I combustibili fossili e il loro ruolo nel futuro energetico
Domanda di energia e modelli di sviluppo
Lo scenario che si prospetta nell’evoluzione del sistema economico mondiale è caratterizzato da una costante crescita della domanda di energia, sotto la spinta dell’incremento della popolazione e dello sviluppo. Tutti i settori ne sono influenzati in modo diretto o indiretto: dalla generazione di energia elettrica ai trasporti, dal consumo domestico e civile alla produzione di beni e servizi. Ovviamente, in questo contesto, appare di particolare rilevanza il contributo dei Paesi in via di sviluppo, dove sia la popolazione sia il prodotto interno lordo crescono più della media mondiale: in tali Paesi, quindi, si prevede possa aver origine la maggior parte dei consumi energetici incrementali.
Esaminiamo la questione in termini più precisi. La domanda globale di energia primaria ammontava, nel 2006, a quasi 12 milioni di tonnellate di petrolio equivalenti (Mtep), in larga misura (oltre l’80%) forniti da combustibili fossili, cioè carbone, petrolio, gas naturale (tab. 1). Secondo lo scenario ipotizzato dall’International energy agency (IEA), la domanda di energia salirà nel 2030 a circa 17 Mtep. I combustibili fossili rimarranno largamente dominanti. Oltre il 70% della domanda prevista per il periodo 2008-2030 sarà dovuto ai Paesi in via di sviluppo (Cina, India, Medio Oriente, Africa, America Latina). Circa il 50% di tale domanda di energia riguarderà la generazione di energia elettrica, ma una quota significativa (20%) sarà legata al settore dei trasporti, mentre il rimanente 30% si distribuirà fra industria, servizi e impieghi residenziali.
Ovviamente, previsioni di crescita nella domanda di energia delle dimensioni indicate pongono alcuni ordini di problemi: se la disponibilità di fonti primarie, principalmente fossili, sarà tale da soddisfare la domanda in quantità, qualità e distribuzione; se il progressivo aumento nell’utilizzo di fonti fossili sarà compatibile con uno sviluppo ambientalmente sostenibile; quale ruolo nel futuro panorama potranno giocare altre fonti di energia, come quella nucleare e quelle rinnovabili. In realtà, la prima questione che si pone è se la domanda di energia potrà realmente crescere secondo i modelli predittivi attualmente usati.
Dall’analisi della storia dello sviluppo dei sistemi economici moderni emerge con chiarezza che, a fronte di una crescita progressiva delle economie mondiali e della conseguente domanda globale di energia, si è verificata una progressiva riduzione dell’intensità energetica (quantità di energia impiegata per unità di prodotto interno lordo) grazie all’introduzione di nuove tecnologie e al conseguente impiego più efficiente dell’energia stessa. Questa caratteristica, che contraddistingue l’evoluzione dei primi Paesi industrializzati (Regno Unito, Germania, Stati Uniti), si è successivamente estesa alle economie in via di sviluppo, le quali hanno beneficiato delle migliori tecnologie realizzate dalle economie che le hanno precedute lungo il percorso evolutivo mondiale (leapfrogging effect).
Nella fase più recente dell’evoluzione delle economie a più elevato grado di sviluppo, al fenomeno della riduzione dell’intensità energetica, si è sovrapposto un progressivo spostamento della composizione dei consumi, con una significativa riduzione del peso delle attività industriali, a elevata intensità energetica, e un incremento di domanda di servizi, con le caratteristiche dei beni di consumo (usi residenziali civili e commerciali, sistemi di trasporto) a minore intensità energetica. Esiste tuttavia il rischio di sovrastimare le prospettive di risparmio energetico se non si tiene conto di un ulteriore elemento di variabilità: l’effetto di rimbalzo sulla domanda di energia (take back effect, maggiore predisposizione al consumo) che si verifica quando i costi dei servizi diminuiscono in modo consistente.
Allo stato attuale delle tecnologie disponibili, le fonti rinnovabili – vera sfida delle prossime generazioni e, in prospettiva, grande alternativa a petrolio, carbone e gas naturale – sono svantaggiate dalla loro bassa densità di energia, dalla discontinuità e dalla disponibilità in aree lontane dai bacini di utenza. Pertanto, nel medio termine, difficilmente potranno modificare in maniera significativa il panorama delle fonti e avere un impatto sull’offerta di energia. Anche per quanto riguarda il nucleare a fissione, esistono pesanti incognite sulla possibilità che sia in grado di fornire un contributo rilevante alla domanda energetica del prossimo futuro. A penalizzarlo, oltre a fattori legati a elevati investimenti e sicurezza, sono i problemi derivanti dal trattamento delle scorie e dallo smantellamento dell’impianto alla fine del ciclo di vita.
Nel seguito viene tracciato, in termini attuali ed evolutivi, un quadro delle fonti primarie fossili e del potenziale disponibile per soddisfare le domande di energia prevedibili nel breve e medio termine.
Le prospettive del petrolio
La prima questione che si pone circa il ruolo del petrolio nel soddisfare la domanda futura di energia, è connessa ai tempi di esaurimento delle riserve: pochi anni o un periodo sufficiente per una transizione non traumatica verso altri tipi di energie. La previsione di esaurimento delle riserve, oggetto di lunghe e aspre controversie, si collega al modello messo a punto negli anni Cinquanta del 20° sec. da Marion K. Hubbert (1903-1989). Egli aveva ipotizzato, sulla base delle conoscenze geologiche disponibili, che la produzione di idrocarburi nel tempo seguisse una curva di distribuzione a campana (gaussiana) e che l’inizio del declino della produzione (peak oil) per i giacimenti dell’America Settentrionale si sarebbe verificato negli anni Settanta.
Questa ipotesi, in linea di principio estendibile a qualunque risorsa mineraria, si è dimostrata attendibile per la produzione nordamericana, ma non applicabile in senso generale, in quanto il modello impiegato da Hubbert non teneva conto delle varianti tecnologiche che hanno reso possibili scoperte non prevedibili sulla base dei vecchi concetti geologici.
In contrapposizione alla scuola di Hubbert, altri esperti ritengono inoltre che la presunta scarsità di idrocarburi nel medio termine sia del tutto inconsistente, dal momento che i miglioramenti delle tecnologie di scoperta e di produzione e l’accesso ad aree poco esplorate hanno sostanzialmente modificato il quadro di riferimento sulle risorse sfruttabili ed esteso, in modo significativo, la vita media residua delle riserve mondiali. In conclusione, per quanto riguarda il petrolio convenzionale, agli attuali tassi di utilizzo e di ritrovamento, le più recenti stime sono orientate a collocare il peak oil successivamente al 2020.
