Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il rapporto tra musica e politica ha avuto i suoi prodromi con il wagnerismo alla fine dell’Ottocento, ma è a partire dagli anni Venti del Novecento che si assiste, da parte di movimenti quali il fascismo, il nazismo e il comunismo, alla politicizzazione della musica. Dopo il 1945 è considerato normale che il musicista si schieri nelle battaglie politiche e che le proprie opere siano investite da questa vocazione alla trasformazione del mondo.
Wagnerismo, socialismo e avanguardie
Il periodo che dalla fine dell’Ottocento va alla prima guerra mondiale è caratterizzato dall’emergere del socialismo e del nazionalismo. Entrambi, in quanto movimenti politici di massa, tendono a utilizzare a fini propagandistici la musica, ed entrambi si rapportano con il mito di Wagner, ancora fortissimo all’inizio del XX secolo. Mentre il legame tra wagnerismo e identità etnico-nazionale è stato spesso ricercato dai nazionalisti, per i socialisti il rapporto con Wagner è stato più complesso: per i socialisti austriaci la musica di Wagner anticipa l’avvento della società socialista; le corali operaie organizzate dai partiti socialdemocratici austriaco e tedesco eseguono molto spesso suoi brani. Anche in Italia, la stampa socialista insiste molto sulla musica di Wagner come “musica del futuro”, anche se qui le corali socialiste, più rare che nei paesi di lingua tedesca, tendono a eseguire assai più le arie di Giuseppe Verdi. Si assiste poi in quel periodo a un primo rapporto tra musicisti avanzati, o addirittura già inseribili nei movimenti delle avanguardie, e i movimenti politici, soprattutto di estrema sinistra come il socialismo e l’anarchismo. In Austria Gustav Mahler (1860-1911), amico fraterno del leader socialista Viktor Adler, guarda con interesse al movimento socialista, mentre il giovane Arnold Schönberg (1874-1951) dirige alcune corali operaie di Berlino e persino compone per loro. Il rapporto tra avanguardie e politica è già piuttosto stretto in Francia, dove i musicisti bohémiens frequentano, soprattutto alla Butte Montmartre, i militanti anarchici e socialisti. È il caso di Erik Satie (1875-1937), in quel momento vicino ai socialisti, ma anche, su un versante più tradizionale, di Gustave Charpentier, che con la sua opera Louise (1900) presenta al pubblico borghese dell’Opéra Comique una vicenda ambientata tra gli operai in cui fanno capolino i temi delle lotte sociali di quegli anni. Ma nello stesso periodo troviamo anche compositori decisamente schierati con l’estrema destra, antisemita e reazionaria dell’Action Française, come Vincent d’Indy, firmatario dell’appello contro l’innocenza di Dreyfus, mentre Claude Debussy (1862-1918) non nasconde le proprie prese di posizione conservatrici e nazionaliste, nonostante gli antisemiti abbiano aggredito violentemente la prima del Pelléas et Mélisande.
La prima guerra mondiale e l’engagement a sinistra
La prima guerra mondiale, in quanto conflitto “totale” che coinvolge nello sforzo propagandistico tutti gli attori sociali, e quindi anche gli artisti, vede recarsi al fronte, più o meno metaforicamente, i principali musicisti. A questo punto in tutti i paesi europei i musicisti sono impegnati nello sforzo propagandistico per imporre la supremazia della cultura della propria nazione. La guerra fa sì che una categoria di artisti fino ad allora meno militante di altri, quella dei musicisti, prenda coscienza del proprio ruolo e delle proprie capacità di intervento nel mondo sociale. Per alcuni – come Satie o, in Germania, il più giovane Hanns Eisler (1898-1962) – la guerra è un momento fondamentale che li spinge ad aderire, sulla scorta della Rivoluzione bolscevica, rispettivamente al partito comunista francese e a quello tedesco. Se confrontato con il periodo precedente, quando l’ideologia politica del musicista restava un fatto privato, senza alcun nesso con la propria opera, ora il musicista impegnato politicamente cerca di diffondere il proprio messaggio utilizzando la propria arte. Nei primi anni Venti, infatti, si assiste a una più stretta saldatura tra avanguardie e movimenti politici di estrema sinistra. Ciò avviene soprattutto in Germania, e basti pensare alla coppia Kurt Weill (1900-1950) e Bertolt Brecht (1898-1956), oppure a Hanns Eisler che, sempre con Brecht, scrive i canti di battaglia di alcuni gruppi legati al partito comunista tedesco. Il legame tra avanguardia e bolscevismo non è però sempre evidente: basti pensare al maestro di Eisler, Schönberg, che, di fronte all’avanzata del comunismo, prende posizioni sempre più conservatrici in ambito politico.
