I Comuni
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Caratteristica delle città italiane del centro-nord del XII e del XIII secolo è la pienezza dell’esperienza comunale. Rispetto alle città meridionali, inquadrate nell’amministrazione regia, i Comuni sviluppano un’effettiva autonomia politica, un’ampia partecipazione dei cittadini ai consigli e agli uffici, un controllo sistematico del territorio cui fa capo la città. I conflitti per il potere che si susseguono sempre più intensi e violenti dalla metà del Duecento alimentano un’ideologia politica centrata sui valori del bene comune.
Sull’immondizia
Disposizioni in materia di vita quotidiana nello statuto di Perugia
III, 203 – Del facente mondezza en citerna, pozzo overo fonte overo guastante bocca overo pectorale del pozzo, citerna overo fonte.
Quignunque farà overo buglierà alcuna mondezza overo sozzura en alcuna citerna overo pozzo overo fonte overo guasterà alcuna bocca overo pectorale d’alcuno pozzo overo citerna overo fonte en tucto overo en parte, sia punito en cento libre de denare e de ciò per la podestà overo capetanio s’enquiresca e baste la pruova de la piubeca fama. E se la podestà e ‘l capetanio sironno negligente overo remesse, ciascuno de loro negligente sia punito en cinquecento libre de denare, e ciascuno possa essere accusatore e aggia la metà del bando. […]
III, 205 – Del saiectante overo palloctante en la cità overo en glie borghe.
1. Nullo ardisca overo degga saiectare, palloctare overo balestrare en la cità overo en glie borghe: al contrafecente la podestà e ‘l capetanio togliano per ciascuna fiada per nome de pena quaranta solde de denare, del quale bando la meità sia del comuno e l’altra aggia l’acusatore.
2. Anco la podestà e ‘l capetanio siano tenute mandare de le loro famiglie a cercare e rimare se alcuno en la cità e borghe saiecta, pallocta e balestra overo porta per la cità e borghe, cioè pallotiere overo balestro: la podestà overo el capetanio overo altre de loro condanne esse per ciascuna fiada en la pena de sopre nominata e ‘l dicto pallotiere e balestro glie toglia e devengano en comuno. Non enpertanto sia tenuto a la dicta pena quillo a cuie le predicte cose overo alcune de le predicte cose se trovassero fuore de la cità e borghe.
Nonostante la portata del fenomeno comunale abbia estensione europea, si può affermare che l’area italica è sicuramente all’avanguardia sotto tale aspetto e, in particolare, nelle regioni centro-settentrionali: si sviluppa una sorta di vera e propria “civiltà” comunale con aspetti comuni tra i diversi centri interessati. Tra le caratteristiche rintracciabili in tutti questi centri cittadini è importante ricordare almeno le seguenti: in primo luogo, dal punto di vista politico, l’alto grado di effettiva autonomia, che è un tratto tipico solo dei Comuni italiani; dal punto di vista istituzionale, l’intensa circolazione di esperienze da un centro all’altro, che contribuisce a uniformare il fenomeno; sotto il profilo sociale, la forte articolazione e differenziazione, che offre possibilità di ascesa e promozione; dal punto di vista territoriale, lo stretto legame con le aree extraurbane coincidenti tendenzialmente con le diocesi, oggetto della costruzione di contadi; dal punto di vista culturale, infine, l’esperienza comunale italiana esprime un nesso organico tra la politica e le elaborazioni intellettuali, che si impegnano a legittimare i regimi di autonomia.
Le città dell’Italia meridionale, al contrario, non conoscono una vera esperienza comunale. Lo sviluppo delle autonomie urbane è qui, infatti, bloccato dall’affermazione di una forte autorità centrale in seguito all’instaurarsi della monarchia normanna. Grandi città come Napoli, Salerno, Palermo, Bari o Messina e moltissimi centri pugliesi, campani e siciliani, pur ricchi di abitanti, commerci e attività produttive, sono inquadrati nell’amministrazione regia. Nelle città i magistrati locali sono nominati dal re, e le cittadinanze non esprimono un autentico autogoverno. Esse ricevono limitate prerogative amministrative, pur conservando e vedendosi confermate le proprie consuetudini. In Sardegna non si attua alcun processo spontaneo verso il Comune, che vi è parzialmente importato solo dai Pisani e dai Genovesi. Inoltre, le città non raggiungono un pieno controllo del proprio territorio, essendo la loro proiezione espressione dei legami economici, sociali e religiosi delle società locali, dove forte rimane il condizionamento dell’aristocrazia rurale.
