I cronisti e la determinazione di Venezia
Quasi nulla conosciamo delle vicende biografiche di Martin da Canal, l'autore di quelle Estoires de Venise composte in lingua francese tra il 1267 e il 1275, che sono sicuramente il testo storiografico più interessante di tutto il Duecento veneziano. Egli stesso ci tramanda il proprio nome, accompagnandolo con un titolo di maistre che ci suggerisce una sua appartenenza (piuttosto che al mondo delle corporazioni artigiane e a quello della scuola) ad un ambiente burocratico-notarile verso il quale pure indirizza l'unico altro elemento sicuro che di lui abbiamo, sempre derivato dalla sua cronaca. Vi si ricorda, infatti, come nel luglio 1268, tra la morte del doge Ranieri Zeno e la nomina del suo successore Lorenzo Tiepolo, Martino avesse ricevuto una pergamena con la descrizione delle complesse procedure per l'elezione dogale, mentre si trovava "a la Table de la Mer de Venise", ossia alla tavola da mar: un ufficio di dazio marittimo veneziano (1).
L'accenno è denso di suggerimenti e ci ricollega inevitabilmente allo stretto rapporto sempre mantenuto dalla storiografia veneziana con gli apparati pubblici e le strutture di governo: una costante a partire dal primo testo pervenutoci, ossia la Cronaca del diacono Giovanni (cappellano ducale, personaggio di tutto riguardo della corte del doge tra il X e 1'XI secolo, impegnato anche in delicate missioni diplomatiche presso gli imperatori Ottone III ed Enrico II), fino alla "pubblica storiografia" e agli "storici che scrivono per pubblico decreto" con cui siamo ormai nel pieno dell'età moderna (2). Oltre a ciò, di Martino si è potuto realisticamente proporre un'appartenenza al milieu cittadino e borghese, mentre altre ipotesi paiono irrimediabilmente naufragate: che sia stato per un qualche periodo a Cipro, presso la corte dei Lusignani, o che abbia vissuto lungamente ad Acri (3) è stato escluso con validissime argomentazioni da Alberto Limentani, il quale ha avuto pure buon gioco nel negare un'origine chioggiotta del cronista (4). Ma questo punto merita qualche considerazione ulteriore.
Che Martin da Canal fosse nato in Chioggia era stato sostenuto, oltre un secolo fa, sulla base di tre passaggi delle Estoires. Il primo ci porta al 1215, al conflitto fra Padova e Venezia per la torre di Bebbe, importante caposaldo per il controllo dei traffici fluviali. Contro l'esercito messo in campo dai Padovani il doge si era rivolto "a una città di Veneziani [une vile de Venisiens>, che si trova molto vicina a quella torre. E quelli furono prodi e saggi. E se volete sapere la verità [racconta il cronista> ve lo dirò: sappiate per vero che sono chiamati Chioggiotti, e sono Veneziani [l'enles apelle Clogés, et sont Venisiens>". Nel 1240 (siamo al secondo passaggio) si trattava invece della lotta contro Salinguerra Torelli, quando ad assediare Ferrara c'era anche "una bella compagnia di gente" agli ordini di Stefano Badoer, il nobile capitano dei Veneziani: "li noble chevetein"; e chi formasse questa "belle conpagnie des gens" il cronista ce lo dice: "ce furent li Clogés ", furono i Chioggiotti, aggiungendo poi ancora "et sachés que il sont Venisiens". Con l'ultimo dei passi in questione andiamo al 1270, alle lotte fra Venezia e Bologna per il controllo sul corso del Po; comandante veneziano era allora Marco Badoer e ai suoi ordini aveva "otto galee molto ben guarnite di Veneziani, e una galea di Chioggiotti in loro imbarcazioni [en lor navie>"; e ancora una volta ecco la solita precisazione: "et sachés que Clogés sont Venesiens", sappiate che sono Veneziani (5).
Dal richiamo di questi tre passi il Bellemo muoveva per sostenere come Martin da Canal "fosse di Chioggia"; perché, egli scriveva, "si notano con accuratezza i fatti, nei quali spiccò il valore de' clodiensi, che con compiacenza si ripetono essi pure Veneziani [et sachés que Clogés sont Venitiens>" (6). Davvero fragili erano le basi dell'ipotesi, e non bastava a irrobustirla il fatto che - in modo autonomo - fosse poi riproposta (con ogni prudenza) da Heinrich Kretschmayr (7).
Per Alberto Limentani era quasi inevitabile rilevare come non vi fossero "motivi sufficientemente fondati per spostare Martino da Venezia, che deve in assenza di argomenti più precisi costituire a priori l'ipotesi più conveniente". Il problema diventava piuttosto un altro: capire se nell'insistenza con cui Martin da Canal "tanto affettuosamente chiama sotto il mantello veneziano il fratello chioggiotto" ci sia soltanto la "manifestazione di uno spirito patrio nel senso di una etnicità lagunare opposta a quella dei Veneti di terraferma", o si debba piuttosto cogliere qualcos'altro (8).
L'ipotesi che con discrezione si poteva avanzare era che "se qualche intenzionalità inespressa deve essere colta nella ripetuta proposizione martiniana [...> deve essere di carattere politico dal punto di vista della dominazione veneziana".
In altri termini, quell'iterato sont Venisiens andrebbe letto in filigrana come una riserva di primazia opportuna stante la (almeno supposta) "turbolenza della società di Chioggia in questo periodo": quasi a scanso di troppo vive intenzioni autonomistiche (9).
Forse le cose possono stare anche in questi termini, pur se nel primo dei tre passi citati quel "sono Veneziani" finisce allora per diventare superfluo, essendosi poche righe sopra già detto, riferendosi a Chioggia, che si trattava di une vile de Venisiens (10) Io però credo che dietro a quella strana insistenza sulla venezianità dei Chioggiotti ci sia qualcosa di diverso, qualcosa che ci porta dal piano dei contingenti rapporti di forza al piano più profondo delle generali convinzioni di ordine etico-politico. Converrà allora pensare ai modi in cui la cultura di Venezia (e non soltanto la sua storiografia) sentì il proprio essere comunità; e ciò implica altresì il rivedere i percorsi attraverso i quali il riferimento a Venezia giunse ad identificarsi con il riferimento ad una città, in grado da sola di porsi a simbolo e fulcro di una società e di uno stato giunti nel tempo a straordinaria quanto imprevedibile misura. E possiamo subito aggiungere come quella forte coscienza cittadina così largamente riconosciuta dagli studiosi della storiografia veneziana fin dalle sue origini, sia in realtà qualcosa di diverso e comunque maturato sulla base di situazioni che dalla città in larga misura prescindevano.
Il periodo che qui c'interessa deve contenersi fra 1'XI e il XIII secolo, sicché i testi disponibili non sono tanti. C'è anzitutto la Cronaca del già ricordato diacono Giovanni, vera e matura base fondativa di una illustre tradizione. Condotta fino al 1008 (dell'autore si hanno notizie sicure fino al 1018), è un'opera dal forte connotato politico, con schemi interpretativi di sicura coerenza, funzionali al dogado del grande Pietro II Orseolo e insieme, nella prospettiva di tempi assai lunghi, all'ideologia dello stato veneziano (11). In anni in cui la storiografia dell'Europa cristiana stava a fatica rielaborando il proprio modo di tenere memoria del passato sullo schema degli annali di tipo monastico, con una coscienza storica assolutamente precoce Giovanni diacono ci propone un disegno compiuto, coerente e forte di vere ipotesi generali, in cui i diversi elementi tendono a combinarsi in un quadro complessivo e organico.
In esso trova posto, per esempio, il mito delle origini selvagge di Venezia (su cui poi torneremo): dal niente, in luoghi mai sottoposti a dipendenze o subordinazioni; e c'è, ancora, la percezione del ruolo dello stato lagunare come punto di giuntura fra le grandi aree d'influenza del tempo, ruolo non compatibile con l'inglobamento rigido in nessuna di esse; e poi c'è, sempre per esempio, l'idea di una funzionalità/complementarità delle istituzioni ecclesiastiche rispetto a quelle laiche; e ancora: la sensazione dell'appartenenza a una sorta di antica "koinè" bizantina, suggerita senza per ciò adombrare ingombranti vincoli politici. Soprattutto, al centro del quadro per il cronista si collocano la figura del doge e una splendente Venezia, il cui ruolo non è subalterno a nessuno. Disegno storiografico, dunque (e relativamente ai tempi), di notevole coerenza; ma anche intervento politico, programma ideologico, espressione di una società e di uno stato - quello orseoliano - sicuri di sé con un ottimismo perfino eccessivo (12).
