I fondamenti geometrici della progettazione
La geometria e il progetto
Il progettista di un edificio, come anche del prodotto industriale, si avvale della geometria come principale strumento di controllo della forma progettata. Le scienze geometriche, infatti, identificano le forme a tre dimensioni, le cosiddette figure geometriche, ne studiano le proprietà e le classificano, consentendone la misurazione e l’esatta riproduzione per mezzo di algoritmi o procedure di costruzione. Queste figure, composte insieme, formano l’involucro dei corpi che sono oggetto della progettazione.
Il progettista, tuttavia, ha anche un’altra fondamentale esigenza: egli deve vedere l’oggetto che studia prima che sia realizzato, e deve poter operare su tale oggetto virtuale come se operasse su un suo modello fisico. Sotto questo punto di vista, meramente geometrico e perciò specialistico e riduttivo, il progetto appare come un processo ciclico nel quale, al momento della prima ideazione, segue una costruzione simulata attraverso il disegno, in grado di permettere la visualizzazione e la misurazione dell’opera. Il processo è ciclico in quanto alla prima verifica, metrica e visuale, dell’idea progettuale seguono modifiche e ulteriori verifiche, che convergono tutte verso una formulazione definitiva.
Le prestazioni della geometria applicata al progetto possono dunque riassumersi nella visualizzazione della forma, nella misurazione e nella costruzione, senza che a questo ordine si debba attribuire un valore gerarchico, dal momento che le tre fasi si susseguono assecondando il modus operandi del progettista.
La geometria, così finalizzata alle esigenze del progetto, è da considerarsi quella che, raccogliendo un’esperienza millenaria, è stata codificata da Gaspard Monge e ha da lui ricevuto il nome di geometria descrittiva (in Leçons données aux Écoles Normales, 1794), e come tale è nota a tutt’oggi. Questa scienza raccoglie i metodi necessari alla visualizzazione e alla misurazione, nonché le teorie e le procedure necessarie alla costruzione della forma ideata.
La geometria descrittiva ha poi un’altra funzione, che non ha l’evidenza di quelle già enunciate, ma non per questo è meno importante: essa infatti sollecita l’invenzione. Lo stesso Monge riconosce che questa scienza è un mezzo di ricerca della verità e offre continui esempi del passaggio dal noto all’ignoto. Si noti che il flusso cui allude Monge è inverso rispetto a quello della costruzione geometrica. Quando si costruisce, si sposta un’idea dal mondo rarefatto dell’intuizione nel quale si trova, che è ignoto quanto meno nei particolari, al mondo solido e razionale della rappresentazione, e dunque si compie un passaggio dall’ignoto al noto. Ma proprio perché questo passaggio palesa aspetti che l’intuizione non può chiarire, inevitabilmente sollecita altre intuizioni, disvela proprietà nascoste, e perciò traccia un percorso che porta a nuove domande e a nuove scoperte: dal noto all’ignoto, appunto. La storia della scienza ha registrato molti momenti nei quali queste potenzialità della geometria descrittiva hanno trovato compiuta espressione, come nel caso della scoperta delle sezioni circolari, che si ottengono tagliando il toro con i piani bitangenti: Yvon Villarceau, nel 1848, intuì questo risultato eseguendo un disegno (v. G. Loria, Storia della geometria descrittiva dalle origini sino ai giorni nostri, 1921, p. 251). Ma l’esempio più convincente e attuale è proprio l’attività progettuale, nella quale la ricerca di una soluzione, non solo formale, avviene attraverso le suggestioni e le seduzioni esercitate dal disegno. Ciò spiega anche il carattere fortemente formale e a volte squisitamente artistico che assumono i disegni di progetto di molti architetti e designer contemporanei.
Bisogna infine ricordare che la geometria descrittiva, mentre da un lato è lo strumento principe del progettista, perché gli permette di costruire, visualizzare, misurare e inventare le forme a tre dimensioni, dall’altro ha dignità di scienza autonoma, poiché possiede metodi suoi propri, capaci di evidenziare le proprietà delle figure, non ultime quelle di carattere meramente estetico, che altrimenti rimarrebbero a uno stato larvale. Questi metodi si possono dividere in due classi: la classe dei metodi di rappresentazione e la classe delle procedure di costruzione delle figure geometriche. La prima comprende le teorie che servono a costruire le immagini delle forme e a utilizzare queste immagini per operazioni di misurazione; la seconda racchiude le teorie che permettono di realizzare le forme studiate, nel mondo immaginario della rappresentazione come in quello reale della produzione edilizia oppure industriale.
La rivoluzione informatica e la geometria descrittiva
Le considerazioni che precedono sono indispensabili per capire il mutamento che è avvenuto, nel corso degli ultimi vent’anni, nella scienza della rappresentazione e, conseguentemente, nelle tecniche di elaborazione del progetto.
