I documenti della scrittura: i papiri musicali
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La scrittura musicale greca è conosciuta attraverso una serie di fonti: epigrafi, trattati, qualche manoscritto medievale e, soprattutto, attraverso i papiri. Direttamente dalla vita quotidiana dei villaggi egiziani giunge fino a noi la viva testimonianza di una prassi di scrittura diversificata e sufficientemente diffusa, con particolarità grafiche, contenutistiche e formali che permettono di ricostruire un quadro abbastanza vivace della diffusione di questa conoscenza.
Che una civiltà musicale produca un sistema di segni attraverso il quale trasmettere il proprio patrimonio è una circostanza tutt’altro che scontata: sono numerose, anche oggi, le civiltà che non utilizzano la scrittura come mezzo di produzione, fruizione e trasmissione dei propri testi. Per molti secoli, anche la civiltà musicale greca non fa eccezione: il maestro insegna all’allievo come suonare o cantare semplicemente per imitazione, mostrando le posizioni da tenere sullo strumento o facendogli ascoltare la melodia che poi deve ripetere.
Da un certo momento in poi, in un’età che non è possibile stabilire sulla base di elementi sicuri e di cui i papiri sono i primi, ma tardi testimoni, compaiono ben due distinti sistemi di notazione melodica, uno riservato esclusivamente alla musica strumentale (datato al V sec. a.C.) e uno a quella vocale (più o meno di un secolo più recente).
Il principio su cui si basano questi due sistemi è lo stesso: segni dell’alfabeto (un alfabeto arcaico per la musica strumentale, quello canonico ionico per la vocale) che indicano altezze sonore relative e che, nel caso della notazione vocale, si scrivono sopra il testo da mettere in musica, mentre per quella strumentale si dispongono l’uno dopo l’altro, come sopra un unico rigo, e che, mancando la compresenza di sillabe verbali alle quali applicarli, necessitano di una notazione ritmica sovrascritta ai simboli melodici. La notazione si basa sui principi della teoria musicale greca, presuppone l’esistenza dell’unità di misura del tetracordo e si adatta agli sviluppi successivi del sistema; tuttavia non conosce il concetto di altezza assoluta della nota in uso nella civiltà musicale moderna: senza un sistema di misurazione del suono non è possibile individuare un punto di riferimento assoluto quale il La a 440 Hz del sistema moderno; il riferimento è quindi dettato dalle regole della pratica musicale che, per secoli, rimane appannaggio quasi esclusivo degli uomini e che, in base a ciò, fa sì che le trascrizioni moderne siano fatte presupponendo un ambito di riferimento pari alla voce media maschile: in sostanza, un registro di baritono/tenore.
La struttura ritmica dei brani vocali è assicurata dall’intelaiatura metrica dei testi poetici, che, con la loro alternanza di sillabe brevi e lunghe (in un rapporto di uno a due), indicano i rapporti di lunghezza relativa nei valori delle sillabe: esistono anche alcuni segni che servono per integrare questa struttura di base, indicando soprattutto allungamenti ulteriori o pause (o il ritmo stesso in mancanza di un testo verbale, come già evidenziato nel caso della notazione strumentale), ma, a differenza di quanto avviene per il sistema della notazione, si nota in essi una forte irregolarità d’uso.
La chiave per interpretare i segni musicali proviene principalmente da un trattato piuttosto tardo (Introduzione alla Musica, IV sec.) giunto a noi sotto il nome di Alipio. In una serie di tabelle che coprono tutto il sistema armonico noto della musica greca, è indicato l’elenco praticamente completo dei segni delle due notazioni. Altre fonti danno notizia dell’esistenza di ulteriori sistemi di notazione, ma la documentazione diretta in nostro possesso mostra una coincidenza pressoché assoluta con le forme dei segni indicate da Alipio. A parte i papiri, la documentazione diretta è per noi rappresentata da alcune iscrizioni (si segnalano in particolare due Inni delfici, del II sec. a.C., e l’Epitafio di Sicilo, del II sec. d.C.) e un testo giunto per tradizione medievale (gli Inni di Mesomede di Creta, celebre musicista dell’età di Adriano), che riportano brani poetici (in qualche caso anche completi) con notazione musicale; si tratta sempre di testimonianze che presuppongono una mediazione fra l’autore della musica e il responsabile della sua stesura scritta.
Se i manoscritti medievali riportano un testo copiato da scribi appartenenti a fasi cronologiche decisamente successive alla composizione del brano, per le iscrizioni è impossibile pensare che la competenza tecnica dell’artigiano responsabile della realizzazione delle epigrafi e quella del compositore coincidano. Da questi documenti non vengono indicazioni reali sulla possibile diffusione della scrittura musicale: anzi, sembrerebbe imporsi l’idea di una prassi limitata a circostanze eccezionali (una dedica speciale su un’epigrafe, o l’opera di trascrizione dei capolavori di un grande compositore). Il quadro sembrerebbe coerente con una cultura musicale ancora profondamente legata a una prassi di creazione, fruizione e trasmissione orale come quella greca antica – tant’è vero che fino a poco tempo fa ancora si pensava, con una valutazione anacronistica della reale comprensibilità di un sistema giudicato a priori oscuro, che l’opzione esoterica fosse l’unica possibile – ma proprio dai papiri arrivano indicazioni importanti in senso opposto.
