I filosofi presocratici
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel periodo che va dalle origini al sorgere della scuola filosofica di Atene, l’astronomia greca mostra tratti di evidente originalità rispetto a quella sviluppatasi nelle altre culture del Vicino Oriente. Dopo la prima definizione di una cosmogonia mitologica, il mondo greco assiste infatti all’affermarsi di scuole di pensiero dove, talora in contrasto con il culto degli dèi, i filosofi si propongono di interpretare i fenomeni celesti mediante l’impiego del ragionamento e della matematica.
Così come in Mesopotamia e in Egitto, anche nel mondo greco affiora molto presto il desiderio di interpretare la genesi, la struttura e la finalità del cosmo. Tuttavia, a differenza delle civiltà mesopotamica ed egizia, che nel bacino del Mediterraneo occupano posti periferici, il mondo greco si colloca all’origine della linea di trasmissione dei saperi astronomici alla moderna cultura occidentale. Questa circostanza storica fa sì che, per quanto siano talora frammentarie, le fonti greche appaiano più chiare e facilmente interpretabili di quelle mesopotamiche o egizie. Inoltre, mentre le notizie su singoli matematici del Vicino Oriente sono scomparse quasi del tutto, lasciandoci al più qualche nome difficile da collocare nello spazio e nel tempo, le informazioni sugli autori greci sono più dettagliate.
La trasmissione dell’astronomia greca alla cultura moderna non segue però un andamento lineare. Dietro una tale trasmissione si colloca un processo di assimilazione e di selezione delle informazioni che conosce fasi alterne dall’antichità fino al Medioevo. Alla prima diffusione nell’area del Mediterraneo prodotta dall’espansione greca nel Sud dell’Italia e nel Vicino Oriente, segue una prima commistione con il pensiero romano, meno matematico, che perdura fino alla caduta dell’impero d’Occidente (476). A questa altezza il processo di conservazione e trasmissione dell’astronomia greca segue tre vie principali: la prima consiste nella circolazione di alcune informazioni filosofiche generali, già assimilate in epoca romana, all’interno del mondo latino; la seconda consiste nel mantenimento dei risultati matematici raggiunti e nella loro parziale elaborazione nell’impero di Bisanzio; la terza consiste infine nella traduzione dei testi greci più avanzati in siriaco prima e in arabo poi, a partire dal VII secolo, e nella formazione di osservatori e di scuole di astronomia matematica.
Lungo questa terza via l’astronomia greca torna a penetrare nell’Europa latina a partire dal XII secolo, attraverso la Spagna e la Sicilia, con le prime traduzioni di seconda mano di testi di autori greci dall’arabo al latino. Solo dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453 e grazie all’intervento di sensibilizzazione operato da due illustri astronomi dell’Università di Vienna – Georg Peurbach e il suo allievo Hans Müller di Königsberg, meglio noto con il nome latinizzato di Regiomontano – si assiste al recupero e alla traduzione in latino dei testi originali greci ancora conservati nelle biblioteche.
La conoscenza approfondita dei testi greci, dapprima mediata dal mondo arabo e poi riscoperta sui manoscritti originali, ha un effetto determinante sull’eccezionale sviluppo dell’astronomia che si verifica tra la fine del XV secolo e l’inizio del XVII secolo e, ancora oggi, continua a essere spunto di riflessione filosofica e scientifica.
Proprio come avviene per le civiltà mesopotamica e egizia, anche il primo approccio dei Greci ai misteri del cielo stellato attraversa una fase mitologica. Tra le fonti più antiche che permettono di individuare i miti cosmogonici greci compare il poema epico dell’Iliade. Da alcuni versi dell’opera si evince che all’origine di tutte le cose si trova Oceano che non solo circonda la Terra, ma, unendosi con l’altra dea primordiale Teti, genera gli altri dèi. Dall’elemento acqueo sorge ogni giorno il Sole. Sempre nell’Iliade si trova una sommaria descrizione della struttura del cosmo, sintetizzata nello scudo che Efesto prepara per il guerriero Achille.
La Terra è verosimilmente un disco piatto circondato dall’Oceano e al di sopra di essa si trova il cielo, nella forma di una cupola emisferica estremamente ampia. Sulla superficie interna della cupola appaiono muoversi il Sole, la Luna e le stelle. Queste ultime sono distinte fra quelle che tramontano ogni giorno e quelle che invece appaiono sempre al di sopra dell’orizzonte, oggi dette “circumpolari”.
