I Flavi: il primato dell'amministrazione
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
In un brano degli Annali di Tacito la parsimonia è presentata come la qualità più tipica di Vespasiano, in opposizione al lusso e alla sfrenatezza dei cento anni precedenti. Lontano dai propri predecessori dagli aristocratici ascendenti, anche per essere figlio di un appaltatore d’imposte e originario di Rieti in Sabina, egli inaugura un nuovo stile di governo seguito anche dai suoi figli – Tito e in particolare Domiziano – che vede riservata un’attenzione tutta speciale all’amministrazione dell’impero e alla salvaguardia dei suoi confini.
La migliore introduzione alla figura di Vespasiano è offerta da un brano di Tacito che si sofferma sui suoi costumi. Lo storico, in un capitolo del terzo libro degli Annali, ne mette in evidenza la parsimonia definendolo "uomo all’antica nel modo di mangiare e di vestire". E aggiunge: “Con lui il rispetto verso l’imperatore e il desiderio di imitarlo ebbero più efficacia delle pene minacciate dalle leggi e della paura”. Molto significativamente del resto Tacito nelle righe precedenti aveva scritto che il lusso della tavola nei circa cent’anni dalla battaglia di Azio a Galba era stato sfrenato, e che solo le stragi del 69 con il timore che avevano indotto degli effetti del mettersi in mostra avevano contribuito ad attenuarlo. I veri portatori di questo cambiamento, a parere dello storico, furono uomini nuovi venuti dai municipi, dalle colonie e anche dalle province, e Vespasiano è presentato come il loro campione.
Se però lo stile di vita modesto del capostipite dei Flavi – che tra l’altro lo induce dopo la morte della moglie Flavia Domitilla a convivere in modo riservato con Antonia Cenide, una liberta di Antonia (la madre di Germanico) – ce lo fa apparire molto lontano dai comportamenti e dalle abitudini sregolate di alcuni dei Giulio-Claudii, quanto ai fondamenti del suo potere non è possibile individuare nulla di inedito o di nuovo rispetto al passato. Un importante, e mutilo, testo iscritto su bronzo, la cosiddetta lex de imperio Vespasiani, che risale ai giorni tra la fine del 69 e gli inizi del 70, elenca infatti le prerogative del princeps – concludere trattati, convocare il senato, avanzare o respingere proposte, raccomandare candidati alle magistrature e porre in atto qualsiasi provvedimento utile allo stato – e si cura di ricordarne i precedenti che risalgono ad Augusto, Tiberio e Claudio, senza peraltro nominare i principes damnati Caligola e Nerone. Lo stesso Vespasiano, inoltre, a pieno conscio del peso della tradizione, nel riparare ai danni provocati dall’incendio appiccato dai vitelliani al Campidoglio, s’impegna nel fare riprodurre tremila tavolette di bronzo andate fuse per il calore, ordinando di ricercarne dappertutto le copie giacché ai suoi occhi, secondo le parole di Svetonio, “contenendo, si può dire dalle origini di Roma, i decreti del senato e i plebisciti relativi alle alleanze, ai trattati e ai privilegi concessi a chicchessia”, rappresentano un imprescindibile strumento per l’esercizio del potere.
Anche nella scelta del successore Vespasiano – a differenza di Galba che in assenza di figli si era rivolto al candidato che riteneva il migliore – non si discosta dalla prassi dei Giulio-Claudii favorendo i membri della propria famiglia. Alla fine del 69 i suoi due figli, Tito e Domiziano, sono onorati come principes iuventutis, mentre nel 71 al primogenito Tito il principe fa concedere la tribunicia potestas associandoselo così in qualche modo nel governo dello stato. Nomina inoltre lo stesso Tito prefetto del pretorio, andando contro la consuetudine che voleva questa carica assegnata a un cavaliere, ma neutralizzandone così le potenzialità eversive che erano emerse sotto i Giulio-Claudii.
