I «controlimiti» nella giurisprudenza costituzionale
Risale a più di quarant’anni fa la costruzione della teoria dei controlimiti. Elaborata come extrema ratio per salvaguardare principi supremi e diritti fondamentali dell’ordinamento costituzionale da ogni possibile rischio di “aggressione” interna o esterna, si è sviluppata con maggiore forza e vigore a fronte dell’espandersi del processo di integrazione europea. Nessuna limitazione di sovranità, ex art. 11 Cost., avrebbe potuto consentire il sacrificio del patrimonio costituzionale. Così configurati, i controlimiti sono stati per lungo tempo esibiti, minacciati ma mai “azionati”, per affermarsi, poi, incisivamente, nella più recente giurisprudenza costituzionale. In particolare, nel terzo rinvio pregiudiziale sollevato, ex art. 267 TFUE, dalla Corte costituzionale, nell’ambito dell’ormai noto caso Taricco, vengono rappresentati come il “punto di snodo” tra UE e ordinamento nazionale, indispensabile per garantire «che le parti siano unite nella diversità».
L’ordinanza C. cost., 24.1.2017, n. 24 è la preziosa occasione per tornare ad affrontare i rapporti tra ordinamento dell’Unione europea e ordinamento nazionale attraverso il prisma dei controlimiti. Per essi si intendono quei principi supremi e diritti fondamentali che, connaturati all’ordinamento costituzionale dello Stato, segnano il confine oltre il quale non è ammesso alcun sacrificio del patrimonio costituzionale. Trovano la propria ragion d’essere nella Costituzione stessa, ove, all’art. 11 Cost., consente quelle «limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni». Principi supremi e diritti inalienabili rappresentano dunque quei “limiti” alle limitazioni di sovranità – per ciò detti controlimiti – invalicabili, inderogabili, intangibili. Intimamente connessi al principio democratico, assolvono alla funzione di «usbergo della statualità»1. Su un piano oggettivo, il rapporto tra primautè del diritto dell’UE e controlimiti si è sviluppato nella giurisprudenza costituzionale lungo il noto e tortuoso cammino comunitario che ha spinto la Corte ad ammettere un primato con “riserva”2, arginando così i confini della penetrazione delle fonti europee nell’ordinamento nazionale3. Che la strenua difesa di interessi nazionali, sia pur circoscritta al “nucleo duro” della Costituzione, abbia suscitato la forte e aspra ritrosia della Corte di giustizia, è storia nota e accende i riflettori su una seconda prospettiva di indagine. Questa, di natura soggettiva, vede come protagonisti la Corte di giustizia e la Corte costituzionale, quali attori di uno scenario fatto di scontri, compromessi, tattiche e finanche minacce, spesso però con armi “spuntate”. Sottesa a entrambe le prospettive, si colloca l’agognata realizzazione di un mito, anzi due: la “tutela multilivello dei diritti” compiuta tramite il “dialogo tra le Corti”. Come la storia insegna, però, la distanza tra il mito e la realtà può rivelarsi abissale. Ecco allora che sovente quell’apparato reticolare ove garantire il più elevato grado di tutela dei diritti è apparso inestricabile e spesso si è finito per chiamare “dialogo” quello che nei fatti si risolveva in una reciproca actio finium regundorum. D’altra parte, per oltre quarant’anni, il rapporto tra le Corti si è sviluppato a distanza, su di un terreno di confronto indiretto, calibrato sulla base di monologhi più che di dialoghi. Basti pensare che il primo rinvio pregiudiziale attivato dal giudice costituzionale risale al 2008. Il secondo è avvenuto nel 2013. Nell’anno in corso si riscontra il terzo rinvio. Si tratta del caso Taricco, ove la questione, sintomatica evoluzione dell’inestricabile intreccio delle due prospettive, ha chiamato in causa Corte di giustizia e Corte costituzionale per raggiungere il labile e tanto bramato equilibrio tra primato e controlimiti.
