I fumetti
In questo scorcio di inizio secolo anche nell’ambito dei fumetti stanno arrivando a compimento alcune trasformazioni in atto da almeno quattro decenni. Trasformazioni destinate a imporsi definitivamente per lo strutturarsi del tutto inedito di questo linguaggio, ma anche per il mutamento generale del sistema dei media, per i cambiamenti imposti dal mercato, per l’influenza che il fumetto sta avendo sulle scelte dei produttori cinematografici, nonché per la possibilità di veicolare personaggi e avventure attraverso altre forme di espressione e modalità produttive.
In tale quadro appare significativo come l’autore, rispetto al passato, stia diventando il protagonista dei fumetti, fenomeno che va di pari passo con l’imporsi del graphic novel, termine che si affermò già alla fine degli anni Settanta negli Stati Uniti, quando i tempi apparvero maturi per racconti a fumetti in cui garanzia di certe atmosfere non fossero più i personaggi con la loro serialità, ma gli autori con il loro stile. Ormai questa tipologia di fumetti trova un proprio spazio nelle librerie ed editori in passato raramente interessati al genere hanno cominciato a ristampare, e qualche volta addirittura a produrre, nuovi libri disegnati. Si tratta di storie dove il personaggio non è più al centro dell’attenzione, come accade invece nei fumetti tradizionali in cui la centralità del protagonista è enfatizzata in ogni momento, a cominciare dalla copertina, indiscutibile emblema del prodotto e certezza per il lettore di trovarsi di fronte un genere consolidato e un certo tipo di qualità.
Il graphic novel è infatti un fumetto che spesso racconta più le emozioni che i fatti, e lo fa sia attraverso le parole sia attraverso i disegni, lasciando liberamente che le prime e i secondi possano prendere alternativamente il sopravvento nello spazio della pagina. I personaggi non sono alla ricerca di sensazioni forti, le hanno già dentro anche quando nulla accade intorno a loro. Con questo nuovo tipo di fumetto (che non esclude, ovviamente, l’esistenza di quello più tradizionale) i protagonisti non sono più maschere, non devono più rappresentare qualcosa di ben definito attraverso le loro azioni (che sia la legge o il suo contrario, il coraggio intrepido, una forza sovrumana oppure altro) rimanendo gli stessi avventura dopo avventura, ma sono personaggi complessi che crescono e si evolvono nel corso del racconto e il più delle volte vivono lo spazio di un libro.
Il graphic novel in Italia
In Italia la crescita editoriale del romanzo a fumetti ha permesso l’imporsi di alcuni autori che puntano su un linguaggio molto personale cercando di sottrarsi ai classici schemi narrativi, nonché all’immagine tradizionale del fumetto come prodotto facile e destinato prevalentemente a un pubblico giovanile.
L’autore italiano che negli ultimi anni si è affermato come una delle firme più importanti del romanzo a fumetti internazionale è Gipi, nome d’arte di Gian Alfonso Pacinotti (n. 1963). Gipi ha esordito nel 2003 con Esterno notte, un libro di racconti a fumetti che presenta storie di periferia ispirate alla realtà, in cui le pagine si trasformano in vere e proprie rappresentazioni pittoriche, in annotazioni abbozzate, oppure diventano veri e propri racconti scritti a mano dall’autore, in cui le lettere, o le cancellature, raccontano anch’esse qualcosa del rapporto tra l’autore stesso e la sua narrazione, come un manoscritto che si fa rappresentazione. Con Esterno notte (che ha ricevuto diversi riconoscimenti come opera prima tra cui il Gran premio Romics nel 2004) il linguaggio non appare più strettamente codificato, ma libero di consentire l’intrusione anche di altri tipi di linguaggio per trovare ogni volta il modo migliore di sviluppare e comunicare i diversi momenti della storia. Gipi ha continuato poi questa sua ricerca con Appunti per una storia di guerra (2004) che in un festival ricco di proposte editoriali come quello di Angoulême, in Francia, ha ottenuto nel 2006 il premio per il miglior libro. In quest’opera l’autore si dedica alla costruzione di una lunga storia fantastica, ambientata nella provincia italiana del Nord-Est di oggi, colpita da una guerra condotta con armi tradizionali di cui si sa pochissimo (non le cause, non i contendenti) e che coinvolge alcuni ragazzi nel passaggio all’età adulta. Gipi narra la vicenda spezzando spesso il ritmo, utilizzando vignette di misure diverse, allungando le didascalie e infine tornando a interrompere il flusso della lettura con una vignetta a tutta pagina che non è semplicemente una panoramica che dilata il tempo della lettura, ma anche l’espressione di uno stato d’animo.
Dopo una serie di lavori più brevi, Gipi è arrivato a realizzare quello che è considerato, finora, il suo capolavoro: S. (2006). Qui, in prima persona, racconta suo padre, Silvio (S.), e compie un’operazione straordinaria cercando di soggettivizzare il disegno che di per sé è un elemento oggettivo. Eppure che cosa può essere il ricordo, e ancor più il ricordo commosso di una persona amata negli anni dell’infanzia e della giovinezza, se non qualcosa di sfumato, di vago, di impercettibile nella rievocazione quanto forte nell’animo? E allora Gipi ricorda, inciampa sulle parole, le sbaglia, le riscrive senza cancellare quelle sbagliate, perché proprio in quanto tali fanno parte del gioco comunicativo, personale, commovente e profondo.
