I feudalesimi
La riflessione storiografica sull’essenza del feudalesimo nasce con la polemica settecentesca contro gli impedimenti da esso discesi. Nel 1776 P.-F. Boncerf, direttore del Contrôle général des finances, stigmatizza, per es., le labirintiche «leggi feudali», ultime vestigia della barbarie medievale. Che cosa siano tali leggi è poi descritto in dettaglio nel 1789 al Comitato per l’abolizione dei diritti feudali dell’Assemblea nazionale costituente. Il giurista P. Merlin, deputato di Douai, dichiara che la Francia del Settecento ha sofferto le malefatte di un «regime feudale», che non comprende i soli diritti feudali, ma anche i diritti di giustizia (perché le giustizie signorili derivano dalla feudalità), le rendite fondiarie e soprattutto le rendite signorili, i diritti di champart e tutte le prestazioni sostitutive delle antiche servitù. La locuzione «régime féodal» è accettata dai legislatori e utilizzata nel decreto abolitivo dell’11 agosto 1789, promulgato da Luigi XVI il 3 novembre. Riappare successivamente nei testi legislativi del 15-28 marzo, 12, 15 e 31 agosto, 14-19 novembre 1790, 13-20 aprile e 31 agosto 1791, dell’agosto 1792 e infine dell’ottobre-novembre 1793. A partire dall’Ottocento è quindi adottata nei Paesi in cui l’occupazione napoleonica porta all’eversione della feudalità (per es. nel regno di Napoli, 1806).
Sempre nel Settecento francese si concretizza un’altra linea di riflessione, che parte dall’Esprit des lois (1748) di C.-L. de Secondat, barone di Montesquieu (1689-1755), ma anche dai testi dei feudisti, cioè di quegli specialisti che, prima della Rivoluzione, hanno cercato di riportare in auge dal punto di vista giuridico i diritti caduti in desuetudine. Tale linea cerca di definire gli aspetti storici e giuridici del fenomeno. Nel caso francese, si afferma che sarebbe nato quando, sotto i franchi, la concessione di terre ai fedeli dei re avrebbe strutturato in maniera coerente elementi preesistenti, dalla servitù della gleba dei romani ai legami vassallatici importati dai germani. Il confluire dei vari fattori avrebbe portato alla divisione di tutto l’Occidente in un’infinità di piccoli feudi, costituendo una realtà frammentata e frammentaria, dove era impossibile l’azione di qualsiasi entità centrale. La storia successiva avrebbe invece visto il trionfo di alcuni feudatari, il loro crescere d’importanza e infine il loro costituire Stati, prima regionali e poi nazionali, nei quali tuttavia l’aristocrazia, erede del primitivo mondo feudale, avrebbe cercato sempre di perpetuare gli antichi privilegi, anche a scapito dello sviluppo economico e sociale del loro intero Paese.
La correttezza di questo impianto, come anche delle richieste di abolizione, è avallata da tutto il mondo euro-americano e, nel corso dell’Ottocento, la progressiva eversione della feudalità convive con la condanna del feudalesimo, perché dannoso per lo Stato, di cui impedirebbe la centralizzazione e l’efficienza, e l’economia, perché ostacolerebbe il libero mercato della terra e dei suoi prodotti. Il collegamento tra interpretazione storica e richiesta di abolizione è esplicita in quasi tutti i lavori delle commissioni governative che, in Europa e fuori d’Europa, elaborano le leggi relative e le sostengono con ampi studi. Il punto interessante è che questi ultimi situano e stigmatizzano il feudalesimo come retaggio del passato, mentre l’apparato giuridico affronta un fenomeno ancora esistente. Questa discrasia è percepita da A. de Tocqueville (1805-1859), che ne L’ancien régime et la Révolution (1856) consiglia di valutare con cautela i diritti feudali alla vigilia della Rivoluzione: le spiegazioni degli uomini di quel tempo gli paiono oscure e gli sembra difficile identificare cosa sia quel feudalesimo tanto odiato. Il libro di Tocqueville ha un enorme successo, ma questo suo suggerimento non è seguito. D’altra parte tutto il mondo anglosassone rigetta nel passato il feudalesimo, identificato come il vero difetto del mondo latino e germanico. Gli storici del Regno Unito ricordano come quest’ultimo diventò il più moderno Stato europeo proprio perché è precocemente fuoriuscito dalla realtà feudale. Gli storici statunitensi sottolineano come la loro sia la nazione del futuro perché ha rotto con l’ancora troppo medievale Inghilterra. Chi poi si trova a combattere con i «viluppi» feudali, come il Canada coloniale, non esita a bollarli quali «medievali» e quindi ad abolirli.