Dopo Giovanni diacono bisognerà attendere parecchio per incontrare scritti di organicità o livello simili. Nel frattempo registreremo la scarna Cronica de singulis patriarchis nove Aquileie. Assegnabile circa agli anni 1045-1053, affronta il tema specifico dell'origine e dei primi secoli del patriarcato di Grado, nella prospettiva dell'affermazione del primato giurisdizionale di questa sede in quanto erede degli antichi diritti metropolitici aquileiesi (13). Tra il secolo XI e i primi anni del secolo XIII si collocano il Chronicon Altinate e il Chronicon Gradense, risistemati dagli studi di Roberto Cessi nell'ambito di tre redazioni successive di un'ingarbugliata e farraginosa opera, battezzata Origo civitatum Italiae seu Venetiarum, priva comunque di ogni vera unità testuale. Le varie parti, ammassate e giustapposte a comporre l'Origo, con cataloghi d'imperatori costantinopolitani, di papi, dogi, patriarchi e famiglie venetiche, con racconti sulle origini di Venezia e dei vari centri del Dogado, ci conservano materiali di difficilissimo impiego e almeno in parte risalenti ad un'età precedente lo stesso diacono Giovanni. Ci lasciano anche il ricordo, confuso ma vivo, dei conflitti che turbarono la vita delle lagune, contrapponendo fra loro i diversi centri (Cittanova, Malamocco, Jesolo in particolare) fino al momento in cui fu raggiunto un equilibrio incentrato sulla preminenza di Rialto (14).
Poco significano gli Annales venetici breves, quasi contemporanei alla seconda e ultima editio dell'Origo, condotti fino al 1195; interessano se mai per le loro anomalie rispetto alla tradizione storiografica veneziana: l'origine presumibilmente monastica e il ricorso agli schemi annalistici usuali in terraferma ma non in laguna (15). La scansione delle vicende anno per anno, intrinsecamente funzionale ad orizzonti politici ritmati dal succedersi di consoli e podestà, poco serviva per un ambiente abituato a misurarsi nel riferimento ai dogi, eletti a vita. Così l'opera con cui ci si ricolloca nel filone aperto oltre due secoli prima da Giovanni diacono e poi appannatosi (almeno per quanto riguarda i testi residui), potrà essere individuata come Historia ducum Veneticorum e procederà appunto per duces, interpretando "gli umori del ceto dirigente della Repubblica". L'anonimo autore cominciò a stenderla immediatamente dopo la scomparsa di Pietro Ziani, il doge morto nel 1229, e al suo dogado si fermò, essendo partito da quello di Ordelaffo Falier (eletto nel 1102) (16).
Era stata omessa dalla Historia ducum tutta la narrazione della fase genetica di Venezia: il grande tema delle origini. Da esso ripartiva invece Martin da Canal, di cui già abbiamo detto, e lo affrontava pure la Cronaca cominciata nel 1292 da un certo Marco di cui nulla o quasi si conosce. Fu ipotizzato che fosse un frate, ciò che spiegherebbe il taglio universalistico delle sue pagine, ma la proposta non pare sostenibile e anzi tenderei piuttosto a propendere per la tesi di un suo collegamento alla cancelleria ducale. La narrazione, in ogni caso, termina sostanzialmente con il dogado di Ranieri Zeno, al 1268, dal momento che poi non riporta affatto quel terzo libro di cui pure fornisce il titolo, ma raccoglie uno zibaldone di profezie, documenti, ricette e scritti vari, dal libello De Antichristo al poemetto sui bagni di Pozzuoli(17).
Con la Cronaca di Marco si può considerare conclusa la rapida elencazione di quanto ci è pervenuto dei primi tre secoli della storiografia veneziana: non è pochissimo, ma non è nemmeno tanto, specialmente se pensiamo che a fronte di questo piccolo manipolo di testi, raccolti in una decina di manoscritti, sta il migliaio di codici che avrebbero poi, a partire specialmente dal tardo Trecento, conservato la tradizione cronachistica veneziana seriore (18). Molto, indubbiamente, si è perduto di quei primi tempi, specialmente considerando come Venezia si sia trovata ad avere, in pieno secolo XIV, un'opera in grado di infliggere un colpo gravissimo alla produzione precedente, ossia la Chronica per extensum descripta che il doge cronista Andrea Dandolo scrisse fino a tutto il 1352 almeno (sarebbe poi morto nel 1354), portandola sino alle vicende del 1280 (19). In pieno Settecento lo notava già Marco Foscarini, altro insigne personaggio che (dopo essere stato anche scelto come storiografo ufficiale della Repubblica) avrebbe ottenuto lui pure il titolo dogale. "Gli annali del doge Andrea Dandolo [scriveva riferendosi alla Chronica extensa> o fosse il merito dell'opera, o la nobiltà dell'autore, o finalmente l'essere venuti in luce quando i costumi cominciavano a ripulirsi, e l'industria degli scrittori a tenersi in pregio, salirono a tal fama che la memoria di quanti avevano faticato nello stesso argomento, rimase cancellata quasi del tutto" (20). In quel giro d'anni davvero cruciali per la storia della cronachistica cittadina, non sarebbe davvero il solo caso di testo talmente fortunato da far piazza pulita della produzione storiografica precedente o comunque da ridimensionarne il ruolo in modo radicale (21).
L'autorevolezza del testo personalmente curato dal doge cronista non è il solo terremoto storiografico di metà Trecento; un'altra svolta decisiva interviene allora, con l'introduzione (tutto sommato nemmeno troppo precoce) del volgare veneziano.
Fino a quegli anni le opere di carattere storico erano compattamente in latino e se un'eccezione si può trovare, ci propone l'impiego del francese (è il caso di Martin da Canal) e non dell'italiano (22). Gli assestamenti inevitabili provocati da tali novità erano moltiplicati da un atteggiamento come quello ben rappresentato da Enrico Dandolo (parente del doge-cronista) che, quanto alla produzione "antica", non più rispondente a canoni adeguati, nella sua Cronicha de Venexia iniziata nel 1360 suggeriva al lettore senza troppi dubbi di darla alle fiamme, seguendo il suo esempio: "de ogni altra cronica antiga, che per i pasadi tempi simplicimente trovade avemo scripte, le quale a man gli venesse, tener quel modo ch'io ò tegnudo da poi complida questa, le qual tute ò arse, a ciò [che> vegnando ad man de letori, fastidio overo incredulitate non produsese" (23). Il consiglio era sicuramente drastico. Si deve comunque presupporre che una parte significativa della produzione più risalente (fiamme o non fiamme) sia andata perduta pur essendoci stata; ma quanto rimane è sufficiente per tracciarci bene i percorsi seguiti, anche in merito al tema che qui ci interessa di più: la città.
In proposito, con Martin da Canal siamo di fronte al punto terminale di un itinerario conclusosi da tempo con l'acquisizione, da parte della città, di una posizione centralissima nel quadro storiografico. "En l'onor de nostre seignor Jesu Crist et de sa douce Mere, nostre dame sainte Mafie" si aprono le Estoires, con un prologo in cui l'autore dichiara apertamente i suoi scopi: "voglio che gli uni e gli altri [cioè le persone presenti e le future>, sempre, conoscano le opere dei Veneziani [...> e come edificarono la nobile città che si chiama Venezia, ch'è oggi la più bella città del mondo. E voglio che tutti coloro che vi devono venire sappiano come la nobile città è fatta e come essa abbonda d'ogni bene, e come il signore dei Veneziani, il nobile doge, è possente [...>" (24). Conclusa poi la parte proemiale, quando ci si appresta ad entrare nella narrazione vera e propria, è di nuovo la città a tener banco: "ho trovato l'antica storia dei Veneziani: donde essi provennero originariamente e dopo, e come edificarono la nobile città che ora è la più bella e la più piacevole del mondo [...>. Le merci scorrono per quella nobile città come l'acqua dalle sorgenti [...> si può trovare in quella città cibo in abbondanza, pane e vino, pollame […>. In questa bella città potete trovare gentiluomini in grande quantità, vecchi e adulti e giovinetti […>. E in quella bella città vi sono belle dame e damigelle" (25).