La saldatura tra avanguardie e rivoluzione è ovviamente fortissima nella Russia rivoluzionaria. Nonostante il disinteresse di Lenin per la musica, già dal 1918 si assiste a un acceso dibattito su quale debba essere la musica della rivoluzione, se quella delle avanguardie, quella legata al folklore popolare o quella della scuola russa del secolo precedente. Un dibattito a cui prendono parte leader politici di primo piano come Anatoli Lunacarskij e Lev Trockij. Lavori come il balletto Le pas d’acier di Sergej Prokofev (1927), la Sinfonia n. 2 in Si maggiore “All’Ottobre” di Dmitrij Sostakovic (1927), le Fonderie d’acciaio di Aleksandr Mossolov (1926) cercano di mostrare come bolscevismo significhi libertà di sperimentazione stilistica e possibilità di creare un’avanguardia apprezzata dalle masse. Un clima di libertà che, come si vedrà, durerà pochissimo.
La musica nell’Italia fascista
In Italia i musicisti nel periodo postbellico cominciano a interessarsi a ciò che avviene nel mondo sociale politico. Pietro Mascagni (1863-1945), che appoggia l’occupazione delle fabbriche nel 1920, con l’opera il Piccolo Marat (1921) cerca di dare una testimonianza del clima di grande conflittualità che vive l’Italia di quegli anni. A parte il compositore livornese, tutti gli altri esponenti della “giovane scuola” (Puccini, Cilea) non sembrano avere capito le novità dei tempi. Se partecipazione politica dei musicisti vi è, essa è da cercare piuttosto dal lato del fascismo. Netto è l’appoggio dei futuristi al fascismo avanzante, come Silvio Mix, poi autore negli anni successivi di cantate di elogio al Duce. Tra i musicisti della “generazione dell’80” traspare una qualche simpatia per il fascismo, come in Alfredo Casella e in Gian Francesco Malipiero, che pure saranno censurati negli anni successivi. Lo stesso comportamento tengono i grandi cantanti e i direttori d’orchestra: l’unico del mondo musicale a firmare il cosiddetto manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce nel 1926 è Vittorio Gui, mentre tra i cantanti il solo antifascista è Titta Rosa, per altro cognato di Giacomo Matteotti. Tra i firmatari del Manifesto della cultura fascista, promosso da Giovanni Gentile, troviamo invece Franco Alfano, Ildebrando Pizzetti e, tra i direttori d’orchestra, Gino Marinuzzi.
Nella sua marcia verso il potere, il movimento fascista fa proprie e diffonde una serie di ritualità in cui tuttavia la musica occupa un ruolo marginale: i canti e gli inni fascisti diventeranno solo dopo l’edificazione del regime uno dei mezzi per creare la comunità politica fascista. Durante la fase del “fascismo movimento” è da ricordare solo la costituzione di un canzoniere fascista a cura di Asvero Granelli, che istituisce un trait d’union tra l’esperienza di trincea e il fascismo. Ma solo nei testi: poiché le musiche delle canzoni fasciste sono spesso prese in prestito da quelle degli anni precedenti (è il caso di Giovinezza) quando non da canti provenienti dal movimento socialista e anarchico.