Com’è noto, nell’ultima parte dello scorso secolo sono stati sviluppati sistemi informatici capaci di automatizzare alcuni compiti che fino ad allora erano stati affidati alla geometria descrittiva, in particolare la visualizzazione e la misurazione. Negli anni Ottanta, infatti, i sistemi che già operavano nell’ambito del disegno bidimensionale, sostituendo gli ausili tecnici di tipo meccanico, sono stati dotati della capacità di operare in uno spazio tridimensionale e, con il trascorre del tempo, sono stati arricchiti di ulteriori funzionalità, sempre più potenti. Si è passati in questo modo dalla gestione di semplici strutture lineari (wire frame) alle rappresentazione per superfici chiaroscurate e infine ai solidi, dei quali si può rappresentare non solo l’involucro, ma anche la distinzione tra interno ed esterno, le caratteristiche fisiche di peso specifico e di massa, e molte altre informazioni.
Dunque, due dei compiti che nell’attività progettuale erano affidati esclusivamente alla geometria descrittiva (e precisamente la visualizzazione e la misurazione), sono oggi egregiamente assolti dai sistemi informatici. Si comprende, perciò, come questo progresso tecnologico abbia causato un radicale mutamento nelle tecniche di progettazione e nella scienza che dà loro il necessario sostegno teorico.
Nell’ambito del progetto, questo mutamento riguarda innanzitutto la produzione degli elaborati tecnici e di quelli destinati alla prima comunicazione. Questi elaborati possono oggi essere prodotti dalle macchine in modo semiautomatico, cioè con un intervento del progettista che non concerne la costruzione geometrica del disegno ma solo l’impostazione della veduta. Ciò è possibile, ovviamente, solo a condizione che sia stato generato, nello spazio virtuale della rappresentazione informatica, il modello tridimensionale della forma progettata. Ma questa capacità delle macchine è già sufficiente per mettere in crisi, almeno in parte, l’antica scienza di cui ci stiamo occupando, che vede ridotta l’importanza di quell’ampia parte del corpus disciplinare che è dedicata alla mera costruzione dell’immagine dell’oggetto progettato. Si noti, ancora, come la produzione semiautomatica delle proiezioni (e perciò dei disegni di progetto), a partire dal modello virtuale a tre dimensioni, comporti un’inversione del flusso di lavoro rispetto al passato: laddove il modello fisico in tre dimensioni, realizzato in legno, gesso o con altre tecniche, era un tempo desunto dai disegni di progetto, oggi sono questi disegni a essere desunti dal modello. Anche se questo modo di procedere è ancora in fase sperimentale, non vi sono dubbi sul suo consolidamento nella prassi progettuale, perché non solo è più veloce, ma è esente dalle incoerenze che facilmente si registrano in un progetto tradizionale, ove molti disegni possono rappresentare in vari contesti il medesimo particolare. Nel pragmatico ambiente professionale statunitense si è fatto anche notare come questa evoluzione tecnologica possa eliminare il contenzioso che spesso investe alcuni nodi della filiera della costruzione civile. Si può anzi dire che il progetto del prodotto industriale è già prossimo a questo risultato, essendo numerosi gli esempi di oggetti anche complessi, come le automobili, che sono stati realizzati e persino collaudati facendo ricorso esclusivo alle rappresentazioni digitali, eliminando del tutto i disegni bidimensionali. I progettisti e le maestranze che realizzano opere di architettura o di ingegneria civile, invece, si servono ancora del supporto cartaceo, ma sempre più spesso deducono gli elaborati di base dal modello tridimensionale e, in ogni caso, li sviluppano in un ambiente di lavoro digitale. Infine, tra le innovazioni tecnologiche che riguardano tanto la geometria quanto il progetto, non si può trascurare la possibilità di ricavare modelli fisici tridimensionali direttamente dal modello virtuale mediante speciali dispositivi di stampa in tre dimensioni (rapid prototyping). Tali dispositivi sono in grado di produrre modelli, ma anche, compatibilmente con le dimensioni reali, prototipi funzionanti.
Contestualmente, il profondo mutamento cui abbiamo fatto cenno riguarda gli strumenti che assicurano il controllo metrico della forma, e perciò servono alla sua costruzione. Questi strumenti sono oggi molto più efficienti e accurati di quanto non fossero in passato e, di conseguenza, l’invenzione si esprime più liberamente, come si può constatare non soltanto nei più recenti edifici, ma anche negli oggetti del design. Per secoli, gli architetti si sono serviti di forme che possono essere facilmente descritte nello spazio imponendo vincoli al movimento di un punto o di una linea: i cosiddetti luoghi geometrici. Questi luoghi si prestano a realizzare figure semplici come la sfera, il cilindro, le superfici rigate, figure che nascono dal movimento del cerchio o della retta. Oggi, invece, grazie alla nuova geometria digitale, i progettisti possono controllare superfici di interpolazione varie e complesse, come, per es., quelle delle carlinghe e delle ali degli aeromobili; o anche forme scultoree che si muovono e si articolano nello spazio senza seguire una legge evidente, come avviene in certe note opere di architettura contemporanea. In particolare, se nella geometria descrittiva tradizionale le superfici sono descritte dal movimento rigido di una linea generatrice sopra un’altra linea direttrice, nella geometria descrittiva attuale, invece, la forma della generatrice può variare durante il movimento di quest’ultima lungo la direttrice, e la variazione risulta dall’interpolazione di forme intermedie. Lo scafo di un’imbarcazione è un esempio di questa genesi: il fasciame si appoggia a una schiera di centine che riveste e raccorda, delineando la forma dell’imbarcazione. Mentre un tempo queste linee, note come linee grafiche proprio per distinguerle dai luoghi geometrici, non potevano essere riprodotte né misurate con esattezza, oggi possono essere rappresentate per mezzo di equazioni parametriche che vengono controllate, nel sistema informatico, in modalità grafica interattiva. Si attribuisce, in questo modo, un carattere di riproducibilità e razionalità matematica anche al gesto più libero e immediato dell’artista architetto.
