I cristiani immigrati: fratelli stranieri
Ormai da tempo è evidente che anche in Italia, storicamente la nazione cattolica per eccellenza, il panorama religioso si declina sempre più in modo plurale, sia per i flussi migratori che modificano anche la geografia della fede, sia per l’emergere di istanze culturali e spirituali diverse da quelle della tradizione cattolica1. All’interno dell’ecumene cristiano, poi, il peso relativo dei diversi continenti si sta velocemente spostando a favore di America Latina e Africa2. Questo nuovo baricentro è destinato a diventare visibile anche in Europa e nelle terre di antica cristianizzazione, dove la percentuale maggioritaria dei nuovi abitanti immigrati si professa cristiana. È un cambiamento per alcuni versi lento, ma che è destinato a influire profondamente sul panorama del cristianesimo del nuovo secolo. Non soltanto oggi la maggior parte dei cristiani non viene battezzata più in Europa, ma anche in Italia e negli altri Stati europei i cristiani stanno cambiando volto: con essi, cambieranno volto le chiese e la Chiesa maggioritaria in Italia, la Chiesa cattolica. Si rispecchia nelle chiese quello che accade nelle città e nelle campagne italiane. In questi anni si è rivelato infondato il timore, politicamente agitato, di una invasione islamica provocata dall’arrivo di lavoratori stranieri e delle loro famiglie. I più recenti dati (dossier sull’immigrazione Caritas Migrantes 2009) fotografano una presenza di oltre quattro milioni di stranieri, di cui oltre il 52% cristiani3. Sono ortodossi la maggior parte degli immigrati dell’Est europeo, sono cattolici coloro che provengono dall’America Latina, insieme ai filippini e ai polacchi, sono protestanti moltissimi gruppi africani e sudamericani. Dal Medio Oriente, dall’Egitto, dall’Etiopia e dall’Eritrea arrivano, seppure in misura numericamente più esigua, cristiani delle antiche chiese orientali non calcedonesi, soprattutto copti.
Secondo i dati Istat all’inizio del 2010 gli stranieri rappresentavano il 7% del totale della popolazione residente in Italia (nel 2003 erano il 3,4%). La prima nazionalità è rappresentata dai romeni (il 21% degli stranieri), la seconda dagli albanesi, la terza dai marocchini. È un dato destinato a crescere, anche in relazione alla struttura demografica di queste comunità, e a modificare in maniera profonda la struttura demografica italiana: già oggi si tratta di un Paese assai diverso da quello che assistette al primo esodo degli albanesi, che nel 1991, a bordo delle carrette del mare, attraversavano in massa l’Adriatico. Fino ad allora l’immigrato era prevalentemente arabo e africano, generalmente musulmano. Nel corso di un decennio la struttura dell’immigrazione è cambiata notevolmente. Molte famiglie sono già arrivate alla seconda generazione ‘italiana’, spesso però senza poter accedere alla cittadinanza per la rigidità della legge italiana su questo aspetto, legata allo ius sanguinis e non allo ius soli. Si tratta di un fenomeno troppo recente per poter dire se le generazioni future continueranno poi la tradizione religiosa appresa dalla famiglia o si inseriranno invece nelle maglie delle comunità italiane4. Quelli che abbiamo definito per ossimoro i ‘fratelli stranieri’ vivono sulla loro pelle le difficoltà di integrazione in una società diversa da quella di partenza: resta da vedere quanto dell’accidentato percorso verso una cittadinanza civile si rispecchi nell’integrazione all’interno della stessa Chiesa di appartenenza o comunque nell’espressione della loro identità cristiana, quanto cioè i nuovi arrivati non siano considerati dai loro correligionari «né stranieri né ospiti» ma concittadini a tutti gli effetti.
I cattolici, circa 775.000 persone, rappresentano il 19,5% dei cristiani immigrati, secondo dati aggiornati al dicembre 2007. Quasi la metà proviene da paesi europei, Polonia in testa, seguiti poi dalle Filippine e dall’America Latina. Di fronte alle ondate migratorie degli anni Ottanta e Novanta del Novecento, le diverse diocesi reagirono in maniera assai diversificata, privilegiando ora un’accoglienza su base etnica, ora l’inclusione nelle attività e nelle strutture già esistenti, lasciando alla sensibilità dei singoli parroci la soluzione dei problemi che via via si presentavano.