Con ordinanza n. 24/2017 il giudice costituzionale ha sollevato rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, al fine di risolvere la questione di legittimità costituzionale, sollevata dalla Corte di cassazione e dalla Corte di appello di Milano, dell’art. 2 l. 2.8.2008, n. 130, nella parte in cui autorizza alla ratifica e rende esecutivo l’art. 325, §§ 1 e 2, del TFUE, come interpretato dalla sentenza C. giust., 8.9.2015, C105/14, Taricco. Con tale decisione, la Corte di giustizia riconosceva l’efficacia diretta dell’art. 325 TFUE nella parte in cui prevede il dovere degli Stati di garantire «una protezione efficace» contro «la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione» e imponeva, di conseguenza, al giudice nazionale la disapplicazione della normativa interna, vale a dire degli artt. 160, ult. co. e 161, co. 2, c.p., qualora, nei casi di frode grave in materia di IVA, l’operatività delle stesse, a causa di un termine di prescrizione troppo breve, potesse compromettere l’inflizione effettiva e dissuasiva di sanzioni, ledendo gli interessi finanziari dell’Unione. Nulla quaestio sull’attività ermeneutica della Corte di giustizia nel «definire il campo di applicazione del diritto dell’Unione», né, in termini più specifici, sull’interpretazione dell’art. 325 TFUE (§§ 6 e 8 del Considerando in diritto). Quid iuris, però, se nell’ordinamento italiano esiste «un impedimento di ordine costituzionale» alla applicazione diretta da parte del giudice di siffatta interpretazione? Tale impedimento, prescindendo da qualsiasi legame con l’ordinamento dell’UE, deriva dalla constatazione che in Italia la prescrizione, in quanto istituto di diritto penale sostanziale, soggiace al principio di legalità in materia penale, vale a dire ad un principio «supremo» dell’ordinamento italiano. Detto in altri termini, dunque, il giudice costituzionale si interroga sul «se la Corte di giustizia abbia ritenuto che il giudice nazionale debba dare applicazione alla regola anche quando essa confligge con un principio cardine dell’ordinamento italiano» (§ 6 del Considerando in diritto). D’altra parte, la stessa Corte di giustizia, nel caso Taricco, precisava che «se il giudice nazionale dovesse decidere di disapplicare le disposizioni nazionali di cui trattasi, egli dovrà allo stesso tempo assicurarsi che i diritti fondamentali degli interessati siano rispettati» (§ 53). Obbligava, sì, alla disapplicazione, ma «con riserva di verifica del giudice nazionale» (§ 55). Come noto, nell’ordinamento italiano siffatta verifica spetta al giudice costituzionale. Ecco allora che questi, pur pensando che una pronuncia della Corte non possa mai interpretarsi «nel senso di imporre allo Stato membro la rinuncia ai principi supremi del suo ordine costituzionale» (§ 8 del Considerando in diritto), ha reputato «conveniente porre il dubbio all’attenzione della Corte di giustizia» (§ 6 del Considerando in diritto), scegliendo così la via della collaborazione, della cooperazione, del dialogo con il giudice europeo4. Almeno in apparenza5.
Il dubbio ermeneutico sollevato con il rinvio pregiudiziale in esame non riguarda dunque una disposizione del diritto dell’Unione, ma l’interpretazione di un’interpretazione già resa dalla Corte, o meglio, la delimitazione dell’ambito di operatività della stessa. Ci si domanda cioè se l’applicazione della regola tratta dall’art. 325 TFUE sia subordinata alla verifica di compatibilità della stessa con l’identità costituzionale dello Stato membro. Qualora ciò non fosse e la Corte di giustizia avesse inteso imporre una lettura dell’art. 325 TFUE “incostituzionalmente orientata”, il giudice costituzionale non ne potrebbe consentire l’applicazione. D’altra parte, il «principio di leale collaborazione, che implica reciproco rispetto e assistenza … comporta che le parti siano unite nella diversità. Non vi sarebbe rispetto se le ragioni dell’unità pretendessero di cancellare il nucleo stesso dei valori su cui si regge lo Stato membro … La legittimazione (articolo 11 della Costituzione) e la forza stessa dell’unità in seno ad un ordinamento caratterizzato dal pluralismo (art. 