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I diritti umani

di Maurizio Fioravanti - Dizionario di Storia (2010)
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I diritti umani

Maurizio Fioravanti

I diritti umani sono quei diritti che si ritengono propri dell’essere umano in quanto tale, come semplice vivente. Un primo passo verso i diritti dell’uomo è certamente impresso nei caratteri stessi del diritto moderno, imperniato sul soggetto unico di diritto, ovvero sulla attribuzione dei diritti ai soggetti in senso generale e astratto, come frutto del rivoluzionario superamento, alla fine del Settecento, della società di antico regime, basata sulla attribuzione dei diritti ai soggetti a seconda della loro appartenenza a un luogo, a una corporazione, a un ceto.

È per l’appunto però solo un primo passo. Infatti, le stesse dichiarazioni dei diritti della rivoluzione contenevano in proposito una sostanziale ambivalenza. Da una parte, i diritti erano affermati in senso universale, ma dall’altra si era consapevoli che essi potevano esistere positivamente solo in quanto garantiti dalla legge dello Stato. In linea di principio si era uguali in quanto uomini, ma in effetti si era uguali in quanto cittadini, in quanto appartenenti alla nazione, e come tali sottoposti alla medesima autorità politica. L’universalismo dei diritti dell’uomo dovrà così fare i conti, tra Ottocento e Novecento, nell’età degli Stati nazionali sovrani, con il particolarismo insito nel criterio di attribuzione dei diritti medesimi sulla base della cittadinanza politica.

Dei diritti dell’uomo si discute in modo nuovo a partire dalla metà del sec. 20°. Emblematica a questo proposito è certamente la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, che insieme alle costituzioni nazionali dell’immediato dopoguerra, come anche quella italiana del 1947, giunge alla fine di un periodo tragico, caratterizzato da vere e proprie politiche di annientamento, di negazione radicale della dignità dell’uomo. Quel testo è in questo senso frutto di un ripensamento complessivo, relativo alle cause profonde di ciò che era accaduto, e soprattutto della fragilità mostrata dalla precedente forma di Stato, dallo Stato nazionale liberale di diritto. Quello Stato aveva infatti riconosciuto i diritti dei cittadini, ma solo come risultato di una volontaria limitazione di sovranità da parte dello Stato medesimo. In quella dimensione, tra Ottocento e Novecento, non vi era spazio per i diritti dell’uomo. Dei diritti si era titolari solo in quanto appartenenti a una nazione, in quanto sottoposti all’autorità di uno Stato sovrano, che quei diritti aveva generato con la sua legislazione. Tutto il resto apparteneva alla stagione trascorsa della rivoluzione, che non a caso, in un tempo ben diverso, si era fondata sui paradigmi dei diritti naturali individuali e del contratto sociale, ormai abbandonati. La civiltà liberale aveva voluto superare quei paradigmi in nome dei valori politici della stabilità e del progresso ordinato e graduale, ma anche in nome del principio della certezza del diritto, intesa come meccanismo di pronta, sicura e uniforme applicazione della legge dello Stato. Ma i fatti dicevano che quella civiltà era stata travolta dal totalitarismo. Si doveva quindi ripensare i diritti, e porli su un fondamento più solido.

Si operò in questo senso su più piani, a iniziare da quello internazionale. La svolta ha una direzione ben precisa. Si trattò prima di tutto di superare una concezione riduttiva del diritto internazionale, che voleva che esso consistesse esclusivamente in un complesso di relazioni tra Stati sovrani, regolate dalla loro volontà, che poco o nulla aveva a che fare con gli individui, che come tali assumevano rilievo esclusivamente in seno alla comunità statale e nazionale. Con la Dichiarazione universale del 1948 s’inizia a pensare in modo diverso, ovvero che quel diritto internazionale non sia rappresentabile come uno spazio vuoto, come tale liberamente occupabile da parte delle volontà sovrane degli Stati; e che alla metà del sec. 20° si sia piuttosto all’inizio di una vicenda nuova, costruttiva di un vero e proprio ordine giuridico sovranazionale, destinato a imporsi sugli Stati medesimi proprio in nome dei diritti, che perdono così la loro connotazione esclusivamente statale, e sono ripensati come diritti dell’uomo, fondati oltre lo Stato, espressione di una comunanza tra gli individui posta su un piano ultrastatale.

Nel contempo, tutto cambia anche sul piano nazionale. Le costituzioni della seconda metà del Novecento esprimono infatti lo stesso tipo di mutamento. Le repubbliche che sorgono, come quella italiana, non sono legittimate infatti solo dal consenso popolare, dalla riattivazione dei circuiti della partecipazione politica, come se si trattasse solo di allargare gli angusti confini dello Stato liberale monoclasse, ma anche dal fatto che esse si pongono ora in modo chiaro come custodi dei diritti inviolabili dell’uomo, con tutta una serie di limiti opponibili anche alla stessa legge dello Stato, per quanto democraticamente voluta ed emanata. Da qui, la rigidità costituzionale, l’irrivedibilità del nucleo fondamentale della Costituzione, il complesso meccanismo del controllo di costituzionalità. Da qui, una democrazia di stampo costituzionale, ovvero una democrazia che ha sottratto alcuni principi fondamentali alla libera espressione della volontà politica, anche quando questa sia legittimamente rivestita della forma della legge.