Ciò che fa dei papiri un punto di osservazione privilegiato della reale diffusione della scrittura musicale è in primo luogo la natura di questo tipo di testimonianze: il papiro è il supporto scrittorio per eccellenza del mondo antico, e accoglie qualsiasi tipo di documento, dall’appunto privato, alla lettera, al documento ufficiale, fino al libro di lusso. Il medium di per sé non detta le regole del contenuto e i documenti in nostro possesso, provenienti direttamente dagli scavi archeologici di antichi villaggi, perlopiù egiziani, non presuppongono l’ufficialità di un particolare momento da celebrare. Un momento essenziale nell’analisi di questi documenti è così la valutazione del livello di cura con cui il manufatto è stato realizzato e con cui la scrittura è stata apposta: di per sé un documento su papiro può appartenere a qualsiasi livello, derivare da un qualsiasi grado di competenza, e in questo i papiri musicali non fanno eccezione. Attualmente sono noti circa 50 documenti, che abbracciano un periodo che va dal III secolo a.C al IV d.C, e in cui un testo poetico è corredato di notazione musicale vocale. Dal punto di vista del contenuto, con la sola eccezione dei tre papiri che riportano brani di due tragedie note di Euripide (Oreste e Ifigenia in Aulide) e di un verso di una commedia di Menandro (Perikeiromene) – ma non si tratta mai di musica “d’autore” –, tutti i papiri musicali contengono frammenti poetici non altrimenti noti (quasi esclusivamente drammatici) e un inno cristiano. Pur in percentuale assai ridotta, esistono anche frammenti che riportano scritture strumentali (esistono anche casi di interscambio fra i sistemi strumentale e vocale, ma sono molto problematici).
Al di là dell’osservazione di alcune caratteristiche formali che sembrano contraddistinguere la scrittura musicale (le distanze fra le righe del testo poetico musicato sono più ampie di quelle dei testi non musicali, per accogliere meglio la notazione, le colonne di scrittura sono più larghe, e spesso i testi sono scritti staccando le sillabe in modo tale da favorire il corretto inserimento delle rispettive note musicali), la definizione delle caratteristiche formali di questi documenti può procedere su vari livelli: la presentazione generale del testo, la cura con la quale è stato elaborato, il livello di perizia calligrafica della scrittura, la presenza o meno di cancellature, su entrambi i piani, la presenza di mani diverse fra testo musicale e testo poetico. In base a questi parametri emerge una gran quantità di possibili tipologie, di cui tre sembrano prevalere: ci sono testi scritti da mani diverse, delle quali una scrive il testo poetico, l’altra aggiunge in un secondo tempo la musica; altri in cui un’unica mano, spesso trascurata, scrive entrambe le parti intervenendo con cancellature, correzioni, ripensamenti su entrambi i livelli; altri ancora in cui il testo poetico e la musica sono scritti contemporaneamente, con estrema precisione e cura, e con caratteri di estrema leggibilità.
Almeno da queste tre categorie generali emerge una varietà di soluzioni grafiche che permette di ricostruire diverse tecniche di preparazione del testo: nel primo caso la collaborazione di competenze diverse (lo scriba e il musicista), nel secondo un’unica figura, responsabile della redazione e creazione di entrambi, nel terzo una stesura definitiva (in bella copia) a opera di un professionista calligrafo.
Chi sono dunque i redattori di questi documenti? Per quale scopo sono stati concepiti?
A fronte di una vulgata che per decenni ha insistito sul carattere esoterico della scrittura (limitato a pochissimi fra i musicisti) e di una tendenza più recente che preferisce legare i testi musicali alle esigenze pratiche dell’esecuzione (i papiri non sarebbero altro che spartiti da leggere durante i “concerti”), dall’analisi delle scritture emerge un contesto più complesso e diversificato, in cui la capacità di scrivere musica non può essere considerata esclusiva e limitata a pochi (i papiri provengono comunque da zone marginali del mondo greco e poi greco-romano, in particolare dall’Egitto), e, sicuramente, non può presupporre un’unica opzione d’uso.
Abbiamo sia le copie dei brogliacci degli antichi compositori (cancellature e correzioni del testo sono segnali inequivocabili), sia documenti pensati per la conservazione (le “belle copie”), sia documenti di fasi intermedie o parziali di rielaborazione del testo. Abbiamo cioè una gran quantità di soluzioni che parlano di un sistema di notazione diffuso, conosciuto e usato. Le conoscenze storiche in nostro possesso non possono che orientare verso le gilde di professionisti della musica (i cosiddetti artisti di Dioniso) che, soprattutto a partire dall’età ellenistica, girano il mondo greco esibendosi nei teatri più o meno famosi e che, possiamo ipotizzare, preparano le loro musiche, le rielaborano e talora le fissano in documenti più leggibili, utili a essere conservati e, magari, a essere ripresi dalle generazioni successive di colleghi. L’esibizione musicale è sempre qualcosa di altamente spettacolare e difficilmente prevede l’uso di un testo scritto posto su un leggio: la scrittura musicale è sì ampiamente utilizzata, ma come strumento di studio, come promemoria, da conservare e riprendere come spunto per una nuova esecuzione. Anche per questo, probabilmente, le melodie che scaturiscono dalle nostre moderne trascrizioni spesso sembrano di una semplicità disarmante (soprattutto se comparata ai resoconti contemporanei relativi alle spettacolari esibizioni dei grandi musicisti dell’antichità). Di fronte a una scrittura che serve a fissare i punti salienti, è presumibile che il musicista integri, improvvisi, aggiunga di volta in volta ciò che gli suggerisce il suo estro.