Il processo di rinnovamento della rappresentazione geometrica
La geometria descrittiva ha un rapporto storicamente consolidato con l’arte e con la costruzione in generale, e dunque non poteva non risentire profondamente dell’evoluzione tecnologica cui abbiamo fatto cenno. Il corpus disciplinare classico, fondato in primo luogo sui metodi di rappresentazione, intesi come teorie della costruzione dell’immagine codificata, è parso del tutto inadeguato al confronto con la prassi progettuale contemporanea e, quel che è peggio, è parso estraneo alle nuove tecniche di rappresentazione dello spazio, mentre queste ultime, al contempo, sembravano non possedere una teoria fondamentale di carattere generale, ma solo gli algoritmi che permettono di risolvere questo o quel problema particolare.
Negli ambienti accademici, gli architetti che, per alterne vicende storiche, sono oggi i depositari della disciplina geometrico-descrittiva, hanno colto infine l’istanza di rinnovamento che proveniva soprattutto dai giovani, posti a confronto, da un lato, con una teoria che sembrava non avere più applicazioni e, dall’altro, con una tecnica incomprensibile, proprio perché priva dei concetti generali di una teoria. Oggi è finalmente in atto un processo di revisione e rinnovamento della geometria descrittiva classica, che si basa su nuove definizioni dei fondamenti e si realizza in integrazioni e trasformazioni del corpus disciplinare.
Le integrazioni riguardano, essenzialmente, i metodi di rappresentazione, mentre le trasformazioni sono relative soprattutto alle procedure di costruzione delle figure geometriche.
I metodi di rappresentazione, in generale, si distinguono l’uno dall’altro per due ragioni essenziali. La prima, e la più importante, è che ciascuno di essi è capace di registrare le caratteristiche di forma e dimensione di un oggetto nello spazio e, al tempo stesso, è capace di restituire allo spazio il medesimo oggetto una volta che sia rappresentato; un metodo, per essere tale, deve poter compiere questo percorso in entrambi i sensi e autonomamente, cioè senza far ricorso ad altri metodi. La seconda ragione è relativa all’uso di ciascun metodo nell’ambito dell’attività progettuale: il controllo metrico, come nel caso della rappresentazione in pianta e prospetto, o il controllo formale e percettivo, come nel caso della prospettiva.
I sistemi informatici si avvalgono, sostanzialmente, di due metodi di rappresentazione digitale che sono la rappresentazione matematica e la rappresentazione numerica o poligonale.
La rappresentazione matematica può utilizzare tanto le equazioni classiche della geometria analitica (quando descrive i luoghi geometrici), quanto le equazioni parametriche dette NURBS (Non Uniform Rational B-Splines), quando descrive linee grafiche e superfici di forma libera. Le NURBS generano la forma al variare di due parametri u e v, e possono rappresentare linee grafiche e superfici di forma libera, come anche luoghi geometrici. La rappresentazione matematica è continua e capace, perciò, di definire esattamente le figure geometriche in ogni punto dello spazio. La più semplice e comune tra le operazioni tipiche del lavoro del progettista, vale a dire la sezione dell’oggetto rappresentato, mette facilmente in evidenza il più importante carattere di questa descrizione: il risultato della sezione di una superficie è, infatti, una linea ovunque definita, che eredita la continuità dalla superficie cui appartiene. La misura della lunghezza di questa linea è, a sua volta, esatta per quanto l’accuratezza del sistema consente.
La rappresentazione numerica o poligonale, invece, descrive i corpi e le superfici che li delimitano per mezzo di facce piane triangolari o poligonali, che formano, di fatto, un poliedro irregolare. La descrizione consiste in alcune liste che raccolgono: le coordinate dei punti che costituiscono i vertici del poliedro; i vertici che individuano le facce triangolari; i vertici che individuano le facce poligonali. La lista delle coordinate identifica i vertici con un indice e ne riporta le coordinate cartesiane rispetto al sistema di riferimento locale, cioè relativo al poliedro considerato. Le liste dei poligoni e degli n-angoli assegnano un indice a ogni poligono e individuano i punti che ne fanno parte, usando l’indice che contraddistingue ciascuno di essi. È evidente che, quanto maggiore sarà il numero delle facce (dette anche, impropriamente, poligoni), tanto più la forma rappresentata sarà capace di approssimare la realtà. Tuttavia, la medesima operazione di sezione, che abbiamo sopra ricordata, produce, in questo caso, una linea spezzata, che è definita esattamente solo nei vertici, e una misura della lunghezza la cui fedeltà è proporzionale al numero dei lati della spezzata. In sintesi: la rappresentazione numerica è discreta e non continua, approssimata e non esatta, come è invece la rappresentazione matematica.