I modelli previsionali sulla produzione degli idrocarburi liquidi seguono andamenti del tipo descritto nella figura 1, dove le curve di crescita ed esaurimento delle varie fonti si combinano in una curva complessiva che vede il picco globale posizionarsi intorno al 2060. Poiché, ovviamente, la produzione tenderà a seguire la domanda, la curva complessiva dipenderà dai modelli di consumo che si verranno ad attuare nell’arco di tempo considerato. L’IEA valuta le risorse petrolifere recuperabili in circa 2600 Gbbl, circa 1100 dei quali di riserve provate, cioè già oggi economicamente recuperabili. Il rimanente è costituito da risorse scoperte, ma non ancora sviluppate, e da risorse derivanti sia dal possibile incremento del tasso di recupero sia dal contributo di giacimenti che devono essere ancora scoperti.
Secondo le previsioni dell’IEA (2008), la domanda mondiale potrà crescere fino a circa 106 Mbbl/g nel 2030 (tab. 2), in equilibrio con la produzione, che verrà sempre più coperta (tab. 3) dai Paesi dell’area OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries).
Per ciò che riguarda le fonti convenzionali, oltre alla citata maggiore capacità di sfruttare i giacimenti noti, sarà necessario puntare su tecnologie che ne permettano un’agevole individuazione ed estrazione, affrontando anche ambienti particolarmente difficili, quali il mare profondo e le aree artiche. Importanti saranno inoltre le tecnologie di trasporto e di conversione sempre più sofisticate, che potranno rendere disponibili per il mercato idrocarburi estratti in aree remote e in passato poco sfruttate. Le nuove tecnologie hanno permesso di ridurre in misura significativa i costi di ritrovamento e sviluppo (tra il 50 e l’80%, a seconda delle aree geografiche); le tecnologie sismiche e di perforazione, con i sistemi di produzione subacquei e sommersi, hanno fornito il contributo più rilevante.
Il rateo di scoperta negli ultimi trent’anni è stato in crescita costante, e si attesta oggi intorno al 30% (media mondiale). In futuro non sarà tuttavia infrequente toccare ratei molto elevati (oltre l’80%) in nuove aree esplorative, nelle quali sarà possibile applicare con successo le più innovative tecnologie di esplorazione. Le tecnologie emergenti tendono a migliorare la costruzione dell’immagine del sottosuolo e consentiranno di discriminare sia i corpi litologici sia i contenuti in fluidi (olio, gas, acqua). In rapido sviluppo sono anche le tecnologie per osservare in dettaglio i corpi geologici in profondità, con misure dal fondo del pozzo in fase di perforazione. Un impulso all’individuazione dei giacimenti verrà dalla modellazione dei bacini sedimentari, nonché dalle tecniche di cattura e analisi delle tracce di idrocarburi in superficie.
Le grandi sfide tecnologiche che si configurano nello sviluppo e produzione delle risorse di idrocarburi sono sostanzialmente tre: aumentare nettamente il fattore di recupero dei giacimenti a olio; ridurre i costi di sviluppo e quelli operativi; sviluppare le riserve non convenzionali. Allo stato attuale, in media soltanto il 30% circa dell’olio scoperto viene estratto. Alcune esperienze hanno dimostrato che l’applicazione integrata di nuove tecnologie di modellazione e l’ottimizzazione dei processi di recupero assistito (EOR, Enhanced Oil Recovery) potranno portare a fattori di recupero di oltre il 60%. Sembra quindi possibile prevedere entro il 2015 fattori di recupero medi di circa il 50%.
In un quadro di crescente preoccupazione circa la stabilità politica delle aree in cui sono localizzate le riserve di idrocarburi, hanno importanza le risorse dislocate in aree di difficile accesso (mare profondo e artico) e le fonti di olio e gas non convenzionali.
L’IEA (2008) prevede che nel 2030 la produzione equivalente di olio non convenzionale sarà di 8,8 Mbbl/g (pari all’8% della produzione mondiale di greggio), proveniente in gran parte dalle sabbie bituminose (tar sands) canadesi e dai greggi ultrapesanti (extra heavy crudes) venezuelani.
La convenienza economica di tali risorse è stata accresciuta da nuove tecnologie di estrazione, come quelle atte a ridurre la viscosità di greggi ultrapesanti e bitumi e a favorirne la pompabilità in superficie, o quelle che utilizzano pozzi orizzontali e di recupero termico; tuttavia, nel costo degli idrocarburi provenienti dalle diverse fonti permane una significativa differenza (fig. 2).
Naturalmente, la necessità di trasformare le grandi quantità di frazioni a elevato punto di ebollizione, che si ottengono dai processi di conversione primaria dei greggi pesanti e bitumi, comporterà un notevole e ulteriore sforzo di miglioramento delle tecnologie dei processi di raffinazione a valle.
Il trasporto e la qualità dei carburanti
Nel 2006, il 52% della produzione mondiale di greggio andava a soddisfare la domanda di mobilità, e tale quota è destinata ad aumentare, fino al 57% del 2030 (IEA 2008). Secondo l’IEA, la domanda energetica per il settore trasporti/mobilità crescerà a livello mondiale a una media annua di circa il 2%. La pressione ambientale sul settore trasporti è elevata; vi è quindi la necessità di identificare strategie e misure tendenti a conciliare la crescita della domanda di mobilità con gli obiettivi di riduzione delle emissioni. Per questi motivi, le autorità (nazionali e sovranazionali), le compagnie petrolifere e le case automobilistiche premono per rendere la mobilità a mezzo autoveicoli sempre più compatibile ambientalmente. Veicoli e carburanti, infatti, possono essere progettati e impiegati in modo tale da mitigare il loro impatto sull’ambiente (locale e globale). L’aumento inevitabile del prezzo dei carburanti e la necessità di ridurre, sotto la spinta delle nuove normative, le emissioni di gas serra (prevalentemente CO2) indurranno le case automobilistiche a produrre autoveicoli a minore emissività e con motorizzazioni sempre più efficienti. Nelle maggiori aree mondiali, inoltre, le normative imporranno specifiche sempre più stringenti sul contenuto di zolfo e di composti aromatici, che comporteranno l’adozione di nuovi processi per conseguire le qualità richieste. Europa occidentale, Stati Uniti e Giappone dispongono già oggi di raffinerie ad alta capacità di desolforazione, mentre i sistemi di raffinazione di altre aree necessitano investimenti di adeguamento. Il mercato delle benzine è attualmente composto per circa il 65% da qualità a basso zolfo; per quanto riguarda i gasoli, la domanda mondiale è per circa il 60% composta da diesel a basso zolfo. La penetrazione di carburanti diversi da quelli oggi disponibili dai processi di raffinazione dipende in prospettiva dalla normativa messa a punto per favorire l’uso di prodotti meno inquinanti. La definizione del carburante ottimale per i veicoli che useranno sistemi di propulsione in grado di minimizzare o, nel lungo termine, annullare le emissioni (ibridi, elettrici, a batteria o con pile a combustibile), potrà avere un impatto (anche significativo) sulla raffinazione e sulla distribuzione, e richiedere soluzioni e decisioni a livello politico, oltre che tecnico. La diffusione di sistemi di propulsione radicalmente innovativi non è comunque prevista prima del 2025, anche in relazione alle necessità di realizzare infrastrutture dedicate e rinnovare il parco dell’autotrazione.
