I cristianesimi nella storia
Ogni sete di conoscenza, inclusa quella di conoscenza storica, nasce da una spinta complessa: intellettuale, politica, psicologica, spirituale, che la pratica della ricerca continua a decantare mettendo in continua discussione i propri risultati e le proprie ottiche. Non fa eccezione lo studio storico dell’esperienza religiosa che si misura con tutte le insidie e le sfide della conoscenza del passato. Non fa eccezione nel percorso che l’ha portata dal servizio esclusivo e legittimante di un potere capace di sostenere i costi dell’operazione di ricerca a una situazione di minor dipendenza, garantita dai sistemi politici delle società pluraliste e dai sistemi accademici che hanno creato la figura dello «storico», con un suo statuto di doveri e di diritti che gli permettono di aspirare a una onesta intellettuale, di cui gli altri sono giudici dopo di lui/lei.
Per il cristianesimo, in questo in perfetta continuità con la sua matrice in Israele, ha se mai un apparentamento più profondo con la storia, perché non inizia con una illuminazione o una rivelazione, ma dentro una doppia storia che ne produce quelli che sarebbero diventati i suoi libri sacri: la Bibbia ebraica e greca, l’insieme di scritti che avrebbero raggiunto una struttura stabile alla fine del sec. 2° in quel canone che viene detto il Nuovo Testamento. Le scritture del giudaismo, infatti, si propongono come narrazione di una storia particolare – di promessa e di salvezza – che si discosta dai miti fondativi tipici della tradizione letteraria coeva. Israele infatti non si racconta la storia di una chiamata al dominio sul mondo, di una divinizzazione della propria dinastia regnante, ma quella di una promessa affidata a esseri umani in carne e ossa, nella cui vita abbondano le sconfitte e perfino le distruzioni più catastrofiche, senza che la vicenda offra quel lieto fine che ogni eziologia del sé collettivo avrebbe preteso. Allo stesso modo la predicazione cristiana produce un genere letterario nuovo – il Vangelo – nel quale sono raccontate gesta e parole di Gesù di Nazareth, sulla cui corrispondenza ai criteri del messia perfino i più intimi conservano ragionevoli dubbi: ma è proprio nell’assunzione di questa storia messianica finita con una esecuzione ignominiosa e del racconto dell’invisibile suo riscatto nella risurrezione il cui riscontro è l’esistenza di una tomba vuota che il cristianesimo trova la sua ragione di narrazione e di culto, a dispetto della stessa predicazione gesuana che della storia attendeva una imminente fine escatologica.
Non è senza significato che uno dei Vangeli canonici, quello di Luca, si proponga letterariamente come un libro di storia accurato, con dedica e clausole formali per raccontare ordinatamente la storia di Gesù nel suo percorso completo (dall’infanzia, ritenuta prima un dettaglio trascurabile, fino alle apparizioni), nel suo peregrinare predicando verso Gerusalemme e poi il cammino della comunità credente, anch’essa inserita in una storia che la porta, senza fasti, fino alla capitale dell’impero. È la svolta costantiniana dell’inizio del sec. 4° che fa di questo rapporto connaturale e fondante con la storia dell’esperienza cristiana qualcosa di diverso: perché, nel momento in cui la Chiesa cristiana guadagna l’omogeneità col potere cristiano, la sua storia diventa parte di un disegno nel quale sembra facile leggere tratti di provvidenzialismo. Eusebio di Cesarea dà fondamento non solo a un genere letterario di storia «ecclesiastica» nuovo quanto all’oggetto, ma anche a una diversa teologia politica che vede nella unità dottrinale l’analogo necessario all’unità dell’impero.
Lo stabilizzarsi di alcune istituzioni che sarebbero diventate «originarie», tale è l’investimento ideologico che su di esse viene fatto, genera una separazione fra la «grande» Chiesa – quella che ha un episcopato ortodosso, l’ordine tripartito, i concili, i canoni, le diocesi, un calendario liturgico, una forma rituale, ecc. – e le «eresie», nelle quali si manifestano tendenze che la cultura egemonica nella Chiesa non può e non vuole considerare varianti.