A questo punto è evidente che si cerca di cancellare, o quantomeno di svalutare, anche dal punto di vista storico il ruolo di istituti giuridici ancora in essere nell’Ottocento: se nel mondo occidentale il feudalesimo scompare tra il 1789 (Francia) e il 1854 (Canada), in Russia la servitù della gleba è abolita nel 1861. Agli inizi del Novecento l’espunzione dei fenomeni feudali dalla storia moderna è in atto. Uno specialista della Rivoluzione francese come A. Mathiez (1874-1932) definisce le rendite feudali «questa specie di diritti affittuari perpetui», la cui importanza sarebbe stata inutilmente sopravvalutata. I francesi si sono ribellati non perché fossero particolarmente pesanti, ma perché simboleggiavano un passato che doveva terminare (La Révolution française, 1922). Non tutti sono concordi, però, e, in Francia come nel resto dell’Occidente, alcuni studiosi cercarono di ricostruire una storia agraria, nella quale i diritti che gravavano sulle terre lavorate dai contadini non erano esigui e soprattutto erano continuamente rinnovati.
Negli anni Trenta del Novecento M. Bloch (1886-1944) cerca di sciogliere le contraddizioni tra i vari aspetti e le varie cronologie del feudalesimo. Spiega che il feudalesimo era legato a una determinata epoca (i secc. 9°-13°, con una cesura attorno al 1050) e a una specifica area geografica (l’Europa centroccidentale, con l’epicentro tra Loira, Reno e Borgogna) e non deve essere confuso con un «intricato complesso di immagini in cui il feudo propriamente detto ha cessato di figurare in primo piano» (La société féodale, 1939-40). Quello che viene dopo o che avviene in altre realtà geografiche può essere chiamato «regime signorile» e assomigliare, ma non essere identico, al feudalesimo vero e proprio.
Per Bloch, quest’ultimo era infatti caratterizzato da: «soggezione contadina; in luogo del salario, generalmente impossibile, largo uso della tenure-servizio, che è, nel senso preciso, il feudo; supremazia di una classe di guerrieri specializzati; vincoli di obbedienza e di protezione che legano l’uomo all’uomo e, in quella classe guerriera, assumono la forma particolarmente pura del vassallaggio; frazionamento dei poteri, generatore di disordine; e, nonostante questo, in mezzo a tutto ciò, la sopravvivenza di altri tipi di raggruppamento: parentela e Stato, quest’ultimo destinato a riprendere, nella seconda età feudale, un vigore nuovo». La signoria avrebbe invece convissuto con il feudalesimo, ma gli preesisteva e sarebbe continuata a esistere anche dopo. In pratica «era [...] un agglomerato di piccole aziende soggette», unite sotto il dominio di un solo signore il quale aveva saputo sfruttare la debolezza dei contadini per costringerli o convincerli della necessità di accettare la sua protezione. Quando, a partire dal Duecento, le società europee si erano allontanate dal «tipo sociale» del feudalesimo, sarebbero sopravvissuti quegli obblighi vassallatici o feudali iscritti nel suolo e conservatisi grazie alla continuità del regime signorile. Nell’Età moderna sarebbero decadute le giustizie signorili e scomparse le istituzioni servili. La lunga fase di guerre e pestilenze del Tre-Quattrocento avrebbe inoltre colpito i patrimoni signorili: la mancanza di manodopera ne rendeva più alto il costo, proprio mentre le rendite in moneta tendevano a svalutarsi. I vecchi signori sarebbero entrati in crisi e i loro possessi sarebbero stati acquistati dal patriziato urbano, che avrebbe rilevato anche i relativi titoli e diritti. Ne sarebbe nato un fenomeno unico di mobilità sociale, che non si sarebbe protratto troppo a lungo nel tempo: già nel Seicento la nobiltà sarebbe stata una casta semichiusa, che tentava di recuperare i vecchi diritti.