La strada prevalente sembra essere quella di un’accoglienza poco inclusiva, che passa per un’etnicizzazione dei momenti di culto. Spesso ci si trova di fronte a un calendario di celebrazioni eucaristiche in diversi luoghi, in diverse lingue, cui fanno riferimento gli appartenenti a una determinata comunità: latinoamericana, polacca, albanese, africana francofona, africana anglofona, capoverdiana, filippina, ucraina, singalese, indiana (magari in più lingue), e così via. Molte volte sono preti provenienti dalle stesse comunità a celebrare la liturgia e a condurre i momenti di catechesi. Se la scelta etnica permette di mantenere lingua, usi e abitudini dei paesi di provenienza, aumentando così il grado di partecipazione e di coinvolgimento, a volte essa ha come conseguenza l’instaurarsi di una situazione di ‘vite parallele’, magari all’interno della stessa parrocchia. A Torino, nel 2010, si contano tredici comunità straniere che dispongono di un luogo di preghiera e di incontro stabile presso parrocchie o istituti religiosi. A Milano, dove il fenomeno migratorio impegna la diocesi da molto tempo come una vera e propria urgenza pastorale, esiste una cappellania generale che coordina le missioni e le diverse cappellanie etniche per un totale di sedici diversi gruppi che gestiscono oltre venti parrocchie. È da notare come negli stessi anni siano molto numerose le parrocchie che propongono scuole di italiano per gli stranieri, considerando la conoscenza della lingua come un mezzo indispensabile per l’integrazione a ogni livello. A Genova si celebrano messe in dodici lingue, in quattro riti, in circa venti diverse parrocchie. Particolare è poi la situazione di Prato, città con meno di 200.000 abitanti dove si celebrano messe in una decina di lingue, oltre all’italiano, e dove è presente una comunità cattolica cinese, piccola in termini assoluti ma in forte crescita (si parla di circa 150 membri sui 3.000 cattolici cinesi presenti in Italia). Se la maggior parte dei 25.000 cinesi residenti, spesso da diverse generazioni, nel territorio toscano restano legati alle tradizioni religiose e filosofiche orientali, da anni è presente una comunità cattolica seguita da un prete e una suora cinesi chiamati dalla diocesi. Se molti appartenevano già nel paese d’origine alla minoranza cattolica, è comunque consistente il numero di coloro che si sono avvicinati al cattolicesimo in Italia. La messa viene celebrata regolarmente in lingua cinese, così come sono presenti le attività di oratorio e di scuola di italiano per gli adulti. Mentre risulta molto difficile aprire un discorso religioso all’interno del mondo del lavoro, esso viene prevalentemente affrontato nell’ambito ospedaliero e in quello carcerario, luoghi dove prestano il loro servizio un certo numero di laici cinesi che assumono quindi anche la veste di mediatori culturali e linguistici con le istituzioni italiane. La diocesi ha istituito un vicario episcopale per gli immigrati, coadiuvato da religiosi e laici che si dedicano anche all’evangelizzazione di strada, avvicinando le persone con sussidi bilingui. Recentemente due giovani cinesi si sono candidati per il sacerdozio ed è in via di sperimentazione una forma di vita consacrata esplicitamente missionaria; sono già molti i matrimoni e i battesimi celebrati, così come diversi adulti hanno iniziato un percorso di catecumenato.
Da parte dell’istituzione ecclesiastica, con gli anni, è emersa sempre più chiaramente la necessità di analizzare il fenomeno a livello più generale, fornendo strumenti e risposte più unitari. Per questo vennero investite le commissioni ecclesiali competenti in materia, che hanno prodotto in questi anni numerosi documenti. Nel 1988 la Commissione per la Pastorale delle migrazioni e del turismo, voluta da Paolo VI nel 1978, venne trasformata daGiovanni Paolo II in Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti. Da questo dicastero sono giunti molteplici inviti ad approfondire la formazione di quanti si sarebbero dedicati alla pastorale e al servizio dei migranti, aggiornando anche i programmi di teologia pastorale nei seminari. Un importante contributo in tal senso è stato offerto a metà degli anni Ottanta dai saggi contenuti in un numero della rivista «Seminarium» su De formatione ad pastoralem migrantium cura5. Nel 1993 la Commissione ecclesiale per le migrazioni pubblicò i primi orientamenti pastorali in proposito: Ero straniero e mi avete ospitato; in questo documento veniva richiamata, accanto alla responsabilità della Chiesa nel paese di arrivo, anche quella della Chiesa del paese di partenza, rilevando che le migrazioni erano un campo qualificato di cooperazione missionaria. Anche la dimensione ecumenica veniva sottolineata, dato il crescente flusso proveniente dai paesi dell’Est di tradizione ortodossa. È dell’anno giubilare la guida pastorale Nella Chiesa nessuno è straniero, redatta dalla Fondazione Migrantes, cui nel frattempo la Cei aveva demandato il compito di studiare la situazione e di fornire gli opportuni strumenti pastorali. Nella guida si enunciano i principi e gli orientamenti comuni che devono informare l’azione delle singole diocesi. È da subito chiaro che occorre integrare la comunità parrocchiale e la comunità etnica, che con i suoi operatori è spesso indispensabile a livello linguistico, culturale, spirituale, soprattutto nei primi anni di permanenza nel nuovo paese d’immigrazione.
Per la Giornata mondiale della pace del 2001, intitolata Dialogo fra le culture per una civiltà dell’amore e della pace, Giovanni Paolo II nel suo messaggio mise in risalto come le migrazioni rappresentassero il contesto quotidiano e privilegiato dove questo dialogo avrebbe potuto e avrebbe dovuto svilupparsi. Nell’anno successivo il Consiglio episcopale permanente approvò gli Orientamenti per l’istituzione di strutture pastorali a servizio dei cattolici emigrati in Italia, preparato dalla Commissione episcopale per le migrazioni. In tale documento venivano ripercorse le tappe della riflessione della Chiesa sull’emigrazione e sulla pastorale per i migranti, ricordando le diverse possibilità che il diritto canonico offre per la cura degli stranieri, in pratica quelle utilizzate nelle 250 realtà pastorali ancora attive in Europa per gli italiani all’estero: la parrocchia personale, la missione con cura d’anime e la cappellania etnica. Nel testo si insisteva particolarmente sull’armonia che deve sussistere tra due esigenze fondamentali: da una parte «promuovere il processo di integrazione degli stranieri sul piano ecclesiale, oltre che su quello civile», dall’altra «rispettare, valorizzandole, le peculiarità di cultura, lingua e religiosità delle quali ogni gruppo etnico è portatore». Per quanto riguarda il problema della provvisorietà o della stabilità delle strutture pastorali per i migranti, l’esperienza degli italiani all’estero mostra che il pieno inserimento è avvenuto soltanto a diverse generazioni di distanza: questo fa ritenere che l’aspetto etnico della vita parrocchiale italiana sia destinato, soprattutto nei grandi centri urbani, a costituire una caratteristica almeno di lungo periodo della realtà dei cattolici in Italia. Infatti, è evidente come il fenomeno migratorio rappresenti ormai un dato permanente anche nell’ambito ecclesiastico, tanto che nel 2003 la Fondazione Migrantes poté censire oltre 500 Centri pastorali per i cattolici stranieri in Italia. Nel frattempo si è avviato un dibattito, condotto soprattutto sulle riviste specializzate in problemi pastorali, tra quanti sottolineano i rischi di una possibile ‘etnicizzazione’ della vita religiosa e quanti difendono l’utilità pastorale e spirituale delle cappellanie etniche, viste come un’occasione per evitare un ulteriore sradicamento conseguente all’esperienza migratoria, cercando di armonizzare integrazione e mantenimento della propria identità culturale e religiosa: viene proposto così un modello di comunione nel quale giungere a una reale pastorale d’insieme tra parroco territoriale e responsabile pastorale delle diverse comunità.