È lì al fondo che nasce un modo più ordinario, banale, di leggere la storia de «la Chiesa» che ne è l’oggetto legittimato e legittimante: da un lato l’assimilazione di questa conoscenza del passato ai canoni della storiografia della corte costantinopolitana, dall’altro l’emergere di opere e strumenti che conservano una memoria degli scambi epistolari, delle decisioni e del profilo delle figure decisive per il loro ruolo istituzionale (i vescovi) o liturgico (i martiri e i santi) di diverso significato per il lettore odierno. A volte si può trattare di documenti criticamente impervi ma di sicura utilizzabilità storica, in altri casi si tratta di testimonianze falsificate con uno scopo che rende quei documenti di non meno acuto interesse. La capacità dei secoli del Tardo antico e del Medioevo di produrre con questi materiali della «storia» nel senso da noi usato nel sec. 21° è ovviamente nulla: ma là dove il potere si consolida – da un lato a Bisanzio, dall’altro ad Aquisgrana, e non di meno a Roma – nasce una storiografia che l’erudizione dei secc. 18°- 20° rende oggi leggibile, con una ottica legittimante.
Si racconta la storia de «la» Chiesa e dei suoi nemici, di quello che è «l’» impero cristiano e dei suoi nemici, che possono anche essere altre Chiese o altri cristiani che usurpano un nome e la cui alterità dottrinale spiega tutto. Questo tipo di visione viene scosso in due distinti momenti: prima dall’umanesimo, la cui perizia filologica ripropone la questione dell’autenticità dei documenti (si pensi a Valla e alla falsa donazione di Costantino) e la questione del testo (specie per il Nuovo Testamento); poi dal mondo della stampa e della Riforma, che rendono la questione storica materia regina della controversia. Infatti, sia da parte luterana e poi riformata e dentro lo stesso universo protestante sia dentro il mondo romano e nella corte papale, la discussione poggia sull’argumentum storico. La stessa categoria di abuso/riforma, che dal sec. 11° ha una funzione dinamizzante essenziale nel mondo cristiano occidentale diventa materia storica: vuoi per «dimostrare» che la Chiesa romana ha pervertito la forma della Chiesa primitiva, alla quale si vuole ritornare rendendone storici alcuni elementi; vuoi per «dimostrare» che la continuità della tradizione ecclesiastica ha sviluppato forme di vita e di governo che non possono essere abbandonate perché sono ormai parte essenziale della storia. Col sec. 16° la storia, dunque, fa la storia della «vera» Chiesa in un universo culturale nel quale il sapere ha nuove forme di comunicazione e di diffusione che spingono ad approfondimenti critici decisivi, a partire dalla figura di Gesù. Prende il via con la pubblicazione postuma dei frammenti di Reimarus curata da G.E. Lessing nel 1768 il grande oceano di ricerche storiche sulla figura di Gesù (giunta ormai a quella che viene chiamata il third quest) e di un lavoro critico sul testo del Nuovo Testamento, giunto in centotrent’anni alla prima edizione di E. Nestle, che costituisce un salto qualitativo straordinario rispetto a quella erasmiana e che e giunto nel frattempo alla 30ª edizione rivista e corretta. Ma anche la via della storia «universale» del cristianesimo – che dopo il Concilio di Trento aveva visto confrontarsi i centuriatori di Magdeburgo per parte protestante e C. Baronio per parte cattolica – conosce un nuovo slancio, nel momento in cui, con la secolarizzazione della teodicea leibniziana, si passa dalla storia a «la» storia nel senso esplorato a fine sec. 20° da R. Koselleck. In un mondo che studia una storia degli uomini anche la storia dell’esperienza religiosa cristiana cambia: ma mentre segue le tendenze generali si alimenta anche di convinzioni proprie. Il mito della cristianità medievale – età della simbiosi fra potere civile e potere ecclesiastico o viceversa del formarsi dell’oscurità rischiarata solo dai lumi – diventa materia controversa. Il Concilio di Trento, che aveva dato una impronta indelebile al cattolicesimo romano e le cui carte erano state segretate perché nessuna «storia» ne impedisse l’applicazione papale con pericoli di cui era diventato emblema P. Sarpi, diventa oggetto di un grande lavoro di edizione che dura oltre un secolo prima nell’Italia di G.D. Mansi e L.A. Muratori, poi nella Parigi dell’abbé J.-P. Migne, e infine nella Germania dei Monumenta.