Il sistema petrolifero: risorse convenzionali e non convenzionali
Tecnologie di esplorazione. L’attività di esplorazione mira a identificare e sbloccare le risorse non ancora scoperte, e al contempo richiede competenze tecnologiche e strumentali sempre più sofisticate. L’incremento del rateo di successo esplorativo (pozzi positivi/pozzi perforati) è uno degli obiettivi fondamentali per le tecnologie di esplorazione, consentendo sia il rimpiazzo delle risorse sia l’incremento dei livelli di produzione. Le tecnologie per l’esplorazione mirano a verificare l’esistenza simultanea di tutti gli elementi che concorrono alla formazione dell’accumulo degli idrocarburi. Lo scopo primario è quello di permettere la ricostruzione dell’assetto degli strati geologici del sottosuolo e di dare un’indicazione della presenza di idrocarburi e della loro estensione. Le principali tecniche si distinguono in tre categorie: sismica, nella quale sono comprese quelle che consentono di disegnare la distribuzione spaziale degli strati geologici; gravimetrica, che raccoglie quelle che permettono di definire la distribuzione di densità delle rocce; elettromagnetica, a cui appartengono le tecniche che forniscono gli elementi di caratterizzazione del sottosuolo strettamente correlabili alla presenza o meno di idrocarburi.
Si ritiene che le tecnologie di esplorazione avanzate e la loro integrazione possano contribuire a individuare nuove risorse minerarie in aree non esplorate o sismicamente sorde, a migliorare l’ubicazione dei pozzi di delimitazione dei giacimenti, a incrementare il rateo di successo tecnico riducendo significativamente il rischio minerario.
Tecniche avanzate di recupero. È generalmente accettato che in media solo il 30-35% dell’olio presente in un giacimento (original oil in place, OOIP) venga recuperato con tecniche di produzione convenzionali (produzione primaria e mantenimento di pressione). Un ulteriore recupero di olio (20%) può essere ottenuto con processi avanzati (EOR). Convenzionalmente, i processi di recupero si distinguono in 3 stadi rispetto alla fase di sviluppo di un giacimento: recupero primario, che sfrutta unicamente l’energia propria del giacimento per convogliare l’olio in superficie; recupero secondario, talvolta applicato contemporaneamente al primario, che integra l’energia del giacimento in fase di esaurimento, tramite l’immissione di un fluido (gas o acqua); recupero terziario o assistito (enhanced) che utilizza tecniche diverse, mirate alle particolari caratteristiche del giacimento.
Ogni reservoir è un candidato possibile per l’applicazione delle tecnologie di recupero assistito, visto che una significativa quantità di olio rimane nel reservoir dopo le convenzionali operazioni di recupero.
I meccanismi fisici che spiegano le ragioni delle elevate quantità di olio residuo dopo il recupero convenzionale sono ben noti. La roccia contiene inizialmente olio mobile e acqua; durante la produzione della frazione mobile, l’acqua dell’acquifero o il gas del gas cap invadono il reservoir, occupando i pori che hanno rilasciato l’olio mobile. A causa delle forze di capillarità, una frazione dell’olio inizialmente presente rimane intrappolata, dal momento che il gradiente di pressione tra pozzo e formazione non riesce a superare la forza capillare. Un incremento dell’efficienza dello spostamento microscopico dell’olio può essere ottenuto riducendo la tensione interfacciale fra l’acqua e la fase olio per aggiunta di tensioattivi o attraverso l’iniezione di un fluido miscibile (metano e CO2). L’iniezione di gas miscibile, in particolare, modifica le proprietà chimico-fisiche dell’olio e, riducendone la viscosità, migliora anche la permeabilità relativa e il rapporto di mobilità. Il gas dopo la produzione deve essere separato, ripressurizzato e riciclato in giacimento.
Altre tecniche in uso prevedono l’iniezione alternata di gas miscibile e acqua (water alternating gas, WAG), di gas immiscibile (aria e azoto), acqua a bassa salinità o acqua con aggiunta di polimeri o tensioattivi. Una tecnologia ancora in fase esplorativa prevede l’utilizzo di batteri coltivati all’interno del reservoir (microbial EOR), che possono indurre nell’olio modificazioni (diminuzione di viscosità, produzione di fase solvente o tensioattivi) atte a favorirne il recupero. Le aree più promettenti per le potenziali applicazioni di tecniche EOR sono: bacini maturi molto adatti all’immissione di acqua (waterflooding); aree remote per le iniezioni di gas; bacini prossimi ad aree industriali, dove sia possibile effettuare l’iniezione di CO2. Ovviamente il grado di recupero conseguito e il costo del relativo processo di recupero avanzato dipendono dalle caratteristiche del giacimento e dal tipo di intervento che si rende necessario (fig. 3).
Lo sviluppo di risorse difficili. La classificazione economica delle riserve assume un’importanza strategica per l’individuazione delle aree dei futuri approvvigionamenti. Le riserve infatti si sviluppano a partire dalle risorse in relazione all’evoluzione nel tempo dei costi, delle tecnologie, degli investimenti, dei prezzi di mercato e di trasporto, della possibilità di accesso a prodotti sostitutivi. Le riserve, quindi, sono quella parte di risorse accertate che possono essere economicamente sfruttate nelle circostanze storiche determinate. Perché la risorsa acquisti il valore di riserva devono essere definiti i termini tecnologici ed economici per un progetto di fattibilità nella regione che la accoglie e in un tempo determinato. Non possono inoltre essere estranee al processo di definizione di un progetto estrattivo le valutazioni di carattere geopolitico e quelle pertinenti ai rischi di varia natura (tecnico, geologico, politico) connessi all’area interessata.
La principale motivazione a sviluppare le risorse di difficile sfruttamento è quella del problematico accesso alle riserve più convenzionali. Analogamente a quanto avvenne ai tempi della crisi petrolifera degli anni Settanta del 20° sec., quando il ruolo del Mare del Nord divenne strategico nel soddisfare la domanda mondiale di petrolio, affrancandola dalla produzione OPEC, oggi si guarda agli idrocarburi presenti in aree di difficile accesso e alle risorse non convenzionali come opzioni che fanno preferire l’assunzione di un maggior rischio tecnologico, dominabile con le conoscenze, rispetto al rischio geopolitico di investire in aree produttive instabili o poco affidabili.