Come nella società civile, anche nella Chiesa il percorso verso una piena integrazione viene condotto soprattutto a partire dai bambini, che spesso frequentano il catechismo della parrocchia insieme a tutti gli altri, italiani o stranieri che siano. Iniziano a essere numerosi i casi in cui cattolici di recente immigrazione sono presenti nei consigli pastorali delle singole parrocchie, segno di una sempre maggiore unità nella comunità parrocchiale. La religiosità degli stranieri non può essere considerata soltanto come la riproposizione di quanto avveniva nel paese d’origine. Come in ogni esperienza umana, anche in questo caso l’incontro con la nuova realtà porta sempre e comunque a una rivisitazione del passato, a un’osmosi tra patrimonio della propria tradizione e patrimonio che si trova nel paese di accoglienza con la conseguenza della nascita di nuove prassi e ‘tradizioni’: si pensi per esempio ai pellegrinaggi etnici verso santuari italiani, o alla celebrazione delle feste dei santi, locali o ‘importati’, secondo modalità diverse da quelle tradizionali italiane. Si creano così quelle identità meticce che, anche attraverso il cambiamento di lingua, rappresentano una tappa intermedia nel percorso di integrazione degli immigrati.
Un altro aspetto non secondario delle migrazioni di cattolici è stato affrontato dall’istruzione Erga migrantes caritas Christi del Pontificio consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti nel maggio 2004. In essa si ricorda che a norma del codice di diritto canonico i cattolici di rito orientale hanno l’obbligo di conservare il proprio rito, anche se stabilmente risiedono in zone dove non è eretta la gerarchia orientale. Spetta al vescovo della Chiesa latina provvedere ai loro bisogni spirituali e liturgici, anche attraverso l’aiuto che i patriarchi possono offrire inviando visitatori o clero stabilmente residente nei paesi meta di emigrazione. L’immigrazione arricchisce così il panorama liturgico e mette in contatto i cattolici italiani con le altre tradizioni della stessa Chiesa. Dall’inizio del secolo XXI è comune, soprattutto nelle grandi città, la presenza stabile di comunità cattoliche orientali che mantengono il proprio rito, in chiese offerte a tale scopo dalla gerarchia cattolica.
Secondo il dossier Caritas Migrantes del 2008, gli immigrati di religione ortodossa in Italia sono il 28,3% degli stranieri cristiani. Si tratta di una componente in costante aumento per il crescente flusso migratorio proveniente dall’Europa dell’Est, favorito anche dall’ingresso nell’Unione Europea di paesi quali la Bulgaria e la Romania all’inizio del 2007.
La caratteristica della presenza ortodossa è quella di ricalcare le tradizionali divisioni nazionali d’origine, che danno vita quindi a una pluralità di chiese ortodosse con un numero di fedeli assai diversificato. Quella con il maggior peso numerico è romena, con quasi 800.000 presenze stabili. Si tratta anche della prima collettività straniera in Italia per numero di residenti, anche se non è corretto identificare totalmente l’immigrazione romena come ortodossa. Esiste, infatti, anche un nucleo pentecostale da quasi un secolo, che ha mantenuto questa specificità anche in Italia6. Per i romeni ortodossi presenti in Italia il riferimento istituzionale è rappresentato dalla diocesi d’Italia del Patriarcato di Romania, creata nel 2008, guidato dal vescovo Siluan Span. Sono molte ormai le comunità che hanno un pastore stabile che vive e lavora nella stessa città dove svolge il suo ministero. Attualmente vi sono dieci decanati con un centinaio di parrocchie e due monasteri, in Campania e in Calabria. In molte diocesi la comunità romena ortodossa ha trovato accoglienza nelle strutture cattoliche; in molti casi, a partire dal passo profetico del cardinale Ballestrero a Torino nel 1982, gli ortodossi romeni hanno avuto in gestione chiese non più officiate7.
Il Patriarcato di Serbia, un’antica presenza in Italia, ha visto il numero dei suoi fedeli aumentare considerevolmente in conseguenza delle vicende belliche della ex-Jugoslavia; attualmente la metropolia di Zagabria, Lubiana e Italia, con sede a Trieste, conta anche parrocchie serbo ortodosse a Milano e a Vicenza. Il Patriarcato di Mosca segue le proprie comunità ortodosse russe attraverso il decanato d’Italia, che fa parte della diocesi di Chersoneso, con sede a Parigi. La più recente nascita canonica in Italia riguarda la parrocchia ortodossa bulgara a Roma, eretta nel 2003, riferimento per circa 3000 bulgari residenti in Italia.
