I fasti della ‘tradizione’: le cerimonie della nuova venezianità
Il ritratto luminoso di Venezia presentato nel 1937 dall’Enciclopedia Italiana(1) è l’immagine ufficiale più efficace delle dinamiche impresse alla città nella prima metà del secolo. Con apparente sobrietà vi vengono allineati trionfalmente dati statistici per mostrare una consistente crescita economica e demografica. Dopo l’assorbimento di diversi comuni della laguna e della striscia costiera, la sua popolazione «occupa il 9° posto tra i grandi comuni italiani», e anche nel centro «in un sessantennio è aumentata del 34%». Ogni pagina serve a dimostrare l’assunto dogmatico che, una volta liberata dallo straniero, «unita all’Italia, Venezia riprende la sua ascesa regolare e continua». Nell’Italia rigenerata dal fascismo, il trend di crescita si farebbe impetuoso. Soppiantata ampiamente Trieste — si dice — e marginalizzate Fiume e Pola, è «il secondo emporio commerciale del regno, dopo Genova». Da Marghera, «magnifico esempio di città-giardino», fino al Lido, «divenuta sede di una delle più aristocratiche ed eleganti stazioni balneari d’Europa», la si presenta animata da un inimitabile fervore di cantieri industriali e armatoriali, incentrato sulle attività portuali, ma in sintonia col ritmo con cui — dopo l’Unità d’Italia — «si sviluppa incessante l’industria del forestiero», capace di farla fruttare sia come dinamica città-museo che come centro tra i più celebrati e vivaci della mondanità internazionale. Un avveniristico groviglio di imponenti strutture di collegamento la mettono in comunicazione rapida con l’entroterra, ma anche con diversi continenti attraverso le vie di mare, terra e cielo. Persino in pieno centro, il bacino di S. Marco può fregiarsi di una «monumentale Riva dell’Impero, alla quale possono attraccare anche navi di grosso tonnellaggio». Velocità e igiene caratterizzerebbero questo ambiente rigenerato. Ciò dovrebbe esplicitare quanto la città del XX secolo — non più narcisisticamente fluttuante nella decadente insularità dei due secoli precedenti — reincarni a pieno titolo la sua antica fama di attivismo progettuale e aggressiva potenza. Certo, per essere completa, questa immagine dovrebbe mostrare anche quanto la società urbana e le sue periferie isolane e di terraferma abbiano perso nel ridefinire i propri assetti, quali pericoli possa comportare la modernizzazione a tappe forzate imposta alla laguna, chi abbia pagato i costi dei mutamenti e chi se ne sia avvantaggiato. Nulla di tutto ciò traspare in questa immagine fulgente del progresso veneziano. Le glorie della Serenissima vengono fatte rivivere in una dimensione elettrificata e motorizzata, legata da funzionali reti di acquedotti e fognature, che — perimetrata dal traffico delle stazioni marittima e ferroviaria, dall’Arsenale potenziato e dal primo aeroporto civile italiano — i futuristi di Marinetti non hanno più ragione di individuare come il luogo-simbolo che concentra tutti i loro bersagli polemici. Pur impenetrabile alle automobili, la città si dota di una «grandiosa rimessa», che resta uno dei più imponenti monumenti ai non numerosi bolidi che circolano per le strade italiane, appena costruiti il ponte del Littorio e il suo sbocco nell’enorme piazzale Roma. Fino alla metà del secolo, l’intenso dibattito intellettuale sulla natura e il destino di Venezia contempla ammirato continuità e cesure tra la grandezza passata e quella attuale. L’attenzione sembra concentrarsi in una sfera prettamente estetica, di cui i progetti di vaste e radicali riconversioni nelle vocazioni economiche della laguna si ammantano, tanto pomposamente quanto strumentalmente. Il preteso intento è di coniugare glorie antiche e moderne di una città che — se non può immaginarsi capitale della nazione — si propone però come luogo dinamico per eccellenza, ponte ideale e porto privilegiato tra l’Europa e il Levante, oltre che celebrato luogo di scambio tra miti e realtà delle élites vetuste e di quelle emergenti.
Nel turbine delle trasformazioni, il richiamo alle tradizioni è però continuo e sovrabbondante. In aggiunta alla rassegna puntuale delle modernizzazioni in corso e delle glorie dei secoli passati, l’Enciclopedia Italiana dedica ben una pagina e mezza al folklore di Venezia(2). Ma si può dire che buona parte delle caratteristiche di Venezia insulare vi siano presentate come folklore; persino i piccioni, o le passerelle per rimediare all’occasionale acqua alta. Stando alla descrizione etnografica — in stridente ma forse compiaciuto contrasto con le immagini moderniste appena esposte nelle pagine precedenti — è come se la vita del centro urbano rimanesse immersa in un passato sopravvissuto a se stesso, che si riproporrebbe in abitudini tratteggiate come pittoresche, a cominciare dalla sorpresa nel constatare che «le imbarcazioni a motore non hanno ancora fatto sparire i gondolieri». Si liquida in tre righe la storia del Carnevale, cui non si riconosce alcuna possibile attualità. Ma negli antichi costumi — sopravvissuti in periodiche rievocazioni, o almeno nella memoria — c’è qualche elemento che non si ritiene per nulla bizzarro nella sua residualità: «gli esercizi ginnici [che] conservarono al popolo e ai nobili l’attitudine alle fatiche della guerra» e rimasero «fonte di fierezza». Ai più diversi rituali ludici a sfondo marziale di cui si conservi memoria viene data notevole rilevanza: dalle regate e naumachie alle celebrazioni del dominio sul mare, dalle competizioni tra «castellani» e «nicolotti», alle «lotte con le canne» o alle «guerre dei pugni», dai tornei e dal tiro al bersaglio alle «cacce dei tori» o delle anitre, dalle «moresche» (danze delle spade) alle spericolate acrobazie in piazza e in acqua eseguite dagli arsenalotti, in particolare «nelle ‘Forze d’Ercole’ originarie del sec. XIII, durate fino all’800 e che oggi si cerca di ripristinare».
Nonostante il distaccato sguardo scientifico dell’Enciclopedia Italiana, una simile visitazione delle usanze locali è in perfetta sintonia con gli orientamenti culturali dell’epoca, che informano la vita pubblica cittadina col loro rigido autoritarismo militaresco. Tutto ciò che può arricchire di spunti coreografici e glorie storiche il costume e l’identità fascisti viene rivalutato su libri e riviste, come alimento salutare ai risorti miti della venezianità. E la trasposizione delle ideologie di regime nell’immaginario evocabile a Venezia non si ferma qui: la città diviene una sede ottimale per eventi culturali in cui la particolare dimensione urbana, la sua fama internazionale e la ricchezza delle dotazioni museali divengono scenari ideali per ricostruire e valorizzare presunte tradizioni etniche delle genti adriatico-latine e italiche, depositarie dell’eredità di Roma imperiale. Ognuno di questi eventi diventa pretesto per proiettare l’identità nazionale nell’attesa di un dominio sull’Adriatico e — di riflesso — sul Mediterraneo orientale. È appunto su quest’uso strumentale delle tradizioni, su questa attualizzazione leggendaria della civiltà veneziana come modello per la grandezza nazionale italiana e per le sue potenzialità espansive, che in queste pagine si intende concentrare l’attenzione.
In un intenso scambio simbiotico coi flussi italiani e internazionali del turismo che percorre calli e canali, le tradizioni — vere o posticce che siano — spesso diventano indistricabili dalle immagini che le riproducono su cartoline, calendari o souvenirs. La circolazione di queste immagini in mezzo mondo giustifica abbondantemente l’orgoglio di essere veneziani, di vivere cioè circondati da oggetti simbolici universalmente noti, interpretati tanto dalle culture di massa quanto da quelle d’élite come caratteristici di un’antica civiltà patrizia mercantile. L’immagine del ponte sul canale, di cupole e campanili svettanti sulle isole, della facciata della basilica, delle trifore neogotiche, delle paline d’ormeggio coi colori della casata davanti ai palazzi patrizi, del leone alato, della gondola o anche solo del suo ferro di prua, diventano il marchio, il ‘logo’ stilizzato di una celebrata e favoleggiata vita veneziana, finendo per connotare un senso di antica e leggendaria nobiltà di cui tanto l’abitatore come il frequentatore occasionale della città possono temporaneamente ammantarsi. Depositaria delle vere e sane tradizioni viene considerata l’élite che tende a far propri costumi aristocratici. I mutevoli costumi del ‘popolino’, quando non confermino le prospettive della Venezia ufficiale e commerciale, vengono considerati anacronismi bizzarri, se non deplorevoli poltronerie. A rinfocolare un costante culto di piccole tradizioni cittadine pensano i giornali locali. Ma, a parte certe manifestazioni religiose, sulla stampa è raro che i modi di vita popolari vengano presi in considerazione come esempio di dirittura morale, o proposti per l’imitazione. Dei secoli passati «Gazzetta» e «Gazzettino» raccontano a scadenza quasi quotidiana — anche in apposite rubriche — feste, usanze, episodi curiosi. Per la festa del patrono, nelle loro pagine non mancano mai l’annuncio e la cronaca dell’offerta del bocolo, il bocciolo di rosa che si sostiene vada offerto per galanteria alle ragazze. Più che dono primaverile di innamorati, il fiore è venduto in piazze, caffè, ritrovi e approdi di vaporetti da coppie di ragazze e ragazzi eleganti, da crocerossine, o da giovani italiane e avanguardisti, mobilitati da comitati di beneficenza promossi da dame veneziane o da organismi di regime, specialmente a sostegno della campagna antitubercolare. Nella festa patronale, ad anni alterni, si avviano anche i cerimoniali preliminari della Biennale. Per tutti gli anni Venti, in luglio, la «Gazzetta» promuove poi annualmente un festival al Lido per eleggere «reginette», una per ogni sestiere, le ragazze che risultino più belle e eleganti indossando una riproduzione in seta del vecchio scialle di lana veneziano: capo d’abbigliamento in disuso, ma nobilitato, perché — si insiste a ricordare — pure la regina Margherita amava indossarlo, seppure nella foggia chioggiotta detta pieta. Un concorso che negli anni Trenta viene invece promosso dall’O.N.D. (Opera Nazionale Dopolavoro). L’incontro informale per ascoltare la musica in piazza S. Marco — eseguita dalla banda municipale se di festa, dalle orchestrine dei caffè nelle altre sere — dal XIX secolo è una delle abitudini canoniche. Anche tutti i riti ecclesiastici solenni o caratteristici sono annunciati, talvolta anche accuratamente descritti, nella pagina locale di questi giornali. I riti religiosi in omaggio ai protettori di sestieri e parrocchie della città, e delle sue acque, appaiono con forza un culto sociale di identità territoriali frammentate, nei loro momenti di abituale distinzione o di temporanea riunificazione. Nei primi decenni del XX secolo, dal molo alle calli più fuori mano, la città si va ricoprendo di tante raffigurazioni votive dei vari taumaturghi — Madonne, più che santi — o insegne del ‘suo’ evangelista: immagini che dal 1797 in molti casi erano state rimosse, perdute o rovinate. È una lenta risacralizzazione cattolica dello spazio urbano, a cui patriarchi e parroci partecipano con pieno orgoglio, ben sapendo come queste immagini possano ancora rappresentare l’attaccamento conservatore ad un culto insieme civile e religioso della tradizione. Negli anni Dieci, una costante spinta in quella direzione veniva in particolare dal Comitato Viva S. Marco, che — all’ombra della Basilica — non badava solo ai monumenti della città, ma spingeva lo sguardo e il discorso fino all’altra riva dell’Adriatico, rinfocolando l’identità veneta di nostalgie sulla potenza perduta. Un intellettuale vicino al sindaco Grimani, riecheggiando tematiche allora care all’Action française, e indispettito che tra i cultori della venezianità non mancassero gli acattolici, lamentava però che quest’associazione non avesse una stretta impostazione confessionale, rimanendo in parte esposta a influssi laici «corruttori» con cui il «giudaismo e il cosmopolitismo tendono a pervadere tutti gli ordini, soffocando tanti valori sociali, così che il gioco materialistico riesca più facilmente. Peccato che i componenti del Comitato Viva S. Marco non abbiano custodito in tutta la soglia del loro sodalizio, e contrariamente ai loro stessi primi concetti, non abbiano tenuto ferma la trincea del sentimento cattolico senza il quale la gloria della Serenissima non si concepisce […]; assai ci s’illude se si crede di poter ammettere in una Società nella quale si tende alla reviviscenza della civiltà stessa della Serenissima, atei o appartenenti ad altre Chiese che non siano le cristiane e soprattutto la cattolica. Se entreranno ebrei, o quasi-ebrei, nel Comitato Viva S. Marco — senza che gli altri se n’accorgano — tutta l’anima di quell’istituzione si trasmuterà risultando affatto impari allo scopo propostosi»(3).
Quasi vent’anni dopo, il clima concordatario rafforza le tendenze popolari a omologarsi ai valori ufficiali, tanto più in una città dove funzionano da almeno un trentennio strette intese tra autorità civili e religiose. Che le celebrazioni centenarie del santo patrono siano quasi simultanee alla firma del concordato, arricchisce di ulteriori significati sia l’evento politico che la solennità diocesana. Le piccole minoranze protestanti, pur non votandosi a santi protettori, cercano di non essere da meno nell’utilizzare analoghi codici identitari, ad esempio col loro Istituto scolastico evangelico «Serenissima». Al tempo stesso, numerosi ebrei sono orgogliosamente partecipi del localismo veneziano, senza considerarlo affare da ‘gentili’, o un ripudio della tradizione religiosa degli avi.
Nella prima metà del secolo Venezia è uno dei principali centri della mondanità internazionale. Il culto della venezianità opulenta non potrebbe minimamente reggere senza questo costante flusso di turismo di lusso e personaggi celebri, che trovano tra i canali e i caffè della città, o alla Fenice, ma prevalentemente all’Hotel Excelsior e sulla circostante spiaggia del Lido, i luoghi eletti per esibirsi e ritrovarsi. L’impianto urbano, i particolari modi di vivere dei suoi abitanti, la stessa storia e i monumenti, ben presto anche le pratiche sportive, diventano lo sfondo per le manifestazioni che attraggono e fanno brillare le periodiche soste di un’alta società internazionale dedita a continui viaggi e vacanze. Il fascismo stesso, coi suoi miti, i culti di nuovi stili di vita, le esaltazioni della velocità, l’ammirazione per le élites e il ristabilito e teatralizzato ossequio popolare alle gerarchie, non manca di esercitare viva attrattiva per questi ambienti. Per i grandi poteri che dominano la città e la laguna, l’ostentazione di tante fortune e privilegi, o dell’eleganza di luoghi e persone, diventa il modo preferito di far rivivere il mito della capitale adriatica(4). Anche questo è un modo di richiamare a nuova vita un passato e delle tradizioni di Venezia, attraverso un ambiente dai modi aristocratici, composto essenzialmente di parvenus borghesi, ma in cui ci si contende l’amicizia o l’imparentamento col poco che resta del patriziato locale. Il gusto per la venezianità, di cui si era fatto cantore e caposcuola Gabriele D’Annunzio(5), diventa un travestimento storico per il presente, particolarmente caro a Giuseppe Volpi e al suo entourage di imprenditori e intellettuali nazionalfascisti, come lo era stato per Piero Foscari(6). Rispetto ai classicismi della retorica e della propaganda politica dannunziana, però, il protagonismo politico e finanziario di questi suoi interlocutori mira in modo deciso a inserire la storia veneta come centro di una identità latina e nazionale che fino allora i costruttori dello Stato unitario — per ragioni culturali e dinastiche — hanno imperniato sulle tradizioni toscane e sabaude.
Venezia conservatrice, soprattutto dai tempi della giunta Grimani, si alimenta di ‘tradizioni’, anche inventate o riesumate, per rafforzare le proprie convinzioni in un’epoca di transizione e circondarsi di gesti rassicuranti, che mostrino come la città monumentale possa avventurarsi nel progresso senza che il vecchio mondo tramonti, perché a cambiare sono solo corpi estranei al nucleo urbano insulare. Gode esteticamente di un’identità nostalgica, tranquillamente complementare a culti della modernità, purché quest’ultima rimuova da sé tutti i fattori di rimessa in discussione di vecchi equilibri sociali. Il culto cattolico è parte inseparabile di questa visione del mondo, anche quando a praticarlo, magari solo occasionalmente o badando essenzialmente alle formalità esteriori, è una borghesia dalle abitudini poco consone alla morale religiosa. L’alta società veneziana non vuole mancare alle solennità religiose, momento di scansione di un calendario altrimenti all’insegna dell’effimero, nelle solennità profane del ‘bel mondo’. Se la basilica di S. Marco è sempre celebrata come l’arca sacra della venezianità(7), anche il santuario della Salute è importante, per la devozione religiosa e insieme per i culti che la città marinara rivolge a se stessa. Nella sagra del 21 novembre, al generale afflusso spontaneo dei veneziani si sommano i pellegrinaggi organizzati delle associazioni cattoliche della terraferma. A nobilitare la Salute non sono solo la sua caratteristica di tempio votivo e i suoi pregi artistici, ma anche l’essere allora attorniata da case di principi veri o presunti di paesi lontani, e di magnati americani, senza contare l’essere — per tutti questi motivi — prescelta da registi stranieri che vi vanno a filmare uno dei luoghi più spettacolari, per di più toccato dai più tipici rituali della tradizione veneziana. Gli eventi che attraggono l’attenzione dell’opinione pubblica non riguardano che in pochi casi l’antica cattedrale, che fino all’inizio del XIX secolo era S. Pietro in Castello. L’armonia tra gerarchie politiche ed ecclesiastiche negli anni Trenta trova uno dei numerosi momenti di collaborazione in un tentativo di ripristinare dopo oltre mezzo millennio la festa delle Marie, nell’ambito della campagna demografica e contro il celibato dei laici, prendendo spunto dalla celebrazione a Roma di una «sagra dei matrimoni» alla presenza del duce nell’undicesimo anniversario della Marcia su Roma. Scegliendo proprio S. Pietro in Castello — anziché S. Maria Formosa come nell’antica tradizione — ed evocando per l’occasione leggende di antiche gesta guerriere di oltre un millennio prima, O.N.D. e clero predispongono una folklorizzazione(8) di forme assistenziali e insieme di controllo sociale tipiche di quegli anni, portando pomposamente all’altare, nella ricorrenza del 2 febbraio, «dodici fanciulle veneziane, fra le più povere e le più virtuose»(9), con una cospicua e ambita dote, oltre che begli abiti da sposa, anelli e doni — tutto offerto dalla pubblica amministrazione, dal Partito, dalla Chiesa e dai grandi alberghi — e un corteo nuziale di autorità e popolo.
