo che queste norme, che rappresentano i principi dominanti della nostra civiltà e gli indirizzi supremi della nostra futura legislazione, restino in sede giuridica come formulazione di leggi».
A questo punto la parola passava aDossetti15 ed è importante rilevare che il suo sforzo fu quello di ribaltare tutte le tesi dell’intransigentismo cattolico vaticano (senza peraltro mai citarle). Dossetti proponeva la tesi della Chiesa come «ordinamento giuridico originario» (ancorandola a pensatori non ‘religiosi’ come Francesco Ruffini o Santi Romano) e fondava su questa sua natura la necessità di avere con essa rapporti pattizi di natura simile a quelli fra stati nel diritto internazionale (e questo erano i concordati). Avvertiva però anche che un regime di questo tipo tutelava non solo la Chiesa da ingerenze dello Stato, ma anche viceversa.
Il suo sforzo più rilevante era però quello di negare che la menzione dei patti significasse la loro costituzionalizzazione (come invece aveva sostenutoTupini). A questo fine distinse fra norme strumentali e norme materiali, sostenendo che si era in presenza del primo caso e che cioè quel che veniva tutelato dalla Costituzione era ‘l’iter’ di produzione degli accordi tra Stato e Chiesa, e non il contenuto di quei patti. Negava altresì che con l’articolo 1 del Trattato si avesse in Italia uno Stato confessionale, perché ciò costituirebbe «preoccupazione […] anche nostra, se ci fosse un residuo di pericolo al riguardo». Il futuro articolo 7 veniva definito come «una norma che non può essere isolata dalla volontà comune e dall’impegno totale per la edificazione dello Stato nuovo genuinamente e integralmente democratico». Tornava così il tema fondamentale che spiegava quella battaglia:
«Perché non si inserisca in questo momento decisivo (come già alle origini del nostro primo risorgimento) alla base del nuovo edificio quel contrasto interiore, quella riserva che potrebbe impedire a molti di noi, se non di dare la nostra opera e il nostro contributo esteriore, per lo meno di effondere nello sforzo ricostruttivo tutta la nostra interiorità, la porzione più gelosa e più preziosa del nostro spirito».
Come si vede Dossetti tentava di costruire, col suo impegnativo discorso, tanto un risultato che non consentisse al Vaticano di riaprire ferite dolorose che avrebbero distratto le élite cattoliche dall’occasione storica di partecipare alla ricostruzione della democrazia postbellica, quanto una normativa che potesse inserirsi, magari a costo di qualche funambolismo interpretativo, in una logica accettabile dal nuovo contesto.
Il 25 marzo 1947De Gasperi, nell’unico discorso che tenne in Costituente sui temi della Carta16, avrebbe nella sostanza posto la questione in termini più direttamente politici. Con grande franchezza lo statista trentino dichiarò: «Vi aggiungo – ed è l’unico riferimento che faccio alla mia carica di Governo – che io mi sento portato e deciso a votare anche per l’impegno che ho dato, che ho preso, di consolidare, di universalizzare, di vivificare il regime repubblicano».
Ricordava così, un po’ malignamente in verità, che in Italia c’erano preoccupazioni «in gran parte del clero» attribuite a pericoli anticlericali (ma in realtàDe Gasperi alludeva ad atteggiamenti conservatori se non proprio reazionari che sapeva ben diffusi) e che «il Pontificato rimase neutrale, seguendo una linea di saggezza che non sempre in altri paesi fu mantenuta dai rappresentanti ecclesiastici locali». Quando il presidente del Consiglio invitava a non riaprire la «questione romana» aveva in mente uno scenario ben preciso, che conosceva per informazioni dirette.
«Politicamente, comunque la pensiate sul contenuto, è questa la questione che dovete decidere e che di fatto si decide votando sì, non per un emendamento o per l’altro. Votando favorevolmente all’articolo 7, a questa questione rispondiamo sì; votando contro…non siamo noi, egregi colleghi, che apriamo una battaglia politica, ma la aprite voi, o meglio, aprite in questo corpo dilaniato d’Italia una nuova ferita che io non so quando rimarginerà. Auguro presto, ma non so. Evidentemente aggiungiamo ai nostri guai un ulteriore guaio, il quale non può rafforzare il regime repubblicano».
La battaglia per l’articolo 7 è per certi versi emblematica del cuore dell’apporto cattolico alla questione costituente. Il laicato politico si batté in quell’occasione per inserirsi davvero nel nuovo Stato democratico, non rompendo ovviamente con la sua Chiesa (anche solo forme di dissenso manifesto con l’impostazione vaticana erano all’epoca improponibili), ma lavorando perché da un lato non si dessero pretesti a una rottura che non pochi ambienti conservatori dentro e fuori la Chiesa desideravano, e perché dall’altro si arrivasse a una Carta costituzionale capace di registrare quegli sviluppi della sensibilità politica e costituzionale che il cattolicesimo democratico aveva maturato nel periodo fra le due guerre e attraverso la sua partecipazione alla fase resistenziale.