È vero che Mussolini mostra un certo interesse per la musica e suona da dilettante il violino ma, anche qui, l’immagine di “Mussolini musicista” prenderà piede a fini propagandistici solo dopo la conquista del potere. I gusti di Mussolini sono piuttosto tradizionali: al giornalista filo-fascista tedesco Emil Ludwig, che lo intervista nel 1932, afferma di preferire su tutti Beethoven e Chopin e di non amare troppo Wagner. Quanto alla tradizione verdiana, su cui fanno leva i musicisti e i critici nazionalisti alla ricerca della “italianità” in musica, Mussolini non sembra curarsene molto, anzi raccomanda ai rappresentanti diplomatici all’estero di non favorire le iniziative musicali perché l’italiano non sia come sempre identificato con la figura del “mandolinista”.
Con la costruzione del regime, lo Stato tende a riorganizzare la vita musicale. I teatri e le istituzioni musicali sono poste sotto uno stretto controllo ministeriale; a sua volta i poteri del ministero, prima dell’Educazione Nazionale poi della Cultura Popolare, si fanno assai più larghi che nell’Italia liberale; vengono infine sindacalizzati i compositori e i musicisti. Uno degli obiettivi dello Stato culturale fascista è poi quello di educare e coinvolgere il “popolo” (soprattutto i contadini): a tal scopo viene creato il Carro di Tespi, un’iniziativa dell’Opera nazionale dopolavoro. Dal 1930 un autentico teatro mobile, il Carro di Tespi appunto, dotato di due palcoscenici e di una platea smontabile, che può contenere fino a tremila posti, raggiungerà i piccoli e i medi centri italiani per rappresentazioni di prosa e musicali. Si cerca in tal modo di far partecipare quel pubblico che, per ragioni sociali o economiche, non può né potrà mai avvicinarsi a un “vero” teatro – la ricerca di una cultura “popolare” e “nazionale” è del resto uno dei tratti caratteristici degli esperimenti totalitari e autoritari.
Dal 1935, con la creazione dell’Ispettorato del teatro come parte del Sottosegretariato della stampa e della propaganda – successivamente Ministero della Cultura Popolare – la politica culturale fascista si farà ancora più interventista, in alcuni casi favorendo le tendenze più giovani e più “sperimentali”. Il Minculpop, almeno fino al 1938, promuoverà artisti di tendenze moderniste, come Malipiero e Casella, supportando economicamente il Maggio musicale fiorentino, che accoglie le opere di Alban Berg (1885-1935) e di Béla Bartók (1881-1945). Non bisogna però farsi sviare da alcuni casi specifici. Dal punto di vista quantitativo, la maggior parte dei finanziamenti finisce ai musicisti tradizionalisti, come Mascagni, Zandonai e Alfano, che infatti assillano con le loro richieste e con le loro lamentele non solo i ministri preposti e i funzionari, ma lo stesso Mussolini. In tal senso, la politica culturale fascista all’interno del mondo musicale mostra un carattere più eclettico rispetto a quella nazista. Qui il legame tra musica e razza è tale che tutto ciò che non è “tedesco” deve essere espunto. In Italia invece tale nesso è nella propaganda del regime assai più flebile e gli intellettuali fascisti, esattamente come avviene nelle arti figurative, in architettura e in letteratura, si dividono in modernisti e in tradizionalisti, tutti rivendicando il carattere “fascista” della loro arte. Mussolini accorda i propri favori ora agli uni ora agli altri, cercando di non scontentare troppo nessuno. È indubbio tuttavia che i più corteggiati, i musicisti di “regime” se si vuole usare un termine un po’ incongruo, siano Respighi, Mascagni, Zandonai, Pizzetti, che vengono decorati, insigniti di importanti cariche e di varie mansioni direttive, che danno loro risorse economiche e potere di reclutamento delle nuove leve. Essi non mancano di scrivere opere propagandistiche, quasi mai fortunate, come il Nerone (1935) di Mascagni o l’Orseolo (1935) di Pizzetti benché queste non siano quasi mai richieste da Mussolini – sono piuttosto i musicisti che offrono la loro arte alla “rivoluzione fascista”. Il pubblico italiano degli anni Trenta resta però piuttosto freddo di fronte a queste opere, che si rivelano sempre uno scacco, su cui il regime non punta più di tanto. Anche perché i veri musicisti propagandisti, quelli che scrivono quasi esclusivamente opere ispirate alla “mistica fascista”, sono più giovani di Mascagni e di Zandonai, ma meno interessati a sviluppare il loro linguaggio da un punto di vista formale: si tratta di compositori come Alceo Toni, Giuseppe Blanc, Agostino Lualdi, che scrivono inni per le manifestazioni del regime.