2 TUE) nascono dalla sua capacità di includere il tasso di diversità minimo, ma necessario per preservare la identità nazionale insita nella struttura fondamentale dello Stato membro (art. 4, paragrafo 2, TUE)» (§ 6 del Considerando in diritto). In caso contrario, i Trattati, espressione di un potere costituito, in quanto derivato dalla volontà degli Stati – che sono e restano i Signori dei Trattati – contribuirebbero, paradossalmente, «a dissolvere il fondamento costituzionale stesso dal quale hanno tratto origine … ». Ecco allora l’esigenza di sfoderare l’arma dei controlimiti, incontrovertibilmente intangibili da un potere costituito, in quanto espressione del «predominio assiologico della Costituzione»6 che è, e resta, l’unica manifestazione del potere costituente. Rimane solo una perplessità, derivante dall’intreccio della duplice prospettiva, oggettiva e soggettiva, nel ricorso alla pregiudiziale in esame. Delle due, l’una. Se la Corte si è avvalsa del rinvio, quale ineccepibile strumento dialogico, per evitare traumatiche rotture istituzionali, è consapevole che la cooperazione, nel caso di specie, potrebbe rendere nebulosa la ripartizione delle competenze tra Corte costituzionale e Corte di giustizia nella configurazione del rapporto tra primato e identità nazionali, legittimando una pericolosa “europeizzazione” dei controlimiti. Sarebbe inevitabile un’invasione di campo del giudice europeo7 in un terreno di assoluto e incontestabile predominio nazionale8. Preoccupanti le ripercussioni sull’ordinamento costituzionale, a fronte degli inevitabili attriti con il sistema europeo. Oppure, dietro l’ordinanza di rinvio non ci cela un’apertura al dialogo, ma solo un monito9, o meglio un ultimatum10 che, pur formulato con tono conciliante e nel pieno rispetto del galateo istituzionale, prelude uno scontro “armato”, sferrato a colpi di controlimiti. Ogni dubbio sarà fugato in base alla reazione della Corte di giustizia che consentirà di capire come, d’ora in poi, sarà possibile misurare i rapporti tra ordinamenti, bilanciare le ragioni dei controlimiti con quelle del primato. Ad ogni modo, di là da questo caso italiano – simile per molti aspetti alle recenti vicende europee, spagnole, tedesche, ceche – oggi i controlimiti si affermano con forza e vigore ben diverse dal passato. Abbandonato il contesto statico in cui apparivano come meri elementi di resistenza all’erosione europea, rappresentano, dinamicamente, la rigorosa affermazione della sovranità e dell’orgoglio nazionale, in grado di neutralizzare effettivamente il diritto dell’Unione.
1 Così, Luciani, M., I controlimiti e l’eterogenesi dei fini, in Questione giust., 2015, n.1, 89.
2 Per tale espressione, cfr. Cartabia, M., “Unità nella diversità”: il rapporto tra la Costituzione europea e le Costituzioni nazionali, in www.astrionline.it, 3.
3 Cfr. C. cost., 18.12.1973, n.183, 5.6.1984, n. 170, 4.7.1989, n. 389.
4 In tal senso, cfr. Riccardi, G., “Patti chiari, amicizia lunga”. La Corte costituzionale tenta il dialogo nel caso Taricco, esibendo l’arma dei controlimiti, in www.penalecontemporaneo.it, 27.3.2017, 3 ss.
5 Sul se si tratti di un’apertura al dialogo o una prosecuzione del monologo, cfr. le perplessità di Celotto, A., Un rinvio pregiudiziale verso il dialogo o per il monologo?, in Giur. cost., 2017, 185 s.
6 C. cost., 26.3.2015, n.49.
7 Come, d’altra parte, pare aver già fatto, l’avvocato generale nelle conclusioni presentate lo scorso 18 luglio, nella misura in cui ha escluso «che l’obbligo stabilito dalla Corte di giustizia nella sentenza Taricco … possa ledere l’identità nazionale della Repubblica italiana».
8 Sullo, ormai noto, sconfinamento della Corte di giustizia, interpellata ex art. 267 TFUE, nella valutazione circa la compatibilità del diritto interno con quello sovranazionale, cfr. Calvano, R., La Corte di giustizia e la Costituzione europea, Padova, 2004, 240 s.
9 Così, Riccardi, G., “Patti chiari, amicizia lunga”, cit., 10.
10 In tal senso, cfr. Kostoris, R.E., La Corte costituzionale e il caso Taricco, tra tutela dei “controlimiti” e scontro tra paradigmi, in Dir. pen. cont., 2017, fasc. 3, 7.