Malgrado rappresenti un elevato potenziale (fino a 200 miliardi di barili di riserve globali scoperte o potenziali), lo sviluppo di campi in mare profondo (deepwater offshore) è costoso, e quindi richiede giacimenti di grandi potenzialità per essere convenientemente realizzato. Negli ultimi dieci anni sono stati effettuati importanti ritrovamenti e si sono avuti significativi sviluppi che hanno comportato la messa a punto di alcune tecnologie fondamentali: controllo della stabilità di pozzo, perforazione veloce, cementificazione a base di fango, rivestimento in fase di perforazione, perforazione del fondo marino.
Le più importanti innovazioni delle tecnologie sono quelle relative agli impianti sottomarini. Le tecniche si sono evolute verso sistemi che portano i fluidi estratti verso i luoghi in cui è possibile processarli adeguatamente. I sistemi e le apparecchiature sottomarine possono essere gestiti grazie all’utilizzo di robot e a tecniche di trasporto multifase. La maggior parte dei ritrovamenti sono localizzati nel Golfo del Messico, in Brasile e in Africa occidentale.
Il rateo di successo ha toccato quota 30% soprattutto grazie ai notevoli successi realizzati nel Golfo del Messico e in Africa occidentale, tra cui l’eccezionale risultato, superiore all’80%, ottenuto nella Repubblica del Congo. Benché l’evoluzione tecnologica renda più facile il ritrovamento di giacimenti off-shore, essa non garantisce esiti ugualmente favorevoli per la prevenzione del rischio incidenti nelle successive fasi di approntamento per l’esercizio e lo sfruttamento, come conferma il disastroso evento verificatosi a partire dall’aprile 2010 al largo delle coste della Louisiana. In questo caso il collasso di un pozzo di trivellazione, determinato da un incendio con conseguente esplosione, ha causato il rilascio in mare di centinaia di migliaia di barili di greggio.
Dei 58 giacimenti più ricchi in idrocarburi (giants), scoperti a livello mondiale nel decennio 1990-2000, circa un terzo si trova in acque profonde. Queste riserve sono costituite per il 65% da petrolio, contro il 35% di tutti i campi scoperti nello stesso periodo. Delle attuali scoperte, il 38% è ritenuto per ora non essere di interesse economico. Si evidenzia, di conseguenza, un aumento delle riserve tecniche rispetto alle riserve commerciali, a causa della presenza di circostanze non favorevoli (piccole dimensioni, greggi pesanti, gas remoto).
Si riscontrano inoltre: una certa tendenza verso il miglioramento dell’affidabilità dei sistemi e della sicurezza nel trasporto, lo sviluppo di sistemi galleggianti e di isole artificiali, le esplorazioni a profondità superiori a 3000 m. Nonostante lo sforzo di ricerca, numerosi bacini rimangono solo superficialmente esplorati o addirittura inesplorati.
Risorse petrolifere non convenzionali. Indipendentemente dai tempi con cui si potrà manifestare il picco di produzione, l’olio convenzionale, in uno scenario di lungo termine, rappresenterà una quota comunque decrescente della totale disponibilità di idrocarburi, e dovrà essere rimpiazzato da riserve di olio non convenzionale che tenderanno ad assumere un ruolo progressivamente preponderante. La prima causa di questo fenomeno è da ascrivere al fatto che gli oli convenzionali, più leggeri e più facili da produrre e raffinare, sono sempre preferiti per uno sfruttamento immediato.
Gli oli ultrapesanti, caratterizzati da frazioni idrocarburiche di elevato peso molecolare, costituiscono con i bitumi la più grande risorsa nota e ancora poco sfruttata di idrocarburi. In prima approssimazione, i greggi ultrapesanti possono essere definiti in base al loro grado API, che è inferiore al 10°. Questa loro caratteristica fa sì che non siano producibili con le usuali tecnologie estrattive. Le risorse mondiali di tali greggi sono stimate a circa 6000 Gbbl, distribuiti principalmente in Venezuela (Orinoco belt) e in Canada (Alberta oil sands). Di questi sono tecnicamente recuperabili, all’attuale stato delle conoscenze, circa 650 Gbbl dai bitumi e 430 dagli oli pesanti e ultrapesanti.
Verso la fine del 2005 la produzione congiunta di Canada e Venezuela di greggi ultrapesanti si attestava su circa 1,7 Mbbl/g, il che rappresenta appena il 2% della produzione mondiale di petrolio. Un aspetto rilevante dei processi di sfruttamento di queste riserve non convenzionali consiste nell’assoluta assenza di rischio minerario, dal momento che questi enormi depositi sono ben localizzati e il loro grado di sviluppo e di sfruttamento è legato principalmente alla capacità di trattamento e di raffinazione.
I depositi di bitumi del Canada sono localizzati nel grande bacino sedimentario dell’Ovest, quasi interamente nella provincia di Alberta, dove sono intrappolati in formazioni di rocce arenarie e calcari nelle tre regioni di Athabasca, Cold Lake e Peace River. La maggior parte degli oli pesanti si trova invece nel bacino sedimentario dell’Est venezuelano, all’interno di arenarie, in una regione situata immediatamente a nord del fiume Orinoco.
Lo sviluppo degli oli ultrapesanti e dei bitumi è a elevata intensità tecnologica, cosicché il grado di sfruttamento dei giacimenti dipende in misura rilevante dall’evoluzione delle tecnologie di estrazione e raffinazione, soprattutto in termini di rendimenti, economicità, impatto ambientale.
Due sono le tecnologie base per l’estrazione delle componenti idrocarburiche da formazioni di tipo non convenzionale: processi di tipo minerario (mining) e processi di estrazione in situ.
Le tecnologie minerarie utilizzate per depositi superficiali (massima profondità 60-70 m) sono basate essenzialmente su tecniche di scavo. Alla classe delle tecniche a freddo non minerarie vanno ascritti i processi di estrazione a freddo con iniezione di gas anche a pressione pulsata (cold flow; inert gas injection, IGI; pressure pulsing techniques, PPT) oppure di produzione congiunta di sabbia e bitume (cold heavy oil with sands, CHOPS). Il prodotto bituminoso è poi sottoposto a processi di estrazione e rigradazione (upgrading). Per i giacimenti di profondità (800 e 1500 m rispettivamente per Canada e Venezuela) si utilizzano tecnologie estrattive mirate anzitutto a ridurre la viscosità dell’olio nel giacimento.