In una simile temperie storiografica è inevitabile insistere sulla coscienza cittadina e Venezia/centro urbano è splendida prima attrice sul proscenio. Ma se andiamo all'altro estremo del nostro arco cronologico e cerchiamo nella Cronaca del diacono Giovanni la Venezia/città, sostanzialmente non la troviamo, anche se era già maturata appieno la sua enucleazione dalla Venezia/Ducato. Certo: vi troviamo i Venetici; incontriamo anche qualche loro città: è civitas Eracliana/Cittanova; è urbs Grado; nel passaggio fra IX e X secolo, quand'era doge Pietro Tribuno, anche Rialto diventa civitas (come vedremo). Poi ci sono tante insule e vici e castra e litora: da Bibione a Caorle, da Torcello a Murano a Cavarzere. Che Venezia non sia mai città non è un caso; Giovanni diacono sta attento a quello che scrive; pesa le parole, sicché, per esempio, Grado è correntemente indicata come castrum e insula per tutta la prima parte dell'opera (26), e soltanto dopo gli eventi di inizio secolo IX viene coerentemente detta in modo sistematico urbs (27). Non diversamente stanno le cose con i testi raccolti nell'Origo civitatum, fra i quali anche Chioggia appare occasionalmente come civitas (28), ma per il resto la situazione non cambia: continua a mancare una vera presenza della Venezia/città.
In effetti i Venetici per tutti i primi secoli della loro storia non si definirono mai come cives. Si era già notato che nessun documento pubblico o privato, nemmeno fra quelli che in maggior pienezza e autonomia rispecchiano una volontà collettiva liberamente espressa, utilizza almeno fino a tutto il secolo X un simile termine/concetto. E forse la cosa non si spiega del tutto dicendo che ciò avviene perché "ci sono soltanto dei sudditi, fra i quali emerge quel ceto ristretto di vecchie, ricche famiglie da cui esce il doge e nelle quali il doge sceglie i suoi collaboratori" (29). Si potrebbe anzi insistere sul fatto che un grande elemento distintivo della società veneziana altomedievale sembra proprio il mantenersi di consistenti fasce di uomini liberi, economicamente indipendenti, attivi, forniti di piena personalità giuridica, in grado di fornire un robusto tessuto connettivo alla società e di far sentire il proprio peso nella gestione della cosa pubblica (con più o meno mordente a seconda delle congiunture). E si pensa naturalmente subito al ceto tribunizio fino al secolo VIII-IX e all'ambiente mercantile dall'VIII-IX in poi. Ma per restare alla mancanza di cives, ritengo che ciò dipenda in primo luogo dalla lunga estraneità del termine/concetto alla tradizione veneziana e dal fatto che i valori etico-politici ai quali ci si ancorava non fossero maturati in riferimento ad una città. Meglio che in civitas si riconosceva la propria realtà in termini/concetto quali ducatus (dalle forti inflessioni territoriali e istituzionali), o anche patria Venecia, implicante una predominanza di significati ideali ed etici (30).
Quando nel suo testamento dell'853, sottoscritto anche dal doge, il vescovo di Olivolo, Orso Particiaco, aveva chiaramente insistito su quella formula patria Venecia (31), l'indicazione non era ancora riferibile a nessuna entità urbana, ma richiamava piuttosto il sistema insulare di laguna. I suoi modelli, peraltro, restavano con forza ancorati a quelli vecchi, di tradizione romana, messi alle corde ma non cancellati da una conquista longobarda che i Venetici fuggendo dalla terraferma avevano caparbiamente rifiutato: modelli dunque, per quanto in crisi, ancora legati ad una logica fortemente urbano-centrica, qual era quella di tradizione romana. Ma una tale logica trasferita in laguna prende corpo in forme peculiari, di policentrismo, adeguandosi in questo (a mio parere) anche alla particolare natura dei luoghi, poveri di terre e di risorse.
Per intenderci: quanto al piano religioso ed ecclesiastico, il centro di riferimento dal cadere del secolo VI si colloca in Grado, all'estrema periferia orientale dell'area. Nel 775-776 si aveva l'istituzione del vescovado di Olivolo, destinato a crescere d'importanza nel collegamento diretto con la vicina sede del potere politico. Al tempo del doge Orso Particiaco (fra 1'864 e 1'881), se non già in epoca precedente (32), era compiuta la riforma della provincia ecclesiastica con la costituzione di ben cinque altre diocesi, a Equilo Jesolo, Caorle, Malamocco, Cittanova e Torcello. Nell'829, a fianco della residenza dogale, in Rialto, centro molto prossimo ad Olivolo ma da esso distinto, erano state depositate le reliquie dell'evangelista Marco, destinato a divenire il simbolo dell'unità morale delle lagune. Venendo al piano più propriamente politico, dopo la riduzione del dominio di terraferma a irrilevanti brandelli di territorio, il centro dell'amministrazione bizantina si era fissato nel 639 a Cittanova-Eracliana. Verso il 742, dopo un breve periodo di ripresa del centralismo bizantino, la sede del potere dogale era passata a Malamocco, sul cordone litoraneo e non più ai margini della terraferma; ma nemmeno questa nuova capitale era definitiva. Dopo la breve fase filofranca il neoeletto doge Agnello Particiaco trasferiva, nell'811, la sede del governo in Rialto.
Quanto all'ambito più squisitamente economico (per il quale meno abbondanti sono le informazioni), già nel corso del secolo VIII Torcello sembra assumere quel carattere di "emporion mega" ricordato ancora nel secolo X da Costantino Porfirogenito nel De administrando imperio. Ma anche quello di Torcello non era un decollo definitivo e le funzioni economiche e commerciali vanno poi a trovare il loro luogo deputato in Rialto. E sul piano militare i punti forti sembrano abbastanza numerosi, senza che fino a tutto il secolo IX nessuno prevalga: il castrum gradense, quello di Olivolo, Eracliana, Albiola, Malamocco di volta in volta appaiono come elementi nodali (33). In sintesi, almeno dieci centri diversi si possono indicare volendo localizzarsi sul territorio i luoghi in cui si esplicarono ai massimi livelli quelle funzioni politiche, amministrative, religiose, economiche, militari che, convenientemente riunite, sono la forza essenziale di una vera città e la connotano come tale. E si tenga poi conto, ad aumentare il peso di una tale dispersione, che gli stessi centri sopra nominati, quando si trovarono a svolgere più di una funzione lo fecero in tempi diversi. Così Eracliana divenne sede vescovile soltanto quando non era più capitale politico-amministrativa (34). Analogamente può dirsi di Malamocco. Quanto a Torcello, crebbe in rilevanza ecclesiastica e religiosa in parallelo al decadere della sua importanza economica.
Si aggiunga ancora che, alle località da noi individuate, se ne debbono aggregare altre sulla base delle valutazioni degli uomini del tempo. Nell'840 il pactum Lotharii definisce il "populus veneticorum" elencando ben 18 centri, disposti in ordine geografico, senza una precisa gerarchia a parte la preminenza riconosciuta a Rialto ed Olivolo assegnando loro i primi posti nella lista (e in quegli anni ciò era più che logico). Giovanni diacono, quando ormai il dogado era una struttura centralizzata, ne cataloga ancora 13 riferendosi ai primi tempi della storia venetica (35). Il quadro geo-storico è dunque molto articolato, apparentemente frammentato, privo comunque di un nucleo urbano veramente egemone. Ma non si confonda questa articolazione, questa pluralità di centri di riferimento con disorganicità, o confusione, o, tantomeno, con debolezza strutturale. La situazione è a lungo senza dubbio fluida, instabile, ma è l'instabilità propria di una fase genetica. I singoli fluttuanti tasselli, anche territoriali, si combinano infatti in un sistema politico tendenzialmente urbanocentrico, organico, unitario pur nella diversità dei luoghi di riferimento per le sue funzioni essenziali.
L'unità era del resto implicita nella ripartizione delle funzioni fra i vari luoghi. Soltanto combinandosi potevano rispondere a tutte le esigenze di una realtà complessa e in fase di crescita. D'altronde, che quella società si proponesse come univoca e integrata, nonostante tutte le tensioni che fra i diversi centri potevano anche sanguinosamente esplodere, risulta bene valutando come i riferimenti ideali e spirituali prevalenti fossero alla fine gli stessi per tutte le zone della laguna. Ci si potrà chiedere se non abbia contribuito la particolarità del territorio lagunare a imporre questa realtà policentrica. Dovettero in ogni caso passare alcuni secoli dalle migrazioni messe in moto dai Longobardi prima che la Venezia marittima fosse in grado di reggere e trovare funzionale il peso di una capitale accentrata: una città davvero egemone.