I miti cosmogonici greci non sono coerenti né costanti nel tempo e spesso pongono all’origine del mondo personaggi diversi. Sebbene nella Teogonia del poeta Esiodo la struttura del cosmo sia analoga a quella suggerita dall’Iliade, la genesi vi è presentata a partire dal Caos primordiale. Dal Caos si originano dapprima l’Erebo e la Notte, e in seguito l’Etere e il Giorno. Gli eventi successivi appaiono modificati rispetto all’Iliade perché, secondo Esiodo, è la Terra a generare Urano, cioè il cielo stellato, e l’Oceano. Da Urano discende la famiglia dei Titani. L’ultimo di essi, Crono, evira il padre per sostituirlo nel governo del cosmo e degli altri dèi, patendo infine la stessa sorte dal figlio Zeus. Nel proprio atto di rivalsa sul padre Urano, Crono sposta violentemente l’asse dei cieli. Di fatto, l’asse intorno a cui appaiono ruotare il Sole, la Luna e le stelle non è verticale, come ci si dovrebbe attendere da una struttura ben costruita, ma è inclinato verso nord.
Accanto alla volontà di stabilire l’origine delle cose, uno dei problemi fondamentali della cosmologia antica è costituito dalla spiegazione di che cosa sostiene la Terra e il cielo, impedendo a entrambi di cadere. Nel contesto mitologico dell’Iliade e della Teogonia, il problema è risolto con la figura del titano Atlante. L’immane gigante sostiene la Terra sulle spalle e il cielo con le braccia. Il successivo ricorso a un’altra figura mitologica, Eracle, offre invece l’occasione di spiegare in modo alternativo l’inclinazione dell’asse dei cieli. Nella undicesima delle sue dodici “fatiche” – originariamente descritte nell’Eracleia di Pisandro di Rodi, oggi perduta – Eracle propone ad Atlante di sostituirlo temporaneamente nell’immane sforzo di sostenere il mondo. Libero dal suo giogo, il titano può recarsi nel giardino delle Esperidi, sue figlie, per cogliere i pomi di un particolare albero che vi cresce. Non possedendo la stessa forza del titano, Eracle cede in parte sotto il peso del mondo e per questo, quando con l’astuzia riesce finalmente a riconsegnarlo nelle mani di Atlante, i cieli pendono irreparabilmente da un lato.
La genealogia degli dèi – Urano (il cielo stellato), il figlio di questi Crono (Saturno), il nipote Zeus (Giove), e gli altri pronipoti, Ares (Marte), Afrodite (Venere), Ermete (Mercurio) e Artemide (la Luna) – rivela una prima strutturazione su base mitologica del cosmo sia da un punto di vista cronometrico che da un punto di vista spaziale. Quando si considera la Terra come immobile, i cieli che ai Greci appaiono muoversi più velocemente da est verso ovest sono anche i primi nell’ordine di generazione, nonché quelli ritenuti più lontani. Nel passare dagli dèi più vecchi a quelli più giovani, la velocità di rotazione dei cieli corrispondenti decresce, così come la loro distanza dalla Terra.
Il cielo più veloce e lontano, che contiene tutti gli altri, è quello di Urano, o delle stelle dette “fisse”, che compie una rotazione in un giorno sidereo (in unità moderne 23 ore e 56 minuti). Il cielo sottostante, quello di Crono, è leggermente più lento e più vicino alla Terra. Infatti, nell’intervallo di tempo in cui il cielo di Urano compie una intera rotazione intorno alla Terra, quello di Crono resta leggermente indietro di una frazione corrispondente allo spostamento proprio di Saturno da ovest verso est rispetto allo sfondo delle stelle fisse (in unità moderne il ritardo è di circa 8 secondi). Sotto il cielo di Crono si trova il cielo di Zeus, ancora leggermente più lento. Giove presenta infatti uno spostamento giornaliero da ovest verso est rispetto alle stelle fisse maggiore di quello di Crono e, per questo motivo, impiega un tempo leggermente maggiore per compiere una rotazione completa intorno alla Terra (in unità moderne il ritardo è di circa 20 secondi). Questo criterio si estende in progressione ai cieli degli altri pianeti fino a quello di Artemide, che è il più vicino e il più lento di tutti (in unità moderne il ritardo è di quasi un’ora). Sotto il cielo della Luna gli ordinati movimenti che regolano i cieli si estinguono.