Due sono le opzioni principali: fornire energia al giacimento mediante iniezione di vapore o generare energia in giacimento mediante combustione parziale dell’olio. Rientra nella prima tecnica la cyclic steam stimulation (CSS), processo consolidato che fornisce un basso fattore di recupero (inferiore al 20%). Di norma si utilizza uno stesso pozzo verticale per iniettare vapore e, dopo un opportuno intervallo di tempo necessario a scaldare la formazione, per produrre. Analogamente alla CSS, la steam assisted gravity drainage (SAGD) utilizza l’iniezione di vapore, tramite un pozzo orizzontale, per raggiungere la temperatura di produzione, mentre il greggio è fatto fluire attraverso un secondo pozzo sottostante che raccoglie l’olio drenante per effetto della gravità; il recupero è elevato (fino al 70%). In particolari condizioni si fa ricorso anche a estrazione per mezzo di solventi o a sistemi ibridi (vapour assisted petroleum extraction, VAPEX; expanding solvent-SAGD, ES-SAGD; steam and gas push, SAGP).
Un elemento fondamentale nello sfruttamento economico di greggi pesanti, ultrapesanti e bitumi sarà, nel prossimo futuro, la tecnologia di conversione dei residui in prodotti distillati per il mercato di combustibili e carburanti (upgrading).
Esistono due opzioni di upgrading già commercialmente affermate: la conversione termica a prodotti leggeri e carbone (coking o carbon rejection), la conversione catalitica con idrogeno a distillati (hydrocraking o hydrogen addition). Le rese in prodotti utili di qualità elevata rendono più attraente la seconda opzione che, tuttavia, sconta la necessità di dover disporre di idrogeno con i conseguenti aggravi di costo (disponibilità di gas naturale, costo dei servizi, investimenti) legati alla sua produzione. In prospettiva, si potrà far ricorso a sistemi ibridi, in cui il carbone ottenuto dal coking di parte del residuo potrà essere impiegato per generare idrogeno tramite gassificazione, senza quindi l’apporto esterno di gas naturale o il reforming delle frazioni leggere.
Le oil shales sono rocce sedimentarie laminate a grana fine contenenti dal 5 al 40% di materia organica allo stato solido (kerogene), precursore del petrolio ma non maturato. Dalle oil shales è possibile estrarre una miscela di idrocarburi (shale oil) attraverso trattamenti termici in impianti di superficie (retorting).
Le risorse esplorate di oil shales (distribuite in 33 Paesi) sono stimate a circa 2900 Gbbl. Di questi, circa 2000 sono negli Stati Uniti, per la maggior parte (1500) in Colorado, nella formazione Green River Shale. Non esistono, allo stato attuale della tecnologia, stime attendibili sulle risorse tecnicamente recuperabili. Sulla base di alcune considerazioni sulle efficienze prevedibili per i processi di conversione, le risorse recuperabili ammonterebbero a circa 1000 Gbbl. Le tecnologie estrattive sono due: l’estrazione mineraria, cui fa seguito la separazione del materiale organico dal minerale; il trattamento termico in situ, mirato a far maturare il kerogene senza estrarlo per poi estrarre l’olio con tecniche di produzione convenzionali.
Gli elementi di criticità per lo sviluppo di queste risorse sono: l’accessibilità materiale al deposito, le tecnologie minerarie, la disponibilità di acqua (2-5 barili per barile di olio), le emissioni, la contaminazione e l’inquinamento delle acque di strato. Si prevede che un primo progetto di un loro sfruttamento si possa realizzare entro il 2020; tuttavia, soltanto una forte carenza delle fonti convenzionali e decisioni di ordine strategico sulla sicurezza di approvvigionamento potrebbero indurre gli Stati Uniti a dare un impulso allo sfruttamento su larga scala.
Il gas naturale, sviluppo e valorizzazione
Il gas naturale è una risorsa abbondante e versatile negli impieghi e consente utilizzazioni a ridotto impatto ambientale locale. La domanda globale di gas naturale era nel 2006 di 2916 Gm3 (IEA 2008); essa crescerà a una media di circa il 2% all’anno, e si prevede che nel 2030 supererà i 4400 Gm3 (tab. 4). Sulla base della proiezione dei consumi, secondo gli attuali modelli, tenendo conto anche del contributo di gas non convenzionale, le riserve dovrebbero essere sufficienti a rifornire i mercati per oltre 60 anni. La maggior parte della produzione di gas deriva dalle attività di esplorazione mirate al ritrovamento di idrocarburi liquidi. Soltanto di recente si è sviluppata un’attività di ricerca mirata, accanto a una revisione delle riserve scoperte in passato e non sfruttate.
La distribuzione del gas naturale è connotata da una logistica regionale e macroregionale: in media, circa l’80% della produzione immessa al consumo rimane nella regione di produzione, mentre il restante 20% viene avviato al mercato internazionale. Per soddisfare la crescente domanda di gas proveniente da diverse localizzazioni, sono necessarie tecnologie per il trasporto gas via terra su lunga distanza, per la posa di gasdotti in acque profonde, per le operazioni di progettazione, costruzione e manutenzione di gasdotti in ambienti ostili, e per il trasporto di gas naturale liquefatto (GNL). Circa un quinto delle riserve accertate di gas non viene immesso al consumo e viene definito remoto, per l’elevato costo delle infrastrutture necessarie per trasportarlo dalle aree di produzione a quelle di utilizzo. Rientrano in questa tipologia: il gas non estratto da giacimenti accertati; il gas associato alla produzione di petrolio, reiniettato nel giacimento, bruciato o liberato nell’atmosfera. La possibile valorizzazione di riserve/giacimenti di gas remoto e associato è un’opzione strategica per motivi economici e ambientali. Laddove le distanze e le quantità in gioco lo consentano, il trasporto del gas naturale trova i suoi sbocchi sul mercato mediante condotte, convenzionali oppure avanzate ad alta pressione. Tuttavia, in un contesto di domanda crescente, anche a fronte di rilevanti progetti di trasporto gas via condotte, il GNL mantiene una buona posizione in relazione agli scambi internazionali di metano: nel 2002 circa 450 Gm3 di metano sono stati oggetto di import/export via metanodotti mentre 150 sono stati commercializzati sotto forma di GNL.
I fattori che governano lo sviluppo del GNL sono: l’aumento della domanda di gas, che favorisce gli investimenti nel settore; la possibile diversificazione degli approvvigionamenti; le limitazioni ambientali relative al gas flaring/venting. Le linee di innovazione puntano alla riduzione dei costi lungo tutta la catena (liquefazione, stoccaggio, trasporto, rigassificazione) al fine di rendere il GNL competitivo con le alternative. In caso di disponibilità di riserve di gas prossime ai mercati con volumi limitati di domanda potenziale, può trovare applicazione il gas naturale compresso (CNG, Compressed Natural Gas). La soluzione CNG può rappresentare una valida alternativa alla reiniezione del gas, soprattutto nel caso di gas associato in ambiente marino (offshore). In condizioni di particolare convenienza, è possibile realizzare sistemi di generazione elettrica a bocca di pozzo trasportando l’energia elettrica a lunga distanza, anche tramite sistemi ad alto voltaggio e corrente diretta (high-voltage direct current, HVDC), dopo aver soddisfatto le richieste locali (gas to wire).