Al culto cattolico della patria veneziana, che coi suoi valori morali amalgama residui del patriziato, borghesie emergenti, clero e ampi strati di popolo, dopo il primo conflitto mondiale si affianca con vigore la religione civile, col suo culto dei caduti e della vittoria in guerra. Il culto civile dei caduti si innesta perfettamente in questa religione della città, molto più che altrove. Tanto più che il cardinale La Fontaine fin dall’inizio del 1919 legittima in varie occasioni gli appelli dell’irredentismo adriatico che rivendica l’italianità della Dalmazia, nella prospettiva di restituirla alla pubblica devozione per s. Marco, nonché alla giurisdizione ecclesiastica del patriarcato veneziano(10). E la Chiesa veneziana è ben disposta ad accoglierne e legittimarne la sacralità. La cosa è accuratamente predisposta, fin dall’inizio, per integrare nelle parcellizzate identità urbane il mito patriottico dei martiri per la causa della vittoria. Fin dal 1919 ogni parrocchia commemora i propri caduti, nei riti occasionali di chiesa come in apposite lapidi in marmo o pietra decorati, poste ben visibili — ma per nulla invadenti — sulle pareti laterali, all’esterno della chiesa: qualcosa che appartiene quindi insieme alla pietà cattolica e civile, oltre che della piccola comunità abitante nelle calli circostanti, che ricorda i propri soldati morti; un po’ come nei secoli precedenti certe lapidi funebri, talvolta murate all’esterno di edifici religiosi, che ricordavano in modo analogo notabili benefattori della Chiesa e dei poveri. In quegli anni, senza che il progetto trovi poi attuazione, si pensa di dedicare ai soldati caduti un gran numero di nuovi ponti in pietra, da costruire sui rii e sul Canal Grande, in sostituzione dei vecchi ponti austriaci in ferro. Fuori dall’antico centro abitato si possono costruire vistosi sacrari della memoria bellica. Uno è il parco della Rimembranza a S. Elena: un po’ decentrato rispetto a edifici monumentali e luoghi popolosi, ma percorso frequentato dai cultori delle moderne ritualità culturali e sportive, essendo posto tra i giardini della Biennale e lo stadio, a ridosso di un abitato modello edificato allora per la classe media. L’altro è il tempio votivo di S. Maria della Vittoria al Lido: presso l’approdo dei vaporetti, a debita distanza da luoghi di divertimento e spiagge, monumento insieme religioso e civile sull’isola anticamente fortificata da cui per secoli erano partite imponenti spedizioni militari per la conquista dell’Oriente, a cominciare dai crociati; voluto dal patriarca La Fontaine per ricordare i bombardamenti sopportati dalla città durante la Grande guerra, è affacciato sul bacino di S. Marco, a simboleggiare una protezione supplementare su attività umane e traffico marittimo nella laguna, con la sua presenza complementare a quella di chiese ben più imponenti e famose. Tanto a S. Elena come al Lido, i nomi di episodi bellici salienti, località conquistate ed eroi — della guerra recente tra le Alpi e il Piave nel primo caso, dell’antico dominio sul Levante nel secondo — ispirano ampiamente i nomi delle vie, inserite nei percorsi della dinamica mondanità cittadina. Per dei rituali di massa, S. Maria della Vittoria, al Lido, è decisamente fuori mano; ma in occasione delle feste nazionali del 24 maggio e del 4 novembre, o di visite ufficiali di gerarchi, un apposito servizio di vaporetti vi porta i membri delle associazioni combattentistiche e dei familiari dei caduti, e i reparti militari e della milizia, per celebrarvi la memoria della guerra che ha permesso l’espansione nell’Adriatico.
Per l’ambivalente spirito patriottico delle classi superiori veneziane, il fascismo vincente sembra collocare nella giusta dimensione nazionale il culto di Venezia. Molta acqua dovrà passare sotto i ponti, prima che tra esse si sostenga di aver considerato con noia la demagogia retorica, l’omologazione piazzaiola o l’invadenza poliziesca portate dai parvenus in camicia nera, o di aver guardato con orrore il razzismo e l’esaltazione nazifascista della violenza; o prima che divenga luogo comune la tendenza a considerare il nazionalismo fascista una passeggera e superata espressione storica della propria identità borghese, a cui guardare ormai con infastidito distacco, stendendo un velo di oblio sul passato. Negli anni Venti e Trenta la classe dirigente locale e il ‘bel mondo’ che frequenta i ritrovi cittadini e del Lido investono profondamente se stessi in tale ideologia, entusiasticamente partecipi di un’esperienza storica che sembra loro aver restaurato definitivamente le antiche glorie veneziane, ripresentando nella sua purezza nazionale — cioè non angustamente campanilistica — il senso d’appartenenza alla popolazione di una città che si immagina rifulgere sulle somme vette della mitologia dell’Italia del duce. Le solenni parate fasciste si tengono abitualmente in Piazza e Piazzetta, sfilando tra il ricostruito campanile e la basilica di S. Marco, per poi passare a comizi oceanici nella stessa Piazza o, per folle ridotte e in modo più raccolto, nel cortile del Palazzo Ducale, talvolta seguiti da cerimonie ristrette ai soli quadri politici, all’interno della sala del Maggior Consiglio. Meno frequenti i raduni politici importanti in campo S. Stefano, all’ombra della statua di Tommaseo, o in altri campi minori. Per le grandi manifestazioni in Piazza vengono mobilitate pure la provincia o la regione, ma con moderazione, per le difficoltà organizzative a convogliare nella città folle dall’esterno, senza crearvi il caos. I luoghi della ritualità fascista ripercorrono volutamente quelli del cerimoniale civile della Serenissima. Per la nuova sede della Casa del Fascio, nel 1935 collocata nel prestigioso palazzo Michiel delle Colonne, sul Canal Grande, si sceglie il «nome venezianissimo»(11) di «Ca’ Littoria». Nelle cerimonie ufficiali, si rende omaggio ai fascisti caduti, portandosi al «sacrario» annesso a questo palazzo, che raccoglie i cimeli dello squadrismo locale. Così, se nell’ufficialità occorre chiamare i bambini in camicia nera «figli della lupa» capitolina, e progredendo l’età col soprannome di un eroicizzato monello genovese, qualche volta, con affettuoso campanilismo, ci si può pure permettere di chiamarli «leoncelli di S. Marco»(12). Dalla pubblicistica cittadina dell’epoca fascista e poi del secondo dopoguerra — a differenza di quanto accade altrove nella provincia italiana — scompare del tutto il populismo di qualche pur isolato intellettuale strapaesano, compiacente verso un pittoresco ruspante, non ‘da cartolina’ o per turisti, che elabori letterariamente in senso eroicomico figure tipiche o quadretti di locale ambientazione picaresca. Il «Sior Tonin Bonagrazia», vecchio e amato giornaletto che per alcuni decenni aveva bonariamente incarnato questo genere letterario, si estingue alla fine degli anni Venti. In una città dove pure la classe dirigente si compiace del culto dell’osteria e del garanghelo, la produzione giornalistica e letteraria si fissa per intero tra leggenda aurea del passato e cultura di «Stracittà», interrompendo la tradizionale e rinomata vena di letteratura popolaresca satirica e autoironica.
Dal 25 aprile 1933, dopo polemiche trascinatesi per decenni, Venezia è collegata alla terraferma anche tramite un ponte automobilistico, benedetto dal patriarca La Fontaine e inaugurato dal principe ereditario Umberto, alla presenza di diversi ministri e di tutta la Venezia che conta, tra una folla di curiosi(13). Per molti veneziani, dopo il massiccio incremento del turismo a metà degli anni Venti, forte rimane il timore di un’invasione della città ad opera di masse di turisti, ancora più temibili se viaggiatori poco forniti di denaro. Ma la lunga congiuntura economica negativa che va dalla crisi del 1929 al periodo autarchico e alla guerra mondiale allontana la possibilità che una simile prospettiva si realizzi. La città pare comunque già ben preparata ad accogliere una massa di visitatori. Non si parla solo di infrastrutture per l’accoglienza, che qui nello specifico non interessano, ma di una ritrovata, o inedita, disposizione della cittadinanza a mobilitarsi coralmente per costruire una serie di eventi spettacolari non occasionali, che si articola nel corso dell’anno, per diverse stagioni. Il raggiungimento di questa capacità mobilitante non è determinato soltanto dagli efficienti apparati commerciali e culturali azionati dalla C.I.G.A. (Compagnia Italiana Grandi Alberghi) e dalla Biennale, in crescita e da decenni collaudati. Vi contribuisce efficacemente anche la capillare rete di società ricreative e sportive unificata sotto la bandiera dell’O.N.D., capace di rendere ampi e attivi settori della popolazione urbana partecipi di pratiche di accoglienza turistica e di messa in mostra di aspetti spettacolari del costume veneziano o di suoi stereotipi, oltre che capace di produrre servizi a basso costo per gli ospiti forestieri. La multiforme riscoperta della venezianità che il partito fascista e l’O.N.D. controllati da Giuriati vanno promuovendo dagli anni Venti, incentivando una pratica remiera e marittima di massa e un diffuso folklorismo, finiscono per costituire una nuova base d’incontro tra la popolazione e i forestieri. I raduni dei costumi nazionali, nell’estate del 1928, vanno visti come la prova generale di un moderno modo della città di farsi palcoscenico, coinvolgendo quantità di figuranti e attirando masse di turisti, in una operazione coreografica di grossa portata culturale. Tutta la macchina spettacolare e mitologica di Venezia è pienamente funzionante quando il ponte del Littorio apre virtualmente la strada a un massiccio turismo popolare, oltre che a mutati equilibri economici all’interno della laguna.
L’elogio delle virtù guerriere diventa presto e prepotentemente parte delle ideologie pubbliche, più ammantato di miti di quanto non avvenga in altre città. Le più celebri accademie cittadine ospitano eruditi rappresentanti delle locali istituzioni culturali e loro membri autorevoli, emuli del dannunziano Stelio Effrena, che tengono conferenze con titoli del genere La storia di Venezia come volontà di potenza, annunciando che «dall’aquila romana al Leone di S. Marco, alle insegne della nuova Italia, la storia cammina inesorabile, perché guidata dal sicuro genio della razza, che trova sempre nel cammino le vestigia del passato, ma non si indugia su esse, e porta sempre più in alto i termini sacri della civiltà che fu e sarà sempre improntata da Roma»(14). E sulla «fede vivissima ancor oggi nell’anima dei figli della Serenissima» insiste un’intellettualità che coltiva tra i veneziani la sensazione — motivata anche religiosamente — di dover adempiere a una missione civilizzatrice nel mondo, come baluardo della cattolicità, «orgogliosi di essere stati tra i più fedeli figli di Dio, di esserlo ancora, nel nome del dolce e temutissimo San Marco, l’evangelista che affidò il suo libro al leone alato»(15). I podestà di Venezia continuano così fino al 1943 a donare generosamente sculture in pietra o gonfaloni col Leone di S. Marco a città e isole della sponda opposta dell’Adriatico, man mano che si vanno estendendo i confini e le alleanze del Regno, o le zone occupate dall’esercito italiano. Ma che le guerre causino inconvenienti anche per i cultori delle piccole tradizioni locali, lo si può constatare già alla fine degli anni Trenta, a cominciare dalla ricca tradizione culinaria veneziana. Per esempio, mangiare una carne affumicata di montone proveniente dalla costa balcanica, la castradina, è una caratteristica della festa della Salute e pare un tratto essenziale dell’identità locale, per i ceti abbienti che possono permettersene l’acquisto, o per i lavoratori che un tempo la mangiavano all’osteria. Dal 1935, appena sanzioni e autarchia impediscono importazioni da oltre Adriatico, la castradina smerciata ai mercati di Rialto — il luogo privilegiato degli usi alimentari caratteristici — è un surrogato nostrano, che ogni anno le pedanti rassicurazioni dei giornali cittadini garantiscono essere doppiamente apprezzato dalla gente, per il suo buon sapore e per il granitico orgoglio nel cibarsi unicamente di prodotti nazionali. A maggior ragione i sostituti del baccalà, cibo d’importazione abitualmente acquistato, devono diffondere senso di privazione e qualche inconfessabile nostalgia per tempi non lontani, quando la patria non era un Impero. A temperare il malcontento e sollecitare timorose reverenze verso chi gestisce l’economia autarchica contribuiscono i racconti edificanti dei rari fol;kloristi che trattino della città e della laguna nei loro scritti, secondo cui proprio «la volontaria e spontanea devozione all’autorità e la più rigida disciplina» erano il fondamento politico del passato glorioso: «La Repubblica non aveva paura dei motti, dei frizzi, delle arguzie satiriche dei suoi popolani, e questi non abusavano della tolleranza e le loro frecciate mescolavano bonariamente a sospiri d’amore, sagge moralizzazioni, ingenue vanterie, lazzi e gioconde risate»(16). La gente della laguna — ribadisce un altro folklorista — rimane gente semplice, con uno spiccato amore di patria, sempre pronta a formare le ciurme che nel passato si sono coperte di gloria nell’Adriatico e nel Levante(17). Ma dal 1940, in una città endemicamente tormentata dal caro viveri, i razionamenti e gli aggiotaggi fanno riscoprire a una parte consistente della popolazione ricorrenti e opprimenti sensazioni di fame, su cui nemmeno qualche Arlecchino a Carnevale può concedersi lamenti o battute spiritose in pubblico. Pure l’O.N.D. trascura ormai i civili; e per ricreare almeno i numerosi militari di stanza in città e nelle isole organizza un teatro itinerante, col palco venezianamente natante, battezzato perciò «Barca di Tespi»(18).
L’Opera Dopolavoro viene impiantata per tempo e rapidamente a Venezia, dal luglio del 1926. Subito il Municipio accoglie nel Palazzo Ducale gli uffici dell’organizzazione, a sottolinearne la centralità nei progetti di dotare la città di un servizio logistico che armonizzi e diriga la frammentaria sociabilità dei diversi sestieri, a cominciare da quella sportiva, orientandola a trasformarsi in un’attività ricreativa e culturale di massa. Le forme di paternalismo e le tendenze corporative presenti nella cultura urbana si adattano presto a questo nuovo modo di strutturare la vita civile attraverso la promozione e i controlli gerarchici delle attività associativo-ricreative. Non infrequenti sono i casi, almeno negli anni Venti, di adesioni imposte a libere associazioni preesistenti, forzate a rinunciare alla propria autonomia. Ovvie e non lievi difficoltà incontra poi la rigida direzione dall’alto delle articolazioni di questa complessa macchina organizzativa, che in pochi anni viene a innervarsi capillarmente nella vita popolare. Ma fin dagli esordi la propaganda e le manifestazioni del Dopolavoro, con la sua pressione per assorbire tutto l’associazionismo delle classi medie e popolari nella propria rete, finiscono per condizionare vistosamente i tempi e le espressioni della socialità veneziana, imprimendole un tono programmaticamente caratterizzato. Filodrammatiche e corsi di nuoto sono le prime attività cui l’O.N.D. si dedica. Sollecitata da Roma, subito si dota di una prima ‘flottiglia’ di barche, ormeggiate vistosamente sul molo di S. Marco, per incoraggiare — anche con un’apposita insistente propaganda — la pratica remiera e velica. Promuovere incessantemente e — in un primo tempo con prudente discrezione — ideologizzare la pratica sportiva, diventa un terreno privilegiato di impegno. L’attività nautica viene incoraggiata in ogni modo, con quotidiane escursioni in laguna e fino in mare aperto, su costante sollecitazione di Giuriati, fedele alla missione affidatagli da D’Annunzio — ancora prima dell’impresa fiumana — di ricondurre la città alla vocazione marinara(19). La direzione nazionale dell’organizzazione invia ai veneziani specifici e pressanti appelli al «ritorno al mare». Sul mare la città deve cercare il proprio destino, mettendo in secondo piano ogni altra attività economica e sociale(20). Campi sportivi e annesse palestre, per pratiche ginnico-atletiche e giochi di squadra, dove ancora non esistono, vengono inaugurati e attrezzati, sia sulle isole che sulla terraferma. Il lancio di massa degli sport acquatici, tuttavia, promosso con massiccia propaganda e incentivi negli anni Venti, negli anni Trenta non riesce a mantenere i propri livelli di mobilitazione.