Si noti che entrambe le suddette rappresentazioni sono in grado di registrare la forma di un oggetto e di restituire il medesimo allo spazio, sia pure con modalità diverse e diverse potenzialità applicative. Si tenga presente anche che i programmi per il disegno digitale (o per meglio dire i programmi dedicati alla modellazione, dal momento che si tratta di forme a tre dimensioni) utilizzano sempre entrambi questi metodi di rappresentazione, sia pure in misura diversa e con diverse finalità. In particolare, la rappresentazione matematica è utilizzata laddove è indispensabile un accurato controllo metrico, mentre la rappresentazione numerica o poligonale è utilizzata laddove è utile un controllo percettivo.
Ai quattro metodi di rappresentazione tradizionali della disciplina – la prospettiva, la rappresentazione in pianta e alzato, l’assonometria, la proiezione quotata – si aggiungono, dunque, la rappresentazione matematica e quella numerica o poligonale.
In questa prima distinzione teorica, questi due metodi di rappresentazione digitale non differiscono dalle tecniche grafiche già note: il tracciamento continuo di una curva (come si ottiene, per es., con il compasso) e la costruzione per punti (ottenuta attraverso l’intersezione di fasci proiettivi). Per questa ragione una parte della comunità scientifica ritiene che i modi della rappresentazione informatica siano tecniche e non metodi veri e propri. Tuttavia, dato che i due sistemi si fondano ognuno su un proprio apparato di principi teorici, e non di regole empiriche, sembra opportuno considerarli, a tutti gli effetti, metodi nuovi della geometria descrittiva.
Un’altra obiezione riguarda il fatto che, mentre i metodi classici si distinguono facilmente per il genere di immagine che producono (la pianta, il prospetto, la prospettiva), i nuovi metodi sono entrambi in grado di produrre, in tempo reale, qualsiasi tipo di immagine il progettista desideri. Tuttavia, come abbiamo già detto, il carattere distintivo del metodo di rappresentazione è l’uso che se ne fa, e sotto questo punto di vista non vi è alcun dubbio che i metodi suddetti abbiano campi di applicazione distinti, che non dipendono dall’immagine che producono, bensì dalle caratteristiche funzionali del metodo.
Infine, un’ultima perplessità riguarda la genesi delle immagini utilizzate da ciascun metodo; in quelli classici, l’immagine viene generata per mezzo di una operazione di proiezione e sezione la quale non è altro che ‘l’intersecazione della piramide visiva’, già teorizzata da Leon Battista Alberti (De pictura, 1435). In modo apparentemente assai diverso, i programmi che consentono di disegnare nello spazio generano l’immagine bidimensionale che compare sullo schermo semplicemente annullando la profondità dell’oggetto a tre dimensioni, ovvero ponendo eguali a zero le coordinate z dei vertici dello stesso rispetto a un sistema di riferimento che ha gli assi x e y paralleli allo schermo. In realtà, la sezione piana della stella di rette e di piani che proiettano le figure geometriche sul piano, dando luogo all’immagine utilizzata nel metodo, non è altro che un caso particolare del processo impiegato nella rappresentazione digitale. Ci si rende facilmente conto di ciò se si generalizza il concetto di proiezione, usando come supporto lo spazio, anziché il piano. Questa concezione ampliata non è affatto nuova, essendo già stata riconosciuta come visione generale dei metodi di rappresentazione da Wilhelm Fiedler (Die darstellende Geometrie, 1871; trad. it. 1874), il quale riteneva che ogni grafico fosse una specializzazione della prospettiva solida. Si riconosce così una teoria della genesi dell’immagine comune a tutti i metodi della geometria descrittiva, siano essi grafici o digitali.
Ambiguità e ibridazioni dei nuovi metodi di rappresentazione
Come abbiamo detto, ciò che distingue i metodi di rappresentazione matematica e numerica nella geometria descrittiva è il carattere continuo oppure discreto della rappresentazione. Tale distinzione è tanto più fondamentale, quanto più i suddetti metodi sono soggetti ad ambiguità e ibridazioni.
Una prima ambiguità nasce dal fatto che i programmi per la modellazione digitale delle forme tridimensionali non utilizzano esclusivamente l’uno o l’altro dei suddetti metodi, ma sempre entrambi, sia pure in diversa misura. Infatti, la rappresentazione numerica è la sola che possa essere gestita dall’hard-ware (cioè dalla CPU, Central Processing Unit) per produrre la visualizzazione dell’oggetto; perciò anche i programmi che impiegano la rappresentazione matematica debbono costruire un modello numerico discreto sovrapposto a quello matematico e continuo, soltanto per generare l’immagine. Per contro, i programmi che impiegano la rappresentazione numerica si servono di funzioni matematiche, e in particolare delle NURBS, per generare rapidamente forme continue che saranno poi convertite in poliedri da sottoporre a ulteriori operazioni di modellazione.