Gli antichi legami che uniscono l’Italia con il Patriarcato di Costantinopoli sono stati rinvigoriti dalla presenza di immigrati provenienti dalla Grecia e dall’Est europeo; attraverso la Sacra arcidiocesi ortodossa d’Italia, con sede a Venezia, sono curati una trentina di parrocchie, monasteri e istituti. Alla secolare presenza nella penisola di nuclei di ortodossi greci si deve aggiungere una forte presenza di studenti temporaneamente residenti in Italia e gruppi, in crescita, di recente immigrazione, per un totale di circa 150.000 presenze; dal Patriarcato ecumenico dipendono anche alcune comunità della diaspora di russi, ucraini e carpato-russi. L’arcidiocesi d’Italia del patriarcato di Costantinopoli è stata la prima presenza ortodossa a ricevere il riconoscimento di personalità giuridica da parte dello Stato italiano nel 1998.
Non vanno dimenticate, nonostante le dimensioni numericamente modeste, altre chiese e gruppi in situazione canonica irregolare, come i vecchio-calendaristi greci e romeni, i vecchi credenti, la Chiesa autocefala di Polonia e quella di Macedonia.
L’Ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso e quello per i problemi giuridici, organismi della Cei, hanno emanato nel febbraio 2010 un Vademecum per la pastorale delle parrocchie cattoliche verso gli orientali non cattolici. In esso si sottolinea come nei prossimi anni l’insieme dei fedeli ortodossi diventerà la seconda comunità religiosa italiana e come tale situazione cambia profondamente i termini dei rapporti ecumenici: l’ecumenismo viene finalmente sottratto alle tradizionali relazioni con le piccole minoranze storiche e ai rapporti di vertice, per investire pienamente la vita quotidiana delle diocesi e delle parrocchie italiane nel loro complesso. Per ovviare alla scarsa conoscenza delle realtà cristiane non cattoliche, la prima parte del testo richiama alcuni elementi dottrinali utili per comprendere il profilo delle chiese orientali non cattoliche, in particolare per quanto concerne le differenze nella teologia sacramentaria; la seconda parte offre alcune indicazioni relative alla problematica della communicatio in sacris, ai matrimoni misti e all’ammissione dei fedeli alla piena comunione nella Chiesa cattolica. Si richiama anche l’applicazione analogica della normativa delle chiese cattoliche orientali sui iuris, raccolta nel codice delle chiese orientali del 1990. Secondo le indicazioni del documento, gli ordinari diocesani cattolici sono il riferimento privilegiato per quelle chiese orientali che manchino di edificio di culto, alle quali possono essere concessi in comodato edifici sacri, possibilmente non in uso.
Come si è accennato, la crescente presenza ortodossa in Italia permette anche un importante sviluppo del dialogo ecumenico: il vescovo romeno Siluan Span è stato invitato in Vaticano come delegato fraterno al Sinodo dei vescovi italiani del 2008, dedicato alla Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa, mentre sono numerose le occasioni di carità fraterna e di apertura che caratterizzano l’incontro tra cattolici e ortodossi. Inoltre, la scoperta di un volto forse inedito e insperato dei cattolici italiani nei confronti degli ortodossi avrà positive ricadute nell’immagine che i familiari e le comunità rimaste nei paesi d’origine avranno della Chiesa cattolica in Italia, con la conseguenza di una reciproca maggior apertura.
Secondo i dati pubblicati da Paolo Naso e Brunetto Salvarani, su quasi 600.000 protestanti ed evangelici, italiani e stranieri, gli immigrati appartenenti a chiese etniche sono oltre 200.000, mentre gli evangelici pentecostali assommerebbero a circa 250.000 persone8. Queste proporzioni ricalcano una dinamica presente a livello mondiale, per cui il pentecostalismo si avvierebbe a diventare una delle espressioni maggioritarie del cristianesimo, soprattutto in Africa.
Si tratta di gruppi assai diversi, su cui ci si limiterà a fornire qualche indicazione, anche per la scarsità, nella maggior parte dei casi, di studi sul tema. Molti immigrati provenienti dall’Africa, dall’America Latina e dall’Asia si riconoscono in qualcuna delle numerose denominazioni che erano già presenti nei loro paesi d’origine. Altri, invece, si avvicinano alla fede in concomitanza con l’esperienza migratoria. Molte chiese nascono proprio in Italia intorno alla figura di un fondatore che ne diviene anche il pastore, anche se non vi sono percorsi di studio fissi; si tratta di realtà per loro natura assai poco istituzionali e molto fluide. È chiara anche la funzione di socializzazione che queste chiese offrono, mantenendo e rinsaldando legami che possono funzionare come un’importante rete nel momento delicato dell’inserimento in nuovi contesti sociali, diversi sotto molti profili e spesso marginalizzanti. D’altro canto, la connotazione etnica di queste chiese produce un effetto di autoesclusione che a lungo andare può risultare controproducente.
L’esperienza migratoria è inoltre legata, anche dal punto di vista storico, allo sviluppo del pentecostalismo in Italia: le sue origini, infatti, risalgono all’esperienza di italiani emigrati negli Stati Uniti e poi ritornati nelle loro regioni di origine, dove hanno spesso assunto il ruolo di pastori delle comunità italiane. In particolare, questo percorso si ritrova nelle Assemblee di Dio in Italia, che ottennero il riconoscimento giuridico nel 1960 e l’intesa con lo Stato italiano nel 1988, grazie alla quale possono partecipare alla raccolta dei fondi dell’otto per mille9. Attualmente contano oltre 140.000 aderenti, tra cui una quota di immigrati.
A partire dall’anno 2000 la Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei), alla quale aderiscono valdesi, metodisti, battisti, luterani, Esercito della Salvezza e alcune comunità indipendenti, promuove il progetto Essere chiesa insieme, con l’obiettivo di costruire percorsi di fraternità e di incontro tra comunità che condividono la stessa fede ma con forme e linguaggi diversi, dando vita a un percorso di scambio e di sostegno, difficile ma arricchente, a detta degli stessi protagonisti. A volte non mancano i problemi, come nel caso di denominazioni divise in rami diversi, magari per problemi linguistici, che hanno difficoltà a condividere un percorso comune a causa del rifiuto di alcune comunità di partecipare alla vita della Chiesa al di là del loro spazio etnico.