Torniamo alla patria Venecia del vescovo di Olivolo, all'853. Lo stato veneziano è ormai solido e pronto per quest'ultimo passaggio. Anzi, il processo è già iniziato, sia pure lentamente e senza radicali fratture, come tutto in laguna. Nel 775-776 Olivolo è sede vescovile. Nell'811 nella vicina Rialto si trasferisce la sede ducale. Nell'828-829 il corpo di san Marco è deposto nella cappella ducale e subito si inizia la costruzione della basilica marciana. Nel corso dello stesso secolo IX Rialto subentra definitivamente a Torcello quale massimo centro economico. È in atto il concentramento delle funzioni in un luogo la cui egemonia sul territorio complessivo si rafforza. Arriviamo così al passaggio tra il IX e il X secolo, al dogado di Pietro Tribuno del quale il diacono Giovanni potrà scrivere circa un secolo dopo: "Petrus dux cum suis civitatem apud Rivoaltum edificare cepit". Quanto si deduce poi dal contesto della Cronaca sull'opera del doge quale fondatore della città, è soprattutto l'avere egli fatto costruire un muro difensivo che univa fra loro i preesistenti insediamenti distribuiti fra Olivolo e Santa Maria Zobenigo (a Rialto) e aver fatto gettare una catena attraverso il Canal Grande, all'imbocco del bacino di San Marco, per impedire il passaggio d'imbarcazioni nemiche. È quindi una dichiarazione dal forte risvolto tecnico quella del cronista: le mura sono l'elemento che fa scattare (aggiunto agli altri preesistenti) le qualità cittadine dell'insediamento. Possiamo assumere il passo quale atto di nascita di quella civitas rivoaltina che sarebbe poi divenuta la Venezia/città e che avrebbe vissuto nei secoli immediatamente a venire uno straordinario benché graduale sviluppo (36).
Se con la logica del funzionario d'anagrafe è lecito convenzionalmente accettare la dichiarazione di Giovanni diacono come atto di nascita della civitas rivoaltina, più complessa appare la definizione del momento in cui Rialto è anche Venezia: e intendo il momento in cui si riflette - in un nuovo uso del toponimo Venetiae o Venetia - l'accentramento di funzioni cominciato nel 775 con la istituzione del vescovado di Olivolo e di cui si è detto. È un processo lento e graduale, in cui qualche dato documentario sembra aiutarci nella determinazione cronologica. Può ad esempio essere il caso - molto precoce - della convenzione tra il doge Orso I (Particiaco) e il patriarca di Aquileia Walperto, datata nell'880 in corte di palazzo: "Venetia, curte palacii" (37). Potrebbe essere anche il caso della donazione fatta nel 928 da Notkero vescovo di Verona al monastero di San Zaccaria, che si precisa "sito in Venecias" (38). Ma saremo più sicuri che ci si riferisce alla città di Venezia e non al Dogado quando troveremo, nel 995, il monastero indicato "non multum longe a palacio Rivoalto, in civitate Veneciarum" (39). E senza arrivare così tardi, nel 971 si era parlato nell'atto d'interdizione del commercio con i Saraceni, delle navi uscite "de portu nostro Venetiae" (40). Rimane comunque il fatto che l'indicazione Venezia, sebbene ormai orientata nel senso della città, ancora non ha una robustezza tale da poter marciare autonomamente, senza specificazioni ulteriori (e lo rivedremo più sotto).
Riassumendo, possiamo dire che Venezia nasce senza rinunciare alla logica urbanocentrica propria dei vecchi modelli di tradizione romana; nonostante ciò i suoi primi tempi scorrono in una sorta di instabile policentrismo, senza che si definisca un nucleo cittadino veramente in grado di svolgere le funzioni di coordinamento generale. Soltanto lentamente, tra 1'VIII e il IX secolo, s'individua nei fatti in Rialto un centro capace di costituire il fulcro di tutto il sistema. Con ciò Venezia si sta ormai dotando di una civitas capace di svolgere un ruolo egemone e di riassumere in sé - rappresentandola - la complessiva entità statuale: al punto di prenderne il nome stesso. Ciò chiarito, torniamo alle nostre cronache.
Nel tempo in cui Giovanni diacono stendeva la sua opera (e a maggior ragione quando si raccolgono le varie edizioni dell'Origo civitatum) doveva ormai essere corrente indicare Rialto come Venezia. C'è allora da chiedersi perché nella cronachistica tardi tanto ad affermarsi il ruolo di Venezia/città. La si intravede, la si intuisce, ma la sua pur continua presenza rimane evanescente, nebbiosa, sottintesa. S'intreccia e confonde tra il Dogado e Rialto; fatica molto (in altri termini) nel raggiungere quel ruolo a tutto tondo che invece ci è apparso così in primo piano sulle pagine di Martin da Canal. Se come si è visto queste considerazioni valgono, all'inizio del secolo XI, per Giovanni diacono, nella cui opera non si trova sostanzialmente mai l'identificazione di Venezia con Rialto (41), ancora più significativamente si ripropongono fra XII e XIII secolo con le tre editiones dell'Origo civitatum: su quasi una settantina di punti in cui è nominata, si contano su una mano sola quelli in cui Venetia può forse leggersi in riferimento al centro urbano (42). Sembrerebbe che il processo di affermazione della città in ambito storiografico si sia bloccato. In realtà l'impressione di stallo si spiega pensando a come i materiali dell'Origo, benché raccolti dopo la Cronaca di Giovanni diacono, rispecchino in buona misura tradizioni e fonti precedenti.
Resta in ogni caso il ritardo di cui si diceva. Ma per capirlo pensiamo al compito che la storiografia (e non essa soltanto) aveva davanti in questa fase evolutiva. Si trattava di risistemare, adeguandole ai tempi nuovi, le vecchie categorie ordinatrici (che non erano soltanto storiografiche), ridefinendo l'idea stessa di Venezia. E dunque il problema non si riduce all'introdurre più o meno tempestivamente la nuova entità Venezia/centro urbano; occorre anche farla convivere con le altre entità a cui non conveniva rinunciare: la Venezia/Dogado ed anche la prima Venetia, quella precedente i trasferimenti demici sulle lagune. L'ambiguità (o l'ambivalenza) di fondo, allora, non è più nelle pagine dei cronisti, ma in una realtà che sconta la presenza di Venezie diverse. Quel bisogno di ratificare il processo di accentramento per cui uno stato sparso "da Grado a Cavarzere" (secondo la formula corrente negli ambienti politico-amministrativi) diventa anche città, senza peraltro annullarsi o ridursi in essa, è uno dei grandi temi di una cronachistica del resto costretta a misurarsi anche con altre impegnative questioni.
Era stato necessario anzitutto dar conto di come si fosse passati da una prima ad una secunda Venezia, attraverso un processo di progressiva differenziazione della zona costiero-lagunare, ritagliata da una più ampia, originaria unità veneta compresa fra le Alpi e il mare, fra l'Istria e l'Oglio (poi addirittura l'Adda). Ciò significava già ragionare di due distinte Venezie. E ai suoi tempi lo stesso Paolo Diacono ne aveva avvertito i lettori della Historia Langobardorum: "La Venezia non è costituita soltanto dalle poche isole che noi chiamiamo Venezia, ma si estende dalla Pannonia all'Adda" (43). Naturalmente anche per i cronisti veneziani era stato preliminare chiarire come dalla "Venetia et Histria", la "decima regio" augustea, più tardi provincia dell'Italia annonaria, si fosse generata la nuova Venezia (44). Resta un passaggio obbligato per tutta la storiografia lagunare, a partire dalle sue primissime righe di mano del diacono Giovanni, fatto salvo peraltro che la "seconda Venezia" di cui parla "è quella che conosciamo ubicata in ambiente insulare, nel golfo del mar Adriatico, tra acque che l'attraversano, in posizione mirabile, felicemente abitata da una moltitudine di popoli" (45), mentre dal Duecento la seconda Venezia sarà piuttosto per i cronisti la Venetiarum urbs, la "çitade" in cui "grande e maraveioxa multitudine de populo habita con gran trionfo, lo qual populo e çente avé començamento delle persone e della çente della prima Veniexia" (46).
Il problema della Venezia prima e seconda s'intrecciava poi con quello delle origini, per cui, a partire almeno dal secolo X e con successive stratificazioni, la tradizione locale si era sforzata di accreditare la tesi dell'inizio dal nulla. Il mito delle origini selvagge in zone prive d'insediamenti preesistenti e perciò non soggette ad alcun genere di subordinazione; la leggenda attilana e quella della fondazione troiana; la teorica di una originaria indipendenza da ogni virtuale giurisdizione politica ed ecclesiastica: materiali diversi si combinavano in assunti utili a ribadire una libertà che si pretendeva goduta da sempre, ma altresì decisivi nel definire la propria identità collettiva e nel rinsaldare una sicura coscienza che per il momento continuiamo a chiamare civica. E nel diffondere il suo messaggio la storiografia veneziana fu talmente efficace che, a distanza di oltre un millennio, resiste ancora oggi il falso mito delle origini selvagge di Venezia: quasi uscita dal mare, come Venere (47).