Oltre a spiegare la sequenza della creazione e la disposizione dei pianeti, la mitologia greca popola il cielo delle stelle fisse di semidei e di eroi. Questo aspetto è talmente accentuato che le principali costellazioni raccontano intere storie la cui piena lettura richiede di conoscere i movimenti celesti. L’Odissea offre uno dei primi esempi del genere nella descrizione di Odisseo che si allontana dall’isola di Ogigia. Mentre naviga l’eroe mantiene gli occhi “fissi a Bootes che tardi tramonta, / e all’Orsa, che chiamano pure col nome di Carro, / e sempre si gira e Orione guarda paurosa” (V, 272-274). Per sottrarla alle ire della moglie Era, Zeus trasforma l’amata ninfa Callisto in orsa. In seguito, per proteggerla dai cacciatori che Era ha messo sulle sue tracce, Zeus la trasferisce fra le costellazioni circumpolari. Il compito di proteggere l’Orsa è affidato a Bootes, l’agricoltore, che è anche chiamato Artophylax (letteralmente, “l’amico dell’orsa”). Tuttavia, quando Bootes tramonta, sorge la costellazione di Orione, il più grande dei cacciatori. In questo modo i versi dell’Odissea registrano la particolare configurazione delle tre costellazioni e, attraverso questa, narrano l’eterna tensione fra amore e morte.
Accanto alla lettura mitologica dei cieli, già all’altezza del VII secolo a.C. il mondo greco offre i primi esempi di speculazione filosofica sul cosmo. Eseguite alcune osservazioni, i pensatori cercano di comprendere i fenomeni celesti e di darne una interpretazione razionale.
Per quanto limitate siano le fonti relative ai filosofi più antichi, è possibile individuare alcune domande di fondo. Da cosa è nato il cosmo? Cosa succede agli astri quando tramontano? Il cosmo è finito o infinito, e qual è la sua forma? Nei circa due secoli che vanno da Talete di Mileto a Socrate, le risposte a questi quesiti sono estremamente varie, anche all’interno delle singole scuole di pensiero. Forse ancora influenzato dalla mitologia o da idee egizie, Talete ritiene che il mondo si origini dall’elemento acqueo e che l’aria stessa sia vapor d’acqua molto sottile. Non è chiaro se per questo filosofo della cosiddetta scuola ionica – al quale lo storico Erodoto attribuisce la capacità di prevedere le eclissi di Sole – l’acqua occupa uno spazio finito o infinito. Per certo, Talete è in grado di risolvere il problema di che cosa sostiene la Terra e il cielo senza ricorrere al mito di Atlante. Terra e cielo galleggiano sull’acqua, la prima in forma di un disco cilindrico, il secondo in forma di una volta emisferica. Dato questo aspetto del cosmo, resta invece aperto il problema di stabilire cosa avviene degli astri durante la notte. Probabilmente per Talete e molti altri filosofi dell’epoca, essi non passano sotto la Terra, ma letteralmente dietro di essa.
Più originale appare il pensiero di Anassimandro di Mileto. Allievo di Talete, Anassimandro ritiene che non si possa parlare di un elemento primigenio. All’origine e alla fine di tutte le cose è la natura stessa dell’infinito, una materia indeterminata e priva di proprietà, l’apeiron, dalla quale nasce e nella quale si estingue una serie infinita di mondi. Questa apparente modernità di pensiero si rispecchia nell’idea di una geometria dell’universo che spieghi da sola perché la Terra non cade. Se la Terra si trova esattamente al centro di una sfera celeste, essa è equidistante da ogni suo punto e non esiste una direzione preferenziale di caduta.
Anche se ad Anassimandro è attribuita l’introduzione in Occidente del primo strumento di misura astronomica, lo gnomone, è impossibile determinare con esso le distanze dei corpi celesti. Ne consegue che l’attribuzione di distanze ai corpi celesti, ritenuti tutti di natura ignea, è del tutto arbitraria. Anassimandro ritiene che il Sole sia l’astro più lontano, mentre le stelle sarebbero le più vicine alla Terra. Più difficile è comprendere come il filosofo concepisca il Sole e la Luna. Egli li descrive come asole circolari praticate in due ruote cave che circondano la Terra. L’aprirsi delle asole svelerebbe il contenuto igneo delle ruote, mentre il loro chiudersi totale o parziale sarebbe responsabile delle fasi lunari e delle eclissi di Sole e di Luna. In linea con Talete, Anassimandro continua inoltre a ritenere che la Terra sia un cilindro di pietra, con la superficie superiore piatta o, al più, leggermente convessa.
Allievo di Anassimandro e ultimo grande esponente della scuola ionica, Anassimene di Mileto non condivide le speculazioni del maestro e ritiene che all’origine di tutte le cose vi sia l’aria, senza la quale non esisterebbe la vita. L’aria genera la Terra per condensazione, mentre genera il fuoco e i corpi celesti per rarefazione. L’aria sostiene la Terra, il Sole e la Luna, tutti di forma piatta, nonché la volta celeste sulla quale le stelle sono infisse come tanti chiodi.