Le regate avevano assunto nei secoli un carattere di festa civile, in origine per solennizzare determinate ricorrenze di culto, insieme civile e religioso; in seguito, specialmente in occasione di visite di Stato, come spettacoli in onore dei sovrani ospiti della Repubblica di S. Marco. Queste competizioni sfarzose erano eventi straordinari, non legati a consuete scadenze fisse e neanche inserite in cicli annuali o stagionali di gare. L’abitudine si mantiene, pur con minore frequenza, anche nei rituali ufficiali del XIX secolo, sia col Regno lombardo-veneto che col Regno d’Italia. Nel 1841, però, si giunge a una loro prima provvisoria codificazione folkloristico-sportiva, introducendovi come centro dell’attenzione una gara di gondolini variopinti, a due remi, che corre tra il bacino di S. Marco e il Canal Grande all’incirca ogni due anni, sostenuta con abbondanti mezzi dal Municipio, per incitare i gondolieri a mantenere ed esibire le proprie abilità professionali. La festa corporativa dei gondolieri viene accompagnata da sfilate sfarzose delle bissone: imbarcazioni da parata del Municipio, usate per gli ingressi reali, o fornite da altri residuali gruppi corporativi e famiglie patrizie. Nella seconda metà del secolo, dopo varie interruzioni dovute alle tensioni risorgimentali, in una città collegata alla terraferma dal treno e dove si va lentamente affermando la navigazione a vapore, la consuetudine si ripete sempre più stancamente, come cerimoniale celebrativo della città e del suo passato, anche per l’indebolimento della presenza di questi gruppi professionali residuali — gondolieri compresi — e della nobiltà. Nell’ultimo ventennio del secolo, un’ulteriore ricodificazione rende le regate definitivamente autonome dal rituale di Stato e le adatta a mutati equilibri urbani. Per esempio, nel 1887 nuove bissone e costumi di vogatori sono preparati per essere esibiti in acqua durante l’inaugurazione dell’Esposizione artistica del 1887(21). Oppure, due anni dopo, per festeggiare l’appalto ottenuto dal Municipio per un più moderno servizio di pulizia urbana, un impresario organizza nel Canal Grande una solenne e velatamente comica regata delle scoazzere, condotte dagli spazzini: un sintomo dell’emergere di nuovi grandi interessi nell’organizzazione della città, che finiscono per riflettersi anche in vistosi fenomeni di costume. Nel 1895 si tiene una regata in onore del re Umberto e della regina Margherita, venuti a inaugurare la prima Biennale d’arte contemporanea. Nel 1899 si arriva a definire quella che per la prima volta viene chiamata Regata storica(22). Sganciata dalle sue originarie funzioni pubbliche, la regata può ora servire a nuovi usi politici e sociali del mito di Venezia. Sostenuta dall’aristocratico sindaco Filippo Grimani, si tiene a maggio — nel giorno della Sensa, quasi si trattasse di una rievocazione della decaduta cerimonia dello «sposalizio col mare» — per dare il via alla terza Biennale nel modo più pittoresco, e ridando insieme un’effimera opulenza a un’antica solennità cattolica veneziana. Consistenti premi vengono assegnati ai migliori paramenti d’occasione messi quel giorno a decorare i palazzi costeggianti il percorso di gara. Per esaltare il decoro coreografico della gara, il comitato promotore coinvolge gli emergenti gruppi finanziari e industriali che si apprestano a cambiare il volto della città e della laguna, assieme ai circoli d’artisti e a parte della consistente realtà associativa sviluppatasi dopo l’unificazione nazionale. Ormai la committenza privata di queste manifestazioni si riduce a quasi anonime società per azioni, mentre tendono a scomparire le barche in paramenti di gala tradizionalmente allestite da famiglie patrizie o facoltose. Dopo la magnificenza dell’esordio, la manifestazione si ripete in tono decisamente minore. Per i costi reputati insostenibili anche dalla giunta comunale conservatrice, dopo il 1905 per un po’ non si svolge più in Canal Grande, e la spesa che il Municipio vi investe passa da 30.000 a 3.000 lire. In quegli anni, la competizione certamente più combattuta e popolare in tutta la laguna — seppure poco frequentata dall’élite — è quella delle gondole a un remo, a Murano(23). Solo pochi però sono disposti a rinunciare alla centralità che il quotidiano uso dei remi ha nella vita e nel costume della città; la regata, pur momentaneamente perduto il suo fulgido decoro, continua così a fregiarsi ambiziosamente della qualifica di «storica» e dei significati di cui questo termine la arricchisce, non senza forzature. Le si mantiene con discreta regolarità la cadenza, talvolta accompagnandola alle inaugurazioni primaverili della Biennale, talvolta come manifestazione dei gondolieri appoggiata da Municipio, commercianti e albergatori, fino alla sospensione durante la prima guerra mondiale. Solo in occasione della guerra libica, il 30 giugno 1912, col finanziamento della locale Cassa di risparmio, si tiene una solenne regata in Canale — sottile operazione nazionale e internazionale di propaganda bellica folklorizzata — evocante vari richiami all’antico dominio su Costantinopoli e allo storico antagonismo coi turchi. La Regata storica, per la sua quasi regolare continuità e per il suo togliere dall’anonimato campioni popolari di categorie professionali tipicamente lagunari, resta così il momento più intenso in cui i veneziani vivono coralmente la folklorizzazione della propria identità collettiva. In realtà, durante la bella stagione c’è un proliferare di regate, promosse da associazioni sportive e professionali. Dall’inizio del XX secolo, ricorrenti gare remiere mobilitano in alcuni settori della città gli sportivi e i loro sostenitori, schierati ad incitarli e acclamarli — dalle fondamenta o da multiformi postazioni galleggianti — lungo il percorso nei canali. Per esempio, una regata animata è quella dei postelegrafonici, che una volta all’anno si svolge sugli abituali percorsi di lavoro di questa categoria professionale; un’altra è quella dei barbieri. Dal 1920, è quella patrocinata dalla «Gazzetta di Venezia» e dai gruppi finanziari che la sostengono a fregiarsi — tra le varie regate — del titolo di «Regata storica», facendosi una certa rinomanza mondana e raccogliendo — ora a scadenza annuale — un ampio pubblico di veneziani e turisti, pur senza ormai altro decoro coreografico che quello messo a disposizione dalla quotidiana scenografia di una bella città sull’acqua. Con l’aggregazione forzata alla Municipalità di Venezia delle isole prima dotate di una propria autonomia comunale, la loro partecipazione pittoresca alle regate cittadine diviene un risarcimento simbolico per questa subalternità e insieme un veicolo di integrazione in una nuova identità. Per isole come Murano, Burano, Pellestrina, la forte carica agonistica nelle regate non è quindi disgiunta da uno spirito di rivalsa identitaria, almeno sul piano sportivo. D’altronde, anche per i sestieri urbani, non è davvero la passione popolare a mancare in queste competizioni(24). Nel 1927 la gara più pubblicizzata e solenne è la «Regata fascista», che mette — non metaforicamente — la camicia nera ai vogatori, mantenendo, con l’immissione di questa variante politica, l’impianto pittoresco della Regata storica; ma non viene più ripetuta con simili modalità. Un’altra regata spettacolare la tengono il 27 ottobre 1930, vigilia dell’anniversario della Marcia su Roma, i gondolieri dei dodici «traghetti» cittadini, con un omaggio alla chiesa della Salute. Interessante notare — in queste manifestazioni sportive come in tutte le pubblicazioni che le accompagnano — che la loro ideologizzazione porta a ostentate rivalutazioni leggendarie della Serenissima, senza però che nelle sfilate compaia mai un bucintoro con sopra un figurante del doge. In occasione della Giornata nazionale del marinaio, che ogni anno il regime celebra a fine giugno, a Venezia e al Lido si tengono abitualmente chiassosi festeggiamenti, con cortei nautici e abbigliamento all’antica rispolverato per l’occasione, tra una grande profusione di fiori. Ma pare significativo che, nemmeno occasionalmente per una simile festa tutta rivolta al mare, venga mai ripristinato dal cerimoniale civile e religioso della Serenissima un rituale evocatore dello «sposalizio col mare». Per la stessa ragione, nonostante qualche accenno di nostalgico rimpianto a un’antica solennità civile, nessuno pensa di festeggiare il 25 marzo il «Natale di Venezia», dal momento che sempre in primavera — pochi giorni prima della festa del patrono — il regime celebra nel «Natale di Roma» la data prioritaria della fondazione leggendaria della patria, di un’altra patria. Dai miti della Repubblica di S. Marco si recupera l’immagine della nazione in armi, non una simbologia esplicita della passata sovranità veneziana, inevitabilmente leggibile in chiave nostalgica e forse localistica, non automaticamente integrabile nelle ideologie del nazionalismo italiano. Qualcuno spera che, col sostegno del podestà, siano le modalità di questa manifestazione dei traghettatori a ridare splendore alle regate veneziane(25). Intanto, le pubblicità turistiche dell’Ufficio comunale per il turismo e della C.I.G.A. continuano a menzionare in agosto la vivace regata di Murano e in settembre quella «storica», o «reale», a Venezia; nella prima si selezionano gli equipaggi dei gondolini per la seconda. Le regate, comunque, hanno una portata simbolica supplementare, nel rafforzare l’immagine della città che, grazie al vigore del suo popolo, resiste al dilagare dei rumorosi mezzi a motore(26).
Con gli anni Trenta, l’O.N.D. comincia a predisporre anche treni popolari che portino forestieri in città ad assistere alla Regata storica, e contemporaneamente avanza sempre più la rivendicazione di dare una propria impronta alla manifestazione, sostenendo che il suo carattere eccessivamente sportivo e regolamentato deriverebbe da una gestione municipale mummificante, mentre l’apporto dei gruppi dopolavoristici rionali e aziendali potrebbe rivitalizzarla e modernizzarne la coreografia(27). Nel 1938 il Dopolavoro impegna le proprie associazioni nell’organizzazione di nuove grandi gare in acqua, che possano costituire un alto momento agonistico e spettacolare per gruppi professionali o sportivi partecipanti, cittadinanza e turisti. Tra queste, spicca il primo Campionato dell’Alto Adriatico per imbarcazioni pescherecce a vela, dove 200 bragozzi, con le loro vele multicolori, condotti da veri pescatori o da sportivi, il 31 luglio veleggiano su un percorso di 30 chilometri, da Venezia a Chioggia. Questa manifestazione, in precedenza patrocinata dal «Gazzettino di Venezia» e dal Municipio nell’ambito dell’estate veneziana, ora affidata all’O.N.D., rivolge un occhio alla corporazione dei pescatori — specialmente chioggiotti, anche per infondere orgogliosi sensi d’appartenenza a un settore economico vitale per l’economia lagunare e autarchica — e un altro occhio all’esibizione di pittoresco da offrire ulteriormente ai turisti nella stagione balneare. La gara più rilevante è però il primo Palio nautico, per gondole e sandoli. Dalla primavera all’estate, le selezioni per il Palio avvengono in nove tornate, una per ciascun sestiere, attirando decine di migliaia di spettatori. Dopo queste eliminatorie, il 21 agosto i campioni gareggiano per conquistare al proprio sestiere il trofeo col leone alato della Serenissima(28). Dopo due settimane, i migliori classificati gareggiano nuovamente nella «Regata storica reale», a cui assiste un pubblico più ampio, compresa l’alta società. Ma negli anni successivi il Palio finisce per fagocitare del tutto la Regata storica; per breve tempo, visto il sopraggiungere della sospensione bellica. Rispetto alle gare dei decenni precedenti, gli equipaggi non sono solo campioni singoli e dell’associazione di canottaggio a cui sono iscritti, ma rappresentano un sestiere o un’isola, sollecitando un circoscritto territorio a riconoscersi in loro. Per rendere più vivace la gara, ma anche per impedire rivalità aggressive incontrollate, si evita accuratamente di riproporre la tradizionale contrapposizione territoriale della città, tra «castellani» e «nicolotti», ispiratrice di agguerriti agonismi cittadini fino al secolo precedente. Se la competizione di fatto spinge i vari sestieri a servirsi anche di campioni presi altrove, resta comunque l’uso rigoroso di escludere i non veneziani. Del resto, in città e tra le isole abbondano i barcaioli professionisti, come pure gli sportivi del remo. Il modello di agonismo territoriale è palesemente ripreso dal Palio di Siena: la festa, e insieme competizione, che in Italia riscontra il maggior successo, sia tra il pubblico locale che tra i turisti. A Siena, all’epoca, la riesumazione di una tradizione medievale funziona in modo eccellente, tanto come attrazione turistica, quanto nel galvanizzare la popolazione delle contrade in un’impresa di costruzione corale dell’immagine antica e gagliarda della città(29). Non che Venezia abbia molto da imparare, quanto a folklorizzazione del proprio passato ad uso turistico. Ma ora l’O.N.D. vuole compattare maggiormente il variegato circuito di circoli remieri della città e dei dintorni, puntando proprio su una folklorizzazione dell’attività sportiva, che ne accentui la spettacolarità turistica e ne valorizzi le potenzialità come elemento rivitalizzato del mito storico di Venezia. Da un frammentario succedersi stagionale di gare di voga, che ha il suo culmine in quella pittoresca della prima domenica di settembre, si vuole passare a qualcosa di unitario ed organico, capace di impegnare nel corso dell’anno tutta l’attività dei vogatori locali. Tutte le preesistenti gare dei diversi circoli remieri, a questo punto, vengono inevitabilmente assorbite nelle gare preparatorie del Palio nautico, che si tengono da maggio a settembre, tra il bacino di S. Marco e il Canal Grande, ma anche in alcune isole minori. Si semplificano così i compiti di pianificazione degli sport acquatici per l’O.N.D. e se ne dà ai turisti un’immagine uniforme, come se si assistesse non a moderne gare di velocità, ma a un rituale calendariale perpetuatosi nei secoli, che per tutto l’anno terrebbe ai remi una parte della popolazione, in un antico spirito competitivo. La spinta decisiva viene dalle esigenze di standardizzare le manifestazioni cittadine nella produzione e commercializzazione di stereotipi ‘storici’, con cui tutti i centri turistici rivaleggiano nel travestirsi. Per il fascismo cittadino si tratta anche di mettere a frutto spettacolarmente tanti anni di propaganda e dispiego di risorse per spingere fisicamente e idealmente sull’acqua la popolazione lagunare. Se poi l’apparato fascista incoraggia pure le veneziane a esercitarsi sui remi, la Regata storica viene rigorosamente mantenuta come esclusiva esibizione di forza maschia; opuscoli eruditi e giornali evocano le antiche regate femminili solo come una curiosità dai risvolti comici. Più che mai il rituale serve ad alimentare il mito di un ininterrotto rapporto della cittadinanza col mare: mito ora rivisitato in chiave politica nazionalista, per servire all’ideologia del dominio marittimo italiano. Del resto, numerosi studi sulle origini leggendarie della regata ne enfatizzano il carattere di esercizio militare. Col 1940 la maggior parte dei vogatori si trova chiamata sotto le armi a mettere a frutto le abilità pratiche acquisite per la riconquista del mare. Dopo le «Gare popolaresche nazionali di canottaggio femminili e maschili» e il terzo «Palio remiero veneziano», tenuti l’8 settembre di quell’anno a decorare l’inaugurazione del IV congresso nazionale dei folkloristi dedicato all’italianità del Mediterraneo, le regate vengono sospese e l’O.N.D. concentra le proprie attività sulla ricreazione per i militari(30). Ma dopo la guerra la voglia di riavere un rito aggregante dello spirito cittadino ridà vita presto ad analoghe manifestazioni, pur in tono minore.
Dalla fine del XIX secolo, in tutta Italia la tradizione del Carnevale urbano tende a spegnersi, dopo essere tornata in voga per alcuni decenni, in forma spesso turisticizzata, dopo l’unificazione nazionale(31). Le privazioni e i lutti della guerra mondiale assestano un altro duro colpo a un costume festivo già messo in crisi dal diffondersi dei conflitti sociali. Nel sanguinoso dopoguerra e poi con l’instaurarsi della dittatura, a Venezia i prefetti proibiscono le maschere sul volto, col banale pretesto che avrebbero potuto celare dei borseggiatori(32). In realtà, è il testo unico di pubblica sicurezza emanato nel 1926 dal guardasigilli Alfredo Rocco a vietare di apparire mascherati in luogo pubblico. La maschera si continua a usare nei balli privati che si succedono nei palazzi signorili, fino al generale accorrere alla «cavalchina», il veglione della Fenice. L’O.N.D. a volte dirama ai sodalizi federati delle circolari sul carnevale, appena giusto per ricordare ai soci «disposizioni [di polizia], limiti e ordinamenti»(33). Negli spazi all’aperto, nella rilucente piazza S. Marco c’è ormai quasi solo il transito di comitive che passano da una festa privata o un veglione all’altro; i residui del carnevale sopravvivono in qualche modo nel plebeo campo S. Margherita. Nel 1927, il comitato festeggiamenti di Venezia, che si riunisce al caffè Cavour, tenta la costituzione di una compagnia per animare il tempo di carnevale. La prima uscita di questo «Gruppo maschere caratteristiche» avviene in campo S. Margherita, estremo rifugio del carnevale negli anni Venti, dove la gente comune si ritrova a lanciare coriandoli e pallottole di gesso, con gruppi di giovani che scherzano importunando per gioco le ragazze di passaggio. Poi allargano la propria notorietà rallegrando spettacolini di beneficenza. Il circuito dei ritrovi al chiuso dell’O.N.D. e dei locali di lusso della C.I.G.A. ben presto assorbe stabilmente il loro impegno, che evolve verso quello di una compagnia comica dialettale e animatrice di feste sociali e private. Lontanissimo dal riuscire sfavillante, è questo, sul finire degli anni Venti, il momento di massima vivacità del carnevale veneziano. Venezia turistica può campare benissimo senza il carnevale; mentre nella memoria pubblica cittadina gli splendori del carnevale locale sono storicamente associati al deplorato infiacchimento militare e politico e all’abiezione morale della cittadinanza e della classe dirigente. Ne sono una traccia superstite, fino alla Quaresima, il succedersi di veglie e veglioni danzanti, in teatri, palazzi, saloni degli alberghi, fuori dalla stagione; o la stagione di prosa e qualche serata a teatro di gruppi dopolavoristici o di circoli privati(34).