Una tale linea d’azione non è accolta favorevolmente da alcuni senatori, e in particolare dagli appartenenti a quella setta stoica, che aveva manifestato il proprio dissenso anche nei confronti di Nerone. Gli stoici, comunque, non erano ostili all’idea monarchica: essi piuttosto erano critici degli eccessi e delle mancanze degli imperatori e dei loro comportamenti poco rispettosi della libertas senatoria, tra cui rientrava l’individuazione del successore nell’ambito della propria famiglia. Il personaggio che paga maggiormente per la propria opposizione è il senatore Elvidio Prisco, il genero di Trasea Peto, prima esiliato e poi fatto uccidere da Vespasiano nel 75. Il cavaliere Musonio Rufo, uno dei più rinomati, se non il più rinomato maestro della dottrina stoica della seconda metà del I secolo è invece esiliato sotto Vespasiano e poi richiamato da Tito.
Nella difesa dell’impero, superata con il trascorrere dei decenni la visione augustea che prevedeva stati cuscinetto (vale a dire regni clienti o retti da dinasti amici) destinati a creare una fascia che tenesse separato il mondo esterno, il capostipite dei Flavi avvia una nuova politica, proseguita dal figlio Domiziano, che ha di mira il consolidamento dei confini. È stato da più parti sottolineato come il confine, nei decenni finali del I secolo, con la riduzione in province di diverse aree marginali, abbia progressivamente assunto una dimensione "lineare", sia cioè venuto a costituire un limite – limes è del resto il termine latino usato per confine – in rapporto sia al processo di espansione sia agli attacchi di genti barbare, producendo un significativo cambiamento nell’organizzazione del sistema difensivo e nella dislocazione delle legioni. All’interno di questo quadro generale va collocata l’azione, in Oriente, di Vespasiano che cancella regni clienti come quello di Commagene, in controllo dei guadi sull’Eufrate, annesso alla provincia di Siria nel 72, e costituisce nel 74 la provincia di Cilicia semplificando una situazione caratterizzata per l’innanzi dalla presenza di vari principi e dinasti.
Dal punto di vista squisitamente militare, ancora in Oriente, Vespasiano nel 70 assesta un colpo mortale alla rivolta dei Giudei della cui repressione era stato incaricato da Nerone: tra la fine di agosto e l’inizio di settembre di quell’anno, infatti, suo figlio Tito conquista Gerusalemme distruggendo il Tempio e dirottando su Roma i contributi a esso versati. Il trionfo de Iudaeis è celebrato dai Flavi nel giugno del 71, e un’"istantanea" del corteo, con la rappresentazione dei tesori del Tempio e di un candelabro a sette braccia, ci è offerta da uno dei rilievi dell’arco di Tito nel Foro Romano. Anche dopo il trionfo, comunque, le operazioni in Palestina vanno avanti, giacché alcune roccaforti in mano ai ribelli continuano a opporre resistenza. Il conflitto si conclude nel 73 con la presa di Masada, una fortezza impressionante che guarda al Mar Morto da quattrocento metri di altezza, difesa eroicamente da uomini che per evitare di essere presi dal nemico decidono di suicidarsi.
In Occidente invece nel 70, nell’area renana, viene repressa la rivolta del capo batavo Giulio Civile che come Arminio, il vincitore di Teutoburgo, ha militato nelle truppe ausiliarie romane. Nel clima incandescente del 69 egli si schiera inizialmente dalla parte dei Flavi, ma dopo la vittoria di Antonio Primo a Bedriaco riesce a far insorgere contro Roma popolazioni galliche e germaniche e costituisce, secondo la definizione di Tacito nelle Storie, un vero e proprio imperium Galliarum, che ha però vita molto breve. I generali Petilio Cereale e Annio Gallo, al comando di otto legioni, lo sconfiggono infatti a Castra Vetera e lo costringono alla resa.
