I confini del danno risarcibile
Dopo una breve premessa storica sui concetti di risarcimento e di danno, viene trattato il tema della quantificazione del danno risarcibile con riferimento al pregiudizio causato al patrimonio del danneggiato (ex artt. 1223 e 2056 c.c.), prendendo spunto da due recenti arresti del Supremo Collegio, sotto aspetti opposti in relazione al profilo dei limiti. E precisamente: a) quando “in eccesso”, per la maggiorazione dei danni punitivi (S.U., 5.7.2017, n. 16661); b) quando in difetto per il meccanismo della compensatio lucri cum damno (S.U., 22.5.2018, n. 12565). Si tratta di questioni di principio diverse, senza dubbio, ma concettualmente contigue per la comune incidenza sul problema riguardante i confini del danno risarcibile.
Nell’arco di un breve periodo, la Cassazione a sezioni unite è stata chiamata a pronunziarsi in funzione nomofilattica su due importanti questioni di principio, concettualmente contigue per la comune incidenza sul problema riguardante i confini del danno risarcibile. Questi confini si presentano su due fronti:
a) lda un lato il limite del risarcimento, nel senso che il danneggiante (debitore) deve pagare al danneggiato (creditore) l’equivalente del danno arrecato, e nulla di più;
b) dall’altro l’esenzione (totale o parziale) dell’obbligo di risarcimento, nella misura in cui il fatto illecito abbia procurato al danneggiato un vantaggio pari o inferiore all’ammontare del danno.
Il fronte sub a) è quello dei danni punitivi, su cui si è pronunciata la sentenza S.U., 5.7.2017, n. 16661; il fronte sub b) è quello della compensatio lucri cum damno su cui si è pronunciata la sentenza S.U., 22.5.2018, n. 12565.
Nella storia del diritto, il risarcimento è un concetto che tarda ad emergere. In principio, e per molti secoli, ogni tipo di reazione al torto fu concepito solo in termini di vendetta: una ritorsione, questa, considerata tanto naturale e quasi doverosa, da essere codificata persino nella Bibbia come Legge del Taglione. E si può scorgere già in questo arcaico criterio di proporzione la misura di un limite. Alla vendetta segue la pena, che nella Legge delle XII Tavole (V sec. a.C.) appare come una alternativa pattizia alla Legge del Taglione1. Nel contesto storico, che sarà dominato a lungo dalla concezione assorbente della penalità2, l’idea del risarcimento – inteso come reintegrazione del patrimonio leso dal fatto illecito – non sorge neppure; esso comincia a profilarsi con la progressiva patrimonizzazione della pena. E la svolta è segnata dalla Lex Aquilia de damno (287 a.C.), quella che «derogò a tutte le leggi che prima di essa hanno parlato del danno arrecato ingiustamente, sia alle XII Tavole sia a qualsiasi altra … tanto che non occorre più parlarne» (D. 9, 2, 1). Questa legge, di tale importanza da imprimere il suo nome anche oggi alla responsabilità extracontrattuale3, introdusse per la prima volta il concetto di atipicità dell’illecito, parlando nel caput III del danno «a ogni altra cosa»4: di qui l’idea del risarcimento come controvalore economico. Si pone così in risalto il damnum, che è una lesione del patrimonio più che un’offesa alla persona (D., 39, 2, 3). Ma il caput III contiene l’aggiunta di un plus, che conserva l’aspetto punitivo: ossia «il maggior valore che la cosa aveva nei trenta giorni anteriori al fatto lesivo». Nasce così il mostrum della pena risarcitoria che, sopravvissuta alla compilazione di Giustiniano per tutto il diritto intermedio, finì per influenzare anche i codici dell’Ottocento, nei quali la materia del risarcimento del danno da responsabilità extracontrattuale è trattata sotto l’insegna equivoca dei «Delitti e quasi delitti»5. Tale impropria terminologia è stata ripudiata (quale «inutile questione»: Rel. Comm. reale, Lav. Prep. c.c. 1942, 246), sostituendola col titolo «Dei fatti illeciti», dal c.c. del 1942 che ha scolpito nell’art. 2043 la figura del «Risarcimento per fatto illecito», mettendo così in luce: a) la fattispecie del «fatto illecito», che è cosa ben diversa dal «delitto» e dal «quasi delitto»; b) l’effetto giuridico, consistente nell’obbligo del «risarcimento», che è cosa ben diversa dalla «pena». E quale debba essere il contenuto del risarcimento del danno è precisato dall’art. 1223 c.c. (richiamato dal successivo art. 2056): «la perdita subita … come il mancato guadagno in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta». Nulla di più.