Un’altra opzione tecnologica che coniuga le opportunità derivanti dalla elevata disponibilità di gas in aree remote con la domanda incrementale di carburanti liquidi, è rappresentata dalla conversione chimica del gas naturale, gas to liquids (GTL). Questa filiera di trasformazione permette infatti di monetizzare le riserve, ottenere combustibili di sintesi a elevata qualità (privi di zolfo e aromatici) e gasoli diesel ad alto numero di cetano. Un’ulteriore opzione di valorizzazione del gas naturale è la conversione a vettori energetici (metanolo, dimetiletere) direttamente utilizzabili come carburanti/combustibili o per la produzione di olefine e altri intermedi per uso chimico (methanol to olefins, MTO).
A livello mondiale, il settore elettrico richiederà uno sviluppo dell’offerta in termini di capacità pari a circa 4800 GW entro il 2030, sia per soddisfare l’incremento di domanda sia per sostituire gli impianti obsoleti. Entro lo stesso anno, quasi la metà del consumo mondiale di gas naturale sarà destinato alla produzione di energia elettrica. Si noti che le tecnologie avanzate, come i cicli combinati e cogenerativi, consentono di ottenere rendimenti molto superiori rispetto a quelli degli impianti convenzionali a carbone e a olio combustibile. Inoltre, l’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto nel febbraio 2005 sollecita, nel settore elettrico, la promozione dell’efficienza e della cogenerazione; per quest’ultima, l’Unione Europea ha stabilito, come obiettivo per il 2012, una quota del 18% dell’intera produzione di elettricità.
Gas non convenzionale
Accanto ai grandi giacimenti di gas, solo in parte oggi scoperti e messi in produzione, esistono ingenti riserve di gas naturale, che si trovano in formazioni geologiche molto particolari e che quindi richiedono tecniche di sviluppo specifiche.
Il coal-bed methane (CBM) è sostanzialmente metano adsorbito in giacimenti carboniferi nel corso del processo geologico di formazione. Si tratta di strati molecolari di metano che rimangono legati alla superficie della matrice di carbone alle elevate pressioni dei depositi profondi. Un carbone di alto rango come l’antracite (con un’elevata superficie interna) può trattenerne fino a 20 m3 per tonnellata. L’esplorazione di coal-bed methane è concomitante con l’individuazione di miniere di carbone caratterizzate da elevate pressioni e basse temperature, condizioni che permettono la ritenzione di consistenti quantità di gas. Insieme al gas, sono generalmente presenti nel giacimento rilevanti quantità di acqua che devono essere rimosse attraverso processi di drenaggio. Per ottenere un desorbimento efficiente è necessario attuare tecniche di stimolazione che dipendono dalle caratteristiche peculiari del giacimento. A parte la più convenzionale depressurizzazione del giacimento, uno dei processi di efficacia e in fase di progressiva diffusione consiste nell’iniezione di CO2 per spiazzare il metano adsorbito (enhanced CBM). È possibile in questo modo recuperare fino al 90% del gas originariamente presente. Nel periodo 1990-2005 negli Stati Uniti sono stati complessivamente prodotti circa 350 Gm3 di CBM. Da alcuni anni, anche in Australia è stato messo in produzione il metano associato ai grandi giacimenti carboniferi. Cina e Russia, pur essendo fra i Paesi probabilmente più ricchi di CBM, non hanno avviato la produzione, presumibilmente a causa della mancanza di infrastrutture. Nelle condizioni più favorevoli, il CBM ha raggiunto costi di produzione competitivi rispetto al gas convenzionale. L’applicazione di nuove tecnologie promette ulteriori possibilità di produzioni economicamente vantaggiose. Le risorse globali di CBM sono stimate a circa 200.000 Gm3.
Accumuli di gas naturale presenti in reservoir a grande profondità (oltre 4500 m) e alta temperatura, sono classificati come deep gas e, per gli elevati rischi e costi di esplorazione e perforazione associati allo sviluppo, sono qualificati come non convenzionali. A oggi, questi giacimenti sono sfruttati soltanto negli Stati Uniti e in Canada, dove esiste una favorevole combinazione di elevata remunerazione del gas, bassi costi dei servizi di campo tecnologicamente avanzati, presenza di infrastrutture per il trattamento e distribuzione del gas prodotto. L’esiguità delle attività di sviluppo rende ancora molto incerta la stima sull’abbondanza di questa risorsa. Il dibattito in corso sulla natura degli accumuli di deep gas e sul potenziale di generazione di idrocarburi a elevate profondità, porta a stime importanti sul volume di tali risorse tecnicamente recuperabile (7000 Gm3). Le recenti scoperte di accumuli di deep gas nelle acque basse del Golfo del Messico hanno condotto a un crescente interesse per lo sviluppo di questi campi. Si registra, inoltre, l’avvio di perforazioni a profondità superiori a 7500 m, determinato dall’aspettativa di scoprire a tali quote importanti giacimenti.
Un ulteriore fattore di incertezza deriva dalla limitata conoscenza della natura di questi reservoir. Molti esperti del settore sostengono il modello basin-centered gas, che assume l’accumulo di gas non confinato in una trappola strutturale ma distribuito su tutto il bacino, segregato da rocce a bassa permeabilità e/o da barriere idrodinamiche che contrastano la spinta del gas verso l’alto. L’assunzione base di questo modello prevede che ogni pozzo perforato nell’area del bacino porti a produzione. Questa ipotesi è stata recentemente criticata proprio perché non suffragata da evidenze sperimentali sufficienti.
I tight gas sono formazioni contenenti gas naturale caratterizzate da permeabilità inferiori a 0,1 mD. Si distinguono due principali tipologie: tight gas propriamente detti quando il reservoir è costituito da matrici carbonatiche o arenaria, e shale gas quando è costituito da matrici scistose (argille).
Le formazioni sono state oggetto di studi accurati, e sono attualmente in produzione soprattutto negli Stati Uniti e in Canada. La stima di tight gas producibile negli Stati Uniti supera le riserve convenzionali, e nel 2004 la produzione è stata di 130 Gm3. Le risorse a scala mondiale non sono state mai calcolate, ma si presume siano abbondanti, e presenti in tutte le maggiori aree petrolifere.