Quanto all’amministrazione dell’impero, l’obiettivo di Vespasiano – nelle parole di Svetonio – sarebbe stato quello di "rafforzare (stabilire) lo stato quasi abbattuto e vacillante, e poi di abbellirlo (ornare)", un obiettivo di tipo pragmatico che risulta in perfetto accordo con la parsimonia, cioè a dire la morigeratezza, attribuita all’imperatore da Tacito. Vespasiano, dunque, in primo luogo si preoccupa di risanare le finanze dello stato dopo i dissesti dell’epoca neroniana e del 69, e naturalmente senza complessi ragionamenti di tipo economico impensabili ai tempi: molto concretamente sul versante delle entrate egli cerca di raggiungere il risultato con l’aumento, a volte addirittura con il raddoppiamento, dei tributi dovuti dalle province e con l’introduzione di nuove tasse su specifiche attività o servizi, come quelle sulle latrine (vectigal urinae). Il principe, inoltre, s’impegna a recuperare i terreni pubblici abusivamente occupati dai privati – subseciva è il loro nome nelle colonie – che sono per lo più destinati alla vendita. Sul versante delle spese, invece, pur guidato da un criterio di rigore, Vespasiano non rinunzia, specie a Roma, ai grandi progetti come la costruzione di un maestoso anfiteatro, il Colosseo, nell’area della Domus aurea neroniana, o la ricostruzione del Campidoglio incendiato nel 69, o il ripristino degli acquedotti innalzati da Claudio. In tal modo, senza sfigurare nel confronto con i suoi predecessori, egli provvede ad abbellire la città legando il suo nome a importanti edifici.
Oltre che dell’immagine di Roma, Vespasiano si prende anche cura, nel corso della sua censura del 73-74, di colmare i vuoti lasciati nel senato dagli anni neroniani e dal 69: intercettando il processo storico – di cui egli stesso originario di Rieti è stato il prodotto – che in parallelo alla scomparsa delle grandi famiglie romane lasciava che emergessero le figure dei notabili delle principali città dell’Italia e delle province, in primo luogo di quelle occidentali, egli apre il supremo consesso a forze nuove che sono in possesso di una mentalità più disposta ad assecondare la politica del principe e che annoverano nelle proprie file alcuni abili viri militares, divenuti ormai figure chiave nella conduzione dell’impero. Deve essere chiaro, comunque, che né a Vespasiano né ad alcun altro imperatore si può attribuire il merito di aver programmato l’entrata in senato dei provinciali prevedendone i risultati: è tutta la storia di Roma degli ultimi tre secoli, con il suo succedersi di conquiste, con le sue diverse forme di presenza e intervento in Oriente e in Occidente, che fa sì che nella seconda metà del I secolo d.C. i provinciali più rappresentativi comincino a divenire parte a pieno titolo della classe dirigente dell’impero sostituendo la declinante aristocrazia romana. Nella stessa ottica la concessione da parte di Vespasiano del diritto latino (ius Latii) a tutte le province della Spagna, che assicura ai magistrati delle varie comunità l’acquisizione della cittadinanza romana, va considerata come un provvedimento in linea con l’antica tradizione dell’Urbe favorevole all’allargamento della cittadinanza, e non come un espediente per aumentare il gettito fiscale.
Dopo così numerosi interventi e realizzazioni, e dopo tanti imperatori uccisi in congiure o suicidatisi, Vespasiano muore nel suo letto nel giugno del 79. A succedergli è il figlio Tito.
Nonostante la brevità della sua permanenza sul trono, Tito è da annoverare tra gli imperatori romani che hanno maggiormente attratto l’attenzione di artisti e scrittori moderni: alla radice di ciò sta forse in primo luogo il ritratto contraddittorio – dunque altamente passibile di elaborazione – che di lui ha tracciato il biografo Svetonio opponendo i suoi due anni di regno a quelli della sua vita precedente. Così scrive l’autore latino: “Tito […] fu l’amore e la delizia del genere umano, tanto grande fu la sua capacità di guadagnarsi – vuoi per doti innate, vuoi per sua capacità, vuoi per buona fortuna – la benevolenza di tutti e cosa che è senz’altro difficilissima, nel periodo in cui fu imperatore. Come privato cittadino, e anche sotto il regno di suo padre, non sfuggì infatti all’odio e alle critiche violente della cittadinanza”.