Ciò non toglie che nello stesso codice civile, anche se in materia di responsabilità contrattuale, sia ben visibile qualche traccia dell’antica impronta punitiva. Innanzitutto nelle pattuizioni private. Più precisamente gli istituti della clausola penale (artt. 1382-1384 c.c.) e della caparra (art. 1385 c.c.), contengono la liquidazione preventiva del danno, il cui ammontare è di regola superiore, e anche di molto, all’entità effettiva del pregiudizio patrimoniale che può derivare dall’inadempimento: nel che, appunto, si rivela quell’aspetto punitivo o sanzionatorio del risarcimento che è insito nella parte eccedente il danno effettivo6. Quelli ora indicati sono i casi classici di “pena privata”, che non sono estensibili ad libitum dei singoli, non essendo dato a chiunque di prevedere ed erogare pene al di fuori dei limitatissimi casi espressamente contemplati dalla legge7 (tanto meno sarebbe concepibile una pena corporale, come quella descritta da Shakespeare, ne Il mercante di Venezia8). Anche nell’ambito delle facoltà concesse ai contraenti, la stessa legge tende a impedirne o mitigarne gli effetti: in tal senso la norma che conferisce al giudice il potere di ridurre la penale «manifestamente eccessiva» (art. 1384 c.c.)9.
Altre tracce dell’antica impronta si evidenziano in altre previsioni legislative, in cui sono riscontrabili fattispecie nelle quali la reazione dell’ordinamento va al di là della pura e semplice reintegrazione del patrimonio leso. Ma emerge una netta distinzione fra tre diverse situazioni:
i) quella in cui è aggravata la posizione del responsabile senza alcun vantaggio per il danneggiato, che non riceve nulla di più del dovuto;
ii) quella in cui l’apparente maggiore entità dell’unico risarcimento dovuto dipende in realtà dalla valutazione equitativa del danno (ex artt. 1226 e 2056 c.c.);
iii) quella in cui la responsabilità dell’autore del danno è maggiorata in relazione al risarcimento dovuto al danneggiato, che è il solo a beneficiarne. Ed è solo per quest’ultima ipotesi che può correttamente parlarsi di sanzione aggiuntiva al risarcimento, qualificabile come “punitiva”.
Per la prima categoria (sub i): l’art. 709, co. 2, n. 4, c.p.c. attribuisce al giudice il potere di «condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione pecuniaria … a favore della Cassa delle ammende». La sanzione aggrava la posizione del genitore inadempiente, senza aumentare l’ammontare del risarcimento dovuto al minore o all’altro genitore. Per la seconda categoria (sub ii): l’art. 18, co. 6, l. 8.7.1986, n. 349 (poi abrogato) disponeva che il giudice, nella quantificazione equitativa del danno ambientale, dovesse tener conto «della gravità della colpa individuale, del costo necessario per il ripristino e del profitto conseguito dal trasgressore»: elementi di giudizio per valutare l’entità dell’effettivo unico risarcimento dovuto dal responsabile, a carico del quale non è prevista l’aggiunta di un ulteriore pagamento a titolo sanzionatorio. Analoghe considerazioni valgono per il risarcimento che la Consob può chiedere a titolo di riparazione dei danni cagionati dal reato «all’integrità del mercato» ex art. 187 undecies, co. 2, d.lgs. 24.2.1998, n. 58. Per la terza categoria (sub iii), un caso classico di risarcimento “aggiuntivo”, a carico del responsabile e a favore del danneggiato, è quello previsto dall’art. 12 l. 8.2.1948, n. 47, secondo cui la persona offesa, «oltre al risarcimento del danno», può ottenere «una somma a titolo di riparazione», da determinare «in relazione alla gravità dell’offesa e alla diffusione dello stampato». Qui appare ben visibile il cumulo di due indennizzi per lo stesso fatto, a carico del medesimo responsabile e a vantaggio dell’unico danneggiato, per cui il di più, dovuto «a titolo di riparazione», può ben a ragione qualificarsi “punitivo” o “sanzionatorio”. A tale ipotesi può accostarsi la previsione dell’art. 96, co. 3, c.p.c., che sotto il titolo «Responsabilità aggravata», dispone che «il giudice può condannare la parte soccombente, a favore della controparte, al pagamento di una somma equitativamente determinata»10. Condanna che rivela una funzione prevalentemente sanzionatoria con efficacia deterrente rispetto all’abuso del processo «sul modello dei punitive damages angloamericani»11.