Il fatto che il graphic novel stia cominciando a entrare nel cuore di tanti lettori è testimoniato anche dal successo ottenuto dal lavoro successivo di Gipi, LMVDM (2008), ovvero La Mia Vita Disegnata Male, in cui l’autore realizza la sua (in un certo senso attesa) autobiografia. In essa rivela di essere un artista formatosi dalla strada, di essere arrivato a scrivere e disegnare per improvvisa vocazione e di aver conquistato, insieme al talento di saper raccontare e di sapersi raccontare, una coscienza politica e sociale. In questo fumetto, Gipi perfeziona ulteriormente la sua scrittura (fatta anche di disegni) diretta, in cui ripensamenti, dubbi, errori sono visibili sulla carta. LMVDM si apre con un dottore che obbliga l’autore a mostrarsi completamente nudo di fronte a una finestra, con la possibilità di essere visto dalle persone del grande palazzo di fronte. Questa immagine è quasi un’allegoria di quello che accade nelle pagine del libro, nel corso delle quali l’autore mostra di continuo la parte più intima della sua umanità, cosciente di essere diventato un personaggio e di potersi permettere perfino qualche strizzatina d’occhio al lettore.
Interessante anche il lavoro di Francesca Ghermandi (n. 1964) che in Grenuord (2007) racconta la difficile esistenza di George, uno zombie che non ha il coraggio di accettare la propria condizione e non sa cosa fare di quel che resta della sua esistenza. Tra la repressione del regime di Grenuord (controllato dalla misteriosa Doxa) e i continui attentati, minimizzati dai notiziari televisivi, c’è spazio anche per la storia d’amore di George con Laura, attivista in un gruppo terroristico. Lo stile grafico della Ghermandi porta la realtà in un altrove impossibile, inquieto e affascinante e ce ne mostra, sorridendo, l’assurdità.
Il graphic novel nel mondo
Molti artisti del fumetto contemporaneo sempre più spesso hanno affrontato nei graphic novel temi come la malattia, il disagio mentale e la morte, perché i personaggi – non più maschere immortali – nel romanzo a fumetti possono soffrire e anche morire. Nel 2004, lo statunitense Brian Fies ha iniziato la pubblicazione su un sito web di un fumetto (Mom’s cancer) che parla della malattia, un tumore ai polmoni, di sua madre. Con affetto, commozione, dolore, la striscia ripercorre la storia della donna e delle persone che le stanno intorno. Il fumetto, diviso in trentatré capitoli, ha vinto nel 2005 l’importante premio Eisner come miglior fumetto per web. Invece lo spagnolo Paco Roca (n. 1969) nel 2007 ha raccontato in Arrugas (trad. it. Rughe, 2008) la vita di un anziano direttore di banca che, affetto dal morbo di Alzheimer, viene ricoverato dalla sua famiglia in una residenza per la terza età. Anche in questo fumetto non autobiografico l’oggettivo si fa soggettivo: la memoria tradisce i personaggi nella cui mente il passato è più presente del presente. Spesso Roca ci mostra quello che i personaggi disegnati nelle vignette immaginano e che considerano reale, alternato senza soluzione di continuità al piano della realtà oggettiva. E chiude il libro con una serie di volti senza occhi, naso, bocca, per passare a vignette mute, poi sempre più vuote, fino a diventare bianche. L’autore rende tutto questo senza mai lasciarsi andare alla malinconia e alla tristezza, ma avvalendosi di un segno umoristico che fa emergere un senso commosso e leggero di speranza.
Le due grandi novità del romanzo a fumetti contemporaneo si possono individuare proprio nella possibilità (ampiamente esplorata) dell’autore di parlare di sé e del dolore. Molti autori in realtà si sono potuti raccontare anche in passato attraverso i loro eroi (basti pensare al rapporto di simbiosi tra Gianluigi Bonelli e il suo Tex, tra Sergio Bonelli e Mister No, fra le sorelle Giussani e i personaggi di Diabolik ed Eva Kant), e di molti personaggi (soprattutto in tempi più recenti, come nel caso di Ken Parker, Alack Sinner e Max Fridman) sono stati narrati momenti dolorosi, ma la serialità donava al lettore una speranza che il romanzo non assicura affatto.