Parallelamente alla scuola ionica si sviluppa la scuola eleatica. Per quanto è dato saperne, le idee astronomiche del fondatore della scuola, il poeta e filosofo Senofane di Colofone, sono lontane dal delineare un sistema del cosmo. Il mondo è senza limiti ed è occupato per metà dalla Terra, per l’altra metà dall’aria. Ne consegue che gli astri hanno solo in apparenza dei moti circolari. In realtà essi seguono corsi rettilinei da est verso ovest e sono costituiti da nubi ignee che si incendiano per la grande velocità. Poiché in nessun modo possono tornare indietro, gli astri si generano e si estinguono ogni giorno. Il più grande esponente della scuola eleatica è Parmenide di Elea, del quale ci restano alcuni frammenti di un poema Sulla natura. A lui si devono tre concetti estremamente fortunati in tutta la storia dell’astronomia fino all’inizio del XVII secolo. Il primo è la forma sferica della Terra, il secondo l’analoga forma sferica del cosmo, mentre il terzo riguarda l’inesistenza del vuoto. In questa visione il cosmo appare distribuito in una serie di strati concentrici che circondano la Terra senza che fra di essi vi sia alcuna intercapedine. Lo strato più esterno è “l’estremo Olimpo”, che costituisce il limite necessario del cosmo. Sotto di esso vi sono gli strati dei pianeti, alcuni dotati di luce propria, come il Sole, altri di luce riflessa, come la Luna. La Terra si trova al centro e, così come per Anassimene, non avendo una direzione preferenziale di caduta, rimane in equilibrio anche senza alcun sostegno.
In netto contrasto con la scuola eleatica si pone la scuola atomistica. Iniziata da Leucippo di Mileto, essa trova in Democrito di Abdera il suo più illustre esponente. Mentre la scuola eleatica tramanda il concetto di non esistenza del vuoto, e nega di conseguenza la realtà di ogni movimento, la scuola atomistica pone all’origine del mondo la caduta nel vuoto di particelle minute, indistruttibili e indivisibili: gli atomi. Le differenze di dimensione e di peso fra gli atomi generano moti vorticosi che spingono i più pesanti fra loro ad aggregarsi e a generare infiniti mondi. Nel caso del nostro mondo, la Terra, composta da atomi pesanti e di forma grossomodo piatta, occupa la posizione centrale, mentre gli astri, formati da atomi leggeri, delimitano una regione sferica. La Luna e il Sole, infine, sono corpi solidi simili alla Terra, sebbene molto più piccoli di essa. In origine essi erano al centro di altri mondi, ma dopo una collisione con il nostro ne sono stati catturati. Prova della natura terrestre della Luna sono le macchie che compaiono sulla sua faccia, in realtà ombre di monti e valli. Altri filosofi costellano il panorama del pensiero presocratico anche al di fuori di vere e proprie scuole. Alcuni di essi, come Eraclito di Efeso, mostrano di assimilare elementi egizi, quali l’idea che gli astri si muovono su delle imbarcazioni. Altri elaborano invece altre idee destinate ad avere straordinario successo. Per esempio, Empedocle di Agrigento ritiene che il mondo sferico sia costituito da quattro elementi: il fuoco, l’aria, l’acqua e la terra. Gli elementi non si trasformano l’uno nell’altro, ma si mescolano a formare corpi di diversa densità. Inoltre il mondo terreno e quello celeste sono radicalmente distinti, tanto che ogni male cessa al di sopra della Luna, essendo le regioni celesti estremamente pure.
Fra le varie scuole del periodo presocratico, quella pitagorica merita un’attenzione particolare non soltanto per la lunga durata (più di due secoli), ma anche per il peculiare abbinamento di pensiero filosofico e di matematica che la distingue, un abbinamento destinato a giocare un ruolo vitale nell’astronomia dei secoli successivi. Il fondatore della scuola, Pitagora di Samo, appare una figura quasi leggendaria, avvolta dall’aura del segreto quasi religioso adottato da egli stesso e dai suoi discepoli. Di fatto il pensiero di Pitagora ci è oggi noto solo attraverso quei pochi filosofi della sua scuola che, venendo in parte meno al suo insegnamento, pensarono di affidare le loro idee a degli scritti.