La proiezione territoriale dei Comuni dell’Italia centro-settentrionale si traduce invece nel controllo diretto del “contado”, cioè di un’area corrispondente in larga misura alla diocesi cittadina, erede a sua volta del territorio su cui la città esercitava già in età romana una funzione di coordinamento. La conquista del contado, avviata nel XII secolo e consolidata nel successivo, ricorre alle armi e agli accordi, utilizzando anche i vincoli feudali per legare alla città i signori rurali, meno forti rispetto ad altre aree europee e che spesso decidono di integrarsi nel mondo comunale. I Comuni si preoccupano di legittimare ideologicamente la formazione dei contadi, che risponde a logiche assai concrete. L’assoggettamento politico e fiscale delle comunità rurali garantisce approvvigionamenti alimentari e favorisce la diffusione della proprietà fondiaria dei cittadini, fonte di reddito tutelata dagli statuti comunali. Anche le liberazioni dei contadini messe in atto da alcuni Comuni (Vercelli, Bologna, Firenze) nel corso del Duecento ha per fine quello di sottrarre uomini ai signori rurali, di aumentare il numero dei contribuenti fiscali e di liberare manodopera per le manifatture urbane.
L’esperienza comunale matura pienamente nella prima metà del XIII secolo, dando luogo a un primo ampliamento del gruppo dirigente, alla stabilizzazione delle istituzioni e a un decisivo riordinamento amministrativo e giuridico. Simbolo di questa nuova fase politica è la magistratura del “podestà”, affiancata da un consiglio ristretto di cittadini.
Il podestà è reclutato ogni anno tra un novero di professionisti della politica che si muovono tra i Comuni contribuendo a renderne omogenee le pratiche di governo: presiedere i consigli cittadini, guidare l’esercito, mantenere l’ordine e amministrare la giustizia, fanno parte dei suoi incarichi. Il nuovo regime consente di allargare a famiglie cresciute in ricchezza, talora anche provenienti dal contado, la partecipazione ai consigli e agli uffici del Comune, superando il sistema consolare che era stato egemonizzato da una ristretta cerchia di famiglie potenti provocando conflitti crescenti.
Il podestà comincia anche a fare redigere per iscritto ai propri giudici e notai i diritti del Comune, le sue leggi e consuetudini (statuti) e a tenere registrazione delle quotidiane attività amministrative in volumi e poi in archivi pubblici. Ai notai è stata infatti riconosciuta sin dal XII secolo, soprattutto in area italiana, la capacità giuridica di redigere atti autentici e validi come prova legale, apponendovi direttamente i marchi professionali (signa tabellionis) e curandone la conservazione in archivi. A loro si deve la produzione e la conservazione documentaria dei diritti e delle attività amministrative dei comuni che sarà poi consolidata dai regimi di “popolo”: una vera e propria “rivoluzione documentaria” centrata sull’uso pratico della scrittura e sulla redazione di registri. Il termine statuto deriva dall’espressione statutum est (“è stabilito”) e si riferisce ai regolamenti e agli insiemi di norme che si danno tutte le associazioni e comunità che esercitano qualche forma di autorità. I Comuni emanano testi legislativi complessi, spesso costituiti da centinaia di leggi divise in libri, che regolano i principali aspetti della vita pubblica e privata dei cittadini. Ma anche confraternite, corporazioni e altre forme di vita societaria stabiliscono propri statuti.