Anche nelle opere di Will Eisner (1917-2005), maestro del fumetto contemporaneo e creatore di quello che negli Stati Uniti viene considerato il primo graphic novel della storia (A contract with God, 1978; prima ed. it. in Bronx 1930. Quattro storie in un casamento, 1985), si ritrovano numerosi spunti biografici. Lo stesso Eisner nella sua introduzione a The contract with God trilogy. Life on Dropsie Avenue (2005; trad. it. Un contratto con Dio. La trilogia, 2008), scritta poco prima di morire, rivela che A contract with God gli fu ispirato dalla morte per leucemia della figlia Alice, ancora giovanissima, come racconta anche un documentario del 2007 sulla sua vita (Will Eisner. Portrait of sequential artist, di Andrew D. Cooke, presentato nello stesso anno al Tribeca Film Festival). Nelle prime pagine di quel fumetto si racconta la vicenda di Frimme Hersh, un pio ebreo di Dropsie Avenue (strada del Bronx newyorkese) il quale, in una tragica notte di tempesta, tornando a casa disperato per la morte della figlia adottiva decide di rompere l’accordo da lui stipulato in gioventù con Dio, in rispetto del quale aveva vissuto fino a quel momento con profonda onestà e rettitudine.
Uno dei punti più alti di una poetica del fumetto basata su un autobiografismo segnato dal dolore è toccato dall’opera del francese David B. (nome d’arte di Pierre-François Beauchard, n. 1959), che dal 1996 al 2003 ha raccontato la sua dura infanzia vissuta in famiglia alle prese con un fratello malato di epilessia (L’ascension du haut mal, 6 voll.; trad. it. Cronaca del grande male, 1° vol., 1999). Il particolare stile grafico di David B., molto stilizzato e dunque poco realistico, unito a una narrazione particolareggiata e intima, offre un risultato di straordinaria espressività. La lettura a volte toglie il fiato, la drammaticità delle situazioni non lascia spazio ad alcuna via d’uscita e i disegni assumono sempre più la forma di un incubo tracciato con il pennarello nero.
Di AIDS parla invece Pilules bleues (2001; trad. it. Pillole blu, 2004), fumetto autobiografico in cui lo svizzero Frédérik Peeters (n. 1974) racconta la sua storia d’amore con Cati, madre solitaria di un bambino di tre anni, con una difficile malattia con cui convivere. Nonostante la relazione sia condizionata dal virus, il loro modo di proteggersi dalla paura offre una nuova possibilità all’amore e alla vita da condurre insieme.
A tal punto il fumetto appare adatto a trattare tematiche che non erano mai state affrontate in tanti anni della sua storia, che lo statunitense Paul Hornschemeier (n. 1977) arriva a scrivere un romanzo che simula una drammatica esperienza autobiografica in Mother, come home (2003; trad. it. Mamma, torna a casa, 2007): il protagonista, con cui l’autore si identifica, è un bambino di sette anni che ha perduto da poco la mamma e il cui padre, proprio a causa di questa scomparsa, cade in una fatale depressione. In questo graphic novel Hornschemeier sceglie di usare il colore (volutamente dai toni spenti) per esprimere lo sperdimento e l’inquietudine esistenziale che avvolgono la storia.
Ma il romanzo a fumetti autobiografico di più ampio respiro uscito negli ultimi anni è Persepolis (4 voll., 2000-2003; trad. it. 4 voll., 2002-03) di Marjane Satrapi (n. 1969), divenuto un fenomeno editoriale in tutto il mondo e tradotto anche in un fedele film a cartoni animati (diretto nel 2007 dall’autrice e da Vincent Paronnaud). Nato, non a caso, da un confronto tra l’autrice e il David B. di cui si è detto, è un vero e proprio romanzo autobiografico che narra la storia di una ragazza nata in Irān, cresciuta in una famiglia progressista che la educa ai valori del femminismo, finché la politica repressiva attuata nel 1979 reintroduce forti restrizioni alla libertà individuale. Viene reso obbligatorio l’uso del chador, vengono vietate le classi miste, le feste, la musica statunitense, la possibilità di truccarsi, oltre (naturalmente) a quella di esporre liberamente le proprie idee. I genitori spingono Marjane a partire per l’Europa, ma nulla sarà facile neppure nel vecchio e libero continente. Il romanzo a fumetti, intenso ed emozionante, è realizzato ricorrendo a un segno grafico elementare ed efficace proprio per la sua immediatezza. La Satrapi non chiede di soffermarsi sui disegni, che hanno il compito di sottolineare, chiarire, commentare (in forma sia ironica sia drammatica) quel che viene raccontato con le parole attraverso nuvolette e didascalie: la grandezza di Persepolis sta nella capacità dell’autrice di selezionare con straordinaria sensibilità quei momenti che, uniti tra loro, consentono di cogliere il senso intero di una vita e di anni cruciali per il cambiamento di una persona e di tutto il mondo che la circonda.
Di diverso tipo è l’autobiografismo dello statunitense Craig Thompson (n. 1975) che, ventottenne, in Blankets (2003; trad. it. 2004) ha raccontato in seicento pagine la storia del suo primo amore ai tempi del liceo con una partecipazione che non sfocia mai nella nostalgia. Il passato è passato ed è servito a costruire il presente e il presente permette di raccontare ciò che è avvenuto con matura partecipazione, senza rimpianto. Nel romanzo ha un ruolo centrale e ‘pesante’ il fondamentalismo cristiano alla base dell’educazione dell’autore e di quella della ragazza di cui al tempo era innamorato. La religione, secondo il punto di vista di Thompson, limita la libertà di vivere le emozioni più forti cercando di dare un ordine e una ragione a ciò che è naturalmente caotico e irrazionale. Anche per questo, e per alcune scene erotiche, peraltro molto castigate, il libro negli Stati Uniti ha suscitato critiche e reazioni negative. Ma la forza di Thompson è proprio quella di raccontare come deve fare un grande narratore: senza nascondere. Svelando tutto, per poter entrare con il lettore in una comunicazione diretta, profonda, appassionata. Non c’è alcuna autocelebrazione in questo autobiografismo, nessuna possibilità che Thompson si trasformi in personaggio. Egli mette a disposizione del lettore la sua storia, il suo mondo, perché la comunicazione delle grandi emozioni significa proprio questo: dare un senso alla vita attraverso le domande che ci si pone. E quelle di Thompson sono grandi domande.