Sebbene figlio di un senatore originario di Rieti e non appartenente alla nobilitas, però valente uomo d’armi, Tito è educato a corte insieme a Britannico il rampollo di Claudio, e acquisisce quel comportamento violento e dissipato tipico della jeunesse dorée della capitale dell’impero, che in lui si consolida negli anni neroniani. E mentre il padre Vespasiano siede sul trono, egli non ha pietà di oppositori e nemici, che non di rado ordina di sopprimere. A determinare l’abbandono da parte di Tito delle abitudini giovanili si può supporre sia stata la successione al padre e l’assunzione di una grande responsabilità, quella cioè di regere imperio populos, secondo un comportamento simile a quello già notato per Otone e ancor più a quello di Petronio che, nel profilo datone da Tacito, è irreprensibile come proconsole di Ponto e Bitinia e come console, mentre quando non ricopre cariche è un raffinato e spregiudicato cultore dei piaceri della vita.
Tacito
Petronio, governatore irreprensibile e elegantiae arbiter di Nerone
Annales, Libro XVI, 18-19
Il senatore Petronio nella presentazione che ne dà Tacito negli Annali (XVI, 18-19) rappresenta il prototipo di figure come quelle di Otone e Tito che, quando assumono impegnative cariche di governo, abbandonano i vizi privati per le pubbliche virtù.
Di Petronio devo riferire qualche particolare […]. Egli dedicava le ore del giorno al sonno, quelle della notte ai suoi doveri e alle gioie della vita e mentre ad altri aveva dato rinomanza l’attività, a lui invece la diede l’ozio indolente; non passava però per crapulone o dissipatore, come i più che sperperano il loro patrimonio, ma come un raffinato gaudente. Le sue parole, come le sue azioni, piuttosto spregiudicate e che lasciavano trasparire una certa quale noncuranza, tanto più riuscivano piacevoli per l’apparenza che davano di naturalezza. Tuttavia, come proconsole in Bitinia e subito dopo come console, diede prova di energia e si mostrò all’altezza del grave ufficio. Poi, rituffandosi nei vizi, o atteggiandosi a vizioso, fu ammesso tra i pochi intimi di Nerone, per il quale divenne arbitro di buon gusto, tanto che nulla trovava, nel fasto che lo circondava, elegante e raffinato se non quanto incontrava l’approvazione di Petronio. Di qui il livore del prefetto del pretorio Tigellino, che vede in lui un rivale ben più abile nella scienza dei piaceri. S’aggrappa quindi alla crudeltà del principe, passione che dominava su tutte le altre, e denuncia Petronio come amico di Scevino, corrompendo uno dei suoi schiavi a farsi delatore e togliendo all’accusato ogni possibilità di difesa, col mettere in prigione la maggior parte della sua servitù.
Vistosi perduto, Petronio non sopportò l’idea di starsene più a lungo sospeso fra il timore e la speranza. Tuttavia non si tolse la vita con precipitazione, ma, secondo il suo capriccio, si fece tagliare le vene, poi, richiudere, poi aprire di nuovo, mentre conversava con gli amici, non già su argomenti austeri o tali che gli procurassero fama di grande fermezza; né dagli amici egli voleva sentire nulla che trattasse dell’immortalità dell’anima o delle massime dei filosofi; ma solo poesie leggere e versi scherzosi. Ad alcuni degli schiavi fece dare delle ricompense, ad altri delle bastonate; si mise a tavola e si abbandonò al sonno, affinché la morte, sebbene imposta, sembrasse fortuita. Nemmeno nelle disposizioni testamentarie egli si lasciò andare, come facevano i più che si toglievano la vita, ad adulare Nerone, Tigellino o chiunque altro; ma vi descrisse accuratamente la vita scandalosa del principe, citando con i loro nomi giovani corrotti e donne di malaffare, e, per filo e per segno, l’enormità di ogni dissolutezza del principe; quindi, postovi il sigillo, mandò ogni cosa a Nerone. Spezzò poi l’anello del sigillo, perché non dovesse più tardi servire a provocare altre vittime.