Ma nel corso del sec. 20° la questione della natura della storia della Chiesa inizia a mutare: nelle facoltà teologiche tedesche, che per buona parte del Novecento sono la capitale dell’esegesi e della storia, la divisione confessionale che marca il mondo accademico, la storia della Chiesa e ancora al singolare perche la storia «riceve» dalla teologia il suo oggetto, e di quell’oggetto produce una conoscenza rigorosa, basata su un uso scrupoloso e non arbitrario delle fonti, in un dialogo scientifico con le discipline ausiliarie e affini. Ma con la produzione di una ricerca storiografica sempre più intensa, nella quale intervengono figure sempre meno legate o addirittura in opposizione alle autorità confessionali, in un clima nel quale l’utopia ecumenica fa ritenere superabile la Glaubenspaltung, ci si rende conto che al contrario è proprio la storia che può fornire approcci dimenticati e chiarire situazioni aggrovigliate da secoli di controversia: alcune grandi figure di religiosi e teologi di grande spessore intellettuale si cimentano con questa impresa documentando in corpore vili ciò che G. Alberigo teorizza solo nel 1973, e cioè che è possibile fare una storia dell’esperienza religiosa cristiana che riceva il suo oggetto dalla storia. E che dunque sia l’effettiva esistenza di singoli o gruppi che si ritengono cristiani a meritare l’attenzione dello storico. Nel linguaggio colto italiano questo dà forza alla locuzione storia del cristianesimo che già E. Buonaiuti aveva utilizzato nella prima metà del secolo per oggettivare il campo d’analisi e liberarlo dalle superfetazioni confessionali. Altre lingue non usano la stessa locuzione, ma questa è, nei decenni che seguono la fine della Seconda guerra mondiale, la grande sfida per la ricerca storico-religiosa, esaltata dalla celebrazione del Concilio vaticano II. Questa storiografia riprende i temi controversi di Età moderna (a partire da Galileo, nervo sensibile nel pontificato di Giovanni Paolo II e oggetto di pasticciato mea culpa a fine sec. 20°), riconduce i problemi del Medioevo a dimensioni sociali e giuridico-politiche nuove, risistema la conoscenza del Tardo antico e apre cantieri di scavo sull’Età contemporanea le cui controversie, specie quella legata alla Chiesa di Roma e alla Shoah, diventano anche temi di controversia pubblica su scala mondiale. Ma il vero cambiamento e la presa d’atto di una sorta di illusione ottica nella quale tutte le storie e anche quella «religiosa» erano vissute: è presto o forse solo impervio individuarne le cause, anche se i processi di decolonizzazione e di riglobalizzazione hanno avuto senz’altro la funzione di un marker cronologico. Sta di fatto che, da una storia che leggeva le vicende cristiane come articolazione in periferie geografiche o teologiche di un eurocentrismo divenuto più orgoglioso delle sue «radici» monoreligiose a valle della Shoah, si è iniziato a percepire un pluralismo più profondo che ha segnato i tempi e gli spazi della storia cristiana: la stessa sopravvivenza di antiche Chiese in contesti religiosi diversi, la logica dell’inculturazione presente anche nelle stagioni della missionarietà violenta, l’effettiva contaminazione di spiritualità simboliche, il carattere transitorio ma prepotente dal punto di vista qualitativo di Chiese e la loro riproposizione nelle comunità profetiche sono coacervi di problemi che hanno reso la questione del quid storico assai più intricata, specie per quella connaturalità fra cristianesimo e storia evocata all’inizio. A inizio del sec. 21° questo ha portato alcuni a parlare di «cristianesimi» quasi a evocare una pluralità irriducibile di esperienze, di cui solo la radice che si riferisce alla rivendicazione messianica di Gesù rimarrebbe come filo rosso. Come in tutte le discipline il moltiplicarsi delle conoscenze e degli specialismi ha però un contrappeso, in questo ambito particolarmente insidioso: giacché il frammentarsi del sapere critico lascia spazio alla riproposizione di una conoscenza del passato unificata da logiche confessionali o di potere confessionale. È su questo invisibile confine che si gioca il futuro della conoscenza storica del cristianesimo.
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