L’autobiografismo può tuttavia anche non essere doloroso oppure passionale. Il canadese Guy Delisle (n.1966), a partire dal 2000, ha realizzato una serie di diari a fumetti nei diversi, e diversamente interessanti, luoghi dove si è trovato a vivere e lavorare. Il primo a essere pubblicato in Italia è stato Pyongyang (2003; trad. it. 2006), la capitale della Corea del Nord dove Delisle ha lavorato in qualità di animatore. Delisle concepisce il suo fumetto come un diario di bordo: ci racconta il suo arrivo, le situazioni particolari cui va incontro, le sue prime impressioni. E poi continua con il distacco di chi guarda alle cose passate attraverso il gradevole filtro dell’ironia per raccontare le diverse situazioni, anche quelle personali. Egli usa uno stile grafico stilizzato e caricaturale proprio per stabilire una distanza con l’oggetto della sua analisi. Le due opere seguenti, Shenzhen (2000; trad. it. 2007) e Croniques birmanes (2007; trad. it. Cronache birmane, 2008) proseguono sullo stesso percorso, tanto che pagina dopo pagina tra il lettore e l’autore si stabilisce una sorta di complicità, in quanto chi legge sa che Delisle mostrerà le assurdità della dittatura o della democrazia, della civiltà e dell’inciviltà, trovando ovunque motivi per le sue divertite riflessioni. Il suo è davvero un resoconto a metà tra il reportage e il diario autobiografico; ed è anche la dimostrazione che in questo tipo di fumetto l’autore si impone come protagonista. In particolare, in queste sue opere Delisle non è programmaticamente alla ricerca di situazioni, fatti o testimonianze. Se talvolta riporta brani ripresi da depliant o da guide turistiche è solo perché questo appaga la sua curiosità nonché il suo desiderio di approfondire le situazioni.
Diverso è il vero reportage giornalistico a fumetti, diventato popolare grazie all’autore statunitense di origine maltese Joe Sacco (n. 1960), ma di cui esistono diversi precedenti, fra cui quelli dell’italiano Riccardo Mannelli (n. 1955) che già nel 1985 pubblicò una cronaca fumettistica (con molto spazio al resoconto illustrativo), dal titolo Nicaragua, di un suo viaggio in America Centrale. Ma il vero fenomeno editoriale è stato, appunto, Palestine di Sacco, frutto di reportage realizzati da quello che il «Time» ha definito un comic journalist tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992, pubblicati dal 1993 e consacrati nel 1996 dall’American Book Award. Raccolti per la prima volta in volume nel 1998 dalla Phoenix, una piccola casa editrice di Bologna, con il titolo Palestina: una nazione occupata, sono apparsi in volume negli Stati Uniti nel 2001 (mentre nel 2002 Mondadori ne ha ripubblicato in Italia una versione più completa). Sacco vuole scoprire e raccontare cosa accade in quelle zone martoriate dalla guerra, dall’oppressione e dalla disinformazione e finisce per raccontare molto anche di sé stesso (ritraendosi in maniera piuttosto caricaturale) in quanto elemento portante della scena. Il suo non è mai un freddo resoconto ma il racconto di un coinvolgimento che può raggiungere toni fortemente drammatici fino alla disperazione. Le tragedie delle persone con cui viene in contatto, personali e collettive, emergono anche grazie a un tratto espressivo che si permette spesso un realismo fotografico. Queste caratteristiche si ritrovano anche nei suoi successivi lavori, come Safe area Goražde. The war in Easten Bosnia 1992-1995 (2000; trad. it. Goražde, area protetta. La guerra in Bosnia 1992-1995, 2006), sulle vicende della cittadina di Goražde durante la guerra in Bosnia, e The fixer. A story from Sarajevo (2003; trad. it. Neven. Una storia da Sarajevo, 2007), entrambi pubblicati in Italia da Mondadori, in cui vengono raccontate, sempre nella forma del diario personale, esperienze nelle drammatiche terre della ex Iugoslavia.
In una rassegna sul nuovo graphic novel non può mancare la citazione di The Jew of New York (1998; trad. it. L’ebreo di New York, 2004) dello statunitense Ben Katchor (n. 1951). Si tratta di un breve, divertente, complicato viaggio tra le peculiarità e le stranezze della cultura ebraica newyorkese negli anni successivi al fallito e visionario tentativo, risalente al 1825, del politico Mordecai Noah di fondare uno Stato ebraico su un’isoletta vicino a Buffalo. E il tutto si snoda tra mille personaggi caricaturizzati e tante parole che si accumulano via via nella pagina in un’esplosione di trame variegate e di dettagli.