I cattolici ormai lavoravano da protagonisti nel nuovo contesto. Lo si poteva fare come intelligenti gestori della transizione politica a tutela dello sviluppo pacifico del nuovo regime, come scelse di fare De Gasperi, ammaestrato dalle sue osservazioni sulle crisi generate dalle lunghe e tormentate transizioni del primo Novecento; oppure come portatori di una riflessione ideologica (e teologica) maturata nella svolta storica della seconda guerra mondiale, come era per il gruppo ‘dossettiano’ e specialmente per il suo leader.
Rimane che il cattolicesimo politico trasse un forte senso di identità e di orgoglio dalla positività di questa partecipazione. Era stato il laicato che, forse per la prima volta, aveva gestito un’operazione fondamentale senza grandi sponde nell’Oltretevere (per quanto vada valutata la posizione specifica di monsignor Montini, uno dei pochi a capire la portata della sfida, e in parte di monsignor Dell’Acqua): esso era riuscito in quello che era stato il sogno del cattolicesimo politico d’opposizione, cioè riguadagnare una leadership di fronte al mondo moderno. Non è un caso che ad accorgersene fosse uno dei più accesi fautori di quel sogno di riconquista, il padre Agostino Gemelli, rettore della Cattolica, che progressista non era stato e non sarebbe diventato, ma che mostrò un certo qual debole per quella nuova classe dirigente che realizzava quel sogno, nonostante le divergenze teologiche e ideologiche con le sue impostazioni.
Per questo il pensiero politico cattolico fu da subito molto deciso a difendere la ‘positività’ dell’esperimento costituente e del suo risultato. In un paese che quasi immediatamente avrebbe gettato sulla nuova Carta tutte le sue remore, accusandola di compromesso al ribasso, di mercato fra comunisti e cattolici (la famosa battuta sulla Costituzione scritta metà in latino e metà in russo), di incapacità di realizzare qualcosa di «integrale» (fosse questo la rivoluzione proletaria o il regno di Cristo in terra), fu l’impegno del costituzionalismo cattolico a difendere, anche quando venne meno il sostegno di una parte di quella classe politica (ricordiamo la famosa frase di Scelba: «la costituzione non è il Corano»), il risultato raggiunto e a chiedere che ne venissero realizzati i presupposti e valorizzate le potenzialità.
1 C. Colombo, Nel ventennio di un messaggio natalizio, «Vita e Pensiero», 46, 1963, p. 78.
2 Ibidem, pp. 82-83.
3 L. Elia, De Gasperi e la questione istituzionale, in 1945-1946. Le origini della repubblica, II, a cura di G. Monina, Soveria Mannelli 2007, pp. 19-49.
4 G. Sale, Dalla Monarchia alla Repubblica 1943-1946. Santa Sede, cattolici italiani e referendum, Milano 2003, pp. 148-151.
5 De Gasperi scrive. Corrispondenza con capi di stato, cardinali, uomini politici, giornalisti, diplomatici, a cura di M.R. De Gasperi, Brescia 1974, p. 290.
6 Ibidem, p. 291.
7 Per questo aspetto mi permetto di rinviare a P. Pombeni, La Costituente. Un problema storico-politico, Bologna 1995.
8 P. Pombeni, Il gruppo dossettiano e la fondazione della democrazia italiana (1938-1948), Bologna 1978, pp. 221-222.
9 G. Sale, Il Vaticano e la Costituzione, Milano 2008, pp. 181-198.
10 A. Messineo, Il potere costituente, Roma 1946, pp. 34-35.
11 Questi i membri: Gaspare Ambrosiani, Pietro Bulloni, Giuseppe Cappi, Carmelo Caristia, Giuseppe Codacci-Pisanelli, Camillo Corsanego, Luigi Demichele, Francesco Dominedò, Giuseppe Dossetti, Amintore Fanfani, Maria Federici, Giuseppe Fuschini, Giorgio La Pira, Giovanni Leone, Salvatore Mannironi, Umberto Merlin, Aldo Moro, Costantino Mortati, Attilio Piccioni, Giovanni Ponti, Giuseppe Rapelli, Paolo Emilio Taviani, Giuseppe Togni, Egidio Tosato, Umberto Tupini, Ezio Vanoni.
12 I cattolici democratici e la Costituzione, a cura di N. Antonetti, U. De Siervo, F. Malgeri, Bologna 1998, t. III, pp. 1051-1072.
13 Ibidem, pp. 1035-1051.
14 Ibidem, pp. 1073-1083.
15 Ibidem, pp. 1084-1112.
16 Ibidem, pp. 1112-1118.