Tacito, Annali, trad. it. L. Annibaletto, Milano, Garzanti, 1974
Al di là di qualsiasi interpretazione se ne possa dare, sulla base delle fonti a nostra disposizione resta comunque centrale nella vita di Tito la svolta che, novello principe, lo porta a mettere in mostra un alto senso del dovere e una non comune disponibilità a venire incontro alle esigenze dei propri sudditi.
Una delle prime manifestazioni del senso del dovere – o forse meglio dello stato – dell’erede di Vespasiano è la rottura del legame che da dieci anni lo univa alla principessa giudea Berenice, una creatura avvolta di mistero. Dopo essere andata in sposa a uomini importanti e influenti come il fratello di un prefetto d’Egitto e un re sacerdote di Olba in Cilicia, ed essere stata accusata di incesto con il fratello Giulio Agrippa II, Tito la incontra in Palestina mentre è impegnato con il padre nella repressione della rivolta giudaica. Ha così inizio una delle più tormentate storie d’amore dall’antichità.
Berenice, come altri membri della sua famiglia, si schiera dalla parte dei Romani, ma in seguito alla conquista di Gerusalemme del 70 d.C., nell’Urbe non poteva non essere assimilata al suo popolo vinto. Eppure Tito non rompe, anzi rafforza, il vincolo con la principessa straniera. Solo quando ascende al trono, per non urtare la suscettibilità del senato e del popolo, assumendo insomma una prospettiva politica, si separa da Berenice. Come scrive Svetonio: “Allontanò immediatamente da Roma Berenice, contro la propria volontà e contro quella di lei (invitus invitam)”. Questa vicenda colpisce a tal punto l’immaginario dei posteri che un autore di grande sensibilità come Racine dedica alla passione di Tito e della principessa uno dei drammi più commoventi del Seicento: Bérénice.
Divenuto imperatore, in Tito sembra anche essersi dileguato quel comportamento violento e vendicativo che in precedenza lo aveva indotto a sopprimere brutalmente Cecina Alieno sospetto di una congiura contro Vespasiano. Subentra in suo luogo – di certo favorita da riflessioni di ordine politico relative alla sua opportunità – una disposizione alla clemenza che porta, tra l’altro, l’imperatore, caso più unico che raro nella storia di Roma, a non condannare a morte alcun senatore e a scoraggiare i delatori con punizioni e limitazioni varie. Un atteggiamento questo che ha dato lo spunto per la trama, di grande fantasia, dell’opera mozartiana La clemenza di Tito, la quale vede un imperatore romano fungere da precursore e modello di un principe settecentesco. Essa infatti viene composta per l’incoronazione a re di Boemia nel 1791 di Pietro Leopoldo di Toscana, che come granduca cinque anni prima era stato il primo sovrano europeo ad abolire il delitto di lesa maestà, la tortura e l’esecuzione capitale.
La munificenza di Tito come imperatore si manifesta soprattutto in occasione delle spaventose sciagure che funestano il suo regno. Al 24 agosto del 79 risale l’eruzione del Vesuvio che cancella vari centri della Campania, tra cui Pompei, Stabia ed Ercolano. Tito accorre subito sui luoghi del disastro e, in gran parte con il suo patrimonio, provvede agli interventi necessari. L’anno successivo un furioso incendio divampa a Roma, e nonostante le offerte di privati e persino di principi stranieri, l’imperatore si assume in prima persona l’intera spesa della ricostruzione. Come se non bastasse, alla fine dello stesso 80, un’epidemia colpisce Roma e Tito s’impegna personalmente nell’opera di soccorso e nella pratica dei riti espiatori. Sempre nell’80, comunque, viene inaugurato il Colosseo con feste e spettacoli in gran numero: anche in questa occasione l’imperatore mostra la sua generosità, certo con maggior gioia che nelle altre.