La ricerca di una qualunque certezza è il tema di un altro capolavoro del graphic novel: Le combat ordinaire (4 voll., 2003-2008; pubblicato in Italia nel 2007 con il titolo Lo scontro quotidiano, che comprende i primi due volumi) del francese Manu (propr. Emmanuel) Larcenet (n. 1969), in cui si raccontano i travagli di Marco, fotografo in crisi in un mondo che cerca di fermare (catturandolo con le sue immagini fisse), ma che gli sfugge continuamente. Un amabile vecchietto, conosciuto nella sua casa di campagna, ha un passato di torturatore di civili durante la guerra d’Algeria. Gli operai che fotografa ricercando la saggezza di un tempo votano per l’estrema destra spiegando accuratamente il perché. E poi, a seguire, la morte del padre e la crisi d’ansia che una bella storia d’amore non riesce a curare. Tutto questo raccontato attraverso un disegno caricaturale al punto che si può piangere anche per il gran ridere.
Molto ha in comune con questi autori il giapponese Jiro Taniguchi (n. 1947) perché il suo manga richiama lo stile soprattutto europeo del romanzo a fumetti. Il suo realismo è minimalista, e alcuni tra i suoi primi lavori apparsi in Europa hanno sorpreso per la capacità nel raccontare anche ‘quello che non accade’ (per es., in Aruku hito, scritto tra il 1990 e il 1991 e pubblicato nel 1992; trad. it. L’uomo che cammina, 1999). Nei romanzi del nuovo secolo Taniguchi ha trovato una linea intermedia tra la possibilità di mostrare le sensazioni e i momenti di quiete, e quella di lasciarli affiorare attraverso affascinanti trame narrative basate su temi ed emozioni tipici della cultura giapponese, per cui anche il silenzio è da raccontare (e ha una sua onomatopea) così come il sapore del cibo, in quest’ultimo caso attraverso un personaggio che descrive momento per momento le sue impressioni mentre assaggia pietanze tipiche della cucina nipponica. O come nel caso di Hareyuku sora (2005; trad. it. Un cielo radioso, 2008) che racconta come, dopo un terribile incidente d’auto in cui rimangono coinvolti due uomini, lo spirito di colui che è morto entra nel corpo del superstite per far sapere alla moglie e alla figlioletta quanto le abbia amate e quanto sia pentito di averle sempre trascurate. Un soggetto melodrammatico che Taniguchi ha il merito di riuscire a trattare con delicatezza e misura.
Il graphic novel non è quindi solo biografia o realismo. In Black hole (un romanzo grafico di oltre 300 pagine realizzato nel corso di undici anni, dal 1993 al 2004, e pubblicato in Italia tra il 2003 e il 2005), dello statunitense Charles Burns (n. 1955), la visionarietà onirica e horror dell’autore si fa strada all’interno di una quotidianità tesa e allucinata, in cui si attende il momento successivo, la vignetta successiva, come il possibile passaggio da un incubo a un altro.
Scrittori e fumetti: un nuovo rapporto
Se alcune realtà editoriali in Italia sono nate proprio per valorizzare il graphic novel (per es., le case editrici bolognesi Coconino Press e Comma 22), la BeccoGiallo di Padova è stata fondata per produrre libri a fumetti ispirati a vicende reali, di cronaca nera o politica, o a biografie di personaggi famosi (tra i quali Luigi Tenco e Fabrizio De André), realizzati spesso da autori alle loro prime esperienze. Come nel caso di Sonno elefante. I muri hanno orecchie (2008), breve cronaca della dittatura di António de Oliveira Salazar in Portogallo tra gli anni Sessanta e Settanta, realizzata da Giorgio Fratini (n. 1976) o di Il sequestro Moro. Storie dagli anni di piombo (2006) e di Chernobyl. Di cosa sono fatte le nuvole (2006), entrambi di Paolo Parisi (n. 1980).
Il graphic novel ha suscitato l’interesse anche dei grandi editori italiani, di solito poco interessati alle sorti del fumetto. La Rizzoli ha acquistato nel 2008 il magazzino della Lizard, la casa editrice di Hugo Pratt, Vittorio Giardino e tanti altri, e ha inoltre prodotto Cacciatori nelle tenebre (2007), un graphic novel scritto dal popolare autore di noir Gianrico Carofiglio e disegnato dal fratello Francesco. Se dal punto di vista qualitativo il risultato è piuttosto povero, interessante è il fatto che sia stato il primo libro illustrato a entrare nelle classifiche dei libri più venduti nella categoria ‘narrativa italiana’. Sempre Rizzoli ha pubblicato due graphic novel disegnati da Giuseppe Palumbo (n. 1964), fumettista che ha spaziato dal fumetto d’autore a quello popolare (Martin Mystère, Diabolik) con grande padronanza artistica: Un sogno turco (2008), scritto da Giancarlo De Cataldo, e Tomka. Il gitano di Guernica (2007), scritto da Massimo Carlotto, il quale a sua volta aveva scritto per Igort (nome d’arte di Igor Tuveri, n. 1958) Dimmi che non vuoi morire (2007).