Vi è però una quota consistente di percorsi religiosi che si svolge al di fuori del contatto con le chiese riformate storiche presenti in Italia. Il fenomeno più evidente è quello delle cosiddette black churches, chiese indipendenti a base etnica, generalmente di matrice pentecostale e caratterizzate da un marcato congregazionalismo. Infatti, soprattutto nel Nord est, ma in aumento ovunque nella penisola, si riscontra la presenza di chiese africane e latino-americane, dove si riuniscono in particolare emigrati provenienti da Nigeria, Ghana, Costa d’Avorio, Camerun, Togo, Ecuador, Perù, Brasile. Si tratta di realtà che raccolgono in genere immigrati di prima generazione, con scarsa integrazione sia nel contesto sociale sia in quello religioso delle comunità evangeliche locali. Il mancato riconoscimento ufficiale di queste chiese, che non beneficiano delle tutele previste per i culti organizzati in Italia, rende difficile a volte anche garantire la stabilità dei luoghi di culto, spesso capannoni ex industriali o garage, soprattutto con le misure restrittive sulla conversione d’uso degli immobili che molti comuni hanno approvato.
Sempre legata alla galassia pentecostale è la presenza di coreani che hanno fondato la loro chiesa a Roma, e di evangelici latinoamericani che danno vita, in Italia, a filiali di chiese indipendenti secondo la prassi diffusa nei loro paesi d’origine; tra queste, la Luz del Mundo, messicana, e la Congregazione cristiana Popolo di Dio, paraguayana.
Un’altra tranche, in Italia esigua ma pur sempre esistente, è rappresentata poi dai movimenti profetici nati in Africa e nelle Filippine. Tra questi, la Iglesia ni Cristo, di origine filippina, conta nel mondo circa due milioni di fedeli ed è fortemente critica nei confronti delle chiese cristiane storiche; in Italia conta oltre 3000 membri, residenti soprattutto a Roma e a Milano, e ha ottenuto nel 1994 il riconoscimento giuridico da parte dello Stato italiano. Di origine sub-sahariana sono invece due dei più noti movimenti profetici contemporanei, quello che ha dato vita alla Chiesa di Gesù Cristo sulla terra per mezzo del profeta Kimbangu e quello da cui è sorta la Celestial Church of Christ. La prima, originaria dell’ex Zaire, è presente tra gli immigrati dell’attuale Repubblica Democratica del Congo; la seconda, originaria della Nigeria e diffusa in tutta l’Africa, conta in Italia, dove è presente dall’inizio degli anni Novanta, un migliaio di fedeli, tra i quali alcuni italiani.
Trattare di popolazioni ‘zingare’ all’interno di uno studio sui cristiani non intende affermare ulteriormente la loro presunta diversità, né parlarne all’interno di un saggio sui cristiani stranieri vuole ipotizzare che essi stessi siano appunto stranieri, giacché in maggioranza non lo sono dal punto di vista anagrafico. Soltanto si vuole mettere in luce una particolarità che ha risvolti anche nell’ambito religioso e che spesso nell’ambito religioso vede riflessi i problemi che essi si trovano ad affrontare nella società italiana in generale.
Parlare di Sinti e Rom significa parlare di una minoranza composta da un popolo europeo ma senza patria, diviso tra molti Stati. La maggior parte di loro, dopo l’allargamento a Est dei confini dell’Unione Europea, si trova a godere in linea teorica dello status connesso alla cittadinanza europea, ma in realtà è proprio nei loro confronti che si segnalano antiche e moderne forme di razzismo, tanto che vi sono Stati chiamati in causa dall’Unione Europea stessa per il trattamento riservato a questi loro cittadini con punte di vero e proprio antigitanismo.
In Italia Rom e Sinti sono calcolati a fine Novecento tra le 100.000/120.000 persone, la metà delle quali possiede la cittadinanza italiana e si trova nel nostro Paese da molte generazioni. Il particolare stile di vita ha fatto sì che anche per l’aspetto religioso fossero influenzati dall’ambiente dove si trovavano a vivere: vi sono quindi Rom cristiani e Rom musulmani; tra i primi, cattolici, ortodossi e una piccola minoranza di protestanti. Soprattutto i Kalderasha sono coinvolti nel movimento pentecostale, che ha avvicinato molti all’incontro diretto con la Bibbia e che offre la presenza di pastori Rom, che tengono le loro istruzioni religiose in lingua romanes e sono per questo molto apprezzati. Le Assemblee di Dio in Italia hanno poi una missione dedicata ai Sinti, la Missione Evangelica Zigana, con circa duemila aderenti sinti italiani.
Le migrazioni degli anni Novanta, soprattutto dalla Jugoslavia e poi dagli Stati che sono nati dalle sue ceneri, e più recentemente dalla Romania, hanno portato in Italia prevalentemente famiglie ortodosse, anche se oggi le difficoltà della vita quotidiana inducono a vivere una religiosità fatta prevalentemente di tracce antiche, non alimentata da una prassi costante e da una pastorale pensata per loro. Manca, soprattutto, nella maggior parte degli insediamenti, un’attenzione delle chiese locali all’istruzione religiosa dei bambini (tenendo conto che fra l’altro la popolazione Sinti e Rom ha un’età media ben inferiore a quella della popolazione italiana in generale). Le tradizioni religiose sono custodite prevalentemente dagli anziani; a questo proposito afferma G. Battaglia: «non stupisce che, nel giro di qualche generazione, venga abbracciata la religione del paese in cui i Rom si trovano. Non sono neppure vere e proprie conversioni: semplicemente, il bisogno di Dio porta a frequentare i luoghi di culto che sono in questo o quel paese»10. Le feste più importanti (Natale, San Giorgio, venerato anche dai musulmani, Pasqua, santa Paraskeva), sono celebrate però con tutto il fasto possibile in ambito familiare e di gruppo; quello che manca, soprattutto per i gruppi ortodossi, è però la possibilità di un contatto non sporadico con la Chiesa e il pope.