La tolleranza del regime nei confronti dell’atonalità muterà a partire dal 1938: con l’approvazione delle leggi razziali, anche in Italia comincerà la caccia al compositore ebreo ma anche compositori non “giudei”, come Casella e Malipiero, verranno accusati di proporre una musica “degenerata”, lontana dall’anima “latina” e “italica” le cui origini vengono fatte risalire a Verdi.
Musica e totalitarismi: l’URSS di Stalin e la Germania nazista
Negli anni Trenta il rapporto tra musica e politica è scandito dal rapporto con il totalitarismo. In URSS, il regime staliniano censura Dmitrij Sostakovic (1906-1975) e Sergej Prokof’ev (1891-1953), che devono comporre opere in cui la ricerca formale è sacrificata in nome di un linguaggio che il regime impone debba essere “chiaro” e “popolare” – il modello è l’opera Il Placido Don di Ivan Dzerzinskij (1935). In Italia il regime fascista favorisce la creazione di opere che illustrino la grandezza del fascismo, ma, come si è visto, senza riuscire a coinvolgere che musicisti di seconda e terza fila o vecchie glorie ormai fuori gioco. È nella Germania nazista che invece la saldatura tra “grande musica” e potere politico è più solida: compongono per il regime Richard Strauss (1864-1949) – Lied fur 15 november 1933 (1934), Olympische Hymne (1936) – Carl Orff, Werner Egk, Hans Pfitzner, tutti pluripremiati, decorati e insigniti di incarichi organizzativi importanti nel mondo musicale del Terzo Reich. Naturalmente anch’essi sono sottoposti a censura, alcune volte sono accusati di atonalismo – che, nel linguaggio nazista, equivale a “ebraismo” – come accade a Werner Egk e persino allo Strauss di Friedenstag (1938). I compositori e direttori d’orchestra ebrei o non nazisti sono costretti all’esilio, soprattutto in Usa. Tra loro, Eisler e Schönberg sopravvivono componendo musica per Hollywood. In Usa si trova anche Arturo Toscanini, che, dall’alto della sua celebrità, si attiva per informare il mondo statunitense della pericolosità del fascismo.
La seconda metà del Novecento
Dopo la seconda guerra mondiale, lo scenario musicale è diviso in due blocchi: in URSS e nei paesi socialisti i compositori creativi continuano con difficoltà a proporre le loro opere, spesso costretti al conformismo, come è il caso pure di Eisler, per tanti aspetti musicista di “regime” della nascente DDR; nell’Europa occidentale la saldatura tra avanguardia ed estrema sinistra è invece netta. Ciò avviene soprattutto in Italia e nella Germania Ovest, dove le neo-avanguardie di Luigi Nono (1924-1990), Luciano Berio (1925-2003), Giacomo Manzoni (1932-), e Heinz Werner Henze (1926-) rappresentano nelle loro opere l’avanzata della rivoluzione comunista e la sua epopea, come nel Gran sole carico d’amore di Luigi Nono (1975). Il massimo livello di partecipazione politica nel mondo musicale colto si raggiunge tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, quando si sperimenta un modello di creazione e di fruizione musicale disancorato da quello borghese e capitalistico. A partire dagli anni Ottanta le tensioni utopiche e riformatrici vengono meno, e i musicisti contemporanei dedicano sempre più raramente le loro opere a eventi della vita politica.