Se questo interesse degli scrittori per il fumetto è sicuramente significativo e promettente (e non solo in Italia: risale al 2000 l’uscita di La débauche, scritto da Daniel Pennac e disegnato da Jacques Tardi, tradotto e pubblicato nel nostro Paese da Feltrinelli nello stesso anno con il titolo Gli esuberati), spesso i risultati non sempre felici dimostrano come la tecnica di scrittura del fumetto possieda una sua peculiarità che va affrontata con umiltà ed esperienza, cosicché appare talvolta più felice il percorso inverso (per es., quello compiuto dalle due fumettiste Paola Barbato, sceneggiatrice, e Cinzia Leone, disegnatrice e giornalista, che nel passaggio al romanzo scritto hanno dimostrato grande personalità). Diversa è la scelta di certi autori di graphic novel che sottomettono il linguaggio fumettistico a una propria precisa direzione stilistica. È il caso di Riccardo Falcinelli e Marta Poggi che, prima con Cardiaferrania (2001) e Grafogrifo (2004), ma soprattutto con il più compiuto L’allegra fattoria: sette racconti per adulti cattivi (2007), hanno costruito una sorta di fumetto allegorico, in cui parole e immagini dialogano continuamente e il disegno sembra a volte il commento della parte scritta. Originale anche la trasposizione a fumetti di un classico come Master i Margarita (Il maestro e Margherita) di Michail A. Bulgakov realizzato nel 2008 da Andrzej Klimowski e Danusia Schejbal, due illustratori e scenografi che hanno smontato il romanzo cercando di rendere attraverso disegni stilizzati le atmosfere e le euforiche inquietudini in una rilettura infedele del racconto originale (il graphic novel è stato pubblicato in Italia nel 2009 da Guanda, altro editore colto sedotto dal romanzo a fumetti). Infine, sono da segnalare le ricerche grafiche di Lorenzo Mattotti (n. 1954) che, con le ultime realizzazioni (per es., Chimera, pubblicato nel 2006 da Coconino), si è sganciato definitivamente dal rapporto consequenziale delle vignette per cercare un collegamento più sfumato, richiamando in questo il procedere e lo strutturarsi del linguaggio poetico. Lo spazio bianco che il lettore dovrebbe riempire mettendo a frutto la propria immaginazione per collegare razionalmente la narrazione insita nel rapporto tra due vignette diventa così un luogo di attesa, di sogno, di libera interpretazione.
In questo excursus sul graphic novel si è scelto di privilegiare le opere edite anche in Italia. Nonostante il grande interesse degli editori italiani per il nuovo fumetto, va sottolineato però che alcuni autori di alto livello sono stati fino a questo momento dimenticati: fra tutti citiamo lo statunitense Chris Ware (n. 1967), autore del pluripremiato graphic novel Jimmy Corrigan, the smartest kid on earth (2000).
Fumetti e cinema
In questi ultimi anni il romanzo a fumetti ha contribuito notevolmente a modificare il linguaggio del cinema di animazione. In precedenza, e pur con le dovute eccezioni, il passaggio di un personaggio dal fumetto alla televisione o al cinema si era rivelato più un affare produttivo che un’elaborazione artistica. Trasposti in lungometraggi e cortometraggi cinematografici o in serie televisive, protagonisti dei fumetti come Tintin, Asterix, ma anche Uncle Scrooge (Paperon de’ Paperoni) o Spider-Man (Uomo Ragno) riuscivano a esprimere solo in piccola parte la loro grandezza (con l’eccezione di una serie animata su Batman, prodotta dalla Warner Bros. e trasmessa in televisione negli Stati Uniti dal 1992, ispirata alle atmosfere dei film di Tim Burton, ma pensata per un pubblico di giovani). La rinnovata qualità di alcune grandi produzioni americane, che con lo sviluppo della tecnologia digitale hanno portato a livelli di perfezione l’animazione a 3D (in particolare la Pixar, ma anche la Dreamworks e la Pacific data images, PDI), e delle produzioni giapponesi (per es., lo studio Ghibli di Hayao Miyazaki e Isao Takahata, ma anche la I.G, la Bandai ecc.) ha imposto l’idea di un nuovo film di animazione, ispirato o legato al fumetto, con l’ambizione di interessare un pubblico adulto. Il primo risultato significativo è stato Les triplettes de Belleville (2003; Appuntamento a Belleville) di Sylvain Chomet (n. 1963, sceneggiatore di fumetti di lunga esperienza) in cui si racconta con poetico umorismo la vita di un ragazzo appassionato di ciclismo che, sotto la guida della nonna, arriva a gareggiare al Tour de France per poi essere rapito dalla mafia americana. Il film, quasi totalmente privo di dialoghi, vive di grandi intuizioni umoristiche, di precise caratterizzazioni e di un’ottima colonna sonora. Quasi contemporaneamente sono stati realizzati il già ricordato Persepolis (2007) e Peur(s) du noir (2007), un film in quattro episodi firmato da Blutch (nome d’arte di Christian Hincker), Ch. Burns, Marie Caillou, Pierre Di Sciullo, L. Mattotti, Richard McGuire, sotto la direzione artistica di Étienne Robial. Come i già citati Burns e Mattotti, anche gli altri autori sono artisti del fumetto e dell’immagine e tutti hanno firmato le scelte grafiche, narrative e la regia, a testimoniare come quest’opera voglia essere la trasposizione sullo schermo di ciò che solitamente si trova sulla carta e il fatto che, a parte le peculiarità linguistiche (il fumetto lascia libero il tempo di fruizione, nonché la soggettiva interpretazione delle onomatopee e dei dialoghi ecc.), il passaggio dal medium fumetto a un mezzo di comunicazione audiovisivo sia operazione più che possibile. Se la vignetta di un fumetto si trasforma nella vignetta di uno storyboard (la sceneggiatura visiva del cinema di animazione, usata spesso anche nel cinema live-action) le carrellate e le zoomate possono sostituire il movimento dello sguardo sulla pagina fissa, cercando in tal modo di ricreare i tempi e le modalità di lettura ‘giusti’ per ottenere l’effetto emotivo voluto dall’autore.