Un’attenta ricognizione delle fonti porterà certamente a rinvenire altri esempi di risarcimento del danno maggiorato di un’aggiunta a titolo sanzionatorio: ma ciò che occorre rilevare è che essi costituiscono comunque una deroga al criterio di liquidazione fissato dall’art. 1223 c.c., la norma che detta in materia la “regola generale”, rispetto alla quale quelle che fanno eccezione «non si applicano oltre i casi e i tempi in essa considerati» (art. 14 disp. prel. c.c.). Orbene, il citato art. 1223 c.c. stabilisce – come si è visto – una perfetta coincidenza tra il pregiudizio cagionato dal responsabile e il risarcimento dovuto al danneggiato: tanto è il danno, altrettanto sarà il risarcimento. E pertanto, se questo è liquidato in misura eccedente, il di più perde la natura risarcitoria assumendo un connotato punitivo o sanzionatorio.
Ma ciò sarà in deroga al criterio fissato dall’art. 1223 c.c. Può allora considerarsi ammissibile? Si ritiene di poter dare una risposta affermativa, non essendo l’art. 1223 c.c. una norma avente natura o copertura costituzionale: ma la deroga è consentita solo al legislatore, non anche al giudice. Infatti condannare l’autore di un illecito, oltre che al risarcimento dei danni ex art. 1223 c.c., ad una somma ulteriore a titolo di pena (non prevista dalla legge) sarebbe certamente un arbitrio. Ad impedirlo provvede il principio di legalità: «Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge» (art. 23 Cost.); «Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso» (art. 25 Cost.).
Il problema si è presentato nella giurisprudenza della Cassazione in termini di delibabilità o meno di sentenze straniere contenenti condanne per danni “punitivi”. Ed è stato impostato con riferimento al carattere “monofunzionale” o “polifunzionale” da attribuire al risarcimento del danno (che guarda al diritto del danneggiato), o più genericamente alla responsabilità civile (che guarda piuttosto alla posizione passiva dell’autore dell’illecito).
Così infatti Cass., 19.1.2007, n. 118312, in tema di responsabilità da prodotto difettoso, che, con orientamento che ha trovato conferma in Cass. 8 febbraio 2012 n. 178113, ha giudicato sulla delibazione di una sentenza straniera di risarcimento dei danni su infortunio sul lavoro, negandola, con la motivazione che nel sistema nazionale vigente il diritto al risarcimento del danno è riconosciuto solo «in relazione all’effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso». Si giunge quindi alla sentenza delle S.U., 5.7.2017, n. 1660114, che, sempre in sede di delibazione, riconoscendo alla responsabilità civile, anche la funzione – interna al sistema – di deterrenza e sanzionatoria, ha ritenuto non incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto dei risarcimenti punitivi. Il riconoscimento di una sentenza straniera in tale ipotesi «deve, però, corrispondere alla condizione che essa sia stata resa su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa e i suoi limiti quantitativi, dovendosi aver riguardo unicamente agli effetti dell’atto straniero ed alla loro compatibilità con l’ordine pubblico». Si è detto, di tale pronuncia, che essa si inserisce nel novero dei grands arrêts della Suprema Corte, poiché marca un deciso revirement in tema di riconoscibilità nell’ordinamento italiano delle sentenze straniere recanti condanna a danni punitivi «con risarcimenti più che compensativi». Ma è anche vero che si tratta di un revirement in materia di delibazione (che comporta un confronto con l’ordine pubblico interno) cui si è giunti dopo la constatazione che negli ultimi decenni, e in vari settori dell’ordinamento italiano, sono state introdotte disposizioni volte a dare un connotato lato sensu sanzionatorio al risarcimento. E sarebbe a dir