Secondo i pitagorici l’universo è un tutto ordinato, in conformità al significato letterale del termine kosmos (“ordine”). Alla base di tutto risiede il concetto di numero. Compito del filosofo è pertanto ricercare i rapporti numerici che sottostanno a tutte le manifestazioni della natura. Il numero stesso, dotato di una dimensione fisica, diventa l’elemento primario da cui si è generato l’universo e sul quale è strutturato ogni oggetto che in esso si trova. Per dimensione fisica si intende la possibilità di adattare alcuni numeri a forme piane o solide ben precise. Più in particolare, il numero 1 è l’origine di ogni cosa, perché è da esso che si generano tutti gli altri numeri. Questo vale sia per le serie dei numeri pari e dei numeri dispari, sia per l’individuazione dei cosiddetti numeri triangolari (3, 6, 10 ecc.) e quadrati (4, 9, 16 ecc.), vale a dire quei numeri rappresentabili con poligoni elementari, sia, infine, dei cinque poliedri regolari (tetraedro, cubo, ottaedro, decaedro e icosaedro).
Il filosofo, ovvero il “matematico” (dal greco mathematikos, colui che apprende), misura le apparenze e cerca di determinare, spesso per analogia, i rapporti numerici che si trovano alla base dei fenomeni osservati. Da questo punto di vista è significativa l’analogia che i pitagorici istaurano fra l’analisi dei suoni emessi da una corda vibrante (la serie armonica di ottava, quinta e quarta definibile attraverso i rapporti dei numeri da 1 a 4), i moti dei pianeti e la struttura complessiva del cosmo. È infatti con i pitagorici che nasce il fortunato concetto di armonia del cosmo. In varie forme, dalla ricerca delle melodie suonate dai singoli pianeti all’individuazione di fenomeni di risonanza fra i loro periodi, questo concetto caratterizza buona parte dello studio dell’astronomia dall’antichità fino ai nostri giorni. I pitagorici sono convinti che l’armonia del cosmo, sia pure impossibile da udire con le orecchie umane, le quali vi si sono assuefatte fin dalla nascita, possa essere colta dall’intelletto grazie all’individuazione dei rapporti numerici che la esprimono.
Non ci è dato conoscere la struttura del cosmo esattamente concepita da Pitagora; quella descritta da Filolao delinea tuttavia l’estrema originalità del pensiero di questa scuola all’altezza del V secolo a.C., quando lasciata Crotone a causa delle persecuzioni religiose, essa si espande nella parte orientale del Mediterraneo. Per Filolao il cosmo ha forma sferica ed è dominato da un fuoco centrale, torre d’osservazione di Zeus. La Terra non è dunque collocata al centro del cosmo e non è immobile; essa orbita intorno al fuoco centrale insieme agli altri corpi celesti. In tutto, i corpi celesti mobili sono dieci, cioè pari al terzo numero triangolare (tetraktys). Poiché i corpi celesti osservabili a occhio nudo sono di fatto solo nove – vale a dire la Terra, la Luna, il Sole, i cinque pianeti classici e la sfera delle stelle fisse – Filolao aggiunge al fuoco centrale anche un’Antiterra (Antikton). Questo astro ha la funzione di nascondere agli antipodi, cioè a coloro che abitano l’emisfero della Terra opposto a quello dove si trova la Grecia, la vista del fuoco centrale.
Da ciò si comprende bene come per Filolao la Terra non gira sul proprio asse, ma orbita intorno al fuoco centrale in un solo giorno, mantenendo l’emisfero abitato sempre rivolto all’esterno. L’Antiterra procede di pari passo con la Terra, mentre gli altri pianeti, oltre a essere partecipi del moto diurno, posseggono anche moti propri distinti, così da apparire nel corso del tempo sullo sfondo di costellazioni diverse dello zodiaco. Nel sistema di Filolao, il Sole agisce come uno specchio e rimanda verso la Terra la luce del fuoco centrale.
La Luna è invece del tutto simile alla Terra: la sua luce è solo riflessa mentre la sua superficie è popolata da esseri viventi giganteschi. La sfera delle stelle fisse, identificata con l’Olimpo, è il luogo dove i quattro elementi classici (fuoco, aria, acqua e terra) esistono in uno stato di estrema purezza. Intorno a essa si trova il fuoco esterno e, oltre ad esso, si estende lo spazio infinito.
Non è chiaro quanto le idee cosmologiche fossero omogenee all’interno della scuola pitagorica, che all’altezza del IV secolo a.C. si dissolve in una sorta di religione misterica. Di sicuro le testimonianze posteriori evidenziano la presenza di discordanze sull’ordine dei corpi celesti e su altri concetti. In effetti, del pensiero astronomico di altri pitagorici si conosce piuttosto poco.
Si sa soltanto che Ecfanto di Siracusa e Iceta di Siracusa semplificarono il sistema di Filolao ammettendo la rotazione della Terra sul proprio asse e abbandonando la teoria del fuoco centrale e dell’Antiterra.