Il filo conduttore è dunque il medesimo, sul piano internazionale come su quello nazionale, nelle dichiarazioni e nei patti internazionali, come anche nelle norme di principio delle costituzioni. Ciò che si vuole, in una parola, è costruire, e affermare, uno spazio garantito, non disponibile da parte dei poteri sovrani, o più semplicemente delle maggioranze. È questo lo spazio dei diritti dell’uomo. Ma quello spazio, come è veramente garantito? E che cosa contiene, più precisamente? Rispondiamo prima a questa seconda domanda. Anche sotto questo profilo, si è aperta una grande trasformazione nel corso del Novecento, questa volta proprio rispetto ai paradigmi originari del diritto naturale. In quello spazio non vi sono più infatti gli individui della tradizione giusnaturalistica europea, che aveva avuto il suo culmine nella rivoluzione e nella Dichiarazione dei diritti del 1789, connotati dal carattere dell’astrattezza, come presupposto del principio di uguaglianza: «Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti», recitava il primo articolo della dichiarazione del 1789, contro i diritti di ceto della società di antico regime. Nello spazio dei diritti dell’uomo non vi sono ora gli uomini in astratto, così intesi, ma le persone. Il passaggio è di straordinaria rilevanza. L’esperienza storica, dopo la rivoluzione, aveva infatti mostrato come i diritti degli individui, inizialmente fondati su assunti di carattere giusnaturalistico, fossero destinati, quasi fatalmente, a essere assorbiti nella legge dello Stato, fino a dipendere da essa in modo incondizionato. Con i diritti della persona, contro questa esperienza, si vuole affermare una nuova dimensione dei diritti dell’uomo, che pretendono di tradursi in diritti positivi, ma conservando un nucleo irriducibile a ogni opera di positivizzazione. Priorità dei diritti della persona sulla legge dello Stato non significa però astrattezza. Al contrario, astratto era l’uomo della tradizione giusnaturalistica. Di contro, la persona è concreta, è presente nei testi normativi, internazionali e nazionali, attraverso la sua esistenza concreta, fatta di bisogni determinati: l’istruzione, il lavoro, l’assistenza, ma anche l’abitazione, l’igiene, la nutrizione. Questa è oggi la dimensione, prima di tutto sociale, dei diritti dell’uomo.

Rimane l’altra domanda, sulle garanzie. Sul piano nazionale, molta strada si è fatta, con gli strumenti della rigidità costituzionale e del controllo di costituzionalità. Anche se nulla è deciso, poiché rimane indubbiamente forte e ricorrente la tendenza a riaffermare il principio di sovranità in senso monistico, a ricondurre i diritti nello spazio chiuso nazionale, a negare il consolidamento e l’espansione della dimensione sovranazionale, a mantenere ferma e netta la distinzione tra cittadini e non cittadini. Sul piano internazionale, la costruzione delle garanzie è ancora più difficile. In materia, tutto o quasi tutto dipende ancora dalla volontà degli Stati, per quanto riguarda l’implementazione e la realizzazione dei diritti. L’ordine giuridico mondiale, inteso come ordine capace di autosostenersi, e imporsi, ancora oggi è poco più di un mero progetto.

Tuttavia, rimane il fatto che quella che stiamo vivendo è certamente un’età fertile per la problematica dei diritti dell’uomo. Un’età frutto di una svolta di grande rilievo intercorsa alla metà del Novecento, che ha prodotto una trasformazione profonda, entro cui ancora oggi viviamo. La questione dei diritti dell’uomo si presenta infatti oggi in forme molteplici, e molto spesso inedite. Sul piano internazionale, caratterizzato dalla globalizzazione e da una interdipendenza sempre maggiore tra le diverse parti del mondo, essa è collegata ai problemi planetari della limitatezza delle risorse, delle grandi disuguaglianze, della fame, dell’ambiente. Sul piano nazionale, caratterizzato sempre più in senso multiculturale, la medesima questione si risolve nelle nuove e sempre più rilevanti problematiche dello statuto costituzionale dei non cittadini. In ogni caso, i diritti dell’uomo, o per un verso o per l’altro, o muovendo dal piano sovranazionale o da quello nazionale, tendono a erodere il tradizionale primato del diritto statal-nazionale, a porre limiti e condizioni. Nello stesso tempo però quei diritti hanno bisogno, per divenire effettivi in modo crescente, di un’autorità politica che li sostenga e li implementi, che li ponga al centro della propria attività e delle proprie politiche, e questa autorità ancora oggi risiede nei singoli Stati e negli accordi che essi sono capaci di stipulare. La vicenda dei diritti umani si dipana quindi su questo crinale, da una parte contro il tradizionale principio di sovranità degli Stati, come aspirazione alla universalità, dall’altra attraverso le politiche degli Stati, e grazie a quelle politiche, come espressione di particolarità, di specifiche declinazioni dei medesimi diritti umani. Il secondo lato è essenziale quanto il primo. Infatti, se il progressivo emergere di un minimo comune etico universale, come la dignità dell’uomo, è da considerare come un aspetto certamente positivo dei tempi nuovi, caratterizzati da una sempre più accentuata interdipendenza a livello planetario, non meno rilevante è l’altro aspetto, che consente di conservare le specificità compatibili con i principi comuni, di accogliere in seno alla propria distinta comunità politica i diritti dell’uomo non come un’astratta verità universale data, proveniente da lontano e dall’esterno, ma come un processo che tende a valorizzare principi comuni a partire da identità distinte, che tali rimangono. I diritti umani contengono certamente l’aspirazione alla universalità. Ma universale non può e non deve significare unico.

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