La presentazione del regno di Tito da parte dagli autori antichi come un regno in cui i sudditi non sono vessati e godono di una certa felicità, è stata a volte posta in discussione, ma mai in modo radicale. Qualcuno, ad esempio, ha pensato che la definizione dell’imperatore data da Svetonio di “amore e delizia del genere umano” sia stata dettata soprattutto dal confronto con il quindicennio di potere dispotico del suo successore, il fratello Domiziano. Senza alcuna pretesa di risolvere la questione, qui si può concludere rimandando alla "saggia" riflessione del senatore greco Cassio Dione – autore della più completa storia di Roma mai scritta nell’antichità, a noi giunta solo in parte – secondo il quale la fama che Tito si guadagna come imperatore va con molta probabilità attribuita al fatto che egli siede sul trono solo per poco più di due anni fino alla sua morte nel settembre dell’81, e perciò non ha molto tempo a disposizione per compiere azioni malvagie e disdicevoli.
Diversamente dal fratello Tito, a cui succede senza problemi di sorta, Domiziano non ha avuto dalla maggior parte delle fonti un trattamento positivo: insieme a Nerone si può anzi dire che sia stato l’imperatore più vituperato.
Autori latini come i senatori Tacito e Plinio il Giovane, attivi nel corso del suo regno, esprimono su di lui un punto di vista fortemente ostile; mentre il retore greco Dione di Prusa non esita a considerarlo un tiranno. Anche il biografo Svetonio non è tenero nei confronti di Domiziano, eppure attraverso alcune notizie che fornisce nel suo testo, che trovano riscontro in iscrizioni e monete, consente di ricostruirne un profilo in cui la cura per l’amministrazione civile e per l’apparato militare assumono il meritato rilievo.
Svetonio
La giustizia di Domiziano
De vita Cesarum
Nella Vita di Domiziano composta da Svetonio, al capitolo 8, sono riportati alcuni degli interventi più significativi del principe in campo giudiziario, che ne mettono in mostra l’attenzione per la morale pubblica e l’amministrazione dell’impero e contribuiscono a offrirne un profilo meno centrato del solito sugli aspetti dispotici del suo governo.
Rese giustizia con diligenza e con zelo, spesso anche nel foro, dall’alto del suo tribunale, a titolo straordinario: annullò le sentenze non imparziali dei centumviri; ammonì incessantemente i ricuperatori di non prestarsi a rivendicazioni ingiustificate; i giudici che si erano lasciati corrompere furono bollati d’infamia insieme con i loro assistenti. Ordinò anche ai tribunali della plebe di accusare di concussione un edile troppo avaro e di richiedere al senato il suo rinvio a giudizio. Inoltre ci mise tanto zelo nel frenare la condotta dei magistrati urbani e dei governatori di provincia che essi non si mostrarono mai più giusti e disinteressati, mentre noi ne abbiamo visto un gran numero dopo di lui, accusati di ogni crimine. Impegnatosi a riformare i costumi, non tollerò che uno spettatore qualsiasi prendesse posto a teatro in mezzo ai cavalieri; fece distruggere gli opuscoli diffamatori nei confronti degli uomini e delle donne più in vista, che si diffondevano fra il pubblico, e ciò non senza biasimo per i loro autori; escluse dal senato un anziano questore a causa della sua passione per la pantomima e per la danza; tolse alle donne di facili costumi il diritto di andare in lettiga e di ricevere lasciti o eredità; un cavaliere romano che aveva sposato di nuovo una donna già da lui ripudiata e poi accusata di adulterio, fu radiato dalla lista dei giudici; condannò alcuni membri dei due ordini in forza della legge Scantinia; quanto alle sregolatezze sacrileghe delle vestali, sulle quali avevano sorvolato anche suo padre e suo fratello, le punì con severità, in modi differenti, inizialmente con la pena capitale, in seguito secondo il costume antico. Permise infatti sia alle sorelle Oculate, sia a Veronilla di scegliersi il supplizio e mandò in esilio i loro seduttori, ma, più tardi quando la grande vestale Cornelia, già una volta assolta, fu, dopo un lungo intervallo, nuovamente accusata e riconosciuta colpevole, ordinò di sotterrarla viva e di flagellare a morte i suoi complici nel luogo degli incontri, ad eccezione di un anziano pretore che condannò soltanto all’esilio, in quanto aveva confessato il suo crimine mentre l’affare era ancora poco chiaro e le inchieste e le torture non permettevano di concluderlo. E per non lasciare impunita nessuna profanazione del culto degli dèi, quando uno dei suoi liberti innalzò una tomba a suo figlio con pietre destinate al tempio di Giove Capitolino, la fece demolire dai soldati e diede ordine di gettare in mare le ossa e i resti che conteneva.