A tentare ancora di far rivivere il carnevale è la sezione per il folklore dell’O.N.D., autorizzata a portare le maschere addirittura nella Piazza. Nel 1933, dopo un’accurata e propagandata preparazione, i divertimenti consistono nella discesa di un fantoccio di colombina dal campanile, nella danza moresca, nelle «forze d’Ercole» e in tornei a cavallo: alcune delle antiche esibizioni rituali di forza militaresca, insomma. Intrattenimenti preparati nelle palestre del Dopolavoro e durante i «sabati fascisti», ma che lasciano magari ai figuranti e agli spettatori qualche spazio per sbizzarrirsi in battute a soggetto. In più, molti gruppi dopolavoristici preparano mascherate che riprendono idee fermentate dopo i raduni dei costumi popolari di cinque anni prima, rappresentando i costumi dei veneti della terraferma. La Piazza si riempie di curiosi che circondano le maschere, alla ricerca di una festa le cui intemperanze e la cui baldoria sono ben vive nella memoria delle generazioni più anziane. Eppure, il carnevale è preceduto da polemiche sull’opportunità di spendere soldi in una pagliacciata, in anni di miseria; forse in Piazza si manifesta qualche aggressiva rivalità tra sestieri, o la folla non si attiene alla perfetta disciplina desiderata dagli organizzatori(35). Sta di fatto che da allora non si ha più notizia di un carnevale organizzato negli spazi aperti e centrali della città, anche se il Municipio vedrebbe favorevolmente un’ulteriore occasione per vitalizzare il turismo in inverno. Nell’epoca fascista i travestimenti da antichi veneziani vogliono essere presi sul serio, non essere scambiati per un estetizzante e nostalgico intrattenimento ludico; meno che mai per una buffonata. Per le loro esplicite e vistose ambiguità, alle maschere è precluso lo spazio cittadino.
Alla fine degli anni Trenta, il carnevale sembra visibile quasi solo per «la fiera con i baracconi a S. Margherita e sulla Riva degli Schiavoni»(36). È allora il Museo Correr a occuparsi di dare degna e definitiva sepoltura al defunto. Una sontuosa mostra di pitture, incisioni e oggetti di produzione artigianale, a Ca’ Rezzonico, rievoca nel 1937 le grandi feste del passato, con e senza uso della maschera. Inevitabilmente, molte delle migliori immagini in mostra sono prodotti del XVIII secolo. Viene dedicata una sala espositiva anche ai divertimenti ancora vivi nella memoria dei vecchi: quelli dei carnevali nella città da poco ricongiunta all’Italia. Questa volta, l’iniziativa è promossa da istituzioni dirette da Volpi, che anche personalmente contribuisce alla riuscita della manifestazione, mettendo a disposizione quadri della sua collezione. Ciò che agli organizzatori della mostra preme particolarmente è di rendere l’idea del complesso cerimoniale civile della Serenissima e delle sue sopravvivenze moderne, cercando di individuarvi le caratteristiche «delle Feste nazionali di un popolo», e in esse la chiave per «intendere l’indole e lo spirito» di questo popolo(37). I folkloristi, coi loro interessi per gli aspetti antropologici delle feste, vengono esclusi a priori dall’allestimento della mostra, affidato piuttosto ai cultori canonici della venezianità: i critici d’arte, eruditi sulla storia locale. L’iniziativa è comunque importante: getta nuova luce e aggiunge dignità alle numerose riflessioni di eruditi locali e forestieri che fino ad allora avevano studiato i rituali solenni della Repubblica. Dopo la mostra sul Settecento, questa è una nuova tappa attraverso cui la città comincia a sperimentare l’utilizzo puntuale dei tesori delle proprie collezioni d’arte, pubbliche e private, e dei propri archivi, per rielaborare una propria memoria e insieme per illustrare gli splendori della propria vita passata a un crescente turismo e ai visitatori delle iniziative collegate alla Biennale. Il tema della ritualità civile è naturalmente di fondamentale interesse per il regime, che continua a elaborare linguaggi e cerimoniali di massa, elementi basilari della sua pedagogia del consenso. Per tutte queste ragioni, le maschere e i linguaggi carnevaleschi — che pure ispirano una parte cospicua delle immagini esposte — non sono oggetto di alcuna riflessione che ambisca a un minimo di spessore. Oggetto privilegiato di riflessione sono semmai le cerimonie di Stato, come elemento fondante del culto patriottico. Una riflessione sul ‘mondo alla rovescia’ del carnevale o sulle identità ambigue delle maschere non potrebbe risultare più spiazzata e — coerentemente con l’ideologia ufficiale — manca del tutto negli organizzatori della mostra e nei critici che la pubblicizzano e commentano su riviste e giornali. Ad attrarre gli intellettuali degli anni Trenta è l’esplicita politicità delle feste della Serenissima: «sagre di popolo e riti di governo»(38), dove non emerge la dedizione alla signoria di una famiglia dominante, ma la dedizione delle élites locali e di tutti i ceti sociali al culto dello Stato. Quella messa in maggiore risalto è la festa della Sensa, con la sua ritualità di presa di possesso dei mari. E non si perde nemmeno occasione per fare allusioni attualizzanti, proponendo come sua possibile origine quel 1177, «anno trionfale per Venezia, in cui erano convenuti attorno al suo Doge, Sebastiano Ziani, il Papa e l’Imperatore». Non ci vuole molto, per l’uomo della strada di allora, a ritrovare in una simile immagine l’apoteosi dell’incontro solenne delle tre fondamentali istituzioni dell’Italia fascista, concordi nel solennizzare la recente proclamazione dell’Impero. La mostra insiste pure sulla centralità della Piazza come luogo dell’antica ritualità civile. Vi si rammenta il regolare succedersi, per secoli, di «tornei di pompa, giostre armate, sontuose processioni religiose, spettacoli coreografici, mascherate carnevalesche, cortei commemorativi, parate militari»(39): a parte la scomparsa del Carnevale — viene spontaneo pensare —, niente di diverso da ciò che accade nella Piazza in quegli anni. Quando Lorenzetti parla di feste popolari e carnevale, rievoca immancabilmente le stesse esibizioni di forza fisica e agonismo già ripetute in Piazza, nel 1933, dall’apparato sportivo fascista. Volendo indorare di venezianità il «sabato fascista», non manca l’evocazione dai secoli precedenti di «gite che settimanalmente, nei giorni festivi i giovani veneziani facevano al Lido per addestrarsi nel maneggio e nel tiro delle balestre»(40). Parla anche dell’uso delle maschere, ma ne decreta la definitiva morte con la fine della Serenissima, con un’unica momentanea resurrezione coi festeggiamenti del febbraio 1867 per l’unificazione nazionale. «Oggi, a conservare la vecchia tradizione delle nostre feste, poche ne sopravvissero, ma sono le più caratteristiche: la ‘regata’, la ‘veglia del Redentore’, la ‘Serenata’. Le sole feste più intimamente connesse alla natura, all’indole della città, cui anche oggi il popolo partecipa e si appassiona»(41). Si tratta, inutile ricordarlo, delle cerimonie patrocinate dalla C.I.G.A. e dalla «Gazzetta di Venezia». Alberto Zajotti, uno dei responsabili organizzativi delle manifestazioni culturali di regime, non ha difficoltà a spiegare perché a Venezia non sia alla moda mettere la maschera in febbraio: «Non è vero che il vecchio carnevale di Venezia, celebrato in tutto il mondo, sia morto d’inedia e di malinconia. Esso ha solo mutato la veste e si è solo spostato un po’ innanzi nel tempo, facendosi largo tra i foglietti del calendario. Le attrazioni che nel settecento chiamavano ogni inverno sui margini della laguna tutti gli eletti del gran mondo internazionale […] — maschere a parte e a parte certa baldoria — sono le stesse che adesso richiamano ad ogni tornar dell’estate presso la spiaggia di Lido i cresi di quattro continenti, i campioni di tutte le arti, gli assi di tutti gli sport, gli astri della più raffinata mondanità di tutto il globo. Un carnevale meno intabarrato, questo, e meno insidioso: più aperto, più schietto, più sano»(42).
Nell’estate 1928, il «raduno dei costumi italiani» fornisce un’eccellente occasione per glorificare Venezia come vetrina ideale di un’Italia che sposa modernismi a tradizionalismi. Dopo che la Biennale ha da tempo mostrato come lo scenario urbano sia uno dei più adatti a produrre e mettere in circolazione cultura di massa, il regime può sperimentare come essa possa anche travestirsi efficacemente da «popolaresca», col fol;klore. Nella città le manifestazioni sono anticipate, nell’inverno, da una mostra fotografica di dopolavoristi sui paesaggi veneti, in cui si ritrae essenzialmente la vita contadina, spesso in immagini arcaicizzanti. Poi, ad annunciare al pubblico e alla stampa ciò che si sta preparando, per il pubblico elegante delle grandi occasioni si tengono esibizioni coreografico-musicali di bande altoatesine, in Piazza, e del gruppo folkloristico friulano al Teatro Malibran, abbinate a un’accurata serie di conferenze, abbondantemente propagandata anche all’estero, dove i gerarchi delle province «redente» nella Grande guerra ripercorrono l’epopea della loro ricongiunzione alla nazione e fanno resoconti entusiastici dell’italianizzazione — o venetizzazione — degli allogeni. Il progetto punta a un’operazione di regionalizzazione in grande stile, per amalgamare culturalmente tutti i confini nordorientali e, secondariamente, per avvalorare pretese espansive sull’Adriatico. Si vuole alimentare con spettacolari coreografie un immaginario etnico che esalti l’italianità delle terre recentemente inglobate nel Regno, e anche di quella sponda dalmata dell’Adriatico considerata ancora irredenta; e ammirando gli ornamenti cerimoniali annunciati da una folta delegazione della minoranza linguistica di Piana dei Greci, si trova modo di inserire nella manifestazione il pretesto per ribadirvi affinità storico-etniche tra italiani e albanesi, questi ultimi da attrarre saldamente nella sfera d’influenza della patria fascista, come lo erano stati in quella della Serenissima. La preparazione nei minimi dettagli dell’evento per quasi un anno continua a dispiegare un complesso ed efficiente apparato in tutta Italia. La presidenza del comitato organizzatore viene affidata ad Augusto Turati, segretario nazionale del partito fascista; la vicepresidenza a Giuriati e Volpi, i due veneziani al governo. Turati si dice entusiasta della proposta, non solo per la valorizzazione delle tradizioni, della storia patria e del ruralismo che la manifestazione produrrà, ma in generale per la «grande importanza per l’industria turistica»(43). Ai raduni assisteranno al posto d’onore le più qualificate rappresentanze: Italo Balbo e Alfredo Rocco in rappresentanza del governo, il duca di Perugia per la Casa reale, e vari diplomatici per i loro paesi: tutti curiosi di osservare quale moderna e originale identità l’Italia riesca a proporre, attraverso la kermesse di questo crogiolo delle tradizioni. Inizialmente, coinvolgendo quindici province, è prevista una grande «adunata dei costumi dal Triveneto». In ogni provincia, dal Po al Brennero, fino all’Istria e Zara, vengono nominati gruppi di fiduciari — composti in prevalenza da eruditi, liberi professionisti, insegnanti, funzionari politici e qualche sacerdote — incaricati di individuare dei costumi folklorici che possano tipizzare le tradizioni delle diverse zone. La stampa nazionale annuncia che dalle vallate alpine «converranno a Venezia le multicolori brigate che troveranno non la città estranea, ma la madre adriatica che ai figli finalmente restituiti offrirà tutto il suo cuore»(44). Presto però ci si accorge che l’operazione tocca al cuore troppe questioni culturali e ideologiche cruciali per il fascismo, e si corregge la rotta, facendo in modo che il raduno, da regionale qual era previsto, diventi nazionale, per rimarcare la pretesa unità etnica dell’intera penisola. L’insistenza su Venezia come essenziale punto di riferimento simbolico per le terre redente avrebbe sovrapposto il mito di S. Marco a quello della lupa capitolina. Inoltre fin dal Risorgimento, le tendenze regionaliste sono considerate dalla generalità degli intellettuali un vitale quanto variopinto aspetto dell’identità nazionale. Anche l’industria tessile si dimostra interessata a nuovi costumi ispirati a quelli tradizionali ma disegnati da moderni stilisti attenti ai concetti attuali di funzionalità ed eleganza, chiamati a sfilare — scandalizzando i folkloristi di mezza Italia — con lo scopo di lanciare nuove fogge ‘nazionali’. Dalla sua costituzione, l’O.N.D. ha promosso solo piccole manifestazioni folkloristiche provinciali e regionali, senza troppe pretese di marginalizzare i localismi. Ma sul fine degli anni Venti tale prospettiva sta per essere sottoposta a un serrato processo ideologico, che porterà presto la quasi totalità degli etnografi e degli eruditi a esprimersi secondo un’ortodossia di regime disposta a vedere aprioristicamente in ogni usanza tradizionale, anche tra gli allogeni, l’impronta decisiva della latinità e di un’antica espressività italica(45). Dunque il raduno del Triveneto, per l’enorme investimento ideologico e propagandistico che lo accompagna, non può svolgersi solo all’insegna del regionalismo e della venezianità — come inizialmente previsto — ma si autoimpone di diventare una rassegna ispirata allo scavo nelle tradizioni di tutta una nazione. Vengono perciò sollecitati tutti i podestà d’Italia, specialmente quelli delle maggiori città, e le strutture periferiche dell’O.N.D., perché anche le regioni più lontane forniscano almeno una delegazione con studiati abiti pittoreschi. Non è dunque difficile individuare proprio nella preparazione del raduno veneziano dei costumi una prima profonda riflessione del fascismo sulle tematiche etnografiche; riflessione sfociata, dopo qualche anno, nella decisione di mettere al bando il regionalismo come un’eresia. Le sfilate folkloristiche veneziane del 1928 sono visceralmente ispirate da un’ideologia nazionalista. Ma se è facile notare che non sono allineate coerentemente a un’ortodossia etnografica, perché ancora il regime non l’ha definita in modo netto, emerge altrettanto bene che Pellegrini e Alberto Zajotti — i registi — sono ben decisi a prestarsi come pionieri di tale ortodossia. Se nella produzione degli eruditi veneziani di quegli anni è continua la rievocazione di dogi e Serenissime, nelle rappresentazioni fasciste per celebrare le antiche glorie locali non si personificano quasi mai gli antichi governanti di S. Marco, almeno in modo esplicito e coerente. Molti pensano Volpi quasi come un doge; ma evocare con un quadro vivente la tradizione dei sommi reggitori di una potente Repubblica italiana, pare proprio un tabù, una mascherata inopportuna nell’Italia del duce e del re, più di quanto non lo possa essere — per Carnevale — il mettere vere maschere sui volti di Pantalone e Arlecchino. Ai raduni, c’è il podestà a presiedere a scambi di doni, davanti ad alti esponenti del governo, del partito fascista e della Casa reale; venezianismi e nostalgie del passato non vi possono trovare spazio. Così a Venezia si concede solo di mettervi in mostra qualche accenno di tradizione minore, non certo lo sfarzo delle antiche tradizioni civili. A parte la filodrammatica di Gigia Campagnol, Venezia si contenta di farsi rappresentare dal Dopolavoro caccia e pesca, che — coi cani, a bordo delle proprie valesane, barchette da valle — si presenta in un’elegante ma ordinaria tenuta da escursione in laguna.
La ricaduta culturale della manifestazione segnerà a lungo le celebrazioni identitarie collettive degli italiani. La scelta di Venezia, anziché di un centro rurale, parte dalla velleità di lanciare delle mode etniche nell’abbigliamento, per contrastare quello troppo americanizzato della maggior parte degli italiani, attraverso la sfilata anche di costumi moderni dalle pretese simbologie italiche: «Sono essi che devono iniziare un nuovo periodo. […] Quel nuovo costume regionale ed italico insieme, dovrà avvincere la popolazione e incontrare il gusto di tutte le masse locali»(46). Da allora, autorità e intellettuali ne sono incoraggiati ad accompagnare regolarmente le ritualità civili con raffazzonati richiami folkloristici, sicuri dell’efficacia di tali richiami, come simbologie di massa, presso il pubblico che intendono educare. La direzione organizzativa della manifestazione ci tiene a dichiarare di avere intenzionalmente mescolato vecchi costumi restaurati e altri — funzionali alla vita moderna — ideati per l’occasione, perché l’Italia deve costruirseli i propri abiti caratteristici, rifondando — oggi qualcuno direbbe inventando — le tradizioni. Si ha ben presente di lavorare per una cultura di massa e non per rinfocolare culture localistiche, tanto più che gli stessi responsabili dei raduni ammettono che in Italia tra la gente di pianura e di città non resta più nulla del vestiario antico. Ma dal momento che simili travestimenti devono reincarnare antiche ed esemplari virtù etniche, nessuno vuol mancare a una simile opportunità. Per togliere i podestà dall’imbarazzo nell’improvvisare costumi pseudoantichi, si propone loro un «corteo italico dei valletti e mazzieri», in cui ciascun Municipio potrà sbizzarrire le proprie fantasie medievaleggianti e rinascimentali. La delegazione di trombettieri, alabardieri e vessilliferi delle contrade di Siena, che fa ormai da modello agli altri Comuni con le sue parate rievocative in occasione del Palio, ha un posto di rilievo in questo corteo, come pure Assisi, con le trombe d’argento dei suoi «alfieri». La maggioranza delle delegazioni municipali risulterebbe però offesa dal minimo cenno a una propria rappresentazione fasulla delle tradizioni locali. In fogge nobili o contadinesche, o con veri araldi, valletti, gonfalonieri e podestà vestiti in modo goffo e bizzarramente desueto, per lo più indossando costumi mai visti prima di allora, questi figuranti sono orgogliosi della propria rappresentazione pittoresca. Mettono in scena nei campi veneziani quanto antica, nobile e originale sia anche la propria terra, sebbene poi tutti sappiano di giocare una parte in una cerimonia politica, chiamati a sfilare davanti a una folla di gerarchi di ogni regione, di giornalisti italiani e stranieri, a macchine fotografiche e cineprese di professionisti dell’immagine, e tra circa ventimila spettatori che hanno pagato il biglietto per il posto a sedere in Piazza e dintorni. Fino in Inghilterra e America ci sono agenzie incaricate della vendita di quote di biglietti, mentre la capienza del sistema alberghiero fatica a reggere lo sforzo cui è sottoposta per dare ospitalità ai figuranti, ma soprattutto al pubblico delle straordinarie occasioni mondane. A parziale compenso del proprio impegno, alla grande maggioranza dei figuranti è data la possibilità di vedere Venezia per la prima volta, completamente spesati.