È evidente, perciò, che queste rappresentazioni debbono essere frequentemente convertite le une nelle altre. Il processo che converte una forma continua in una discreta, e che riveste il modello matematico con un modello poligonale, è noto come tassellazione, e trova applicazione non solo nella tecnica informatica, ma anche nel progetto, quando una superficie liberamente modellata debba essere realizzata per mezzo di una struttura reticolare. Il processo inverso, che consiste nel convertire il modello poligonale discreto in un modello matematico continuo, è invece noto come reverse engineering o, con espressione più appropriata, reverse modeling (Gaiani 2001), e trova applicazione sia nella progettazione del prodotto industriale sia nel rilievo di architettura. È bene osservare che, mentre nel primo passaggio (dal continuo al discreto) si ha una perdita di informazioni, nel secondo (dal discreto al continuo) l’informazione dev’essere di necessità integrata, e dunque il passaggio richiede un atto interpretativo che può introdurre variabili arbitrarie. Se, per es., si vuole sostituire al rilievo poligonale dell’intradosso di una cupola la superficie matematica che meglio approssima il dato sperimentale, si dovrà interpolare il modello numerico con la forma di un luogo geometrico (per es., una sfera) o una superficie di rivoluzione, introducendo così un’interpretazione dell’idea progettuale del manufatto studiato, la cui affidabilità non può essere valutata con gli strumenti della matematica, ma con quelli della filologia e della storia. Non avrebbe senso, invece, interpolare i dati sperimentali con superfici di forma libera, come quelle utilizzate nel disegno industriale, perché questa operazione non porterebbe ad alcun progresso nella conoscenza del manufatto.
Queste ibridazioni dei modelli non sono, peraltro, una novità: la storia del disegno di progetto ricorda molti esempi illustri di ibridazione tra i metodi grafici, per es. piante dalle quali scaturisce una prospettiva, assonometrie associate a prospetti e così via. Grazie alle tecniche di scansione digitale dei disegni bidimensionali, sono inoltre possibili rappresentazioni matematiche che nascono da rappresentazioni in pianta e alzato e, più in generale, modelli che uniscono l’espressività del disegno tradizionale all’esattezza della rappresentazione digitale. Gli ibridi, infine, sono tanto comuni nella descrizione della forma proprio perché compongono metodi con vocazioni diverse, e per questo motivo descrivono, in un unico modello o con un’unica immagine, caratteri metrici e percettivi, qualità distributive ed estetiche, attingendo a effetti di grande espressività.
Infine, è bene chiarire un’ultima ambiguità, benché banale: può disorientare il fatto che una superficie curva appaia ombreggiata e senza soluzioni di continuità tanto nella rappresentazione matematica, quanto in quella poligonale, dove dovrebbero vedersi le facce del poliedro. Ciò accade perché un algoritmo, dovuto a Bui Tong Phong (Illumination for computer generated picture, «Communications of the ACM», 1975, 6, pp. 311-17), provvede a interpolare il grado d’intensità luminosa dei piani che formano le facce del poliedro, per cui questi ultimi, anziché presentare una tinta piatta, ne presentano una sfumata, che nasconde alla vista gli spigoli tra l’uno e l’altro.
I metodi di rappresentazione tradizionali hanno mostrato, nei lunghi tempi della loro codificazione, una notevole stabilità, nel senso che ogni tentativo di aggiungerne di nuovi si è rivelato del tutto sterile, perché quelli attualmente noti esauriscono il novero delle possibilità di una rappresentazione piana che sia anche di lettura immediata. Sarà così anche per i metodi di rappresentazione digitale, di recentissima introduzione? Naturalmente non è possibile dare a questa domanda una risposta scientificamente fondata, ma è possibile vedere nelle superfici di suddivisione (subdivision surfaces) un’evoluzione della rappresentazione numerica verso la rappresentazione matematica. Queste superfici si ottengono per mezzo di algoritmi che dividono la faccia del poliedro in parti più piccole, secondo diversi criteri. Ripetendo la suddivisione un numero finito di volte, si ottiene una superficie che è ancora descritta numericamente, ma approssima meglio la superficie continua. Nel passaggio al limite (teorico), il processo di suddivisione si ripete ricorsivamente un numero infinito di volte, e dà luogo allora a una superficie definita matematicamente. Allo stato attuale esistono due applicazioni di questa tecnica di suddivisione che agiscono, rispettivamente, sulla rappresentazione numerica vera e propria, perciò sul poliedro che ha per vertici i punti di coordinate note, e sulla rappresentazione matematica, quindi sulla rete di nodi (control points) che ha il controllo delle superfici NURBS. Di conseguenza, la distinzione tra i metodi di rappresentazione digitale risulta ancora, e in ogni caso, ben definita.
Caratteri della nuova geometria descrittiva
I metodi di rappresentazione informatica possiedono altre due caratteristiche profondamente innovative, che hanno ricadute notevoli sulla progettazione come sull’evoluzione teorica della geometria descrittiva: l’accuratezza e la spazialità.