poco incomprensibile negare la delibazione a una sentenza straniera che applica norme analoghe a quelle esistenti nell’ordinamento nazionale. E però – ecco il punto – resta sempre ferma la regola che il normale contenuto del risarcimento dei danni è l’equivalente del pregiudizio sofferto dal danneggiato: in conformità, appunto, al disposto dell’art.1223 c.c. È precisamente questo il “confine” che, ratione materiae, può anche essere superato, ma solo grazie a una norma di legge che espressamente lo preveda: giammai per una autonoma ed estemporanea iniziativa del giudice15. Al riguardo è significativo il passo conclusivo della sentenza, in cui la Corte, dopo avere ammesso nei limiti suddetti i risarcimenti punitivi, tiene a precisare che l’istituto aquiliano non ha mutato la sua essenza e che «ogni imposizione di prestazione personale esige una ‘intermediazione legislativa’ in forza del principio di cui all’art. 23 Cost. (correlato agli artt. 24 e 25), che pone una riserva di legge quanto a nuove prestazioni patrimoniali e preclude un incontrollato soggettivismo giudiziario». E tanto basta per ristabilire il primo confine (v. supra, § 1.).
Il secondo confine guarda sempre al risarcimento come entità equivalente al danno, ma questo considera al netto dell’eventuale vantaggio procurato al danneggiato dallo stesso fatto lesivo. L’espressione rituale solitamente adottata per designare questo meccanismo (totalmente o parzialmente) compensativo è quello della compensatio lucri cum damno. Il concetto espresso dalla formula latina ha un valore relativo e ben circoscritto, poiché, nei termini testuali ora riferiti, non trova precisi riscontri nelle fonti del diritto romano. Esso è stato utilizzato dalla dottrina moderna come elemento di valutazione del danno: sia nel senso che questo va qualificato rapportandolo al patrimonio leso nel suo complesso, e non soltanto al singolo bene colpito dall’evento lesivo; sia, di conseguenza, nel senso che, se dall’evento è derivato al patrimonio nel suo complesso un vantaggio economico, di questo si deve tener conto in detrazione (totale o parziale) del risarcimento16. Può darsi infatti il caso di un fatto illecito che, pur distruggendo o deteriorando una res, produce al tempo stesso nel patrimonio del soggetto leso un vantaggio tale da eliminare o ridurre il danno. È quanto dire, sempre in conformità alla regola fissata dall’art. 1223 c.c., che tanto il danno quanto il vantaggio patrimoniale debbono essere «conseguenza immediata e diretta» dello stesso fatto. Il presupposto, dunque, per l’operatività della compensatio lucri cum damno è che tanto il pregiudizio sofferto per il fatto illecito quanto l’eventuale vantaggio di cui il patrimonio nel suo complesso venga a beneficiare, siano da ricollegare direttamente alla medesima causa. Non basta quindi che il vantaggio pervenuto al danneggiato sia una mera occasione e non la causa diretta del fatto lesivo.
Con riferimento all’eventualità ora accennata, può infatti accadere che il danneggiato, oltre al risarcimento dei danni, abbia titolo per conseguire altri benefici economici. E l’esempio tipico è quello dell’assicurazione contro i danni stipulata dal proprietario di un bene che venga poi distrutto dall’atto illecito del terzo. Di modo che il danneggiato, accanto al risarcimento dovutogli dall’autore del fatto illecito (ex art. 2043 c.c.), ha diritto all’indennità di assicurazione verso la compagnia assicuratrice (ex art. 1882 c.c.). Il problema, che pone questa situazione bifronte, si può prospettare in due interrogativi, diametralmente opposti:
a) può l’autore del danno essere esentato (in tutto o in parte) dall’obbligo di risarcimento verso il danneggiato che sia stato indennizzato (in tutto o in parte) dal proprio assicuratore?