Muri e carrozze ferroviarie di tutta Italia vengono tappezzati con un variopinto manifesto d’invito. Grossi quantitativi ne circolano in tutte le città straniere, attraverso i canali diplomatici, per attrarre spettatori a un evento così inedito, ma anche per costruire all’estero un’immagine molto estetizzata e caratterizzata etnicamente dell’Italia. Venezia non trae soltanto prestigio da questa colossale rappresentazione delle tradizioni nazionali, ma sperimenta un modo inedito di animare le stagioni turistiche e di rivitalizzare la propria immagine attraverso i mezzi di comunicazione di massa, sfruttando vestigia di un passato idealizzato. Il diario degli organizzatori rileva: «le fantasiose rassegne costituiranno non solo un’attrattiva per i forestieri che qui verranno anche dalle più lontane nazioni, non solo un enorme vantaggio alla città di Venezia, ma un rito trionfale di storia patria, ed un nuovo indirizzo di tutte le manifestazioni che si susseguiranno nella nostra regione»(47). La città ospite si vede riconosciuta una gloriosa preminenza storica tra i comuni e le signorie dei secoli precedenti, nel momento in cui i podestà di tutta Italia «promettono l’invio delle loro rappresentanze, per affratellare, sotto il vessillo di S. Marco, gli antichi gonfaloni, e per far sfilare, tra lo scintillio degli ori della Serenissima, gli antichi costumi che tanto e vario passato ricordano»(48).
Al primo raduno, il 18 agosto, sfilano tremila figuranti. Nel secondo — l’8 e 9 settembre — si cerca un effetto «di gran lunga superiore per movimento di masse». Agli oltre mille figuranti altoatesini, se ne aggiungono un migliaio friulani. Da Gradisca oltre cento donne in costume portano un prezioso dono tradizionale a Giuriati, uomo-simbolo dell’irredentismo. Settecento figuranti, da venti comuni, inscenano una rievocazione storica della «dedizione del Cadore a Venezia», nel 1420. A ricevere questi onori non sono raffigurati un doge e dignitari dell’antica Repubblica: c’è, senza togliere solennità allo spettacolo, l’autentico podestà in carica, che dona ai cadorini un gonfalone copia di una loro bandiera usata all’epoca della lega di Cambrai, a memoria della loro fedeltà militare a S. Marco, combattendo contro le truppe imperiali calate dall’Austria. Per il premio offerto personalmente da Mussolini a chi allestisca il miglior cerimoniale caratteristico, concorrono la «Rua» di Vicenza, il «Baccanale del gnocco» di Verona, la «Festa dei ceri» di Gubbio, il «Cantamaggio» di Terni. Non mancano le guide valdostane che vogliono scalare il campanile in Piazza, o i goliardi di Padova che parlano e scrivono alla Ruzante. La città ospite non va oltre la filodrammatica dialettale del Dopolavoro, abbigliata nelle fogge locali della fine del XIX secolo, a recitare Vecchia Venezia. A danzare la «moresca» veneziana giunge però — grazie a un’accurata scelta della regìa — la delegazione dell’isola dalmatica di Curzola, probabile patria di Marco Polo, che può così evocare il perdurante legame culturale con l’antica Dominante(49). In tutto, per due giornate, settemila figuranti. Ma vista la risonanza del raduno del mese precedente, in settembre i gruppi folkloristici vengono accompagnati da folte comitive di sostenitori compaesani. Tra gli spettatori accorsi per l’evento, la «Gazzetta di Venezia» dell’11 settembre mette in risalto «moltissimi stranieri, tra i quali eminenti personalità letterarie e giornalistiche». La pur robusta e collaudata capacità d’accoglienza turistica e dopolavoristica riesce a malapena a sostenere la prova.
Per l’O.N.D. e i Municipi, la spesa complessiva sostenuta si aggira sul milione di lire. Per questo sforzo organizzativo immane e i costi esorbitanti affrontati, la prospettiva di ripetere a Venezia la manifestazione non appare all’orizzonte. Tanto più che il suo organizzatore, Antonio Pellegrini, viene subito inviato stabilmente a Roma per gestire la continuazione del progetto, che evidentemente ha incontrato il massimo favore della classe dirigente nazionale e si è rivelato una scelta culturale capace di scavare a fondo nell’immaginario collettivo, oltre che di agire da potente stimolo al proliferare di repliche nelle esibizioni folkloristiche in periferia. Tolti dallo scenario veneziano e dalla sua forte caratterizzazione geografica proiettata al confine di nord-est del paese, per i raduni dei costumi sarà d’obbligo recuperare il proprio baricentro nazionale, nella collocazione ideologica ideale concepibile dal fascismo. I riflettori della scena di massa spostano su Roma l’attenzione generale, riportando per un po’ l’ombra su Venezia, capitale dei costumi italiani solo per una breve stagione. Sotto la guida di Pellegrini e la protezione di Giuriati, nel 1929 avviene a Roma l’ultimo definitivo raduno dei costumi, spettacolare offerta dell’O.N.D. alla festa di nozze del principe ereditario Umberto. Si può avere l’impressione che per Venezia, vista la scarsa e insignificante presenza dei suoi costumi locali, il raduno sia stato un momento effimero. Non è così. Già allestendo il suo Museo del Settecento, la città si propone come polo culturale per la riflessione sull’intreccio tra costume e storia. E nella stessa direzione va il film Il cantastorie di Venezia, girato da Atto Retti-Marsani in occasione del raduno folkloristico(50). A distanza di quattordici anni, in occasione dell’importante mostra sul folklore religioso, il Dopolavoro veneziano può riutilizzare una parte dei costumi sfilati nel 1928. Riesce a reperirli facilmente, avendone evidentemente conservato in loco una parte, o avendo mantenuto e consolidato i contatti coi gruppi e paesi che li avevano forniti. Inoltre, l’intero apparato del Dopolavoro veneziano, mobilitando ogni sua energia nel 1928, ha così sviluppato una propria sensibilità etnografica — da investire strumentalmente nel campo della cultura di massa — che avrà lunghe ricadute in altri settori della sua attività. Mentre la «palpitante capitale adriatica […] in cui tutto non muore» si è offerta ancora una volta come punto d’incontro scenografico di anacronismi e modernità spinte, dove «tutto il passato ritorna alla luce della civiltà nuova»(51). L’Italia che va erigendo barriere culturali verso l’estero e che si va provincializzando nelle mitologie ruraliste ha più che mai bisogno delle sue capitali culturali e delle loro piazze più famose, come palcoscenici internazionali e nazionali della nuova politica.
Il desiderio della classe dirigente locale di fare di Venezia la regina del Mediterraneo, solo retoricamente subalterna a Roma, viene elaborato per anni dai fautori del nazionalismo più acceso, ed esposto a Mussolini, nella sua visita ufficiale a pochi mesi dalla Marcia su Roma, nella festa dello Statuto del 1923. Reduce da una visita a Vittorio Veneto e a circostanti cantieri di dighe e centrali elettriche, il capo del governo visita prima il costruendo porto di Marghera, poi la città. Nella sala del Maggior Consiglio, scelta per marcare di solennità storica l’evento, mentre consegnano nuove insegne col leone alato alla Legione S. Marco della milizia fascista, il sindaco Giordano gli porge i saluti a nome della prima città dove i fascisti hanno impugnato le armi e hanno vinto «la minaccia antinazionale», per impedire che la bandiera rossa fosse alzata sull’antenna della Piazza, e per mobilitare subito i «figliuoli di S. Marco» nella rivendicazione bellicosa di una «Venezia imperiale» protesa al dominio sulla «quarta sponda». La replica di Mussolini, badando a non raccogliere direttamente i poco diplomatici riferimenti all’impresa fiumana e le minacce alla costa dalmata formulati dal sindaco, si limita a osservare che Venezia sta coerentemente costruendo nei suoi cantieri la rinascita di un destino imperiale dell’Italia, preparando sul mare il riscatto di una «vittoria mutilata» conseguita a terra(52). Lo sviluppo incipiente della città moderna viene già descritto secondo un destino interamente prefigurato lungo le coordinate mitologiche che i nazionalisti locali — col decisivo apporto di Gabriele D’Annunzio — vanno elaborando da un quindicennio.
Nel 1938, la nuova messa in scena — negli spazi aperti di campo S. Elena, presso l’Arsenale — del dramma dannunziano La Nave, che trent’anni prima aveva costituito la decisiva fonte d’ispirazione letteraria delle mitologie nazionaliste su Venezia, annuncia quanto la forza del mito stia favorendo nuove mobilitazioni guerriere(53), raffrontabili, seppure in scala ridotta, a quelle che Wagner ha ispirato ai nazionalismi tedeschi. Fino agli anni Trenta, tutte le voci del fascismo veneziano ripetono senza sosta che Venezia deve essere una città viva, attraverso lo sviluppo portuale, cantieristico e industriale. Dopo di allora, il messaggio viene aggiornato: per essere viva, la città dev’essere all’altezza del suo mito, «rivestita del carattere di metropoli coloniale»(54). Alla mostra delle Terre d’Oltremare, organizzata a Napoli nel 1940 con l’evidente scopo di legittimare pienamente nell’opinione pubblica l’espansione militare nel Mediterraneo, Venezia — favorita dalla facile evocabilità simbolica e artistica del suo passato di potenza marinara — può inviare un elevatissimo numero di pezzi d’esposizione, trovandosi in una posizione del tutto privilegiata, dal momento che la sua area d’espansione nei secoli precedenti coincide largamente con lo ‘spazio vitale’ di cui il Regno d’Italia si è già impossessato, o che rivendica nell’imminente guerra. Negando la decadenza dello Stato veneziano e della sua vocazione espansiva in Adriatico e Mediterraneo nel XVIII secolo, il conte Elio Zorzi — responsabile delle pubblicazioni della Biennale e dell’Ateneo Veneto — attribuisce tale interpretazione della storia a luoghi comuni denigratori prodotti dalla storiografia francese «di marca massonico-democratica», interessata nei primi decenni del XIX secolo alla definitiva estinzione della Repubblica di S. Marco(55). Dunque, la perdita dell’indipendenza e insieme dell’iniziativa politico-economica avrebbe portato Venezia alla decadenza solo nella relativamente lunga parentesi del XIX secolo, dal momento in cui la città perde gli orizzonti marittimi, prima che una nuova classe dirigente e imprenditoriale creasse le premesse di una ripresa sul mare delle capacità espansive della città. La più seria storiografia veneziana di quel periodo si concentra però prevalentemente sui secoli XVI e XVII, in cui effettivamente la Serenissima concepiva la propria libertà nel completo controllo navale dell’Adriatico, contrastata da tutte le altre potenze(56). A orientare con entusiasmo i sentimenti della venezianità nella fase iniziale della guerra è un solido blocco di industriali e intellettuali indistricabilmente legati da rapporti ormai pluridecennali, fortemente convinto che la guerra creerà le basi definitive per un rapido e consistente avanzamento della funzione economico-strategica di Venezia. Punto di collegamento privilegiato di un dominio italiano sui Balcani e sul Levante mediterraneo, alla città e ai suoi centri di potere sarebbero venuti — secondo queste avventate previsioni sul futuro — enormi vantaggi dalla nuova situazione; e ne sarebbe stata riconosciuta, ben al di là di una limitata area regionale, una preminenza — non solo d’immagine — nel gestire l’impero conquistato. Occorreranno almeno due anni di insuccessi in guerra per risvegliare la classe dirigente dai sogni megalomani e per ricondurre drasticamente il suo opportunismo a tattiche oltremodo realistiche. Oltre alle sconfitte militari dell’Italia, è il constatare lo schiacciante predominio germanico nei territori conquistati a rendere politicamente ed economicamente del tutto improduttive le festose accoglienze — immancabilmente condite di richiami alla storia della Serenissima — che Venezia tributa a capi di regimi collaborazionisti balcanici in visita, come Ante Paveliã, e a richiamare certa imprenditoria al prosaico calcolo dei magri ricavi ottenibili in una simile guerra. Fino alla metà del 1942, però, la leggenda del Leone di S. Marco risorto tocca il suo apogeo nella scena pubblica, proprio grazie alla propaganda bellica.
A confermare culturalmente Venezia nel ruolo storico di erede di Roma, è — dall’8 al 12 settembre 1940 — il IV congresso dei folkloristi italiani, che si tiene tra Ca’ Loredan e Ca’ Vendramin Calergi (nella sala del Centro Volpi di elettrologia), sul tema Unità delle arti e delle tradizioni popolari sui mari. Il congresso è tutto teso a dimostrare che «il popolo italiano è il grande dominatore del Mediterraneo, […] è il popolo mediterraneo per eccellenza; gli altri popoli catalani, provenzali, greci, vennero sempre secondi se non terzi e quarti»(57). La direzione nazionale dell’O.N.D., promotrice dell’iniziativa, sottolinea delle ragioni che guardano a un futuro di vittorie ritenute imminenti, per la scelta della città ospitante. «Venezia esprime mirabilmente lo sposalizio tra la poesia della tradizione e la potenza della modernità. Le macchine di Marghera e lo splendore mai attenuato dei tesori della laguna, si uniscono per proclamare questo connubio che avrà per i posteri il valore e la bellezza di una leggenda. Ma Venezia stessa è tutta una vivente immagine della vita di bellezza e di ardimento con la quale il popolo forma incessantemente le sue tradizioni. È qui una specie di sintesi delle caratteristiche popolari italiane nei secoli […]. Qui i ricordi del Mediterraneo prendono tutto il cuore del popolo: lo stesso Santo Patrono narra ogni giorno che venne dal non più lontano Egitto a cercare qui la sua nuova patria»(58). Il comitato esecutivo del congresso è presieduto da Volpi e composto dai nomi di maggior spicco dell’industria, della politica, del giornalismo, dell’arte e delle istituzioni culturali locali, impegnati personalmente a illustrare — in apposite cerimonie e visite guidate per i congressisti — come Venezia sia la più alta rappresentazione delle idee che il congresso va esprimendo. Proprio Volpi, autocelebrativo, annuncia come il convegno guardi a un futuro, visto imminente, in cui la vittoria porterà l’Adriatico a essere il nucleo vitale di una nuova era, dove «Venezia fascista sarà pronta, sempre con le sue arti, sempre con le tradizioni ma con altra forza, con un’altra vita, la vita della nuova Italia industriale, la vita che la farà grande, come mai fu, nel golfo di Venezia e nel Mediterraneo». Altri gerarchi nazionali ribadiscono che a fare il passo solenne della guerra non è più un’anacronistica nazione contadina, ma una potenza che attraverso il progresso industriale ritrova le proprie tradizioni. All’inaugurazione partecipano il principe di Genova e il cardinale Piazza, mentre il ministro Bottai ed Emilio Bodrero prendono parte attivamente al dibattito. Al di là delle continue affermazioni dogmatiche di una supremazia della civiltà italica nelle tradizioni marinare, il congresso scientifico ha degli strumentali scopi politici di stringente attualità: rivendicare la piena italianità di Nizza, Corsica e Tunisia, che si stanno strappando alla Francia messa in ginocchio dai tedeschi. Su questo tema, toccato da numerosi altri relatori, interviene calorosamente anche Volpi dalla presidenza del congresso. Non mancano analoghe rivendicazioni dell’italianità di Malta e della Dalmazia, prossimi obiettivi di conquiste. Per definire un quadro preciso del dilatato «atlante etnografico» di un’Italia che si ritiene avviata a una fulminea e travolgente espansione militare, gli studiosi dell’O.N.D. rinviano al congresso successivo, previsto a «vittoria compiuta», per il 1942, nell’ambito dei faraonici progetti dell’Esposizione Universale di Roma. Il conte Volpi conclude invece alla sua maniera i lavori, dando «l’arrivederci al V Congresso che si riunirà dopo la vittoria in una delle terre che sono state sempre italiane e che le nostre armi rifaranno per sempre italiane»(59). Gli interventi superano abbondantemente il centinaio; una dozzina insiste sulla cultura veneziana e veneta, non fermandosi all’Adriatico, ma spaziando fino al Levante. Molti intervenuti offrono tributi alla retorica bellica, con un’anglofobia pacata, non ostentata, benché la ricorrente evocazione storica della vittoria di Lepanto sia una formula revanscista che non allude certo al mondo musulmano.