L’accuratezza è la capacità del metodo di descrivere la misura. Com’è noto, ogni misura contiene un errore e l’accuratezza esprime il massimo scostamento che è lecito aspettarsi tra la grandezza misurata e quella reale. Un disegno tecnico convenzionale ha un’accuratezza che corrisponde allo spessore del segno lasciato da una penna di precisione, cioè circa due decimi di millimetro; una rappresentazione matematica di buona qualità possiede un’accuratezza di qualche micron, cioè di qualche millesimo di millimetro. La rappresentazione matematica è, dunque, circa cento volte più accurata di un disegno tecnico convenzionale. Ciò comporta alcune conseguenze notevoli nel progetto: in primo luogo, nella larga maggioranza dei casi, non è più necessario quotare il disegno, cioè indicare le misure in cifre, se non per l’immediatezza della lettura, dato che la misura rilevata sul modello, o sul disegno digitale che ne deriva, è esatta. Infatti, l’errore, comunque contenuto nella misura, non viene considerato, perché è trascurabile. Nel progetto di un edificio, per es., le misure non superano mai la precisione del millimetro, e ciò a fronte di un’accuratezza che, come abbiamo detto, può raggiungere un valore assai più piccolo. In secondo luogo, le misure non sono soggette ad alterazioni, come invece accade nel disegno su supporti, come la carta, che possono alterarsi al variare delle condizioni ambientali. Infatti il dato metrico della rappresentazione è custodito in forma digitale, anche se appare in forma grafica.
La spazialità è la capacità della rappresentazione di simulare lo spazio e consentire così al progettista di operare sulle forme tridimensionali come potrebbe farlo su un loro modello fisico. Le rappresentazioni convenzionali ottengono questo risultato attraverso l’applicazione di un codice geometrico che impiega sempre almeno due proiezioni associate o sovrapposte; in tal modo il supporto del disegno, che è bidimensionale, può registrare le tre dimensioni dello spazio. Le rappresentazioni informatiche, invece, descrivono lo spazio registrando direttamente le sue tre dimensioni in forma digitale, e traducono automaticamente questo modello immateriale in un flusso di immagini che possono variare in tempo reale. In questo modo il progettista percepisce lo spazio nel quale opera come un mondo posto al di là dello schermo dell’elaboratore e soggetto alle sue azioni.
È lecito chiedersi, allora, come sia possibile ‘disegnare nello spazio’, cioè controllare con esattezza l’andamento di curve e superfici che abitano un mondo a tre dimensioni. Nella geometria descrittiva grafica questo problema si risolve disegnando le linee, in vera forma, su piani adagiati su uno dei piani di proiezione, essendo questi ultimi convenzionalmente coincidenti con il foglio di carta da disegno. La forma così costruita viene poi collocata nello spazio con un’operazione di rotazione del piano che la ospita. Nella geometria descrittiva estesa all’ambiente digitale, invece, il piano sul quale si disegna non coincide necessariamente con lo schermo che visualizza le immagini, e non è necessariamente parallelo a questo, ma può essere liberamente orientato nello spazio. Invece le curve sghembe (o gobbe) si costruiscono in entrambi gli ambienti (grafico e digitale) allo stesso modo, cioè come intersezione di due cilindri proiettanti curve piane. Le superfici, infine, derivano dai movimenti delle curve che abbiamo sommariamente descritto.
La spazialità estesa delle rappresentazioni digitali ha poi un altro notevole effetto: essa rende possibili costruzioni geometriche che finora possedevano soltanto un carattere meramente teorico. Tali sono, per es., la genesi e le trasformazioni proiettive delle superfici quadriche, le metamorfosi della sfera in un ellissoide, in un paraboloide e in un iperboloide a due falde, e analoghe le mutazioni dell’iperboloide in un paraboloide iperbolico e viceversa. Le medesime trasformazioni possono essere applicate a un modello architettonico, producendo così la scenografia solida dello spazio rappresentato. Questa scenografia è capace di creare spazi illusori simili, per intenderci, a quelli che il connubio fra arte e scienza ha prodotto in età rinascimentale e barocca.
Nell’ambito degli studi geometrici, l’accuratezza e la spazialità della rappresentazione matematica forniscono alla costruzione geometrica una valenza di verifica sperimentale. Per es., il teorema di Monge, che afferma l’esistenza di una e una sola superficie rigata appoggiata a tre curve distinte comunque date nello spazio, trova una facile verifica nella costruzione che permette di generare tale superficie. Si tenga presente che questo modo di procedere è consueto e legittimo in geometria, ed è esplicitamente annoverato tra i metodi di indagine (G. Loria, Metodi matematici. Essenza, tecnica, applicazioni, 1935). In tal senso, l’ambito teorico non è diverso da quello della progettazione, poiché anche l’idea progettuale necessita di una dimostrazione esistenziale, ovvero di una verifica della sua coerenza geometrica e formale.
La nuova geometria descrittiva opera dunque in un modo assai diverso da quella tradizionale e trasmette le sue attitudini alla progettazione. Il compito della costruzione geometrica, prima riservato esclusivamente alla riga e al compasso, è oggi assolto anche da altre curve, come le coniche, e anche da superfici, in quanto è possibile, come si è detto, disegnare non solo sulla carta, ma anche nello spazio. In passato, infatti, la riga e il compasso sono stati considerati i soli strumenti capaci di tracciare linee accurate, perciò la retta e il cerchio erano le sole linee che potessero essere contemplate in una dimostrazione geometrica. I sistemi informatici, però, eseguono il tracciamento di un qualsiasi luogo geometrico con la stessa accuratezza con cui tracciano una retta o un cerchio, onde appare legittimo, oggi, utilizzare questi luoghi nella soluzione dei problemi tipici della geometria descrittiva.