b) può il danneggiato cumulare l’integrale risarcimento del danno (dovutogli dall’autore del fatto illecito) con l’indennità di assicurazione (dovutagli dalla compagnia assicuratrice) per l’avveramento del sinistro? Per rispondere affermativamente alla prima domanda (sub a) si dovrebbe ammettere che l’autore del fatto illecito abbia titolo per eccepire la compensatio lucri cum damno. Il che è da escludere per la semplice ragione che non è da rinvenire nel suo atto illecito la causa “diretta e immediata” dell’indennità assicurativa, poiché questa spetta al danneggiato in quanto “assicurato” e come conseguenza del “sinistro” nei confronti del “suo” assicuratore. Ed è – si badi – un’assicurazione del danno, cioè stipulata e pagata dal proprietario (assicurato) nel suo esclusivo interesse; non si tratta di un’assicurazione di responsabilità civile (stipulata dal responsabile o da altri per lui). Del resto, ad escludere l’ipotizzata esenzione del responsabile dall’obbligo del risarcimento è la stessa legge, allorché dispone che: «L’assicuratore che ha pagato l’indennità è surrogato, fino alla concorrenza dell’ammontare di esso, nei diritti dell’assicurato verso i terzi responsabili» (art. 1916 c.c.). E ciò nel rispetto del fondamentale principio di responsabilità, a norma del quale «Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che commette il fatto a risarcire il danno» (art. 2043 c.c.). Il secondo quesito (sub b) – se il danneggiato (assicurato) possa cumulare il risarcimento con l’indennità assicurativa – parrebbe trovare una esauriente risposta nel co. 1 del citato art. 1916 c.c.: dato che questa norma attribuisce all’assicuratore in surroga il diritto dell’assicurato (danneggiato) verso il terzo responsabile, si direbbe che il cumulo sia automaticamente escluso. E così è, difatti, ogni qual volta l’assicuratore si avvalga del diritto di surrogazione ex art. 1916 c.c.17 Ma quid iuris se ciò non avviene? Può infatti accadere che l’assicuratore non si avvalga del diritto di surrogazione a lui concesso dalla legge: o perché vi rinunzia preventivamente (in polizza) o perché non lo esercita a sinistro avvenuto18. E in entrambi i casi – ma soprattutto nel primo – non è ragionevole supporre che la rinunzia sia fatta a favore del terzo responsabile19. Se, invero, di tale contegno omissivo dovesse profittare l’autore dell’atto illecito – in tal modo immeritatamente liberato dall’obbligo suo – si darebbe luogo ad una patente violazione del principio di responsabilità, il quale «obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno» (art. 2043 c.c.). Per di più il responsabile verrebbe a godere dei benefici di una assicurazione che non è stata stipulata da lui né da altri in suo favore. Si dirà: ma se la rinunzia dell’assicuratore al diritto di surrogazione va a favore dell’assicurato-danneggiato, questi finisce per conseguire un indebito arricchimento, dato che, per lo stesso fatto, viene a cumulare il risarcimento del danno (percepito dal terzo responsabile) con l’indennità di assicurazione (pagatagli dall’assicuratore). L’obiezione, però, può essere superata, non ricorrendo in tal caso i presupposti di legge per ravvisare nel cumulo la fattispecie dell’arricchimento senza causa di cui all’art. 2041 c.c. Tale norma, infatti prevede l’azione di ingiusto arricchimento a carico della persona la quale, «senza giusta causa», si è «arricchita a danno di un’altra», che deve pertanto indennizzare della «correlativa diminuzione patrimoniale». Ma nessuno di tali requisiti è ravvisabile nel caso del danneggiato-assicurato per il quale: esiste la «giusta causa», rappresentata dal fatto illecito (per il risarcimento del danno); non c’è arricchimento in danno altrui, perché se il danneggiato, in quanto assicurato, riceve legittimamente l’indennità pattuita (ex art. 1882 e 1905 c.c.) ciò non avviene di certo con un «arricchimento a danno di un’altra persona», e tanto meno in pregiudizio di chi quel danno cagionò; non è pertanto ravvisabile né per costui né per altri alcuna «diminuzione patrimoniale».