È ben chiaro nella recente storiografia il modo in cui la cronachistica lagunare si è misurata con il tema delle origini e della secunda Venezia. Assai meno si avverte, invece, l'impegno assunto dalla cultura del tempo nell'accompagnare verso i nuovi modelli interpretativi dello stato (centrati su Venezia/città) il lettore delle cronache e, per dire meglio (tenendo conto dei caratteri della storiografia veneziana), l'opinione pubblica più in generale. Fra l'altro la nuova Venezia non ammazzava la vecchia, anche se la metteva in ombra. Il Dogado rimaneva e il quadro dei riferimenti etico-politici si faceva con ciò più articolato. Per dirla con il già ricordato Enrico Dandolo, "questa si è la cronica di Venexia et de tucto il scito che è tra Grado et Cavarçere, le quali tucte contrade si apella il distreto antigo et proprio de Venexia, como è Grado, Cavorle, Lido de San Nicholò, Malamocco, Torcelo, Buran de Mar, Magiorbo, Muran, Chioza, Loredo, Rivoalto, del qual è nomenada la nobelle citade de Venexia sicomo indicio primo de quella" (48).
Dunque, una nuova Venezia si era aggiunta, senza che si fosse perduta memoria della prima (l'antica: dalla Pannonia all'Adda) e senza che si fosse annullata la seconda (il vecchio Dogado). Chiarito allora che l'emergere di Venezia/città è un nodo di rilievo storiografico, bisogna capire perché (almeno in apparenza) non sia stato tempestivamente affrontato dalla cronachistica, perché sia stato trascinato così a lungo, quasi non lo si fosse percepito. Ma diremo subito come il mutamento fosse stato ben colto e affrontato, procedendo però con i modi e le cautele propri della mentalità veneziana, e per capirlo dovremo mettere di nuovo da parte per un attimo la storiografia.
I processi in atto dovevano essere condotti con un preciso ed empirico senso delle situazioni; non si dimentichi, infatti, che la nuova Venezia/città tagliava fuori i tanti centri di vecchia tradizione (appunto da Grado a Cavarzere), che nel Dogado si erano di fatto riconosciuti pur tra lotte o contrasti per l'egemonia, e che a partire dal IX secolo dovevano cominciare a riconoscersi anche nella indiscussa priorità di un nucleo urbano di cui, per quanto straordinario fosse, non erano parte. Se non si volevano rischiare imprevedibili contraccolpi, occorreva che l'evoluzione in corso fosse gestita senza forzature, accompagnata da un consenso che sembra non essere mancato. Anche in queste delicate contingenze la classe politica veneziana pare, infatti, aver trovato le strade giuste e più funzionali per il controllo del sistema esistente. L'adeguamento dei modi di concepire la propria struttura statuale, che è anche aggiustamento degli schemi concettuali e ordinativi, sembra esser stato condotto in modo piano e inavvertito (ciò che non significa casuale), in tempi lunghissimi. La linearità dei percorsi, al di fuori di traumatiche fratture o passaggi bruschi, è nei limiti del possibile un programma di fondo.
Può forse sostenersi che la centralizzazione del ruolo della civitas non fu mai, in nessun momento della storia veneziana, spinta ai suoi limiti estremi, nell'abbastanza ovvia percezione di come Venezia/stato dovesse continuare a far aggio su Venezia/città, qualunque fosse il grado di identificazione del primo nella seconda. Resta comunque indiscutibile che la cautela sul punto specifico sia stata enorme, tanto che nelle teorizzazioni e nelle formalizzazioni o ratifiche delle nuove realtà si andò più piano di quanto non accadesse nella coscienza collettiva. Spieghiamoci con un paio di esempi presi al di fuori della storiografia ma utili per meglio capirla.
Si diceva dei modi di datazione dei documenti. Ebbene, gli atti rogati in Venezia continueranno ad avere la data topica Rivoalto per tutto il periodo che c'interessa, fino al cadere del secolo XIII, quando una modifica si realizza sì, ma nello scivolamento verso il genitivo Rivoalti! È vero che accade di trovare anche documenti datati tout court in Venezia (e alcuni li abbiamo già visti), ma in quei casi segue sempre una specificazione quale "in ecclesia Sancti Marci", o "in claustro monasterii", o "in palatio", o "in camerula domini abatis", o addirittura, e la cosa è significativa, "in Rivoalto". E se capita una datazione che richiama Venezia senza ulteriori specificazioni, quei documenti sono in linea di massima atti pubblici, rogati da cancellerie o uffici esterni (papali e imperiali in particolare). Se poi, giungendo alla fine di questa piccola casistica, troviamo atti privati stesi in Rialto con la data topica "Venezia" (e basta), questi sono di mano di notai forestieri, non veneziani (49).
Mi pare non ci siano dubbi: agli occhi del mondo quella città cresciuta nel cuore delle lagune è Venezia, senza esitazioni; ma per l'ambiente veneziano, al momento di ragionare secondo schemi formali e consolidati, com'è quando si deve rogare un documento, essa torna ad essere Rialto, o al più è una Venezia da specificare con ulteriori attributi (il palazzo, un monastero, la basilica...). Questo non significa che per gli appartenenti allo stato veneziano, a differenza del resto del mondo, Venezia/città non fosse Venezia/città ma fosse sempre e soltanto Rialto. Significa, piuttosto, dover fare ricorso a un doppio registro: c'è quello utile nell'ordinario svolgersi delle vicende quotidiane (per cui senza problemi Rialto è Venezia); ma c'è pure quello necessario al momento di ripensare e definire la propria collocazione in una entità politica e organizzativa, nel riferimento ad un quadro concettuale ordinato, e in questo ambito Rialto non è Venezia più di quanto lo siano Grado o Torcello.
Forse ci si spiega meglio ricorrendo alle parole di Jacopo Bertaldo, l'ecclesiastico che prima di divenire vescovo di Veglia era stato consigliere ducale. Mente assai lucida e robusto esperto di cose giuridiche, verso il 1311 aveva iniziato a stendere lo Splendor Venetorum civitatis consuetudinum, interrotto dalla morte nel 1315 (50). Si tratta di una sorta di "manuale delle consuetudini forensi", che subito nel primo capitolo affronta il problema della "consuetudine veneta sive rivaltina". Un passaggio c'interessa qui per la sua esemplare chiarezza: "Nota [dice Bertaldo al lettore> che questo nome di Venezia [il nomen Veneciarum> spesso è preso per tutta la provincia di Venezia [la provincia Veneciarum>, ossia da Grado a Cavarzere [...>. E spesso è usato per la città capitale e suprema di tutta la detta provincia, che è Rialto, in cui si trova il trono ducale, ragione per cui gli abitanti di questa città possono indifferentemente essere chiamati Rivoaltini e Veneziani. E sappi che quelli di Chioggia o di Murano o del vescovato di Torcello che vogliono venire alla città di Rialto, non dicono che vogliono venire a Rialto, ma piuttosto a Venezia: et sic dupliciter accipitur hoc nomen Veneciarum" (51).
Ecco l'ambivalenza (che avevamo in origine colto come banale ambiguità nelle cronache) per cui nell'ottica dell'isolano che si reca nella città capitale si va a Venezia, mentre in quella di chi rimedita secondo modelli o schemi giuridici si va a Rialto. E le due ottiche non si escludono, non vengono in conflitto, ma anzi convivono senza difficoltà. Eppure non si tratta di una semplice questione nominalistica. Dietro vi si coglie il difficile - ma in fondo realizzato - equilibrio tra le specificità locali e l'unitarietà del sistema complessivo, fortemente integrato, con tutte le ricadute concrete che ciò comporta; c'è anche la perizia politica di uno stato che riesce, per esempio, a garantire l'omogeneità del proprio sistema normativo pur consentendo che i vari centri abbiano un diritto proprio, o che regge senza nessuna apprensione e difficoltà il fatto che i notai di Chioggia o di Rialto o di Murano roghino i loro atti con caratteristiche grafiche e formali diversificate (52). Quello veneziano è un sistema unitario, organico, capace di garantire ai suoi diversi luoghi o distretti precisi margini di autonomia, ma insieme capace di assicurare alle sue strutture statuali una solida compattezza, con scarsi riscontri in altri quadri istituzionali del tempo. Si sta creando un modello di statualità peculiare, fondato su un policentrismo con forte grado di coesione, modello destinato poi a durare per tutto il restante medio evo ed oltre, nell'età moderna, anche quando la Serenissima sarà andata a costruirsi uno stato di terraferma dalle impreviste dimensioni (53).