Bloch lascia in eredità ai suoi successori la distinzione fra signoria e feudalesimo, che è anche un invito a riflettere sui tempi lunghi della storia europea, insieme a una nuova valutazione dell’eredità feudale nell’età moderna e al dubbio che forse non sia appropriato parlare di feudalesimo – se non nell’accezione storicamente limitata del termine, ovvero quella che lo stesso storico definisce la «società feudale» dell’Europa occidentale – quanto piuttosto di feudalesimi. Questi filoni conoscono un forte sviluppo negli anni seguenti, anche se perdono la profondità e la compattezza della proposta originale.
La differenza fra signoria e feudalesimo è precisata da Robert Boutruche (1904-1975). Anche questi circoscrive il fenomeno feudale all’area geografica corrispondente all’Europa del Sacro romano impero con un’irradiazione lenta verso le aree limitrofe (Gran Bretagna, Italia meridionale, Penisola Iberica) e ne delimita l’arco cronologico dal 9° al 13° sec. (Seigneurie et féodalité, 1959-70). In quest’area il feudalesimo nascerebbe dalla convergenza delle tradizioni tribali celtica e germanica, delle quali eredita la solidarietà dei lignaggi, e di quella statale romana e poi carolingia e dal loro sovrapporsi alle strutture signorili già sviluppate. Il feudalesimo così formatosi si fonderebbe sul vassallaggio, cioè sui legami personali tra uomini liberi, e creerebbe forme di solidarietà verticale in una società a predominio aristocratico, stretta attorno a capi locali. Tuttavia ben presto il feudo, inizialmente semplice remunerazione delle prestazioni vassallatiche, diverrebbe il punto di partenza dei servizi richiesti. Questa trasposizione modificherebbe gradualmente la natura delle relazioni tra signori e vassalli: accanto a un diritto del vassallaggio apparirebbe un diritto del feudo, legato alle terre ereditarie, ed è dalla combinazione dei due diritti che le istituzioni feudali prenderebbero la loro fisionomia completa.
Il testo di Boutruche non dà spazio agli sviluppi successivi al Duecento; però, presta attenzione ai «feudalesimi» dell’Oriente, antico e moderno (in particolare il Giappone, ma anche Bisanzio e l’Islam) e delle regioni europee periferiche (Inghilterra, Spagna, Scandinavia, Paesi slavi). Su tali suggerimenti e su quelli di Bloch a proposito dei feudalismi s’innesta un dibattito ricco ancora oggi. Le nuove interpretazioni, di fronte al modello originario circoscritto cronologicamente e geograficamente, tentano di valutare le varianti nate nell’Europa centrorientale, nel prossimo e nel lontano Oriente, nelle colonie europee. In particolare, a partire dal secondo dopoguerra, queste ultime attirano l’attenzione perché vi evolvono feudi, signorie o comunque istituzioni analoghe importate dalla Francia, dalla Spagna, dal Portogallo e dall’Olanda. Ora questi fenomeni come quelli dell’Europa centrorientale sono cronologicamente successivi a quelli del feudalesimo classico, inoltre sono circoscritti proprio all’Età moderna. Generazioni di storici si combattono dunque alla ricerca di un equilibro tra la sintesi di Bloch, mai completamente rinnegata, e le possibilità che vengono mano a mano scoprendosi. In questo quadro si procede addirittura a rettificare alcuni paletti cronologici, cosicché progressivamente i feudalesimi divengono un fenomeno dell’Età moderna (proprio perché identificato dalla letteratura di tale periodo in tutta Europa e nelle colonie), mentre il mondo medievale viene ascritto all’ambito signorile.
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