Le tematiche indicate hanno trovato ampia risonanza in una vicenda giudiziaria originata dalla sciagura aerea di Ustica (27 giugno 1980) (v., anche, in questo volume Diritto civile, 4.1.2 I confini della compensatio lucri cum damno). La questione dibattuta era in sostanza stabilire se è ammissibile, in favore del danneggiato, il cumulo tra indennità assicurativa e risarcimento del danno nel caso in cui – come nella specie – l’assicuratore del danneggiato non abbia manifestato la volontà di surrogarsi a quest’ultimo (ex art. 1916 c.c.) nell’azione risarcitoria contro il terzo responsabile (nella fattispecie, l’Amministrazione dello Stato italiano). Le S.U., con la sentenza 22.5.2018, n. 12565, prima di enunciare il principio di diritto («Il danno da fatto illecito deve essere liquidato sottraendo dall’ammontare del danno risarcibile l’importo dell’indennità assicurativa derivante da assicurazione contro i danni che il danneggiato-assicurato abbia riscosso in conseguenza di quel fatto»), per il quale ne era stato richiesto l’intervento (con ord. 22.6.2017, n. 15534)20, seguono un itinerario argomentativo che si sviluppa in due parti:
i) la prima sul concetto e l’ambito di operatività della compensatio lucri cum damno;
ii) la seconda sull’ammissibilità o meno del cumulo tra risarcimento e indennizzo assicurativo.
Con specifico riferimento ai limiti della compensatio (sub i) – la cui operatività è certa quando unico è il soggetto da cui proviene tanto il danno quanto il vantaggio – il problema si pone allorché il vantaggio derivi da un titolo e da un soggetto diverso rispetto all’autore del fatto illecito. Le S.U. ritengono che essa «non possa spingersi fino al punto da attribuire rilevanza a ogni vantaggio diretto o mediato», perché ciò condurrebbe a una eccessiva dilatazione della parte imputabile al risarcimento, traducendo il vantaggio in un «merito da riconoscere al danneggiante». Si tratta quindi di verificare se, nei singoli casi, l’ordinamento abbia previsto «un meccanismo di surroga e di rivalsa, capace di valorizzare l’indifferenza del risarcimento, ma nello stesso tempo di evitare che quanto erogato dal terzo al danneggiato si traduca in un vantaggio inaspettato per l’autore dell’illecito». In merito al secondo quesito (sub ii), relativo al cumulo fra l’integrale risarcimento del danno (dovuto al danneggiato dall’autore del fatto illecito) con l’indennità di assicurazione (dovutagli dalla compagnia assicuratrice) per l’avveramento del sinistro (v. supra, § 3.1, sub b), le S.U. si discostano da precedente giurisprudenza, affermando l’automatismo dell’art. 1916 c.c. e la riconduzione di questa norma nell’alveo dell’art. 1203, n. 5, c.c.21. Resta tuttavia aperta la questione relativa all’ipotesi che l’assicuratore abbia rinunciato preventivamente al diritto di surrogazione, ossia al momento della stipula del contratto di assicurazione. Ebbene, in base alla massima delle S.U., parrebbe che anche in tal caso l’indennità assicurativa riscossa dal danneggiato debba essere sottratta dall’ammontare del danno risarcibile. Ma, se così fosse, l’autore dell’illecito verrebbe a godere del beneficio di una assicurazione non stipulata da lui né da altri in suo favore.
1 Betti, E., Teoria generale delle obbligazioni, III, Milano, 1954, 13; La Torre, A., Cinquant’anni col diritto, I, Milano, 2008, 103 ss.; Sanfilippo, C., Corso di diritto romano. Gli atti illeciti (pena e risarcimento), Catania, s.d., 30; Betti E., La struttura dell’obbligazione romana e il problema della sua genesi, Milano, 1955, 176.
2 Albanese, B., Illecito (storia), in Enc. dir., XX, Milano, 1970, 5090, spec. 55 s., 5865, 7072, 85 ss.
3 Cannata, A., Delitto e obbligazione, in AA.VV., Illecito e pena in età repubblicana, Napoli, 1990, 33. Valditara, G., Damnum iniuria datum, Torino, 1996, 5 ss., 70 ss.