Importante esempio dello stretto rapporto tra cinema d’animazione e fumetto è anche il lungometraggio animato Vals im Bashir (2008; Valzer con Bashir), che racconta l’esperienza personale del regista Ari Folman (n. 1963) coinvolto come soldato israeliano nel massacro di Sabra e Shatila compiuto dai falangisti libanesi. Potente, drammatica, struggente, quest’opera traduce ancora una volta le innovazioni stilistiche del nuovo fumetto, il suo impegno nel raccontare la realtà più profonda dell’animo umano, quasi fosse il lettore/spettatore una sorta di psicoanalista cui poter confidare le proprie paure e ossessioni. Inoltre, il fatto di ricercare il senso della realtà all’interno di un mondo irreale (fatto di disegni che sono realistici, ma rimangono pur sempre disegni) si rivela un affascinante controsenso che rende il tutto ancora più vero; perché in questo caso è vera l’interpretazione della realtà e non la realtà stessa (le uniche riprese dal vero del film sono infatti quelle finali, del massacro).
Dal personaggio seriale al protagonistadel romanzo a fumetti
La produzione italiana
Il passaggio dal personaggio seriale, tipico del fumetto popolare, a quello occasionale, protagonista del romanzo a fumetti, è avvenuto attraverso una lunga evoluzione che, iniziata con la nascita negli anni Venti del fumetto avventuroso, ha via via reso più complessi e sfumati i personaggi fino all’attuale e conclamata crisi. Se l’eroe invincibile e immortale, indispensabile per la serialità, era infatti credibile fino agli anni Cinquanta, in seguito il pubblico ha avvertito la necessità di una problematizzazione di tale ruolo che, evidente già negli eroi bonelliani (a partire proprio da quelli ideati da Sergio Bonelli, Zagor e Mister No) e in quelli della Marvel (celebre la frase di Spider-Man secondo cui a «grandi poteri corrispondono grandi responsabilità»), è arrivata fino alla distruzione psicologica del personaggio (come nel caso di Alack Sinner, di José Muñoz e Carlos Sampayo, oppure di Max Fridman, di V. Giardino). E questo perché l’eroe ha ormai dentro di sé il presagio della sconfitta, e sente dolorosamente l’impossibilità di cambiare un mondo governato dal potere e dagli interessi economici.
Non è dunque un caso se il più grande editore di fumetti d’Italia, Sergio Bonelli (n. 1932), a partire dal 2005 ha scelto di pubblicare le cosiddette miniserie. I personaggi che ne sono protagonisti hanno vita limitata (di solito a diciotto albi), alla fine dei quali potrebbero anche non solo scomparire come prodotto editoriale, ma anche morire narrativamente parlando. La prima miniserie della Sergio Bonelli, Brad Barron (2005-06), è stata scritta da uno dei più quotati sceneggiatori italiani, Tito Faraci (n. 1965, l’unico ad aver firmato le storie di alcuni dei personaggi più popolari nel nostro Paese: Tex, Diabolik ma anche Topolino), e disegnata da una schiera di valenti autori (nei primi tre numeri Bruno Brindisi, Anna Lazzarini e Giancarlo Caracuzzo). Ambientata negli Stati Uniti negli anni Cinquanta, questa miniserie è la rivisitazione della classica avventura che racconta l’invasione della Terra da parte dei marziani (i Morb), anche se contaminata con vari generi fumettistici (l’horror, il noir, persino il western). Ma il problema di Brad Barron (cercare l’originalità o seguire i classici percorsi popolari del fumetto, della narrativa o del cinema?) è il grande dilemma dell’editoria popolare a fumetti nel nostro Paese. In Italia (e solo in Italia) il fumetto popolare presenta nella maggioranza dei casi e sin dagli anni Cinquanta il formato degli albi di Tex (16×21 cm) in cui ogni numero è caratterizzato da un centinaio di pagine, una carta non pregiata e un prezzo di copertina piuttosto ridotto. Questo tipo di prodotto è destinato all’edicola e pretende fedeltà (anche se nel caso delle miniserie è una fedeltà a termine) da parte del lettore. Tutte variabili che stanno cambiando nel rapporto tra domanda e offerta fumettistica e che in edicola stanno creando una crisi che alcuni giudicano irreversibile. La crisi dei generi popolari classici, proposti in una forma anch’essa classica, è una delle cause possibili, ma c’è da aggiungere che la ricerca di tematiche più adulte per questo tipo di fumetto dovrebbe essere accompagnata da