Svetonio, Vite dei Cesari, trad. it. E. Noseda, Milano, Garzanti , 2004
I poeti Marziale e Stazio, d’altronde, estranei al coro delle voci contrarie e per questo solitamente definiti adulatori di Domiziano, lasciano intravedere una vita culturale e artistica nel corso del suo regno per nulla da disprezzare.
Grandi sono lo scrupolo e la diligenza, per usare le parole di Svetonio, con cui il principe, nonostante le défaillances della sua vita privata (basti pensare alla sua discussa convivenza con la nipote Giulia figlia di Tito), si applica al controllo della morale pubblica, in specie di quella sessuale: tra l’altro punisce severamente le vergini vestali che infrangono il voto di castità; combatte la prostituzione; impone il divieto dell’evirazione. Nel campo più specificamente amministrativo, invece, Domiziano, ampliando le competenze dell’ordine equestre secondo una tendenza in atto già da tempo, affida a suoi rappresentanti anziché a liberti, com’era stato in precedenza, la direzione di uffici del Palazzo come quelli dell’ab epistulis e dall’a rationibus, e in tal modo ne favorisce la conduzione secondo criteri burocratici piuttosto che privatistici. Nel settore giudiziario è in special modo favorevole a perseguire gli abusi dei magistrati cittadini e dei governatori provinciali ottenendo significativi successi, almeno a parere ancora una volta di Svetonio, accompagnati dall’approvazione dei sudditi. Attenzione per le condizioni di vita di questi ultimi è poi testimoniata da un provvedimento di Domiziano rivolto a vietare l’impianto di nuovi vigneti in Italia e a ordinare la distruzione di metà di quelli esistenti nelle province. Per lo più ritenuto dai moderni come destinato a favorire gli interessi dei viticultori italiani, l’intervento del principe, sulla base di quanto si ricava dalle fonti antiche, appare piuttosto discendere dalla sua volontà di individuare un rimedio alle difficoltà causate dalle annate di carestia che all’inizio degli anni Novanta creano gravi problemi in Asia Minore. Assumendo un’ottica moralistica, e non dettata da ragionamenti economici, Domiziano pensa che impedire l’espansione dei vigneti nella penisola e mettere a disposizione nuovi terreni per la coltura dei cereali nelle province possa rappresentare la soluzione; la sua decisione ha comunque una brevissima durata.
L’accortezza di Domiziano come amministratore si manifesta anche nella cura per gli aspetti finanziari e nell’attenta sorveglianza delle casse dello stato, che gli consentono di mettere in atto una misura molto impegnativa, l’aumento cioè di un terzo della paga dei soldati, il primo dall’inizio del principato. Il principe si conquista così il favore dei militari, ma non bisogna dimenticare che ad esso contribuisce anche il suo impegno personale nella conduzione di alcune campagne belliche. All’83 risale quella vittoriosa contro i Chatti, una popolazione germanica residente sulla riva destra del Reno, che si conclude nell’85 e viene seguita dalla realizzazione di quella poderosa struttura che è il primo limes germanico. Esso consiste di una rete di forti affidati a truppe ausiliarie, di strade, di palizzate, collocati dinanzi agli accampamenti delle legioni e destinati a consolidare la linea di confine. A questa sistemazione può essere collegata la nascita, non oltre il 90, della Germania Superiore e della Germania Inferiore in quanto regolari province.