Nella nuova geometria descrittiva un buon esempio della sinergia di accuratezza e spazialità è dato dalla soluzione del problema di Apollonio nello spazio, che consiste nel costruire la sfera (o le sfere) che tocca altre quattro sfere date (si tratta della variazione più complessa di un problema generale nello spazio che coinvolge enti comunque scelti tra punti, piani e sfere). Se si rispettassero i limiti dell’ortodossia geometrica classica, cioè l’uso esclusivo di riga e compasso, la soluzione di questo problema richiederebbe una discussione di quasi cento pagine (L. Gaultier de Tours, Sur les moyens généraux de construire graphiquement un cercle déterminé par trois conditions, et une sphère déterminée par quatre conditions, «Journal de l’École polytechnique», 1813, 16, pp. 124-214). Se invece si ammette l’uso di altri luoghi geometrici e, precisamente, di coniche e quadriche di rivoluzione, si ottiene una soluzione non solo più semplice, ma anche dotata del pregio della generalità, potendosi adattare immediatamente a tutti i casi possibili (Migliari 2008). Passando ancora dall’ambito teorico a quello applicativo, questa soluzione dimostra altresì come la nuova geometria descrittiva possa rispondere ai problemi posti da una ricerca formale sempre più ardita, nel progetto di architettura come nel design.
La geometria descrittiva come sinergia di immagine e calcolo
Conviene ora esaminare alcuni concetti del tutto teorici, e perciò un tempo strettamente confinati nelle discussioni accademiche che, ancora una volta grazie all’accuratezza dei sistemi informatici, sono diventati strumenti d’uso comune nel progetto: ci soffermeremo, in particolare, sulla curvatura gaussiana, sulle isofote, sulle nuove declinazioni della prospettiva e sul baricentro di un solido.
La curvatura gaussiana, concetto astratto che definisce la qualità di una superficie dal punto di vista della geometria differenziale, è utilizzata per far sì che superfici riflettenti distinte si susseguano senza apparente soluzione di continuità. Se le carrozzerie delle automobili posseggono questa dote estetica, ciò non si deve all’abilità di un battilastra, ma alla pazienza di un progettista che ha costruito la rappresentazione matematica della carrozzeria in modo che le suddette superfici abbiano continuità di curvatura in ogni punto della loro giunzione. Il progettista, dopo avere imposto tale continuità, verifica la qualità del suo lavoro attraverso le isofote (linee di eguale illuminazione): infatti, se le superfici hanno la qualità richiesta, anche le isofote sono continue nella giunzione, e si può esser certi che nessuna riflessione scomposta potrà evidenziare un difetto della superficie. Anche le isofote provengono dalla classica teoria delle ombre del chiaroscuro, e dalla dissertazione meramente accademica diventano uno strumento del progettista destinato al suo quotidiano operare.
Analogo destino è quello della prospettiva, il più antico dei metodi di rappresentazione codificati. Il suo trasporto nell’ambiente digitale l’ha arricchita di nuove potenzialità. La prospettiva, oggi, non è più solo quella statica delle applicazioni grafiche, ma è anche dinamica e, occorrendo, interattiva.
La prospettiva dinamica è generata per mezzo di un flusso di immagini che, susseguendosi alla velocità della proiezione cinematografica, permettono di simulare la percezione di un osservatore che si muove nello spazio. In questo caso il movimento segue una traiettoria prestabilita dal progettista e da modalità di esplorazione dello spazio che non possono essere modificate da chi osserva. Il progettista, dunque, è anche il regista dell’animazione che ha creato. La più comune applicazione di questa tecnica al progetto è la divulgazione o presentazione dello stesso. L’azione può essere totalmente simulata o contestualizzata nell’ambiente reale. Nel primo caso, tanto l’edificio (o l’oggetto) progettato quanto il contesto sono simulazioni digitali. Nel secondo caso, solo il progetto è simulato, mentre il contesto nel quale si inserirà è ripreso, con macchine fotografiche o cinematografiche, dal mondo reale. La coerenza del supporto informatico, capace di descrivere con la medesima tecnica (e cioè con i numeri), i suoni, le immagini e le geometrie, permette di fondere realtà e illusione senza che l’osservatore possa avvertire la realizzazione di questo artificio, e fornisce così un sofisticato sistema di verifica della percezione visiva dello spazio. Questa tecnica, seppure ancora poco impiegata nella progettazione di edifici, è in realtà di uso comunissimo nella pubblicità dell’oggetto industriale e nella scenografia cinematografica (effetti visivi), dove ha un successo crescente per la qualità dei risultati e la riduzione dei costi che permette di ottenere.