”La crescita demografica e lo sviluppo economico hanno promosso la continua ascesa di gruppi sociali “popolari”, costituiti da mercanti, banchieri e artigiani, esclusi inizialmente dalla partecipazione politica. Per tutto il Duecento i Comuni sono battuti da conflitti violenti, che spesso danno luogo a vere e proprie guerre urbane. Sono dapprima i fanti (pedites) a lottare contro i privilegi (esenzione fiscale e risarcimento dei danni di guerra) dei cavalieri (milites) dell’esercito comunale per una più equa ripartizione delle imposte e per l’accesso ai consigli del Comune. Alla metà del secolo le società di “popolo”, che hanno riunificato le corporazioni di mestiere e le società armate a base rionale, riescono a imporre sul piano politico proprie istituzioni che affiancano le preesistenti: un consiglio generale e uno ristretto, un collegio esecutivo di “anziani” e una magistratura di vertice, il “capitano del popolo”, modellata su quella podestarile. Il sistema politico si allarga a comprendere nuove forme di partecipazione politica, estese a gruppi sociali e familiari fino ad allora rimaste fuori dal governo del Comune.
Nella seconda metà del Duecento si moltiplicano però le esclusioni dal gruppo dirigente. In alcune città, i regimi di “popolo” che si battono per l’allargamento della base sociale del Comune cominciano a escludere dagli uffici politici, sotto minaccia di gravi pene, famiglie di origine nobiliare e mercantile ritenute potenti e accusate di minacciare i popolani, e indicate con il termine di “magnatizie”. Dopo la morte di Federico II e la sempre più forte ingerenza del papato nelle vicende interne dei Comuni, la nobiltà urbana e i grandi banchieri e mercanti che ne imitano lo stile di vita tendono a organizzarsi in parti (partes). Queste associazioni cercano di egemonizzare la politica cittadina, raccordandosi a reti di alleanze intercomunali filo-pontificie o filo-imperiali, che assumono i nomi, rispettivamente, di guelfa e di ghibellina. Quando una parte riesce ad affermarsi promuove l’esclusione dalla città dei nemici della parte avversa, spogliandoli dei beni e privandoli della cittadinanza. Matrice delle lotte di fazione cittadine è sempre, infatti, la cultura della vendetta. I fuoriusciti, banditi o esiliati, si rifugiano nei castelli del contado o nelle città amiche congiurando per rientrare militarmente nel Comune d’origine, e costituendo una minaccia costante.
La tradizione di esercizio di prerogative pubbliche da parte del vescovo ha rappresentato la base per la legittimazione dei regimi di autogoverno cittadino in cui si impegnano varie generazioni di intellettuali.
Il richiamo all’antica “libertà”, di cui le città erano sede, serve alla costruzione di un modello politico “repubblicano”, fondato sull’idea della libera elezione dei rettori, e a fornire strumenti per il governo delle città. I regimi di “popolo” elaborano un sistema di regole di convivenza civica, ammantato dall’ideologia della pace, della giustizia e del bene comune. I notai e soprattutto i giudici sono gli intellettuali laici che adattano alle nuove esperienze politiche la tradizione del pensiero antico ed ecclesiastico elaborando i tratti dell’ideologia comunale. A loro si devono, per esempio, i richiami espliciti alla romanità o gli echi biblici del vocabolario politico: consules, res publica ecc., da un lato, libertas, iustitia, paradisus ecc., dall’altro. Essi si impegnano anche nella stesura di trattati morali destinati all’educazione dei cittadini e dei rettori, come l’opera enciclopedica Li Livres dou Tresor (Libri del tesoro) del notaio Brunetto Latini, cancelliere del Comune di Firenze nel secondo Duecento. In larga misura sono notai anche gli autori delle numerose cronache delle vicende cittadine che vengono stese a partire dal XII secolo e, in lingua volgare, dal XIII.
La partecipazione politica che i regimi comunali offrono ai propri cittadini riguarda però una minoranza degli abitanti della città (nei casi più felici il 20 percento della popolazione): ne rimangono esclusi, oltre alle donne, anche i lavoratori manuali, gli immigrati, i servi ecc. Per questo è improprio affermare che si tratti di regimi “democratici”: nei consigli, oltretutto, non si discute liberamente, ma si ratificano leggi decise in comitati ristretti. I meccanismi di esclusione e le lotte di fazione della fine del Duecento palesano inoltre la crisi dei regimi comunali e il loro superamento in forme signorili o oligarchiche, cioè verso forme di governo concentrato nelle mani di pochi individui potenti.