4 «Ceterarum rerum praeter hominem et pecudem occisos…», Cannata, A., op. cit., 35 s.
5 Così il Code Napoléon (art. 1382-1386); così il c.c. 1865 (artt. 1151-1156).
6 Il plus dell’eccedenza appare evidente in entrambi gli istituti: nella clausola penale, «dovuta indipendentemente dalla prova del danno» (art. 1382, co. 2, c.c.); nella caparra, il cui di più è implicito nella stessa norma che collega la caparra con l’inadempimento (art. 1385, co. 2, c.c., ove risuona l’eco della condanna al pagamento in duplum, «la forma standard delle repressione penale arcaica»: Albanese, B., Illecito, cit., 60 e 71.
7 Se fosse permesso a chiunque di infliggere sanzioni (patrimoniali), «si cadrebbe nell’arbitrio più assoluto» in violazione degli artt. 25, co. 2, Cost., e del principio della legalità delle pene: Moscati, E., Pena (diritto privato), in Enc. dir., XXXII, Milano, 1982, 772.
8 Von Jhering, R., La lotta per il diritto e altri saggi, Milano, 1989, 80 ss.; v. Gialdroni, S., La clausola penale tra finzione e realtà. Il caso limite di Shylock alla prova del diritto veneziano, in La pena convenzionale nel diritto europeo, a cura di S. Cherti, Napoli, 2013, 19.
9 Il potere giudiziale di riduzione della penale non viene meno anche se le parti ne abbiano pattuito l’irriducibilità: Cass., S.U., 13.9.2006, n. 18128, in Foro it., 2005, I, 2985; Cass., 28.9.2006, n. 21066, ivi, 2007, I, 434.
10 Gasperini, M.P., Delle parti, art. 96 c.p.c., Responsabilità aggravata, in Dei fatti illeciti, a cura di U. Carnevali, in Comm. c.c. Gabrielli, Torino, 2011, 583592, ove ampi riferimenti. Ritiene la condanna ex art. 96 c.p.c. non compatibile con l’ipotesi della sanzione punitiva Bianca, C.M., Diritto civile, 5, La Responsabilità, Milano, 2012, 78; Id., Qualche necessaria parola di commento all’ultima sentenza in tema di danni punitivi, in Giustiziacivile.com, 2018.
11 V. Zeno Zencocich, V., Il risarcimento esemplare per diffamazione nel diritto americano e la riparazione pecuniaria ex art. 12 della legge sulla stampa, in Resp. civ., 1983, 40 ss.; Id., Alcune riflessioni sulla riconoscibilità nell’ordinamento italiano di sentenze statunitensi di condanna a “punitivi damages”, in Judicium.it, 2016. V. anche Tria, L., Brevi osservazioni sui c.d. “danni punitivi” e sulla loro compatibilità con l’ordine pubblico italiano, in europeanrights.ea, 2017.
12 In Corr. giur., 2007, 497, con nota di P. Fava; in Danno e resp., 2017, 1125, con nota di R. Pardolesi; in Foro it., 2017, I, 1460, con nota di G. Ponzanelli; in Giur. it., 2007, 2724 ed ivi, 2008, 395, nota di A. Giussani; in Nuova. giur. civ. comm., 2007, I, 981, con nota di S. Oliari; in Resp. civ. prev., 2008, 188 con nota di G. Miotto.
13 Cass., 8.2.2012, n. 1781, in Corr. giur., 2012, 1068, con nota di R. Pardolesi; in Danno e resp., 2012, 609, con nota di G. Ponzanelli; in Foro it., 2012, I, 1449, con nota di E. De Hippolytis.