In ambito cattolico, oltre al lavoro di alcune organizzazioni di volontariato, esistono preti e suore rom e sinti che si dedicano in particolare alla predicazione e alla pastorale del loro popolo. Giovanni Paolo II nel 1997 ha canonizzato il primo martire zingaro, beatificato l’anno precedente, Ceferino Giménez Malla, fucilato in Spagna nel 1936. Il Pontificio Consiglio per la pastorale dei migranti e degli itineranti ha emanato nel 2005 un documento intitolato Orientamenti per una pastorale degli zingari, dedicato proprio alle linee da seguire per un sempre maggiore avvicinamento di queste popolazioni al Vangelo e alla Chiesa. Nel 2007 si è celebrato a Roma il primo incontro mondiale di sacerdoti, diaconi e religiosi zingari sul tema Con Cristo al servizio del popolo zingaro. Nel documento conclusivo si auspica che il personale religioso di origine zingara assuma il ruolo di ponte tra la comunità degli zingari e quella dei gagé con l’obiettivo di trasmettersi reciprocamente il Vangelo. Inoltre, si è fatto cenno alla possibilità di creare una sorta di prelatura apostolica per i nomadi e di organizzare un seminario internazionale a loro riservato, per offrire una formazione specifica.
Nel 1997 la Conferenza Episcopale Italiana incaricò il Centro unitario per la cooperazione missionaria tra le chiese (Cum) di Padova di occuparsi di un fenomeno che stava modificando le diocesi italiane: quello dei preti e delle suore stranieri che più o meno stabilmente prestavano il loro servizio pastorale in Italia, lontano dalle chiese in cui erano cresciuti. Si tratta di un fenomeno che non coinvolge soltanto l’Italia, ma tutte le zone dove le chiese ‘antiche’ soffrono dei problemi legati alla mancanza di vocazioni e all’invecchiamento della popolazione. Negli Stati Uniti e in Europa ormai da decenni questa presenza è in forte crescita, con diverso peso percentuale ma con una durata che ormai esige qualche analisi e qualche riflessione ulteriore. Se la direzione dei missionari era tradizionalmente quella nord-sud, oggi il flusso è diventato a doppio senso: mentre l’Europa continua, seppure in misura minore, a inviare missionari negli altri continenti, anche l’Africa, l’America Latina e l’Asia mandano personale in Europa. Molti seguono anche le comunità immigrate dai loro stessi paesi di provenienza, secondo il modello che già il vescovo italiano G.B. Scalabrini aveva inaugurato con le comunità italiane emigrate in America nell’Ottocento.
Pur nella diversità delle biografie, si possono tuttavia individuare alcune costanti: si tratta in genere di persone venute in Italia per completare il ciclo di studi presso le università pontificie o le case madri degli ordini, dove viene concentrata la formazione di persone provenienti da tutto il mondo. In alcuni casi minoritari si tratta di preti che hanno subito minacce o violenze nel loro paese d’origine. Spesso iniziano a collaborare al servizio pastorale durante gli studi e poi, al termine di questi, viene chiesto loro di rimanere stabilmente oppure loro stessi chiedono di prolungare il periodo di permanenza in Italia. Qualcuno arriva nell’ambito di programmi di cooperazione intraecclesiale. In alcuni casi la loro attività si rivolge ai gruppi nazionali da cui provengono, facendone una sorta di cappellani etnici. Ma naturalmente l’impatto che queste nuove leve di preti ha in Italia presenta uno speculare volto nei paesi di origine, per la maggior parte zone di recente evangelizzazione, dove per le giovani chiese questo costante flusso in uscita rappresenta un depauperamento di risorse umane considerevole.
Proprio queste diverse letture dello stesso fenomeno, entrambe valide da un punto di vista ecclesiastico, si innestano su quelle che sono le esperienze personali vissute in Italia da preti colombiani, filippini, polacchi o congolesi. La Chiesa presenta un volto globalizzato in cui le differenze dovrebbero essere colte come diversità non insormontabili all’interno dell’unica Chiesa cattolica. Ma non sono mancate resistenze e intolleranze quando il nuovo parroco è di colore, o non conosce bene la lingua, o ha alle spalle esperienze diverse da quelle della gente del posto tanto che risulta difficile incontrarsi su un terreno comune, soprattutto quando le comunità locali sono composte prevalentemente da persone anziane poco abituate alla diversità. Alcuni ritengono che esista il rischio di vedere entrare il sacerdozio nella lista di quelle professioni etnicizzate «che gli italiani non vogliono più fare», al pari della badante o dell’operaio all’altoforno11. Altri osservatori sottolineano poi come una diversa cultura alle spalle del prete possa in qualche caso far perdere l’incisività del messaggio cristiano, oppure allontanare fedeli che non si ritrovano nel modello proposto dal sacerdote che viene da lontano: un problema che si è spesso verificato, per esempio, con i preti polacchi, dei quali si sottolinea spesso l’autoritarismo, o della scarsa conoscenza della realtà italiana da parte di preti provenienti dall’estero. In generale, i racconti dei preti stranieri riportano difficoltà prevalentemente come aneddoti concentrati nel periodo iniziale del loro lavoro (la diffidenza verso un prete di colore, il clima, la lingua), mentre sembra che con il passare del tempo la reciproca conoscenza possa aiutare a incontrare e a mettere in luce più le somiglianze che le differenze, tanto più quando la somiglianza è dovuta al battesimo nella stessa Chiesa e alla proclamazione della stessa fede.