Conviene però tornare più direttamente all'ambito storiografico. Il percorso che i cronisti hanno battuto per accompagnare l'affermazione della Venezia/città non è dissimile da quello generalmente seguito là dove si avevano funzioni decisionali o di indirizzo politico. Piuttosto che insistere sui momenti delicati del processo di centralizzazione urbana in corso, evidenziandone magari le ricadute negative per la dinamica interna, le pagine delle cronache preferiscono cogliere gli esiti di quel percorso. Finché il frutto non è maturo, finché la questione non è risolta una volta per tutte, sembra operare una connaturata cautela (che è la stessa per cui si datano gli atti da Rialto). Questo non significa l'incapacità di percepire le modifiche in atto; in Giovanni diacono Venezia/città è ormai al centro di tutto, anche se quando andiamo a cercarla sulle sue pagine con le preoccupazioni formali dello schedatore non la troviamo mai. E l' Origo civitatum, testimone di una fase di flagranti tensioni all'interno del Dogado tra i vari centri, andrà probabilmente riletta come opera che riassume a futura memoria un'epoca di contrastata dialettica chiusa per sempre: un testo, in altri termini, che funge da epitaffio, da punto e a capo per una fase precedente la centralità di Venezia/città capitale.
Di quella Venezia fatta di tante Venezie di cui una, Rialto, è più Venezia delle altre, anche la cronachistica porta i segni. E qui occorre qualche considerazione di carattere generale. Una volta in più riusciamo a cogliere, sotto questa ottica, il forte parallelismo esistito fra produzione storiografica e bisogni dello stato. La funzionalità della prima al secondo trova una ulteriore conferma. E c'è anzi una certa analogia nelle maniere usate dall'una e dall'altro per affrontare i mutamenti, a volte radicali, preoccupandosi di evitare nei limiti del possibile pesanti rotture o brusche svolte. Penso così al modo in cui gli storici scandiscono le vicende, con una sorta di ritegno nei confronti del periodizzamento. La tradizione storiografica veneziana si è posta con grande precocità sul piano delle trattazioni monografiche, a partire (se vogliamo) dal racconto della nomina e dell'intronizzazione dogale di Domenico Selvo nel 1071, ed ha poi sempre mantenuto viva questa sua vocazione (54); ha pure dovuto affrontare momenti chiave, di grande cambiamento: i devastanti contrasti fra le principali comunità dell'antico Ducato, o il conflitto fra i due Imperi carolingio e bizantino per il controllo delle lagune all'inizio del secolo IX, o le drammatiche divergenze di prospettiva tra la politica candiana e quella orseoliana nel secolo X, o il sorgere del comune, e la quarta Crociata, e la serrata del maggior consiglio... Ma nonostante ciò il ripensamento in chiave storica e la riproposta in ambito cronachistico degli eventi (anche i più traumatici) tendono sempre ad inserirsi in una sostanziale continuità, in un fluire delle vicende privo di reali cesure o svolte. Credo vedesse giusto Arnaldi quando ricordava come "l'idea stessa di un periodizzamento della storia cittadina sarebbe stata impensabile, per via della sconveniente immagine di discontinuità che tale idea inevitabilmente comportava" (55). Ma quella della continuità è stata una scelta basilare della politica e dell'ideologia veneziana prima ancora che una categoria storiografica.
Una produzione cronachistica siffatta, tanto intrecciata con i bisogni e gli indirizzi di un solido apparato statale, ha senza dubbio dei punti di forza ma sconta inevitabilmente qualcosa. La robustezza delle strutture veneziane, infatti, spegne quei contrasti e quei conflitti che (soprattutto nel secolo XIII) riempiono di vigore e carica etica tante pagine di cronache e storie; la spinta ideale si riduce quando lo scrivere replica con monotona ricorrenza la glorificazione dell'esistente, sia esso la splendida città o il potente stato o la saggia classe di governo. Diventa persino possibile leggere la cronachistica veneziana nel suo complesso "come opera collettiva, nell'impianto strutturale, del ceto di governo della Serenissima"; e forte rimane sempre il "monopolio culturale" esercitato sullo scrivere di storia "dall'idea e dal culto dello stato" (56). Fatichiamo a ritrovare qui il fortissimo impegno, la urgenza del coinvolgimento nelle vicende che segna per tutto il Duecento tanta parte della produzione di ambiente comunale: quella che mi è parso di poter definire come cronachistica "di partecipazione". Mancano anche gli esiti affascinanti di quella moralità storiografica maturata, in terraferma, assumendo per base il senso della città come misura degli avvenimenti. Era una moralità generatrice di turbamenti fecondi e di sofferte adesioni, che sarebbe entrata in crisi quando la civiltà di comune avrebbe ceduto il passo prima alla esperienza signorile e poi agli stati regionali; quando, di conseguenza, il riferimento alla città sarebbe divenuto la cultura del campanile, ormai marginale e con fortissime venature di provincialismo (57).
Se quelle emozioni, quelle pulsanti esperienze è difficile ritrovarle nei cronisti veneziani, e non soltanto nel Duecento, altri sono i punti di forza; a partire, per esempio, dalla percezione di un disegno interpretativo globale: un contesto ampio in cui inserire lo svolgersi degli avvenimenti; è un dato di merito, peraltro reso sicuramente più agevole da raggiungere per l'ampia prospettiva che la società veneziana aveva già dovuto assumere prima dello stesso Giovanni diacono. E c'è anche, restando ai temi che qui più interessano, una fortissima adesione all'ambiente da cui si esce, finora indicata di solito con il richiamo al senso civico e alla coscienza cittadina. Credo sia lecito ora proporre l'aggiustamento di tali categorie, parlando piuttosto di senso dello stato, magari richiamandoci a quell'idea di patria Venecia che nell'853 abbiamo visto invocata dal vescovo Orso Particiaco nel suo testamento. Con tale parametro si potrà meglio recuperare anche quel molto di continuità che esiste tra l'aurea Venetia chiamata in causa dal diacono Giovanni (58) e la splendente città descritta da Martin da Canal.
Si potrà anche intendere come sarebbe poi risultata assai meno devastante a Venezia che altrove la crisi della storiografia cittadina, provocata da novità culturali non meno che politico-istituzionali (intendo: dalla nuova prospettiva dell'umanesimo non meno che dal tramonto delle realtà comunali). Spiegheremo anche senza difficoltà perché i centri della laguna, in qualche caso (come Chioggia e Murano) vere e consistenti città, non abbiano avuto mai o soltanto molto tardi una loro produzione storiografica; oppure comprenderemo meglio (ripensando alle testimonianze più lontane nel tempo) come mai un'antica e ancora recuperabile "tradizione cronachistica gradese" si sia precocemente annullata nel prevalere della cronachistica veneziana, riducendosi storicamente al ruolo di "variante negata" (59); e qui ancora una volta riesce difficile decidere se assegnare prima alle abilità degli storici o a quelle dei gruppi dirigenti il fatto che negli anni le entità minori non abbiano sentito più il bisogno di una storiografia diversa da quella che si produceva nella capitale. Soprattutto, non dovremo più stupirci di tante piccole apparenti ambiguità, che continueranno a lungo ad affiorare in diversi passi di storia veneziana.
Anche in sede storiografica come in politica 1'"urbs magna que vocatur Rivum-Altum" (per dirla con l'Historia ducum) (60) aveva saputo raggiungere una centralità indiscussa, identificandosi con Venezia tutta, senza entrare in contrasto né annullare le altre Venezie, che pure era utile e opportuno tenere in vita. Si badi: non è stata operazione da poco. Vuol dire avere trovato la cifra giusta perché fin nell'ultimo angolo del dominio ci si dovesse continuare a sentire Veneziani, e quindi in qualche modo partecipi e solidali rispetto a una entità etico-politica ormai incardinata sull'antica civitas Rivoalti. La cosa non va enfatizzata o idealizzata; rimane tuttavia insolita per quei tempi. Tanto insolita che (per riprendere il piccolo esempio da cui siamo partiti) si capisce bene come Martin da Canal, nello scrivere in francese, "la lingua che è diffusa in tutto il mondo", abbia ritenuto opportuno precisare, pensando forse a quanti meglio conoscevano il francese che non Venezia, che i Chioggiotti sono Veneziani.
1. Martin da Canal, Les estoires de Venise. Cronaca veneziana in lingua francese dalle origini al 1275, a cura di Alberto Limentani, Firenze 1972, pp. XXI-XXV dell'Introduzione di Alberto Limentani. Sull'autore e il testo cf. in sintesi Id., Martin da Canal e "Les Estoires de Venise", in AA.VV., Storia della cultura veneta, I, Dalle origini al Trecento, Vicenza 1976, pp. 590-601.
2. Gaetano Cozzi, Cultura politica e religione nella "pubblica storiografia" veneziana del '500, "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", 5-6, 1963-64, pp. 215-294; Franco Gaeta, Storiografia, coscienza nazionale e politica culturale nella Venezia del Rinascimento, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 1-91.