In relazione alla bassa permeabilità della roccia serbatoio, sono richieste tecnologie di produzione particolari (pozzi orizzontali e fratturazione multipla della formazione) in modo da favorire l’ingresso del gas nel pozzo di produzione e ottenere produttività economicamente favorevoli. Si prevede un forte potenziale di crescita, che sarà però condizionato dal mercato locale e dal declino delle risorse di gas convenzionale. Un ulteriore fattore di crescita sarà la continua evoluzione delle tecnologie di perforazione, di riduzione delle spaziature fra i pozzi, di completamento.
Il primo annuncio dell’evidenza di idrati di metano presenti all’interno di depositi naturali risale al 1965, quando ne furono osservati campioni nel permafrost siberiano, seguiti da evidenze analoghe nelle aree artiche di Canada e Alaska.
Poiché gli idrati tendono a essere stabili a basse temperature e pressioni elevate (per es. a 4 °C e 39 bar), le condizioni in cui è possibile averli naturalmente in una fase cristallina stabile sono largamente presenti in molte aree del pianeta. Tuttavia la stima sulle possibili dimensioni di queste risorse presenta grandi incertezze, imputabili sia alle scarse conoscenze delle loro proprietà sia alla ridotta esplorazione. Le stime eseguite alla fine degli anni Ottanta del 20° sec. si basavano sull’ipotesi di idrati concentrati nei margini continentali, dove sembrano preferenzialmente localizzate le formazioni contenenti materiale organico destinato nel tempo a trasformarsi in metano. In effetti il metano è prodotto da batteri o da processi termogenici che hanno luogo nei livelli mineralizzati più profondi (superiori a 500 m); in prossimità dei fondali si trovano le condizioni termodinamiche di stabilità degli idrati.
L’aspetto più problematico legato alla loro presenza è che la stessa stabilità strutturale dei fondali risulta fortemente dipendente dalle proprietà degli idrati. Gli studi sulla gigantesca frana avvenuta circa 8000 anni fa a Storegga, nel Mar di Norvegia, hanno avanzato, fra le possibili cause, il collasso strutturale di formazioni di idrati in condizioni di instabilità. Questa possibilità induce a estrema cautela nella prospettiva di uno sfruttamento di questa risorsa.
Le conoscenze in merito ai possibili meccanismi di produzione sono ancora a uno stadio iniziale. Per produrre il metano contenuto negli idrati è necessario fornire energia; tuttavia, esiste un bilancio largamente positivo fra l’energia di combustione del metano e quella necessaria a liberarlo dalla struttura cristallina dell’idrato che lo contiene. I processi di produzione attualmente in fase di valutazione sono: depressurizzazione del giacimento mediante produzione del gas libero sottostante alla formazione di idrati; riscaldamento mediante iniezione di vapore o acqua calda; iniezione di additivi decongelanti (metanolo, glicoli); destabilizzazione degli idrati di metano mediante iniezione di CO2 e concomitante formazione degli idrati di CO2; estrazione mineraria con tecniche convenzionali.
Nella valutazione complessiva delle tecnologie per lo sviluppo degli idrati si diffonde sempre più la convinzione che la produzione debba essere affrontata con modalità simili a quelle adottate per olio e gas convenzionali a partire dagli strumenti di modellazione del comportamento di fluidi e roccia nei sedimenti (reservoir modelling).
Il ruolo del carbone
Il carbone è la fonte fossile più abbondante in natura. Il suo consumo annuo, nel 2006, è stato di 4,36 Gt (IEA 2008), pari a circa il 25% del fabbisogno energetico globale. Si prevede che la domanda, secondo gli attuali modelli, possa superare 7 Gt nel 2030 (tab. 5), con un tasso di crescita medio annuo del 2%. Le prospettive di crescita variano significativamente su scala regionale. Per la maggior parte, l’incremento è localizzato nell’area di sviluppo asiatica, in modo particolare in Cina e in India, dove le risorse sono abbondanti. Le riserve provate ammontano a circa 900 Gt, che rappresentano i 2/3 circa della disponibilità totale dei combustibili fossili. La variabilità nella composizione è molto ampia, in funzione del contenuto di carbonio e del potere calorifico, parametri che ne determinano anche il valore commerciale. Si possono individuare quattro tipi di carboni di rilevanza commerciale, senza considerare la torba, che viene classificata come un precursore del carbone.
La lignite (31% delle riserve), geologicamente giovane, è il carbone di qualità più bassa, con uno scarso contenuto in carbonio (25-35%) e un basso potere calorifico (4000÷8300 Btu/lb). Il carbone subbituminoso (19% delle riserve) è caratterizzato da una migliore qualità (35-45% di contenuto in carbonio e potere calorifico di 8300÷13000 Btu/lb). Entrambi vengono usati di preferenza per la combustione in centrali termoelettriche o per alcuni utilizzi industriali (produzione di cemento). Le due rimanenti classi, carbone bituminoso (49% delle riserve) e antracite (1%), sono usate nella generazione elettrica, nel riscaldamento domestico o nella metallurgia, a seconda delle loro caratteristiche specifiche. I carboni bituminosi hanno un contenuto in carbonio del 45-86% e un potere calorifico di 10.500÷15.500 Btu/lb, mentre l’antracite ha un maggior contenuto in carbonio (86-98%) e un più alto potere calorifico (oltre 15.000 Btu/lb).
L’utilizzo prevalente del carbone è nella generazione di elettricità e calore (68%), mentre una quota significativa (18%) è impiegata nel settore metallurgico. A differenza degli idrocarburi, le riserve mondiali di carbone sono ben distribuite geograficamente: 26% in America settentrionale, 13% in Europa, 24% nei Paesi dell’ex Unione Sovietica e 30% in Estremo Oriente e India.
Grazie a questa peculiarità, il carbone è quindi la materia prima meno esposta a rischi nell’approvvigionamento e alle turbative di mercato. Anche i consumi sono previsti, allo stato attuale, in crescita costante, con una larga preferenza agli utilizzi localizzati nei Paesi di produzione (85%), nel settore della generazione termoelettrica.