Nel 2005 il pastorato d’importazione è stato analizzato nel quadro dell’indagine socio-demografica promossa dalla Fondazione Agnelli La parabola del clero, curata da Luca Diotallevi e che costituisce a tutt’oggi il riferimento statistico di maggior respiro in nostro possesso12. È stato proprio questo studio ad attirare l’attenzione su un fenomeno diffuso ma sommerso, composto da tante piccole storie personali ma difficilmente inquadrato in una dinamica di largo respiro, se si eccettuano le attenzioni di qualche giornalista su un aspetto nuovo e poco conosciuto del panorama ecclesiastico italiano. La situazione non è uniforme nelle diverse regioni italiane: i dati riferiti al 2004 evidenziano una presenza di sacerdoti stranieri di circa 1.500 persone (rispetto ai 31.000 preti nati in Italia), con una media del 4,5% sul totale, senza contare religiosi e seminaristi. La percentuale è superiore al 10% in quattro regioni italiane (Lazio, con il 21,3%, Abruzzo-Molise con l’11%, Umbria con l’11,8% e Toscana con il 10,3%), mentre le percentuali più basse si registrano in Lombardia (0,9%) e Sardegna (1,4%).
La Polonia risulta essere a quella data il primo paese di provenienza, per cronologia e per consistenza del flusso. L’arrivo di preti polacchi si è avviato in concomitanza con il lungo pontificato di Giovanni Paolo II e in relazione all’eccesso di sacerdoti che si verifica in quella nazione, che detiene il numero più alto in assoluto di candidati all’ordine sacro dell’intera Europa. Alla Polonia seguono Repubblica Democratica del Congo, Colombia, India, Romania, Brasile e Nigeria. Il 23% proviene da paesi dell’Europa centro-orientale, il 19% dall’America Latina, il 24% dai paesi mediterranei e dall’Africa, il 10% dall’Asia. Tra le caratteristiche del ‘clero d’importazione’ è molto evidente l’età media minore: 44 anni rispetto ai 60 del clero diocesano italiano. In alcune regioni, come l’Umbria, la quota di preti stranieri presenti con meno di 40 anni rappresenta oltre il 50% del totale. Si evince dunque che con il passare del tempo quella del prete risulterà sempre più una figura etnicizzata. Emerge comunque una certa difficoltà da parte di preti e seminaristi stranieri per ottenere responsabilità dirette nell’attività pastorale: questo è il tema centrale della lettera scritta ai vescovi italiani nel 1998 da parte di un nutrito gruppo di preti non italiani, che lamentavano la scarsa fiducia da parte dei confratelli nell’affidare loro incarichi di responsabilità.
Certo è lecito chiedersi quanto questo sistema di riequilibrio tra chiese nuove e chiese antiche possa durare nel tempo. Infatti, il calo delle vocazioni e l’invecchiamento della popolazione europea non sono fenomeni destinati a invertire la loro rotta: se mai, il tempo li aggraverà, e non sarà possibile tamponare con soluzioni di emergenza quali appunto l’importazione più o meno temporanea di personale da altri continenti. Da un punto di vista più strettamente spirituale, poi, occorre interrogarsi sulle ragioni di questa sorta di sterilità vocazionale delle chiese europee, soprattutto finché saranno minoritarie le posizioni di quanti propongono, come alternativa all’importazione di pastori, di affidare maggiori responsabilità ai laici o di ordinare uomini sposati.
Nel 2001 il cardinale J. Tomko, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, aveva lanciato un serio allarme, denunciando quello che ai suoi occhi era un ‘ratto delle vocazioni’ con cui l’Europa depauperava le chiese che aveva contribuito a far nascere. Da questa preoccupazione per il futuro delle giovani chiese latinoamericane, africane e asiatiche nasceva quindi l’Istruzione sull’invio e la permanenza all’estero dei sacerdoti del clero diocesano dei territori di missione, emanata nel 2001 dalla Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli. In essa si delineavano le linee e le norme che avrebbero dovuto guidare i vescovi dei paesi di origine e quelli dei paesi d’accoglienza negli scambi di preti, in particolare per l’invio di sacerdoti provenienti dai territori di missione in Europa e in Nord America. Nel 2003 il Consiglio episcopale permanente ha approvato tre convenzioni (una per il servizio pastorale in Italia dei presbiteri diocesani provenienti dai territori di missione, un’altra per chi è presente per motivi di studio, la terza per i preti in stato di necessità provenienti da territori non di missione per motivi di studio), e un Atto di accoglienza per i preti costretti a lasciare il loro paese per gravi motivi. Nello stesso anno la Cei ha deliberato l’assegnazione di un contributo economico alle diocesi che accolgono stranieri studenti in regime di convenzione. La prassi tuttavia continua e anzi sembra ormai avere assunto un carattere di normalità, positivo e negativo allo stesso tempo. Positivo per chi vive la propria missione finalmente come prete e non principalmente come prete straniero, negativo perché non affronta il problema delle chiese nelle terre d’origine né della mancata autosufficienza delle vecchie chiese un tempo missionarie.
Al fine di favorire l’inserimento dei preti stranieri destinati a compiti pastorali in Italia il Cum organizza ogni anno diversi corsi rivolti a sacerdoti e religiosi con l’obiettivo di introdurli nella realtà culturale e sociale del paese e della Chiesa in Italia o di approfondire le loro conoscenze. Il fenomeno in ogni caso sembra destinato a permanere e anzi a crescere: nel 2008 i preti stranieri erano arrivati a quota 2.300.