La teoria su cui è fondata la prospettiva dinamica trae origine dal problema inverso della prospettiva (J.-L. de Vaulezard, Abregé ou racourcy de la perspective par l’imitation, 1631), la cui soluzione permette di passare dall’immagine prospettica alla forma tridimensionale che l’ha generata. Questa teoria si è evoluta nella fotogrammetria teorica, poi nelle applicazioni della fotogrammetria analogica e digitale, per approdare oggi alle restituzioni automatiche dello spazio tridimensionale desunte da un numero ridondante di prospettive (fotografiche o cinematografiche), che permette la ricostruzione dei movimenti di camera e delle forme degli oggetti statici ripresi dal vero. Questi dati, desunti dal flusso dei fotogrammi, vengono utilizzati nella realizzazione di immagini di sintesi che collimano perfettamente con quelle reali, per approdare a risultati nei quali il vero e la simulazione digitale sono indistinguibili.
La prospettiva interattiva, invece, è una rappresentazione dinamica nella quale l’utente guida il proprio alter ego digitale (avatar) all’interno dello spazio rappresentato. Questo genere di prospettiva è l’unico in cui il punto di vista sia scelto dall’utente del modello e non dal progettista, e per questa ragione si presta a essere utilizzato in esperienze di progettazione partecipata. A tutt’oggi, le geometrie degli oggetti debbono essere tutte simulate, ma i materiali che le rivestono possono essere generati con artifici oppure ripresi nel mondo reale. Questa tecnica, in continua evoluzione, è d’uso comune nei videogiochi, ma è stata applicata con successo anche alla rappresentazione del progetto di architettura, e trova largo impiego nelle simulazioni scientifiche e tecniche, dall’industria alla formazione di personale nei settori più svariati (si pensi, per es., all’addestramento dei piloti di aeromobili).
Un ultimo esempio delle nuove caratteristiche della geometria descrittiva estesa agli strumenti digitali è l’uso del baricentro di un corpo solido. Com’è noto, il baricentro di una figura piana è un concetto squisitamente geometrico, mentre non altrettanto può dirsi del baricentro di un corpo a tre dimensioni, che è un concetto che ricorre nella fisica e nella meccanica. Tuttavia, la possibilità di individuare questo punto in una figura geometrica solida trova importanti applicazioni nella soluzione di problemi di carattere geometrico, come la costruzione degli assi di un cono quadrico e, più in generale, di alcune delle figure che ammettono un cono direttore.
Si può a questo punto osservare come queste nuove prestazioni della geometria descrittiva siano in realtà il risultato di un calcolo, che viene tradotto in un modello visibile, sia esso la mappa a colori convenzionali della curvatura di una superficie o il pixel che indica la posizione esatta del baricentro di un solido. Ebbene, questa modalità dell’espressione geometrica, che utilizza l’analogia per descrivere il risultato di un processo digitale, può apparire anch’essa ibrida e non squisitamente geometrica. In realtà si tratta semplicemente della realizzazione di ciò che Monge aveva auspicato, una sinergia tra analisi e sintesi, tra linguaggi simbolici e linguaggi grafici che il matematico francese aveva espresso con grande chiarezza già nella prima edizione della sua opera più nota (Géometrie descriptive, 1798; trad. it. 1805): la geometria analitica e la geometria descrittiva dovrebbero essere ‘coltivate’ insieme, poiché in tal modo la geometria descrittiva porterebbe nelle più complesse elaborazioni analitiche l’evidenza sua propria e, a sua volta, l’analisi porterebbe alla geometria descrittiva la generalità e l’accuratezza dei risultati.
L’idea di Monge, d’altronde, non è stata abbandonata: questo modo di fare ricerca, aperto, volutamente irriguardoso degli steccati che recingono gli ambiti disciplinari delle matematiche, ha illustri sostenitori: da Guido Castelnuovo (Lezioni di geometria analitica e proiettiva, 2 voll., 1903-1905) a Harold S.M. Coxeter (Introduction to geometry, 1961). In tempi nei quali gli elaboratori elettronici erano ancora sconosciuti oppure lontani dall’attuale universale diffusione, le scuole di matematica hanno realizzato vaste collezioni di modelli tridimensionali, maquettes di gesso, legno e altri materiali, in tutto simili a quelle che arredano gli studi di architetti e designer. Recentemente queste collezioni sono state oggetto di studi e integrazioni realizzate, appunto, con modelli virtuali. E René Thom (Stabilité structurelle et morphogénèse. Essai d’une théorie générale des modèles, 1972, 19772; trad. it. 1980), mentre da un lato considera la geometria descrittiva una scienza obsoleta, e dichiara di volersi affrancare dalla manipolazione dei corpi dello spazio euclideo a tre dimensioni, dall’altro riconosce alle scienze qualitative la capacità di costruire modelli che sono gli unici capaci di spiegare il mondo che ci circonda, anche se non sono capaci di fornire risultati quantitativi esatti. Ebbene, sembrerebbe proprio che la sinergia auspicata da Monge e oggi compiutamente espressa dal connubio tra il ragionamento sintetico della geometria e il calcolo elettronico, sia in grado di compiere la sintesi tra quantità e qualità, fornendo risultati che, mentre descrivono con ardite analogie e con grande immediatezza la realtà di un fenomeno, consentono altresì un’analisi quantitativa di accuratezza controllata.
Bibliografia
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