Con simili incoraggiamenti, propaganda bellica e mito di Venezia continuano a viaggiare appaiati. Dall’estate 1941, iniziata trionfalmente l’invasione dell’URSS, Nino Perissinotto descrive per mesi su «Le Tre Venezie» — con uno scritto intitolato L’avvenire del porto di Venezia, che di puntata in puntata si protrae fino all’anno successivo(60) — gli imminenti cambiamenti che sarebbero in corso nel mondo: sono le visioni megalomani di chi insegue il miraggio di ricollocare Venezia a regina del Mediterraneo e punto d’arrivo di fitti scambi addirittura con l’Estremo Oriente. Il sogno di una totale vittoria dell’Asse che ribalti gli equilibri planetari — ritenuta imminente nella guerra parallela degli alleati tedeschi e giapponesi — suscita deliri d’onnipotenza per un fascismo lagunare che riconquisterebbe, allargandone dimensioni e sfere d’influenza, l’antico dominio della Serenissima sul Levante, senza più l’incomodo della potenza inglese e di quella sovietica, e tanto meno dell’antico antagonista turco. L’Italia non avrebbe che da rimodellare le proprie strategie coloniali su quelle dell’antica Repubblica marinara, ottenendo di fare da civilizzatrice di popoli e arbitra dei loro equilibri, fino ai remoti itinerari asiatici già percorsi da Marco Polo. Non sono improvvisazioni della propaganda bellica: da quasi un decennio il tema è stato elaborato dagli intellettuali veneziani. Grazie a questo retroterra culturale, per tutta l’estate 1942 Venezia diventa ancora punto di riferimento per un’ultima importante riflessione nazionale degli etnografi fascisti sulla creatività popolare, con la mostra Arte religiosa popolare in Italia, nei locali di Palazzo Reale e del Museo Correr, nell’ambito delle esposizioni di una Biennale d’arte in cui la partecipazione rimane limitata ai paesi dell’Asse e ai loro satelliti. Ancora una volta, la città lagunare dovrebbe fare da battistrada a una più grande manifestazione da tenere a Roma: la prima grande mostra di etnografia italiana, all’interno della prevista Esposizione Universale. Ma, per i bombardamenti alleati e per il generale precipitare degli eventi bellici, il nastro inaugurale dell’esposizione dell’Eur non verrà mai tagliato. Solo a Venezia l’operazione va in porto, proprio nel momento cruciale in cui si stanno determinando le svolte decisive nella conduzione della guerra, ma prima che la maggioranza degli italiani abbia la piena e corretta percezione dell’imminente collasso militare e dell’incombente catastrofe civile. L’iniziativa, che si propone di evidenziare la sintonia tra «sentimento religioso e indole nazionale», è insieme una complessa operazione ideologica per sostenere la propaganda bellica e impedire lo scollamento della Chiesa cattolica dal regime e dalla sua pretesa missione civilizzatrice combattuta con le armi — ma coi risultati deprimenti che presto sarebbero stati evidenti anche all’uomo della strada — in nome della latinità. Serve ad affermare che «il sentimento centrale, cui tutti gli altri si coordinano, è quello religioso che si può dire colorisca di sé quasi ognuna delle espressioni che il popolo dà della sua spiritualità. Ai fatti della famiglia o della patria, della guerra o della politica, il popolo sa conferire anche un motivo di carattere religioso»(61). Venezia darebbe esemplare dimostrazione di ciò — secondo Mario Nani Mocenigo — avendo impresso sui muri delle proprie chiese i nomi dei caduti di ogni parrocchia nella Grande guerra, facendo così dell’ammirazione per gli eroi e del culto per le armi veneziane la base della propria fede, come facevano gli antenati conquistatori del Levante. E in città una conferma della saldezza di questi sentimenti si vedrebbe pure nella guerra in corso, col Fascio femminile che — a nome di tutte le veneziane e richiamando tradizioni secolari — ha acceso davanti all’immagine della Madonna Nicopeia, nella basilica di S. Marco, «una lampada votiva destinata ad ardere perennemente finché non avremo raggiunto la vittoria finale»(62). Gli scopi etico-culturali della mostra non vengono celati: «Si può dire sia nata dal particolare clima del nostro tempo, nell’estate dell’anno XIX, mentre si riaccendeva la Santa Crociata che continua in Russia l’opera già svolta in Spagna contro i negatori della civiltà e della religione […]. La popolaresca religiosa di guerra è diventata così la sintesi ideale di questa rassegna che opportunamente ha anche saputo accentuare il carattere antibolscevico della guerra di liberazione che il nostro soldato ed il nostro popolo combattono per ristabilire l’ordine morale e religioso nel mondo»(63). Inaugurata in occasione della festa del Redentore, alla presenza delle massime gerarchie di regime cittadine, di Volpi e Cini, dei duchi di Genova, del sottosegretario all’Educazione nazionale, delle massime cariche dell’Università di Padova e di Ca’ Foscari, di Emilio Bodrero, Paolo Toschi e di alcuni dei principali folkloristi italiani, la mostra viene benedetta da monsignor Bressan, in rappresentanza del patriarca, e dal vescovo di Treviso. Il cardinale Adeodato Piazza, accompagnato da alte autorità civili, la visita nei giorni successivi. La chiusura della mostra è prorogata fino al 20 settembre, come a disinnescare definitivamente il residuale significato laico di quella vecchia data festiva. Il lavoro preparatorio è svolto essenzialmente da specialisti del settore, accademici e fol;kloristi al servizio del Dopolavoro, per la scelta di materiali museali, e con una attiva collaborazione del clero veneto nel reperimento di materiali ecclesiastici. Una parte consistente di materiali ha già circolato per Venezia: proviene dal Museo di etnografia italiana di Villa d’Este a Tivoli, allestito in parte coi materiali prodotti per le adunate dei costumi nell’estate 1928. Inutile dire che ancora una volta spiccano nella mostra i reperti di zone allogene o contese, come Piana degli Albanesi, Istria, Dalmazia; ma ora anche di regioni conquistate dall’Italia — come Nizza e dintorni — o di cui si tenta inutilmente la conquista, come Malta. Tra gli ex voto esposti, uno del 1742 raffigura un veliero di Spalato che inalbera — come evidenzia la stessa didascalia — un vistoso stendardo di S. Marco. Patrocinata dall’O.N.D. e dal Partito, l’organizzazione non è più nelle mani dell’apparato militante legato a Giuriati, da tempo estromesso da ogni responsabilità politica. Volpi presiede ufficialmente l’iniziativa, definendone l’impostazione erudita, meno spettacolare e più elitaria rispetto alle ormai lontane manifestazioni popolaresche del 1928. Gli organizzatori, a mostra conclusa, dichiarano la cifra — da accogliere con cautela — di quarantamila visitatori: non certo un afflusso di massa, ma comunque un risultato ragguardevole in tempo di guerra, nell’impossibilità di veicolarvi consistenti comitive di dopolavoristi in gita e nel languire del turismo nei grandi alberghi.
Il manifesto pubblicitario della mostra insiste su un motivo tutto lagunare: una «bricola» sormontata dal suo «capitello», contenente una madonnina con bambino; attorno volteggiano tranquilli gabbiani; sullo sfondo un cielo sereno e acque calme su cui veleggiano due lontani bragozzi. La devozione religiosa presiede alla serenità della patria, senza che alcun elemento inquietante possa apparirvi all’orizzonte. All’insegna di quest’immagine rassicurante, le mitologie bellicose costruite sul sepolcro dell’evangelista Marco hanno il loro estremo utilizzo. Ancora una volta, la scelta di Venezia è determinata da una geografia simbolica che la vede come avamposto nord;orientale della civiltà italica, proteso alla conquista delle terre d’Oriente. La rilevanza che la religiosità marinara assume nelle sezioni della mostra, con continui richiami alle invocazioni di protezioni celesti sui naviganti in pericolo, ne accentua l’attualità. Un’attualità tutt’altro che rassicurante, a malapena esorcizzata dalla massiccia esposizione di apotropaici ex voto nelle sale. Tra i continui riferimenti bellici, non mancano una scultura lignea valdostana, con S. Barbara circondata da un castello, una nave e un cannone(64), un grande quadro della Madonna di Loreto attorniata dal festoso volo di una squadriglia di ali littorie, la camera lanciasiluri di un sommergibile con effigiata la «Madonnina del mare», varie evocazioni militari del dominio sull’Etiopia, perduto l’anno precedente, o la grande vela variopinta di un bragozzo dei pescatori chioggiotti, con al centro un sole col simbolo di Cristo, sormontato dalla scritta «vinceremo» a caratteri cubitali, come se si trattasse di evocare le leggendarie insegne delle legioni dell’imperatore Costantino. Al termine del percorso espositivo, in un crescendo di proclamate affinità spirituali tra gerarchie di regime ed ecclesiastiche, una sala è dedicata alla religiosità del soldato, attorno «all’imponente statua di un fante italiano che calpesta la bandiera rossa con falce e martello, a ricordo della guerra che si sta combattendo nel fronte orientale contro i nemici della fede»(65). Seguono due ultime sale con riproduzioni in lingua italiana di presunti manifesti sovietici per la propaganda dell’ateismo e il modello di un’ara votiva costruita in Etiopia dalle truppe coloniali per la propaganda della fede cattolica; fede che, si dice, dovrà propiziare il sicuro ritorno nell’Impero italiano caduto nelle mani degli inglesi. Paradossalmente, la mostra investe i visitatori coi suoi aggressivi contenuti di propaganda bellicista, proprio nel momento in cui i suoi più illustri patrocinatori veneziani — al pari della Chiesa cattolica — stanno silenziosamente abbandonando la nave del regime, dopo esserne stati a lungo — come ammiragli o autorevoli e collaborativi ospiti — sul ponte di comando. Nel rapido rivelarsi sul campo — e ben prima, fatto ancor più lacerante, sui mari — della sconfitta irrimediabile delle armi italiane, l’indicazione più duratura che alla fine la mostra pare lasciare nella cultura cittadina sarà proprio un insistito richiamo al cattolicesimo, non più annunciatore di vittoria, ma di invocata salvezza individuale e collettiva.
Chi ha gestito il potere e chi lo ha estetizzato per tutti quegli anni, rapidamente percepisce che il mito di Venezia conquistatrice è salpato su una nave da battaglia che fa acqua e affonderà presto. Si comprende che, alla prova della guerra, non resteranno nemmeno i brandelli di una venezianità intesa come profetizzato dominio sui mari. L’emblematica foto in copertina a «Le Tre Venezie» nell’agosto 1942 ritrae la prora di un fragile sandolo, rivolta, quasi in preghiera, all’immagine votiva di Madonna col bambino, scolpita sul muro sovrastante un rio. Da raggiante e aggressivo, il culto di Venezia si fa malinconicamente raccolto su se stesso e rivolto apprensivamente al cielo. Un cielo da cui però — grazie anche alle sollecitazioni del patriarca e alla diplomazia vaticana — non arrivano bombardieri come sulle altre città tedesche e italiane, a coprire di macerie i loro abitanti e i tesori d’arte. Man mano che si evidenzia la catastrofe nazionale, la mondanità intellettuale veneziana elabora e idealizza di fatto una rassicurante neutralità insulare, straniandosi da un paese invaso da più parti. Tutti sembrano accettare la neutralità di Venezia, come un ritrovato insularismo nel mare dei combattimenti; insularismo metaforico, perché il ponte ferroviario e quello automobilistico sono forse le uniche, tra le grandi infrastrutture viarie italiane, a rimanere intatte per tutto il periodo bellico. Il magniloquente fascismo cittadino, con la sua collaudata potenza immaginifica e coreografica, sembra improvvisamente aver smobilitato i propri valori incrollabili e i propri altari, in una città dove gli scenari del regime sembravano scolpiti nelle pietre antiche, non in effimera cartapesta. Durante il 1942 la città si disfa dei miti di potenza — che negli anni cruciali della sua rinascita industriale rimbombavano dalle piazze ai palazzi, alle chiese, ai giornali — iniziando sommessamente a elaborarne di nuovi. In novembre — mentre a El Alamein e Stalingrado la conduzione della guerra è alla svolta decisiva, ma con la flotta già ridotta a pezzi — il paralizzante clima di insicurezza non impedisce la costruzione del ponte votivo di barche da cui una folla di pellegrini oppressa dall’ansia per la propria sorte e per quella di soldati e marinai lontani accorre alla chiesa della Salute per invocare la grazia della salvezza, non più della vittoria. Dall’iconografia degli organi privilegiati della venezianità, quali «Le Tre Venezie», scompaiono i leoni troneggianti. L’antico simbolo della Dominante ora assume piuttosto il significato di una sofferta ma duratura sopravvivenza dell’antico, riaprendo il libro di pietra che inizia con la parola «pax». Il leone appare con parsimonia sulle pagine dei periodici, riprodotto da sculture segnate dai secoli, bisognose di restauri come tutta la città-museo, che pare diventata l’esclusivo interesse di questo ceto politico-intellettuale che dopo il 1942 la sospensione bellica della Biennale ha quasi privato di funzioni pubbliche e di bagni nella mondanità. In una città povera di rifugi antiaerei sotterranei, i sacerdoti della venezianità, repentinamente depoliticizzati, ma tenacemente attaccati a quel che può rimanere della scena pubblica, sono tutti rifugiati nella penombra di gallerie d’arte e chiese monumentali, quando non segregati in casa o in campagna. La stessa rivista «Le Tre Venezie» si occupa meno dei miti della città lagunare; tanto che a intermittenza trasferisce la propria sede a Padova, città il cui patrimonio artistico subisce invece colpi considerevoli dai bombardamenti, ma su cui la rivista sorvola, senza nemmeno accenni di propaganda contro la «barbarie distruttrice» del nemico. C’è un nuovo culto che va prendendo forma e crescente dignità, tra gli orgogliosi ceti dirigenti e intellettuali di Venezia improvvisamente immemori della lunga e intensa esperienza precedente: quello della sopravvivenza della città, coi suoi tesori d’arte da salvaguardare, descrivere, ammirare. Non si parla ovviamente ancora di come tornare a valorizzarli, in un momento in cui la guerra infuria sulla terraferma, il turismo è inesistente e la gente comune ha tutt’altri assilli che quello di gratificarsi con l’arte, tra i monumenti avvolti in barriere a protezione da eventuali bombe. A parte l’estrema penuria dei generi di prima necessità, la guerra sembra quasi essersi dimenticata di Venezia, e la classe dirigente veneziana si autoimpone di distogliere lo sguardo dai campi di battaglia in cui si sta consumando la disfatta dei suoi valori. Nemmeno per descrivere le tecniche di protezione dei monumenti da possibili incursioni aeree la rivista degli esteti veneziani — ora con una redazione che comprende alcuni professori dell’ateneo padovano — si rammenta che si combatte non tanto lontano da lì e che l’Italia è lacerata. Nella città da poco occupata dalla Wehrmacht, l’invocazione alla Madonna della Salute, in occasione della sua sagra, coinvolge anche gli intellettuali, che — pensando accorati al prossimo futuro — ricordano le origini della festa, nel 1630, al termine della guerra per la successione al Ducato di Mantova: «Per la Serenissima la guerra non era stata molto fortunata; ma avveduta ed abile ‘nel trattare gli affari e nel ritrarre, anche se perdente, al momento della pace tali vantaggi come se fosse stata vincitrice’, ne uscì con un accomodamento onorevole, recuperando tutto il territorio perduto»(66). Le evocazioni delle glorie passate della Serenissima rilette in chiave attualizzante, terminata la loro parabola ascendente, seguono ora una rapida caduta. La fissazione di dover scandire le tappe della mobilitazione militare del nazionalismo italiano con l’evocazione dell’antica storia veneziana giunge al suo epilogo. Dalle fosche origini della città messe cupamente in scena da Gabriele D’Annunzio, si è presto passati a un vero e proprio filone storiografico tutto rivolto alle fasi espansive della Serenissima sui mari, e concentrato sulla sua capacità di reggere le terre circostanti l’Adriatico. Dal 1912 c’è un’impressionante coincidenza tra le tappe decisive della potenza colonizzatrice italiana e gli episodi di storia veneziana puntualmente evocati in saggi storici non improvvisati. Frammischiati a una schiera di dilettanti, alcuni storici avveduti documentano dettagliatamente momenti delle guerre sostenute da Venezia in secoli lontani, nelle stesse aree territoriali in cui la marina e l’Esercito si accingono a piantare il tricolore. Un’assidua sollecitazione verso simili orientamenti viene per tutti gli anni Trenta dall’Istituto di studi adriatici «Piero Foscari» di Venezia, presieduto da Mario Nani Mocenigo; o dall’Istituto per gli studi di politica internazionale di Milano, oltre che dall’Ufficio storico del Ministero della Marina. Solo un raro spirito critico come Gino Luzzatto si pone il problema di riflettere sulla consistenza di questa nutrita pubblicistica alla moda, selezionando accuratamente il lavoro scientifico, fatto «con ricerche dirette sulle fonti», da quella che con prudente ironia definisce «sana propaganda culturale»(67). Luzzatto elogia così gli studi di Roberto Cessi, mentre stronca quelli di Bruno Dudan; per il resto, nomina solo studiosi stranieri, senza prendere in considerazione la folta pubblicistica di altri intellettuali concittadini. Alla luce della guerra, poi, improvvisamente la meteora dei sogni veneziani di grandezza si estingue e questi interessi storici si ridimensionano, per mutare di segno politico. Rimane solo Gino Damerini, ritiratosi in un risentito esilio in provincia dopo il deterioramento dei rapporti con Volpi, a intestardirsi nel 1943 immaginando — per ragioni dichiaratamente e coerentemente politiche — una possibile continuità del dominio adriatico di Venezia(68). L’anziano Nani Mocenigo scrive intanto su La mancata difesa di Venezia nel 1797(69), mentre Cessi pubblica, con qualche ritardo dovuto alla guerra, una serie di volumi di sicuro pregio scientifico, in cui spiccano comunque toccanti riflessioni sulla sorte della Repubblica di S. Marco schiacciata tra la potenza imperiale asburgica e il finto liberatore Bonaparte, destinata così alla più umiliante sconfitta e alla perdita di ogni indipendenza e reale sovranità(70). Un certo numero di autori della letteratura celebrativa delle glorie militari e insieme artistiche di Venezia non sopravvive all’imprevisto disfacimento dei sogni imperiali; tra essi, lo stesso Nani Mocenigo, Giannino Omero Gallo, Pietro Orsi; solo Bruno Dudan, ufficiale di Marina, muore per cause belliche.