14 Cfr. Bianca, C.M., Diritto civile, cit., cui si rinvia per citazioni, cui adde: La Torre, M., Un punto fermo sui “danni punitivi”, in Danno e resp., 2017, 419; Corsi, G., Le Sezioni Unite: via libera al riconoscimento delle sentenze comminatorie di punitive damages, ivi, 429; Ponzanelli, G., Polifunzionalità tra diritto internazionale privato e diritto privato, ivi, 435; Monateri, P.G., Le Sezioni Unite e le funzioni della responsabilità civile, ivi, 437; Palmieri, A. Pardolesi, R., I danni punitivi e le molte anime della responsabilità civile, in Foro it., 2017, I, 2630; D’Alessandro, E., Riconoscimento di sentenze di condanna a danni punitivi: tanto tuonò che piovve, ivi, 2639; Simone, R., La responsabilità civile non è solo compensazione: punitive damages e deterrenza, ivi 2644, e Monateri, P.G., I danni punitivi al vaglio delle Sezioni Unite, ivi, 2648; Di Majo, A., Principio di legalità e di proporzionalità nel risarcimento con funzione punitiva, in Giur. it., 2017, 1787.
15 Mussi, R., Danni punitivi e ordinamento interno: la natura polifunzionale della responsabilità civile, in Rassegna della giurisprudenza di legittimità Ufficio del Massimario, III, 2017, Roma, 2018, 41.
16 Cfr. Gallo, P., Compensatio lucri cum damno e benefici collaterali, in Riv. dir. civ., 2018, 851 ss.; Puleo, S., Compensatio lucri cum damno, in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, 29 ss. ed ivi bibliografia, cui adde: Gallo, P., op. cit. 852, cui si rinvia per citazioni; Venditti, A., Dei limiti di applicabilità della compensatio lucri cum damno, in Giust. civ., 1956, I, 661; Franzoni, M., Dei fatti illeciti, in Comm. c.c. Scialoja-Branca, Roma-Bologna, 1993, 112.
17 Sulla surrogazione, quale ipotesi di successione a titolo particolare dell’assicuratore nei diritti dell’assicurato verso i terzi responsabili: Landini, S., Il contratto di assicurazione, in Trattato dei contratti, diretto da V. Roppo e A.M. Benedetti, V, Mercati regolati, Milano, 2014, 549; Cass., 24.6.1994, n. 6091; Cass., 24.11.2005, n. 24806; Cass., 29.9.2014, n. 20481. Cfr. per le opinioni accumunate dal rifiuto dell’affinità fra la surroga dell’assicuratore ex art. 1916 c.c. e la surrogazione legale ex art. 1203 c.c.: La Torre, A., Scritti di diritto assicurativo, Milano, 1979, 170; cfr. da ultimo Turci, M., Terzi responsabili e terzi obbligati: la surroga dell’assicuratore, in Dir. civ. cont., 11 ottobre 2017, cui si rinvia per citazioni.
18 Cfr. Venditti, A., Dei limiti di applicabilità, cit., 661 ss.; Franzoni, M., Dei Fatti illeciti, cit., 112; Gallo, P., Compensatio, cit., 868.
19 Cfr.: Cass., 19.6.1996, n. 5650, in Danno e resp., 1996, 693, con nota di V. Colonna; Cass., 31.5.2003, nn. 8827 e 8828, in Foro it., 2003, I, 2272 ed in Nuova giur. civ. comm., 2004, I, 232 che esclude l’applicazione della compensatio al caso della pensione di reversibilità della persona morta per omicidio colposo, fondandosi su un titolo diverso dall’illecito che causò la morte.
20 V. Volpe Putzolu, G., Osservazioni in tema di compensatio lucri cum damno nei contratti di assicurazione contro i danni, in Assicurazioni, 2017, 199 ss., critica, laddove viene negata in radice la possibilità del cumulo del risarcimento ritenuta «una ipotesi surreale, perché presuppone un accordo tra l’assicuratore e un terzo disponibile a risarcire il sinistro».
21 L’automatismo sembra smentito dalla rubrica dell’art. 1916 c.c., che richiama l’idea del diritto potestativo, mentre l’art. 1203 c.c., indica un effetto giuridico, compiendosi la surrogazione con lo stesso pagamento. Infatti l’art. 1203 c.c. ha per oggetto lo stesso diritto di credito al quale si riferisce il pagamento, mentre l’art. 1916 c.c. riguarda un credito diverso da quello soddisfatto.