3. Gina Fasoli, La "Cronique des Véniciens" di Martino da Canale, "Studi Medievali", ser. III, 2/1, 1961, p. 47 (pp. 42-74); Agostino Pertusi, Maistre Martino da Canal interprete cortese delle crociate e dell'ambiente veneziano del sec. XIII, in AA.VV., Venezia dalla prima crociata alla conquista di Costantinopoli del 1204, Firenze 1966, pp. 107-109 (pp. 103-135), ora in AA.VV., Storia della civiltà veneziana, I, Dalle origini al secolo di Marco Polo, Firenze 1979, pp. 280-281 (pp. 279-295); Antonio Carile, La cronachistica veneziana (secoli XIII-XVI) di fronte alla spartizione della Romania nel 1204, Firenze 1969, pp. 177-178.
4. Alberto Limentani, Cinque note su Martino da Canal, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti. Classe di scienze morali, lettere ed arti", 124, 1965-66, pp. 261-285; Id., Introduzione a M. da Canal, Les estoires, pp. XXV- XXVI.
5. M. Da Canal, Les estoires, 1.1, capp. LXXIV, XC, pp. 76, 88-90; 1. 2, cap. CXLI, p. 310.
6. Vincenzo Bellemo, L'insegnamento e la coltura in Chioggia fino al secolo XV, "Archivio Veneto", n. ser., 36, 1888, p. 44 (pp. 37-56); 35, 1888, pp. 277-301.
7. Heinrich Kretschmayr, Geschichte von Venedig, II, Gotha 1920, p. 536.
8. A. Limentani, Cinque note, p. 284 e, più in generale, pp. 282-285.
9. Id., Introduzione, p. XXV n. 2; Id., Cinque note, p. 285, anche sulla scorta di Enrico Besta, Dell'indole degli statuti locali nel dogado veneziano e di quelli di Chioggia in particolare. Note, in AA.VV., Studi giuridici dedicati e offerti a F. Schupfer, II, Torino 1898, p. 412 (pp. 395-441).
10. Che la "città" fosse Chioggia non è immediatamente dichiarato ma risulta subito evidente appena si dice che erano Chioggiotti quelli chiamati in causa. M. da Canal, Les estoires, 1. 1, cap. LXXIV, 4-5, p. 76.
11. Personalmente ritengo che l'organicità del disegno faccia aggio sulla disorganicità di alcune parti della composizione, confortando l'ipotesi di un unico e solo autore-raccoglitore della Cronaca; altro era il parere che ha espresso Gina Fasoli, I fondamenti della storiografia veneziana, in La storiografia veneziana fino al secolo XVI. Aspetti e problemi, a cura di Agostino Pertusi, Firenze 1970, pp. 19, 29 (pp. 11-44).
12. Per l'edizione più affidabile v. Giovanni Diacono, Cronaca veneziana, in Cronache veneziane antichissime, I, a cura di Giovanni Monticolo, Roma 1890 (Fonti per la storia d'Italia, 9); anche per ulteriori indicazioni cf. Girolamo Arnaldi - Lidia Capo, I cronisti di Venezia e della Marca Trevigiana dalle origini alla fine del secolo XIII, in AA.VV., Storia della cultura veneta, I, Dalle origini al Trecento, Vicenza 1976, pp. 391-393 (pp. 387-423); Bruno Rosada, Il 'Chronicon Venetum' di Giovanni diacono, "Ateneo Veneto", 178, 1990, pp. 79-94.
13. Il testo è edito da ultimo da Giovanni Monticolo in Cronache veneziane antichissime, pp. 3-16. Cf. Roberto Cessi Nova Aquileia, in Id., Le origini del ducato veneziano, Napoli 1951, pp. 99-148 (già in "Archivio Veneto", ser. V, 3-4, 1928-29, pp. 543-594); Antonio Carile, La coscienza civica di Venezia nella sua prima storiografia, in AA.VV., La coscienza cittadina nei comuni italiani del Duecento, Todi 1972, p. 122 (pp. 95-136); Id., Chronica Gradensia nella storiografia veneziana, in AA.VV., Grado nella storia e nell'arte, Udine 1980, pp. 126-129 (pp. 111-138).
14. Origo civitatum Italiae seu Venetiarum (Chronicon Altinate et Chronicon Gradense), a cura di Roberto Cessi, Roma 1933 (Fonti per la storia d'Italia, 73). Cf. dello stesso Cessi, Studi sopra la composizione del cosiddetto "Chronicon Altinate", "Bullettino dell'Istituto Storico Italiano per il Medio Evo", 49, 1933, pp. 1-116; G. Fasoli, I fondamenti, pp. 31-42; G. Arnaldi - L. Capo, I cronisti di Venezia, p. 394; A. Carile, Chronica Gradensia, pp. 129-138; Id., La coscienza civica, pp. 122-124; Bruno Rosada, Storia di una cronaca. Un secolo di studi sul "Chronicon Altinate", "Quaderni Veneti", 7, 1988, pp. 155-180.
15. Annales venetici breves, a cura di Henry Simonsfeld, in M.G.H., Scriptores, XIV, 1883, pp. 69-72. Cf. G. Arnaldi - L. Capo, I cronisti di Venezia, pp. 394-395.
16. Historia ducum Veneticorum, a cura di Henry Simonsfeld, in M.G.H., Scriptores, XIV, 1883, pp. 72-97. Cf. Giorgio Cracco, Società e stato nel medioevo veneziano (secoli XII-XIV), Firenze 1967, pp. 90-100; Id., Il pensiero storico di fronte ai problemi del comune veneziano, in La storiografia veneziana fino al secolo XVI. Aspetti e problemi, a cura di Agostino Pertusi, Firenze 1970, pp. 46-50 (pp. 45-74); G. Arnaldi - L. Capo, I cronisti di Venezia, pp. 407-410.
17. Il testo della Cronaca di Marco, inedita, è contenuto in un codice cinquecentesco conservato a Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. XI. 124 (= 6802); cf. Elisa Paladin, Osservazioni sulla inedita cronaca veneziana di Marco (sec. XIII ex.-XIV in.), "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti. Classe di scienze morali, lettere ed arti", 128, 1969-70, pp. 429-461; G. Cracco, Il pensiero storico, pp. 66-73.
18. Si veda Antonio Carile, Aspetti della cronachistica veneziana nei secoli XIII e XIV, in La storiografia veneziana fino al secolo XVI. Aspetti e problemi, a cura di Agostino Pertusi, Firenze 1970, p. 81 (pp. 75-126).
19. Andrea Dandolo, Chronica per extensum descripta, a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, 1, 1938-58. Cf. Girolamo Arnaldi, Andrea Dandolo doge-cronista, in La storiografia veneziana fino al secolo XVI. Aspetti e problemi, a cura di Agostino Pertusi, Firenze 1970, pp. 127-252; Id.-Lidia Capo, I cronisti di Venezia e della Marca Trevigiana, in AA.VV., Storia della cultura veneta, II, Il Trecento, Vicenza 1976, pp. 287-289 (pp. 272-337).
20. Marco Foscarini, Della letteratura veneziana, Padova 1752, p. 105.
21. Gherardo Ortalli, Notariato e storiografia in Bologna nei secoli XIII-XVI, in AA.VV., Notariato medievale bolognese, II, Atti di un convegno, Roma 1977, pp. 154-155 (pp. 141-189).
22 V. in sintesi Alfredo Stussi, Lingua, dialetto e letteratura, Torino 1993, pp. 65, 112; A. Carile, Aspetti della cronachistica, pp. 83-84.
23. Ibid., p. 99.
24. M. da Canal, Les estoires, 1. 1, cap. I, p. 2. La traduzione è quella curata dallo stesso editore del testo, Alberto Limentani.
25. Ibid., pp. 4-7.
26. Apparente è l'eccezione al passo di Giovanni Diacono, Cronaca, p. 62, ove la successione di insula, castrum e urbs in riferimento a Grado indica tre situazioni diverse, per certi aspetti in crescendo, nel riferimento alla fuga dalla terraferma, alla stabilizzazione della nuova permanenza, al passaggio del titolo metropolitico.
27. Ibid., pp. 100 ss.
28. In un testo ripreso nella edizione del Chronicon Gradense, in Cronache veneziane antichissime, p. 65, 1. 17.
29. Gina Fasoli, Comune Veneciarum, ora in AA.VV., Storia della civiltà veneziana, I, Dalle origini al secolo di Marco Polo, Firenze 1979, p. 268 (pp. 263-278).
30. Sulla formula patria Venecia opportunamente insisteva A. Carile, La coscienza civica, pp. 110-111; Id., La formazione del ducato veneziano, in Id. - Giorgio Fedalto, Le origini di Venezia, Bologna 1978, pp. 34-35 (pp. 11-237).