Con l’occupazione nazista, Venezia si riempie e anima di nuovi protagonisti e ospiti, portati dal concentrarvisi degli apparati culturali e di propaganda della Repubblica Sociale, oltre che dalla fiducia che l’illustre città d’arte non abbia da temere bombardamenti. In controtendenza rispetto al resto del territorio occupato dai tedeschi la città diventa sovraffollata, come pure i suoi luoghi di ritrovo mondani, ora frequentati prevalentemente da forestieri, dove si concentrano militari tedeschi e repubblicani, assieme a dirigenti della burocrazia ministeriale, artisti e a un fitto sottobosco di profittatori di guerra. Vivono invece in disparte, o si rifugiano altrove, buona parte delle eminenze della cultura, politica, industria e finanza che vi hanno signoreggiato nei decenni precedenti, quando costruivano sulle proprie relazioni di potere l’immagine della risorta venezianità. I più desiderosi di ridare forza ai simboli guerreschi di una Serenissima governata da Salò sembrano pochi esaltati forestieri. Altri — forestieri e veneziani — cercano di fare di quell’insperata oasi pacifica un laboratorio di conciliazioni politiche, anche le più improbabili, tra gli italiani(71). In quel periodo qualche intellettuale veneziano si rispecchia nel ricordo di D’Annunzio e Ojetti che durante i bombardamenti aerei della prima guerra mondiale si trovavano nella basilica di S. Marco «per goderne con giubilo commosso lo spettacolo della sua incolumità»(72). Ma ora c’è tutta una fitta schiera di eruditi cultori della venezianità dedita alla cura contemplativa del patrimonio artistico, col sollievo di rimanere custode di una città rispettosamente risparmiata dalle battaglie per cielo e per terra che infuriano fin nelle vicinanze. L’atmosfera sembra irreale. Fino a dopo l’arrivo degli anglo-americani, il ruolo sociale di cui si investono questi ex predicatori della patria imperiale, in quella fase di paralisi delle pubbliche attività culturali e di rischi e privazioni, è di salvaguardare il patrimonio artistico-monumentale dalle invasioni di sfollati, dai casermaggi e furti dei soldati occupanti e dalle torme di intellettuali forestieri — in divisa e non — sopraggiunti nell’ultima fase della guerra e nell’immediato dopoguerra. Intanto, per sopravvivere si improvvisano cerimonieri o ciceroni per coloro — tra tutti questi invasori — che hanno modo e desiderio di fare ciò che in tempo di pace avrebbero fatto i turisti. Sul piano politico, molti intrattengono rapporti con le diverse parti in conflitto, sia militari che civili. Una simile posizione e un’ansiosa ricerca di protezioni li avvicinano inevitabilmente alla Chiesa cattolica, in quella fase investita di delicati ruoli di mediazione sociale e ormai sganciata dalle sorti del fascismo, prevalentemente tesa — eccettuati pochi seguaci del fascismo repubblicano — ad affermare un proprio primario ruolo di salvatrice della convivenza civile e — nello specifico — della città(73). Anche i loro interessi di studiosi, oltre a quelli relazionali, si vanno avvicinando a quelli del clero diocesano, con cui era già consistente in precedenza l’affinità culturale e di vedute. Non a caso negli ultimi anni di guerra è massima l’intensità con cui vengono riportate sui giornali le cronache del culto al santo patrono all’interno della Basilica, più che mai luogo di ansiosa riflessione sull’identità e sul destino della città e delle sue gerarchie sociali. La diserzione dalla militanza nazionalfascista porta perfino la rivista dei teorici della venezianità — «Le Tre Venezie», non più organo del Fascio, ma che ha mantenuto i molti vecchi collaboratori anche dopo il trasferimento a Padova — a ignorare sia l’esistenza di nuovi governi di Badoglio o Mussolini, sia l’occupazione tedesca e anglo-americana. Non ci si scomoda nemmeno per uno scarno comunicato di commento al fatto che Venezia è diventata sede del Ministero della Cultura della Repubblica Sociale, con sede nel palazzo abbandonato da Volpi. Deviando dalle sue consuetudini, la rivista non presta attenzione neppure ai nuovi ospiti dei grandi alberghi, disertati dalla solita clientela cosmopolita, ma utilizzati per accogliere profughi illustri dell’ultima scena artistica e propagandistica di Salò, che ha stabilito i propri superstiti apparati cinematografici nei locali della Biennale. Mentre il resto d’Italia assiste ai rastrellamenti antipartigiani dei reparti dedicati a S. Marco dal principe Borghese, la maggior parte della classe dirigente veneziana ha perso l’ammirazione per i «mas» usciti dai cantieri S.v.a.n. (Società Veneziana Automobili Nautiche) di S. Elena, come pure per le azioni dei marò lagunari. L’intellettualità abbraccia solo la missione di studiare e salvare arte e monumentalità ereditate dal passato, valorizzando implicitamente un proprio ruolo primario nell’assolvere tale incarico, cancellando da ogni memoria pubblica le proprie ingombranti responsabilità nell’edificare le mitologie nazionaliste. Venezia sopravviverà coi suoi cultori e mecenati dell’arte, sembra il messaggio sotteso agli scritti che appaiono su «Le Tre Venezie», che — dopo un’interruzione nel 1945 — tenta per breve tempo di riprendere le pubblicazioni nel 1947, riabilitato senza ammende il suo corpo redazionale dalle responsabilità politiche passate. Certo, le nuove simbologie veneziane vengono ripulite di riferimenti imbarazzanti, e paludate di sola arte museale, abbandonando pretese vitalistiche e aggressive. Simili speranze sono ripagate dal successo, perché, pur tra acritiche rimozioni dalla memoria, riescono a mantenere vari fili di continuità col passato. La città viene risparmiata del tutto dalle distruzioni belliche; così anche la sua classe dirigente, che — per benemerenze acquistate in accorti contatti con la Resistenza e con gli anglo-americani vincitori — non viene portata davanti alle corti straordinarie d’assise per le epurazioni dell’immediato dopoguerra; e con uno strumento innovativo e dinamico come la Biennale, dal 1947 si comincia a rilanciare la mondanità cittadina e del Lido, che tuttavia non riesce a tornare quella degli anni ruggenti. Il 21 novembre 1945 è straripante e colma di emozioni la processione — accompagnata dalle autorità municipali del Comitato di Liberazione Nazionale, interpreti dei sentimenti di famiglie ricomposte, o a lutto, o ancora sospese nell’incertezza, e di molti reduci — accorsa dalla città e dalla diocesi per rendere grazia alla Madonna della Salute della protezione — da più parti ritenuta miracolosa — accordata alla città. A breve distanza di tempo, un’altra immagine della Madonna, nel maggio dell’«anno santo 1950», percorrerà il cammino inverso, in pellegrinaggio direttamente incontro ai fedeli, toccando tutte le parrocchie e le isole della laguna, in una generale consacrazione degli attesi riequilibri del tessuto sociale e del territorio, dopo tanti sconvolgimenti. La maggior parte delle associazioni della città — già da tempo meta di imponenti raduni liturgici dell’associazionismo cattolico — il 27 maggio fornisce una barca addobbata a festa con motivi del culto mariano, per formare, davanti alla chiesa della Salute, un corteo natante da inviare fino ad una «bricola» sulla punta estrema dell’isola di S. Giorgio Maggiore, per collocarvi un capitello commemorativo dell’evento, mentre una grande folla assiste dal molo, attorno alla Madonna Pellegrina.
Nel 1940 la «Gazzetta di Venezia» è stata assorbita dal «Gazzettino», che a sua volta tra il 1945 e il 1946 cambia proprietà, passando da Volpi alla Democrazia Cristiana: due svolte epocali per l’elaborazione delle identità locali. Con questi cambiamenti, l’interpretazione delle tradizioni prende orientamenti diversi, seppure non nuovi. Tramontato l’orizzonte nazionalista, si abbandonano velleità di grandezza espansiva, che nei decenni precedenti avevano caratterizzato il senso di venezianità. Gli stessi funzionari delle istituzioni culturali cittadine che vent’anni prima tenevano animose conferenze su La storia di Venezia come volontà di potenza, nel 1949 possono raccontare più distesamente Le glorie artistiche di Venezia(74), per accogliere piacevolmente i delegati nazionali al congresso democristiano. La dimensione adatta a percepire l’identità cittadina pare ora quella introspettiva, riabilitandone le interpretazioni letterarie romantiche e decadentiste. Negli scarni cerimoniali del dopoguerra — in genere poco appariscenti, prevalentemente appartenenti alla liturgia cattolica, o dalla Chiesa legittimati — mancano prospettive aggressive nel rievocare il «vecio León». Tradizionalismo e bonaria contemplazione nostalgica del passato restano veicolati prevalentemente dall’identità religiosa. Dopo essersi presentato nei decenni precedenti come affermazione di un’identità forte, di fronte al rovinoso crollo delle promesse e certezze di grandezza futura, il senso di venezianità si esprime ora nei sentimentalismi fragili. Immagini struggenti di cui dagli anni Trenta Diego Valeri era stato il timido e abbastanza isolato cantore, diventano ora il modello espressivo preferito nel presentare Venezia. Tanto più che sul futuro della città si addensano crescenti incertezze. Viene più che mai riscoperto il legame materiale con Marghera e Mestre segnate dai bombardamenti, valorizzando al massimo la funzione dei ponti sulla laguna, benevolmente risparmiati dai belligeranti. Si ha pure qualche raro e momentaneo ritorno di manifestazioni culturali che negli anni precedenti avevano assunto una forte carica ideologica, ma senza che mai nessuno accenni al minimo richiamo al passato. Ad esempio, nella pur modesta mostra dell’artigianato liturgico, che si tiene nel 1950 presso la chiesa di S. Vidal, è difficile non vedere — seppure con mezzi incomparabili e obiettivi limitati — un timido recupero dell’esposizione di arte religiosa nella Biennale del 1942. Molto più ambizioso il III Festival internazionale della musica e delle danze popolari: grande raduno folkloristico, abbinato a un congresso di demologi, musicisti e coreografi provenienti da mezzo mondo, tenutosi nel 1949, col patrocinio del Folk Council Music, con sede a Londra, e del Comitato arti e tradizioni popolari dell’E.N.A.L. (Ente Nazionale Assistenza Lavoratori), diretto erede dell’O.N.D. Dal 7 all’11 settembre, il festival porta gruppi di tutte le regioni italiane e di quaranta paesi stranieri a esibirsi, nei loro abiti pittoreschi, non nella sola piazza S. Marco, ma ciascuno in un diverso campo veneziano, fino anche a piazzette di Mestre e del Lido, deviando così, nell’ambito del territorio comunale, dalle tradizionali gerarchie dei luoghi deputati agli spettacoli. I tecnici delle radio di diversi paesi del mondo sono presenti per registrare e trasmettere le esecuzioni strumentali e corali. In una persistente difficoltà a definire proprie tradizioni popolari — per quanto queste possano essere stereotipate e falsate nelle manifestazioni dell’E.N.A.L. — la città di Venezia resta sempre priva di una rappresentanza folkloristica, mentre a esibirsi come immagine del Veneto sono in realtà gruppi in costume per lo più montanari, provenienti dai confini nordorientali dell’Italia: Casteltesino, Cadore, Ampezzo, Udine, Lucinico. Pur nel completo ripudio del nazionalismo razzista, appare ovvio che una simile manifestazione abbia il suo precedente nelle adunate nazionali del costume popolare di ventun anni prima, anche se la stampa del dopoguerra evita accuratamente di ricordarlo.
Mentre tutte le istituzioni culturali cittadine riprendono a funzionare al servizio della conservazione dei beni artistici e di un turismo in lenta ripresa, palazzo Grassi nel 1951 diviene sede del Centro internazionale delle arti e del costume, col sostegno della Snia, la grossa società operante nell’industria tessile e chimica: un luogo per riflettere sugli sviluppi della moda nel settore dell’abbigliamento, e insieme un ponte tra la rinascente mondanità turistica dei grandi alberghi e lo sviluppo dell’industria dei tessuti sintetici sulla terraferma(75). Attraverso esposizioni e qualificati convegni, la nuova istituzione culturale fornisce un servizio utile a interessi industriali che non hanno un semplice retroterra cittadino e nella vicina terraferma, ma una presenza significativa nella regione e anche oltre. Lo studio del costume — dalla sua storia alla progettazione per i mercati d’élite e di massa — non passa più attraverso sfilate folkloristiche di dopolavoristi, ma riparte ancora, comunque, da Venezia.
Perduta l’antica orgogliosa insularità, la città stenta a dare un’immagine di coesione sociale, soprattutto perché nel dopoguerra una quantità particolarmente elevata di suoi abitanti si trasferisce sulla terraferma, in un flusso ininterrotto. Per i nuovi rituali, si tratta più che mai di ricostruire delle identità comuni(76), per mondi culturali che si vanno effettivamente separando e che restano vincolati essenzialmente dalla condivisione di problemi, pur differenti, in un medesimo ambiente lagunare. Tramontata l’epoca di rigidi e ostentati ossequi al potere civile, la regata settembrina perde definitivamente la sua funzione originaria di rito d’ingresso in città per visite ufficiali di sovrani e principi ereditari d’Italia e per i capi di Stato e rappresentanti di governo stranieri. Non più «reale», resta solo «storica», cioè revival a scadenza fissa di un cerimoniale del passato. Con le sue ormai poco pretenziose connotazioni nostalgiche, attraverso la continuità — almeno apparente — di un rituale ora rivissuto su un piano puramente ludico, la regata può dare blande risposte rassicuranti alle crisi dei sensi d’appartenenza tradizionali, dopo il brusco ripudio delle convenzioni sulla grandezza veneziana e italiana. Dal 1956 si inventa — giocando su una spettacolarità solamente ludica e pittoresca, senza scomodare i miti — anche un palio delle «repubbliche marinare» disputato a rotazione annuale a Pisa, Amalfi, Venezia e Genova, negli ormai immancabili «costumi d’epoca», con accompagnamento a terra di sbandieratori, trombe e tamburi. Sono le briciole di quanto può restare dell’evocazione retorica del dominio sul Mediterraneo e dell’«unità delle tradizioni popolari sui mari d’Italia», decantata nel convegno dei folkloristi del 1940 «per affermare, sul ‘mare nostro’, la continuità di un irrevocabile primato»(77). I «galeoni» delle quattro città, a otto rematori con timoniere, sono fabbricati negli squeri veneziani e benedetti dal patriarca Roncalli. Vince solitamente la gara l’equipaggio veneziano, raramente contrastato dal genovese(78).
All’infuori delle scottanti tematiche urbanistico-ambientali, chi scrive la storia locale in quegli anni evita di fare i conti col periodo che tra le due guerre mondiali ha riplasmato il volto di Venezia, e delle cui elaborazioni identitarie la città è rimasta orfana. Ma, dal crollo del regime fascista, per più d’un decennio sono essenzialmente libri stranieri a riflettere sulla storia veneziana. Le ricerche sulla Serenissima hanno una durevole stasi, nella città priva di macerie, impegnata però nella difficile ricostruzione di equilibri politico-culturali, in un tessuto socio-economico più che mai squilibrato. I miti — tutt’altro che scomparsi — vengono accuratamente vagliati e ridimensionati, in parte dagli stessi uomini che li avevano plasmati e alimentati nei decenni precedenti. Per risparmiare una classe dirigente, localmente l’epurazione non rimuove le persone da incarichi di grossa rilevanza culturale ed economica, ma si limita a colpire le leggende della Venezia nazionalista, non sottoposte però a un processo critico, ma semplicemente messe nel dimenticatoio. Le rare riflessioni storiche di studiosi veneziani qualificati, come Gino Luzzatto, restano comunque aliene dall’elaborazione ideologica della venezianità. Dal 1957 è il Centro internazionale delle arti e del costume a promuovere da palazzo Grassi una serie di nuovi volumi di storia, ideata da Mario Brunetti, che dall’antichità romana giungono alla fine della Serenissima. Pure dal 1957 l’ingegnere Eugenio Miozzi — l’onnipresente progettista dello sviluppo veneziano dei decenni precedenti — inizia a pubblicare una voluminosa storia della città, la cui vicenda parrebbe chiudersi col 1797, se un ultimo volume — edito però una dozzina d’anni dopo — non si intitolasse Il salvamento. La storia della venezianità, almeno nelle superficiali apparenze, viene allora considerata conclusa, con scarse ambizioni, nel Regno lombardo-veneto o coi solenni festeggiamenti del 1866-1867 per l’annessione(79). Del recente passato — rimosso il suo tragico nucleo identitario sciovinista senza cercarne un serio ripensamento in sede storica — si gestiscono le realizzazioni materiali, elaborando intanto l’immagine di una città fuori dalla storia dopo la sua annessione al Regno d’Italia, o perlomeno immersa in problemi unicamente suoi.