Parallelo a quello dei preti, ma numericamente più consistente, è l’arrivo continuo in Italia di frati e suore dalle stesse aree. Fra i religiosi, a metà degli anni Novanta, un quarto dei novizi era straniero. Per le suore il fenomeno è ancora più cospicuo, in misura crescente se si passa dalle professe alle postulanti per terminare con le aspiranti. L’Usmi (Unione superiore maggiori d’Italia) traccia da tempo un quadro assai critico dello stato delle congregazioni femminili in Italia. L’età media si sta rapidamente innalzando, mentre sono scarsi gli ingressi nei diversi ordini di giovani italiane. Tra il 1988 e il 2001 le suore sono passate da oltre 121.000 a 80.600; dal 1998 al 2001 le novizie italiane sono passate da 443 a 270, mentre nello stesso arco di tempo le aspiranti suore straniere sono aumentate da 616 a 842. Questa modificazione porta molti ordini a interrogarsi in profondità su quale futuro aspetta le suore: da fornitrici di servizi, sopperendo magari alle mancanze dello Stato, a gruppi di testimonianza e preghiera. Sono quasi 10.000, all’inizio del secolo, le suore straniere che operano in Italia. Hanno superato da poco il numero di suore italiane che operano all’estero. Alcune hanno anche responsabilità pastorali e guidano le comunità a loro affidate quando mancano i sacerdoti, una situazione che si verifica con sempre maggior frequenza. È sempre il Cum che cerca di offrire alle suore straniere, in parallelo con quanto fa per i preti stranieri, qualche strumento di orientamento in una realtà tanto spesso assai diversa da quella dei loro paesi d’origine.
Non mancano naturalmente i problemi, da parte delle congregazioni come da parte delle suore immigrate. Le prime a volte temono uno snaturamento del carisma originario, tanto che alcuni ordini hanno optato per forme di sostegno alle vocazioni nei paesi d’origine. Si registrano poi molti casi in cui la natura della vocazione risulta incerta, sostituita o magari incoraggiata da problemi nel paese d’origine, dalla possibilità di studiare che viene offerta alle giovani che si trasferiscono in Italia, dal desiderio di fuggire un futuro incerto e comunque poco promettente. La maggior parte delle suore straniere proviene infatti da zone in via di sviluppo o da paesi in guerra.
Quella che viene a volte definita come la ‘tratta delle novizie’ è un fenomeno che da qualche decennio preoccupa anche i responsabili dei paesi d’origine. Nel 1994 i vescovi filippini denunciarono il massiccio arrivo di congregazioni straniere, soprattutto italiane, che aprivano case nell’arcipelago allo scopo di reclutare vocazioni. A volte, inoltre, le suore straniere vengono in Italia convinte di potersi dedicare all’apostolato e alla preghiera e si trovano invece inserite in comunità dove il loro ruolo è prevalentemente quello di assistenza e cura alle consorelle anziane, oppure quello di manodopera nelle strutture ricettive gestite dagli ordini. A fronte di queste situazioni critiche si trovano invece anche esperienze del tutto positive, con suore che si dedicano prevalentemente all’evangelizzazione degli immigrati, al servizio delle nuove povertà, alla cura dei bambini in situazioni a rischio, continuando così quell’opera di frontiera che aveva caratterizzato le generazioni precedenti del loro ordine.
1 Cfr. E. Pace, La modernizzazione religiosa del cattolicesimo italiano, «Il Mulino», 5, 2003, pp. 823-831.
2 Cfr. gli studi di P. Jenkins, in particolare La terza chiesa. Cristianesimo nel XXI secolo, Roma 2004, e I nuovi volti del cristianesimo, Milano 2008.
3 Caritas/Migrantes, Immigrazione. Dossier statistico 2009. XIX Rapporto, Roma 2009.
4 Possono essere utilmente riferite anche alle comunità straniere immigrate oggi in Italia alcune osservazioni relative all’inserimento degli emigrati italiani nel tessuto religioso nordamericano in L. Prencipe, Identità religiosa e migrazioni, in St.It.Annali, XXIV, pp. 691-708.
5 Cfr. «Seminarium», 37, 1985, 4.
6 Si veda l’accurato studio di P. Cingolani, Romeni d’Italia. Migrazioni, vita quotidiana e legami transnazionali, Bologna 2009, che dedica un capitolo proprio alla vita della comunità ortodossa e della comunità pentecostale emigrate a Torino dalla stessa città romena.
7 Per la situazione piemontese cfr. L. Berzano, A. Cassinasco, Cristiani d’Oriente in Piemonte, Torino 1999.
8 Il muro di vetro. L’Italia delle religioni. Primo rapporto 2009, a cura di P. Naso, B. Salvarani, Bologna 2009.
9 Le confessioni che a tutto il 2010 hanno stipulato intese con lo Stato italiano sono la Tavola Valdese, l’Unione Italiana delle Chiese Avventiste del 7° giorno, le Assemblee di Dio in Italia, l’Unione delle Comunità ebraiche italiane, l’Unione cristiana evangelica battista d’Italia e la Chiesa evangelica luterana in Italia.
10 G. Battaglia, Europei senza patria. Storie di Rom, Napoli 2009, pag. 56.
11 Cfr. M. Politi, Il ritorno di Dio. Viaggio tra i cattolici d’Italia, Milano 2004.
12 I dati riportati sono tratti da S. Molina, Il clero diocesano in Italia: uno sguardo al presente e al recente passato, in La parabola del clero. Uno sguardo socio-demografico sui sacerdoti diocesani in Italia, a cura di L. Diotallevi, Torino 2005, pp. 25-74.