31. S. Lorenzo (853-1199), a cura di Franco Gaeta, Venezia 1959, nr. 1, pp. 5-12; o Documenti relativi alla storia di Venezia anteriori al Mille, a cura di Roberto Cessi, I-II, Padova 1940-1942: I, nr. 60, pp. 114-118. L'apparire del concetto di patria (destinato poi a vita assai lunga) non è affatto occasionale; lo ritroviamo, ad esempio, un secolo dopo, e ancora a misura di entità statale piuttosto che urbana, nel decreto d'interdizione del commercio di schiavi, nel 960: ibid., II, nr. 41, pp. 70-74 (ma cf. già prima, al 919, nr. 31, p. 44); Gottlieb L. Fr. Tafel - Georg M. Thomas, Urkunden zur älteren Handels- und Staatsgeschichte der Republik Venedig, I, Wien 1856, nr. 13, pp. 17-25.
32. Sull'ancora aperta questione dell'origine delle diocesi lagunari cf. in sintesi Antonio Niero, La sistemazione ecclesiastica del ducato di Venezia, in Le origini della Chiesa di Venezia, a cura di Franco Tonon, Venezia 1987, pp. 101-121; Daniela Rando, Le strutture della Chiesa locale, in Storia di Venezia, I, Origini-Età ducale, a cura di Lellia Cracco Ruggini - Massimiliano Pavan e Giorgio Cracco - Gherardo Ortalli, Roma 1992, pp. 645-647 (pp. 645-675).
33. Sulle vicende qui rapidamente richiamate v. in sintesi i saggi raccolti in Storia di Venezia, I, Origini-Età ducale.
34. Per la verità anche in quella prima fase aveva ospitato un vescovo, ma era il vescovo di Oderzo che aveva abbandonato la sua residenza mantenendone però il titolo "episcopus opiterginus".
35. Sui centri venetici nelle fonti più antiche v. A. Carile, La formazione, pp. 198-207; Wladimiro Dorigo, Venezia Origini. Fondamenti, ipotesi, metodi, I-II, Milano 1983: I, pp. 308-313.
36. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 131. Sulla crescita materiale della città basti il rinvio a Michela Agazzi, Platea Sancti Marci. I luoghi marciani dall'XI al XIII secolo e la formazione della piazza, Venezia 1991; e v. Wladimiro Dorigo, in questo stesso volume.
37. Documenti relativi, II, nr. 15, p. 20.
38. Ibid., nr. 34, p. 50. Nel 914 (ibid., nr. 30, p. 41) lo si era indicato "in finibus Venetiarum non longe a palatio de Rivoalto", con formula analoga a quella che riappare nel 963 (ibid., nr. 45, p. 77).
39. Ibid., nr. 72, p. 147.
40. Ibid., nr. 49, p. 88. Cf. anche W. Dorigo, Venezia Origini, pp. 184-185. Resta poi il fatto che in molti casi è difficile intendere se il riferimento è alla città o al Dogado.
41. Cf. Giovanni Monticolo, Intorno al significato del nome Venezia nella cronaca veneziana di Giovanni Diacono, "Nuovo Archivio Veneto", 3, 1892, pp. 379-386.
42. Cf. anche i dati forniti da, W. Dorigo, Venezia Origini, pp. 184-185.
43. Pauli Diaconi Historia Langobardorum, a cura di Ludwig Bethmann-Georg Waitz, in M.G.H., Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-IX, 1878, p. 81, 1. II, cap. 14.
44. Si tratta di un percorso per cui ora si vedano Lellia Cracco Ruggini, Acque e lagune da periferia del mondo a fulcro di una nuova "civilitas", in Storia di Venezia, I, Origini-Età ducale, a cura di Ead. - Massimiliano Pavan e Giorgio Cracco - Gherardo Ortalli, Roma 1992, pp. 11-102; e inoltre Claudio Azzara, "Venetiae". La determinazione di un'area regionale fra antichità e alto medio evo, Treviso, in corso di stampa.
45. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 59.
46. Tolgo il passo dalla così detta "famiglia A volgare" di cronache: A. Carile, La cronachistica, p. 236.
47. Sul mito delle origini, essenziali rimangono gli studi di Id., La coscienza civica, pp. 118 ss.; Id., Le origini di Venezia nella tradizione storiografica, in AA.VV., Storia della cultura veneta, I, Dalle origini al Trecento, Vicenza 1976, pp. 135-166, ripreso poi in Id., La formazione, pp. 17-123. Cf. anche Gherardo Ortalli, Il problema storico delle origini di Venezia, in AA.VV., Le origini di Venezia. Problemi esperienze proposte, Venezia 1981, pp. 85-89, e ora Giorgio Cracco, Nota preliminare, in Storia di Venezia, I, Origini-Età ducale, a cura di Lellia Cracco Ruggini-Massimiliano Pavan e Giorgio Cracco-Gherardo Ortalli, Roma 1992, pp. 1-6.
48. A. Carile, La cronachistica, p. 261.
49. Mi conferma nell'andamento degli usi di datazione la competente cortesia di Marco Pozza. Eccezionale è il caso del 1166, con la data "Venecia" in una lettera ducale (comunque inserta in un documento posteriore), per cui v. lo stesso Pozza, La cancelleria, in questo stesso volume, n. 61 e contesto.
50. Sul Bertaldo v. fra gli altri Enrico Besta, Jacopo Bertaldo e lo "Splendor Venetorum civitatis consuetudinum", "Nuovo Archivio Veneto", 13, 1897, pp. 109-133; Lamberto Pansolli, La gerarchia delle fonti di diritto nella legislazione medievale veneziana, Milano 1970, pp. 205-210 e passim; Giorgio Cracco, La cultura giuridico politica nella Venezia della "serrata", in AA.VV., Storia della cultura veneta, II, Il Trecento, Vicenza 1976, pp. 248-255 e passim (pp. 238-271).
51. Jacobi Bertaldi Splendor Venetorum Civitatis Consuetudinum, a cura di Francesco Schupfer, in Bibliotheca juridica Medii Aevi, III, Bononiae 1901, p. 101 A (pp. 97-153).
52. Per l'articolazione del sistema normativo: Gherardo Ortalli, Venezia e il dogado. Premesse allo studio di un sistema statutario, in Statuti della laguna veneta dei secoli XIV-XVI, a cura di Gherardo Ortalli-Monica Pasqualetto-Alessandra Rizzi, Roma 1989, pp. 7-28; Id., Storie di codici, statuti e vincoli: fra Chioggia e Venezia, in Statuti e capitolari di Chioggia del 1272-1279, a cura di Gianni Penzo Doria-Sergio Perini, Venezia 1993, pp. 19-22 (pp. 19-43). Per le prassi notarili: Federica Parcianello, Documentazione e notariato a Venezia nell'età ducale, tesi di laurea, Università di Venezia, a.a. 1987-88; Attilio Bartoli Langeli, Documentazione e notariato, in Storia di Venezia, I, Origini-Età ducale, a cura di Lellia Cracco Ruggini - Massimiliano Pavan e Giorgio Cracco - Gherardo Ortalli, Roma 1992, p. 854 (pp. 847-864).
53. G. Ortalli, Storie di codici, nn. 48-49 e contesto; Id., Il mercante e lo stato: strutture della Venezia alto-medievale, in AA.VV., Mercati e mercanti nell'alto medioevo: l'area euroasiatica e l'area mediterranea, Spoleto 1993, pp. 119-123 (pp. 85-135).
54. Per il testo del chierico Domenico Tino, testimone oculare, v. Giambattista Gallicciolli, Delle memorie venete antiche, profane ed ecclesiastiche, VI, Venezia 1795, pp. 124-125; Agostino Pertusi, Quedam regalia insignia. Ricerche sulle insegne del potere ducale a Venezia durante il Medioevo, "Studi Veneziani", 7, 1965, pp. 67-68 (pp. 3-123). Cf. G. Fasoli, I fondamenti, p. 25.
55. In G. Arnaldi - L. Capo, I cronisti di Venezia, p. 404.
56. A. Carile, Chronica Gradensia, pp. 111, 119; anche Id., Aspetti della cronachistica, pp. 87, 118-119.
57. Sono questioni per cui rimando a Gherardo Ortalli, Tra passato e presente: la storiografia medioevale, in AA.VV., Storia dell'Emilia-Romagna, I, Bologna 1975, pp. 626-630 (pp. 615-636); Id., Cronache e documentazione, in AA.VV., civiltà comunale: libro, scrittura, documento, Genova 1989, pp. 536-539 (pp. 507-539).
58. Cronaca, p. 144; quanto al concetto di "patria", si fa esplicito nella descrizione del conflitto con Ottone II, p. 146.
59. A. Carile, Chronica Gradensia, p. 111 e passim.
60. A p. 94.