1. Esce in quell’anno la prima edizione del volume comprendente la voce Venezia; la pubblicazione dell’opera era iniziata nel 1929. La stesura della voce è dovuta al geografo Pietro Landini, allo storico Roberto Cessi, allo studioso di costruzioni navali Mario Nani Mocenigo, all’esperto di ingegneria militare Filippo Santucci, a Manlio Torquato Dazzi come esperto dei circuiti culturali dotti e anche di quelli popolari, al sovrintendente ai Beni artistici veneti Gino Fogolari, a Giuseppe Ortolani come esperto di teatro e a Gastone Rossi-Doria come musicologo. Si tratta di personalità, solo in parte veneziane, scelte come esponenti di importanti istituzioni culturali, più che in base ad un loro allineamento politico.
2. Un rilievo concesso solo alle usanze di altre due città italiane: Roma e Napoli. Autore di quasi tutti i paragrafi riguardanti la cultura, compreso quello sul fol;klore, è Manlio Torquato Dazzi, critico letterario e teatrale, direttore della Fondazione Querini Stampalia.
3. Gino Bertolini, ‘Italia’, II, L’ambiente fisico e psichico. Storia sociale del secolo ventesimo, Venezia 1912, p. 680. Nello stesso volume si glorifica già l’incipiente ascesa economica di Giuseppe Volpi — esemplare riscoperta di antiche imprese mercantili oltremare e sulla terraferma — ma allo stesso tempo si addita a vergogna il fatto che dietro lui stia la Banca Commerciale Italiana di Otto Joel, «la quale più ancora che essenza tedesca ha essenza ebraica, oltre che internazionale» (p. 836). Analoghi difetti avrebbe il pur encomiato impegno degli industriali a patrocinare studi sulla storia di Venezia, senza però porli al riparo da influenze massoniche (pp. 771-772).
4. Maria Damerini, Gli ultimi anni del Leone. Venezia 1929-1940, Padova 1988, p. 88.
5. D’Annunzio e Venezia. Atti del convegno, a cura di Emilio Mariano, Roma 1991; Gino Damerini, D’Annunzio e Venezia, Venezia 1992 [1943], pp. 13-14, 95-125, con — a sottolineare la svolta che per il moderno culto nazionalista di S. Marco segnano il 1908 e La Nave — la postfazione di Giannantonio Paladini, Damerini a Venezia, pp. 304-305 (pp. 301-318); Mario Isnenghi, L’Italia del fascio, Firenze 1996, pp. 47-94. Cf. Emilio Franzina, Una ‘belle époque’ socialista: venezianità e localismo in età giolittiana, in Cent’anni a Venezia. La Camera del lavoro 1892-1992, a cura di Daniele Resini, Venezia 1992, pp. 275-306.
6. Sergio Romano, Giuseppe Volpi. Industria e finanza tra Giolitti e Mussolini, Milano 1979, pp. 195-202; Ernesto Brunetta, Figure e momenti del Novecento politico, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 168-192 (pp. 152-225); Giovanni Distefano-Giannantonio Paladini, Storia di Venezia 1797-1997, I-III, Venezia 1996-1997: III, Dalla Monarchia alla Repubblica, pp. 37-54, 100-118.
7. G. Distefano-G. Paladini, Storia di Venezia, III, pp. 727-740, 931-932.
8. Sul concetto-chiave di folklorizzazione: Algirdas Julien Greimas, Sémiotique et sciences sociales, Paris 1976, pp. 183-185; Marianne Mesnil, Trois essais sur la fête. Du folklore à l’ethno-sémiotique, Bruxelles 1974.
9. Nahyr Marsich, La Festa delle Marie, «Italia Nova», 5, dicembre 1933.
10. G. Damerini, D’Annunzio e Venezia, pp. 245-247.
11. «Le Tre Venezie», 11, febbraio 1935.
12. Ibid., 2, agosto 1926, pp. 39-42. Solo a guerra iniziata alcuni intellettuali dell’O.N.D. riterranno opportuno straniare i bambini dalla violenza bellica, offrendo loro supplementi di evasione fantastica dalla realtà, anche con forme spettacolari folkloriche: Adolfo Zajotti, Marionette, burattini, e ‘Teatro del Balilla’, «Ateneo Veneto», 131, 1940, nrr. 9-10, pp. 301-302 (pp. 298-302).
13. Eugenio Miozzi, Il ponte del Littorio, Venezia 1934; v. anche i fascicoli monografici dedicati all’avvenimento dalle due principali riviste cittadine: «Le Tre Venezie», 9, maggio 1933; «Rivista Mensile della Città di Venezia», 12, aprile 1933. Cf. Gino Damerini, Amor di Venezia, Bologna 1920.
14. La storia di Venezia come volontà di potenza, «Il Gazzettino», 7 aprile 1927. Per giudizi che partono però dalla sola attività istituzionale interna alle due autorevoli accademie cittadine, cf. Mario Isnenghi, I luoghi della cultura, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. Il Veneto, a cura di Silvio Lanaro, Torino 1984, pp. 317-338 (pp. 233-406); Giannantonio Paladini, Le istituzioni culturali veneziane negli anni del cambiamento (1938-1946), in La Resistenza nel Veneziano, I, La società veneziana tra fascismo, resistenza, repubblica, a cura di Id.-Maurizio Reberschak, Venezia 1984, pp. 333-364.
15. Federico Binaghi, Richiami di fede sul Canal Grande, «Le Tre Venezie», 8, ottobre 1932, p. 220.
16. Antonio Belloni, Un cantare popolaresco veneziano del secolo XVII, «Il Folklore Italiano», 4, 1929, nr. 2, p. 172.
17. Eugenio Bellemo, Il folklorismo peschereccio nei centri marittimi della laguna di Venezia, in Delegazione italiana della Commissione per l’esplorazione scientifica del Mediterraneo, La Laguna di Venezia, III, pt. VI, t. XI, Venezia 1940, p. 264 (pp. 261-352).
18. «Il Gazzettino», 2 settembre 1942.
19. G. Damerini, D’Annunzio e Venezia, pp. 251-252.
20. Antonio Pellegrini, Il dopolavoro a Venezia ed i raduni dei costumi italiani, Venezia 1929, pp. 44-46; Amedeo Pelli, Coscienza marinara, «Le Tre Venezie», 2, giugno 1926. Su questo tema insistono anche i federali appoggiati dagli industriali di Marghera: Vilfrido Casellati, Presentazione, ibid., p. 9 (è il primo numero della rivista uscito come organo della federazione fascista).
21. Giandomenico Romanelli-Filippo Pedrocco, Bissone, peote e galleggianti, Venezia 1980, pp. 6-7 e figg. 126 ss.
22. Luigi Roffaré, La Repubblica di Venezia e lo sport, Venezia 1931, pp. 231-239; Oscar Wulten, La regata nelle sue origini, «Le Tre Venezie», 7, settembre 1931, pp. 625-627. Cf. Giuseppe Massaro, La regata storica attraverso i tempi, Venezia 1970.
23. G. Bertolini, ‘Italia’, pp. 462, 486, 1043-1044.
24. Lidia D. Sciama, The Venice Regatta: From Ritual to Sport, in Sport, Identity and Ethnicity, a cura di Jeremy MacClancy, Oxford 1996, pp. 148-149, 155 (pp. 137-165).
25. L. Roffaré, La Repubblica di Venezia, pp. 239-241.
26. [Mario Brunetti], La Repubblica di Venezia e lo sport, «Rivista Mensile della Città di Venezia», 10, giugno 1931, p. 234.
27. L.B., Feste veneziane, «Italia Nova», 5, luglio 1933, pp. 14-18.
28. Annuario dell’O.N.D. 1939-XVII, Novara 1939, pp. 110, 147, 303; Alberto Zajotti, Panorama dell’estate veneziana, «Le Tre Venezie», 14, gennaio-febbraio 1938, p. 17.
29. Stefano Cavazza, Piccole patrie [...], Bologna 1997, pp. 171-217.
30. Irene Guerrini-Marco Pluviano, L’Opera Nazionale Dopolavoro dall’associazionismo al collaborazionismo, in La società veneta dalla Resistenza alla Repubblica. Atti del convegno, a cura di Angelo Ventura, Padova 1997, pp. 129-147.
31. Marco Fincardi, La secolarizzazione della festa urbana nel XIX secolo. L’immaginario del progresso nei carnevali italiani e d’oltralpe, «Memoria e Ricerca», 1995, nr. 5, pp. 11-27; Gabriella Turnaturi, Divertimenti italiani dall’Unità al fascismo, in L’invenzione del tempo libero (1850-1960), a cura di Alain Corbin, Roma-Bari 1996, pp. 183-212.
32. Giuseppe Melchiori, Storia del Gruppo maschere caratteristiche italiane ‘Carlo Goldoni’, Venezia 1928, p. 10.
33. A. Pellegrini, Il dopolavoro a Venezia, p. 204.
34. Antonio Pilot, Mascherate veneziane del ’600, «Rivista d’Italia», 34, 1911, nr. 2, pp. 401-410; Gino Fogolari, In tabarro e bauta, in Settecento veneziano, Milano 1925 (Strenna 1924-1925 de «L’Illustrazione Italiana», numero unico).
35. Nahyr Marsich, Il carnevale veneziano, «Italia Nova», 5, aprile 1933; «Le Tre Venezie», 7, febbraio 1933, p. 119.
36. Manlio T. Dazzi, Feste e costumi di Venezia, Venezia s.a. [ma presumibilmente 1937], p. 7.
37. Le feste e le maschere veneziane, catalogo della mostra, a cura di Giulio Lorenzetti, Venezia 1937, pp. 5, 7. V. anche Enrico Motta, Feste e maschere veneziane a Ca’ Rezzonico, «Ateneo Veneto», 128, 1937, nr. 2/1, pp. 49-52.
38. Le feste e le maschere veneziane, p. 8.
39. Ibid., p. 10.
40. Ibid., p. 16.
41. Ibid., p. 21.
42. A. Zajotti, Panorama dell’estate veneziana, p. 15.
43. A. Pellegrini, Il dopolavoro a Venezia, p. 230.
44. Ibid., p. 281.
45. Victoria de Grazia, Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista, Roma-Bari 1981, pp. 238, 242; S. Cavazza, Piccole patrie.
46. A. Pellegrini, Il dopolavoro a Venezia, p. 256.
47. Ibid., pp. 256-257.
48. Ibid., p. 310.
49. Elio Zorzi, Venezia, Milano 1942, pp. 161-162.
50. I costumi d’Italia, a cura dell’O.N.D., Venezia 1928, p. 30.
51. Ibid., pp. 5, 24.
52. S.E. Mussolini a Venezia, «Rivista Mensile della Città di Venezia», 2, giugno 1923.
53. Mario Isnenghi, La cultura, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 461-462 (pp. 381-482).
54. Bruno Dudan, Spirito della colonizzazione italiana. Sulle orme della Repubblica veneta, «Le Tre Venezie», 10, novembre 1934, pp. 610-612; Elio Zorzi, L’Impero di Venezia alla Mostra delle Terre d’Oltremare, ibid., 16, aprile 1940, p. 7.
55. E. Zorzi, L’Impero di Venezia, p. 7. Cf. Pier Silverio Leicht, Le consuetudini giuridiche marinare dell’alto Adriatico nell’epoca veneziana, in P.N.F.-O.N.D., Atti del IV congresso nazionale di arti e tradizioni popolari, I-II, Roma 1942: I, pp. 77-79. Le allusioni alla città moderna e futura, in opere che studiano quella antica, hanno una rapida evoluzione in quel periodo: Antonio Fradeletto, La storia di Venezia e l’ora presente d’Italia, Torino 1916; Antonio Battistella, La repubblica di Venezia ne’ suoi undici secoli di storia, Venezia 1921; Giuseppe Maranini, La costituzione di Venezia: dalle origini alla serrata del Maggior Consiglio, Venezia 1927; Bruno Dudan, Il diritto coloniale veneziano e le sue basi economiche, Roma 1933; Id., Il dominio veneziano di Levante, Bologna 1938; Giuseppe Volpi, Venezia antica e moderna, Roma 1939; Mario Nani Mocenigo, Storia della marina veneziana da Lepanto alla caduta della Repubblica, Roma 1935; Gino Damerini, Il corso di storia veneta, «Ateneo Veneto», 131, 1940, nrr. 7-8, pp. 232-235; E. Zorzi, Venezia (di particolare interesse, a questo proposito, il cap. La storia vivente, pp. 166-173). Cf. Silvio Lanaro, Genealogia di un modello, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. Il Veneto, a cura di Id., Torino 1984, pp. 13-21 (pp. 5-96); Mario Isnenghi, Fine della Storia?, in Venezia. Itinerari per la storia della città, a cura di Stefano Gasparri-Giovanni Levi-Pierandrea Moro, Bologna 1997, pp. 405-436; Claudio Povolo, The Creation of Venetian Historiography, in Venice Reconsidered. The History and Civilization of an Italian City-State 1297-1797, a cura di John Martin-Dennis Romano, Baltimore-London 2000, pp. 491-519; Mario Infelise, Intorno alla leggenda nera di Venezia nella prima metà dell’Ottocento, in Venezia e l’Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 309-321.
56. Roberto Cessi, La repubblica di Venezia e il problema adriatico, Padova 1943.
57. Nino Scorzon, L’unità delle arti e delle tradizioni popolari sui mari, «Le Tre Venezie», 16, settembre 1940, p. 63.
58. P.N.F.-O.N.D., Atti del IV congresso, I, p. 35.
59. Ibid., II, p. 606.
60. Lo scritto propagandistico viene di colpo interrotto, inconcluso, nel luglio 1942, mentre l’Asse è ancora all’offensiva su terra, ma la guerra per mare risulta irrimediabilmente compromessa.
61. P.N.F.-O.N.D., Arte religiosa popolare in Italia, a cura di Emma Bona, Roma 1942, p. 9.
62. Mario Nani Mocenigo, I ‘capiteli’ veneziani. Preludio alla mostra della religiosità popolare, «Le Tre Venezie», 18, agosto 1942, p. 226.
63. P.N.F.-O.N.D., Arte religiosa popolare, pp. 13, 16.
64. È l’immagine che illustra la copertina del catalogo: O.N.D.-Comitato nazionale italiano per le arti popolari, Mostra di arte religiosa popolare, a cura di Emma Bona, Venezia 1942.
65. Ibid., p. 165.
66. Carmelo Basile, La festa della Salute. Autunno veneziano, «Le Tre Venezie», 19, novembre-dicembre 1943, p. 399.
67. Gino Luzzatto, La colonizzazione veneta nella più recente storiografia, in Atti del terzo congresso di studi coloniali, Firenze 1937, p. 233 (pp. 229-238).
68. Gino Damerini, Le isole Jonie nel sistema adriatico dal dominio veneziano al Bonaparte, Milano 1943.
69. «Ateneo Veneto», 133, 1942, nrr. 10-11-12, pp. 253-260.
70. V. il cap. sulla fine della Repubblica in Roberto Cessi, Storia della Repubblica di Venezia, II, Milano 1946, e Id., Campoformido, Padova 1947.
71. Carlo Fumian, Venezia ‘città ministeriale’ (1943-1945), in La Resistenza nel Veneziano, I, La società veneziana tra fascismo, resistenza, repubblica, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1984, pp. 365-394; G. Distefano-G. Paladini, Storia di Venezia, III, pp. 141-149.
72. G. Damerini, D’Annunzio e Venezia, p. 144.
73. Silvio Tramontin, La chiesa veneziana dal 1938 al 1948, in La Resistenza nel Veneziano, I, La società veneziana tra fascismo, resistenza, repubblica, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1984, pp. 451-501; di particolare interesse i brani riportati da un opuscolo intitolato La salvezza di Venezia, edito nel 1945 e attribuito al cancelliere patriarcale mons. Giovanni Urbani, ibid., II, Documenti, a cura di Idd., Venezia 1985, pp. 256-287.
74. Mario Brunetti, Un millennio di storia. Le glorie artistiche di Venezia, in III Congresso nazionale della Democrazia Cristiana, Venezia 1949, pp. 36-37. Brunetti è stato condirettore della «Rivista Mensile della Città di Venezia» e funzionario del Museo Correr, poi professore a Ca’ Foscari.
75. Centro internazionale arti e costume, Mostra di libri d’arte sul costume, a cura di Sandro Piantanida, Venezia 1951; Premier congrès international d’histoire du costume, Venise 1952; Jean Cocteau-Gino Damerini, Venise: l’amour de l’art, Paris 1951; Giandomenico Romanelli-Giuseppe Pavanello, Palazzo Grassi. Storia, architettura, decorazioni dell’ultimo palazzo veneziano, Venezia 1986.
76. Cf. L.D. Sciama, The Venice Regatta, pp. 138-139.
77. P.N.F.-O.N.D., Atti del IV congresso, I, p. 6.
78. Giuseppe Massaro, XV Regata delle antiche repubbliche marinare, Venezia 1970.
79. Eugenio Miozzi, Venezia nei secoli, I-IV, Venezia 1957-1969; Salvino Chiereghin, Venezia e la sua laguna, Venezia 1957; pure del 1957 è il convegno che si tiene all’isola di S. Giorgio Maggiore sul tema Aspetti e cause della decadenza di Venezia nel secolo XVII (per gli atti: Firenze 1961).