Tuttavia, il carbone risulta particolarmente esposto a scenari di politiche ambientali più incisive, sia per aspetti correlati a fattori di inquinamento locali (ceneri, emissioni gassose, NOx, SOx, metalli) sia per l’impatto sui cambiamenti climatici globali a causa dell’elevata emissività di gas serra (CO2). È quindi logico che, in prospettiva, una grande attenzione venga dedicata a migliorare i rendimenti dei processi di generazione termoelettrica per combustione diretta (cicli a vapore supercritico con rendimenti che sfiorano il 50%) e ad abbattere le emissioni gassose (NOx, SOx, metalli, particolato) e solide (vetrificazione e utilizzo secondario delle ceneri). In una prospettiva di lungo termine, due sono le linee di sviluppo delle tecnologie di utilizzo del carbone con basso impatto ambientale: conversione del carbone a idrocarburi liquidi e tecnologie clean coal. In entrambi i casi, si realizza un ciclo di conversione che permette di separare e sequestrare le componenti contaminanti e i gas serra ottenuti nel corso della conversione del minerale. Processo comune a entrambe le linee è la combustione parziale del carbone per dare gas di sintesi catturando e sequestrando, in modo permanente, ceneri, metalli, diossido di carbonio, composti solforati e azotati.
La tecnologia clean coal si basa sulla combustione parziale del carbone a gas di sintesi (CO/H2), possibilmente a bocca di miniera, purificazione del gas di sintesi (con segregazione dei contaminanti), conversione del gas di sintesi in energia elettrica (integrated gasification combined cycle, IGCC). Nella prospettiva di lungo termine il processo di conversione può essere integrato con la sequestrazione stabile della CO2 in strutture geologiche (giacimenti esausti, acquifero salino) realizzando un processo a emissione nulla di gas serra (zero emission technology).
Due sono le alternative perseguite nell’ambito dei processi di liquefazione: trasformazione diretta del carbone in liquidi mediante un processo di cracking idrogenante; liquefazione indiretta via gas di sintesi e produzione di liquidi tramite processo Fischer Tropsch (FT) o sintesi di metanolo/dimetiletere. Entrambe queste tecnologie sono state sviluppate e provate su scala industriale. Rispetto ai greggi di origine petrolifera, i prodotti della liquefazione diretta del carbone (syncrude) presentano curve di distillazione significativamente diverse, soprattutto per quanto riguarda il contenuto delle frazioni a elevato punto di ebollizione (altobollenti) e dei residui. Le diverse frazioni si caratterizzano per l’alta aromaticità e per la presenza di significative concentrazioni di composti aromatici azotati, solforati e ossigenati.
Gli eteroatomi tendono a concentrarsi sulle frazioni più altobollenti, quali gasolio e residuo da vuoto. Viceversa, un aspetto positivo degli idrocarburi liquidi di sintesi da carbone è l’assenza di metalli quali nichel e vanadio, largamente presenti nei greggi naturali soprattutto in forma di complessi di tipo porfirinico oleosolubili. Queste caratteristiche di composizione rendono i liquidi da carbone non adatti per essere direttamente utilizzati come carburanti e bisognosi invece di trattamenti idrogenanti preventivi (hydrotreating e hydrocracking).
Rispetto alla liquefazione diretta, la via indiretta (gas di sintesi-FT) offre il vantaggio di produrre carburanti di eccellente qualità. In particolare, le cere da FT possono essere facilmente sottoposte a isomerizzazione-cracking in ambiente di idrogeno, e produrre gasoli diesel privi di zolfo e di aromatici con caratteristiche cetaniche superiori a quelli di origine petrolifera.
Conclusioni
La domanda mondiale di energia aumenta sotto la spinta della crescita demografica e dello sviluppo economico. Le fonti fossili continueranno a svolgere un ruolo dominante nel soddisfare le richieste crescenti, sia attraverso lo sfruttamento efficiente di petrolio, gas e carbone, già oggi economicamente recuperabili, sia attraverso lo sviluppo delle risorse di difficile accesso e di quelle non convenzionali. In particolare, per quanto riguarda le fonti di idrocarburi non convenzionali, sarà necessario sviluppare le più efficienti tecnologie di estrazione e di conversione, che ne permettano una facile immissione nell’attuale rete di trasporto e distribuzione.
Ovviamente, non si può trascurare il fatto che un maggior uso dell’energia, secondo gli attuali modelli di crescita dell’economia e della domanda, potrebbe portare, a partire dal 2020, all’esaurimento del petrolio di facile accesso e a una transizione accelerata al maggiore utilizzo di gas e carbone.
Due sono gli scenari alternativi che si prospettano nel medio-lungo termine: le economie mondiali potranno optare per una competizione senza regole o per la programmazione condivisa di uno sviluppo controllato. Nel primo caso i Paesi gareggeranno per accaparrarsi le risorse energetiche, senza particolari vincoli di efficienza e di contenimento delle emissioni, con conseguente progressiva riduzione di tutte le risorse disponibili. In alternativa, il sistema sovranazionale dovrebbe puntare al rafforzamento della cooperazione per far fronte alla sfida dello sviluppo e della sicurezza energetica.
In questa direzione, un ruolo importante avranno l’innovazione tecnologica e i governi nazionali con l’adozione di politiche a favore dell’efficienza e della riduzione dell’impatto ambientale.
Permangono, infatti, grandi opportunità per ridurre l’aumento della domanda globale, semplicemente impiegando l’energia in modo più efficiente. I miglioramenti più significativi si potranno realizzare nel settore residenziale, uno di quelli a maggior consumo (24%), ma anche nella generazione e distribuzione di elettricità (18%), così come nel commercio e nei trasporti (20%) e nell’industria (38%).
La crescita della produttività energetica non sarà, tuttavia, sufficiente a fermare la forte accelerazione della domanda globale, anche perché le forze di mercato, se non orientate, non saranno in grado di conseguire tutto il beneficio che può derivare da maggiori produttività; l’aumento dei costi sarà comunque un incentivo importante per un’economia più virtuosa.
Il mercato globale dell’energia è ricco, infatti, di esempi di inefficienza e distorsioni che spiegano come consumatori e imprese non riescano a catturare tutto il potenziale derivante dalla sempre maggiore efficienza energetica dei processi di conversione. Mancanza di informazione degli utilizzatori, necessità di investimenti mirati, una tendenza diffusa a fare del comfort e della convenienza delle priorità, oltre alla natura dei costi energetici, generalmente frammentati e di modeste entità, sono gli elementi tipicamente di ostacolo a un processo virtuoso di risparmio energetico.
Appare, quindi, inevitabile che si rendano necessarie politiche mirate a rimuovere le distorsioni e superare le inadeguatezze dei sistemi di produzione e consumo, in modo da comprimere significativamente il tasso di crescita della domanda di energia. Tuttavia, proprio perché le scelte politiche dovranno essere imposte al sistema economico mondiale, esiste un’ampia area di discrezionalità e di incertezza sulla quale sarà il percorso da intraprendere fra le alternative proposte, più o meno incisive e drastiche. Ovviamente, il problema della sostenibilità, inevitabilmente connesso con il modello di sviluppo che il sistema economico mondiale deciderà di adottare, rappresenterà una delle questioni fondamentali, e in ultima analisi condizionerà le stesse decisioni politiche.
Bibliografia
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