Sempre nell’85 diviene zona di operazioni l’area danubiana, dove i Daci invadono la provincia di Mesia sconfiggendo e uccidendo il governatore Oppio Sabino. Domiziano è presente nella regione nell’85 e nell’86, ma perché la situazione sia a pieno ristabilita a favore dei Romani si deve attendere la vittoria di Tettio Giuliano, governatore della Mesia Superiore, che nell’88 sconfigge il re dei Daci Decebalo a Tapae in Transilvania. Da questa vittoria però non si può trarre alcun vantaggio, a causa della ribellione delle popolazioni germaniche dei Marcomanni e dei Quadi, stanziate a ridosso della Pannonia, che richiede l’intervento di Domiziano, e che obbliga ad una pace affrettata con il re dei Daci – etichettata come vergognosa dalle voci critiche del principe – che contempla la corresponsione di grosse somme di denaro allo straniero, il quale a sua volta s’impegna a entrare nella sfera d’influenza romana senza assumere posizioni ostili.
Qualche anno dopo nel 92 una legione viene annientata in Pannonia dalla popolazione sarmatica degli Iazigi, che vengono comunque sconfitti personalmente dal principe e ricacciati oltre il confine. In tutt’altra area, in quella Britannia cioè, conquistata da Claudio, che non è mai stata facile da governare per Roma, Gneo Giulio Agricola – per il quale il genero Tacito avrebbe composto un elogio di grande profondità storica – prosegue nell’espansione verso nord e nella riorganizzazione della provincia, sino a quando dopo sette anni in carica come legato non viene richiamato a Roma dal principe nell’84.
Molto attento dunque alle questioni amministrative e a pieno cosciente dell’importanza rivestita dalla saldezza dei confini dell’impero, Domiziano non è invece in grado di stabilire un rapporto fondato sulle ragioni della politica con i rappresentanti dell’ordine senatorio. Anziché mostrare nei loro confronti – come avevano fatto il padre e ancor più il fratello – quel rispetto formale indispensabile per superare attriti e contrapposizioni, egli non sa o non vuole camuffare la sua visione autocratica del potere imperiale. Essa si manifesta in vari modi: dall’assunzione per ben dieci volte del consolato da parte sua durante gli anni di regno, all’esplicita pretesa dell’appellativo dominus et deus, all’uso di indossare gli abiti trionfali in senato e soprattutto all’autonomina a censor perpetuus nell’85, attraverso cui il principe rende evidente la sua volontà di controllo permanente del supremo consesso. A ciò si aggiunga la reazione durissima alla ribellione del legato della Germania Superiore Lucio Antonio Saturnino nell’89: lo stesso Domiziano si muove per reprimerla, ma essa lo rende ancora più sospettoso che nel passato di insidie e tradimenti. Almeno dodici ex consoli vengono eliminati nel corso del suo regno; nel 93 in particolare sono tra le vittime i senatori Elvidio Prisco junior, figlio dell’Elvidio Prisco mandato a morte da Vespasiano, Aruleno Rustico ed Erennio Senecione, tutti e tre appartenenti alla setta filosofica stoica, condannati per lesa maestà o partecipazione a congiure. Nel 95 è invece la volta di Flavio Clemente, cugino di Domiziano e padre dei due successori designati del principe: l’accusa che gli viene rivolta è quella di atheotes, cioè di empietà (verso la religione dello stato), che ha fatto supporre una sua vicinanza addirittura al cristianesimo, ma su ciò non vi è alcuna certezza. La morte coglie Domiziano il 18 settembre del 96: egli viene ucciso in modo prevedibile in seguito a una congiura a cui aderiscono alcuni senatori, i prefetti del pretorio, funzionari degli uffici del Palazzo, e molto probabilmente anche sua moglie Domizia Longina. Gli succede un anziano e navigato senatore di rango consolare, discendente da una famiglia originaria dell’Umbria, Cocceio Nerva, scelto dai congiurati di comune accordo. Si concludono così i 27 anni di governo di una dinastia non originaria della città di Roma, che in specie con Domiziano mostra per le province, per la loro amministrazione e per la loro rilevanza strategica un’attenzione non trascurabile.