quella di una confezione editoriale diversa, meno popolare del formato bonelliano, che ha segnato il successo del fumetto italiano fin dagli anni Cinquanta. Volto nascosto, un’altra miniserie bonelliana (in 14 albi) scritta da Gianfranco Manfredi (tra i disegnatori Goran Parlov, Massimo Rotundo, Leomacs) e pubblicata nel 2007-08, ha invece un’ambientazione molto particolare: Roma, l’Etiopia e l’Eritrea alla fine dell’Ottocento, scelta che già pone Volto nascosto al di fuori delle categorie classiche dei generi. E anche la sua struttura corale, con diversi personaggi nel ruolo di protagonista, denota un cambiamento totale rispetto alla filosofia del fumetto popolare (italiano e non) che si è sempre basata sull’eroe affiancato da altri personaggi di secondo piano (gli amici) e da nemici più o meno ricorrenti. Dopo Volto nascosto, nel 2008 è uscito Jan Dix, scritto da Carlo Ambrosini (n. 1954; il primo numero è stato da lui anche disegnato) e ambientato nei Paesi Bassi ai giorni nostri, in cui si raccontano le originali avventure di un critico d’arte, cui ha fatto seguito Lilith (2008), scritto e disegnato da Luca Enoch (n. 1962), autore che da sempre sa recepire stimoli provenienti dal manga e dal mondo dei fumetti in genere, dai cartoni animati (non solo giapponesi), dal cinema e dalla letteratura. Lilith, una ragazza condannata a viaggiare nel tempo per salvare l’umanità, è la sua creazione più innovativa. Al contrario degli altri personaggi bonelliani, che nell’agire hanno sempre proposto una propria etica positiva (sia pure modificatasi nel tempo, con il mutare delle caratteristiche dell’eroe), Lilith non ha una sua filosofia da proporre perché è obbligata ad agire per la sua sopravvivenza, e in ragione di ciò è costretta, suo malgrado, a uccidere anche persone innocenti e del tutto sconosciute.
Oltre alle miniserie, le novità editoriali proposte dalla Sergio Bonelli sono stati i ‘romanzi a fumetti’, una collana di pezzi unici (di circa 400 pagine) pubblicati senza alcun progetto di serializzazione. Tra questi il più interessante si è rivelato Gli occhi e il buio (2007), scritto e disegnato da Gigi Simeoni (n. 1967), che ambienta la sua storia noir nella Milano di inizio secolo, quella delle prime automobili e dei primi telefoni, delle avanguardie artistiche e delle prime indagini scientifiche della polizia. Nelle sue trecento pagine, Simeoni sembra voler teorizzare, in un racconto dalle tinte fosche che va in direzione opposta rispetto alla tradizione popolare fumettistica, come il confine tra il bene e il male sia sottilissimo.
Appare chiaro come ormai la produzione da edicola non possa più esprimere l’immaginario ingenuo, basato su semplici contrapposizioni, che aveva segnato il successo del genere avventuroso fino alla metà degli anni Sessanta e come il grande problema irrisolto del fumetto italiano sia il rapporto tra prodotto editoriale e sua destinazione. La destinazione immediata per il fumetto popolare è infatti l’edicola, seguita dalla fumetteria e dalla libreria (la prima specializzata nella vendita dei fumetti e destinata in particolare ai prodotti che hanno un successo di nicchia, la seconda in via di affermazione grazie al successo del romanzo a fumetti). Ma il paradosso attuale è dato dal fatto che S. Bonelli (come già sottolineato, il maggiore editore e produttore specializzato in Italia) realizza nuovi fumetti che, per struttura e linguaggio, sarebbero destinati alla libreria, mentre per confezione sono venduti in edicola. Questo ibrido ha le sue ragioni, perfino coraggiose, ma non è premiato da un successo promettente e, come tutte le formule non riuscite, lascia perplessi circa il futuro del fumetto nelle edicole. Anche nelle serie classiche della Sergio Bonelli (che hanno portato il fumetto italiano a successo e vendite unici al mondo) vi sono stati dei cambiamenti: per alcuni personaggi, come Mister No, Martin Mystère e Magico Vento, è stato modificato il ritmo della periodicità delle uscite o si è scelto di farne i protagonisti di numeri speciali, mentre per le grandi bandiere del fumetto italiano, Tex e Dylan Dog, continua la pubblicazione con qualità altalenante, ma con grande attenzione editoriale e, soprattutto nei confronti del primo, con alcune aperture verso il cambiamento (come il bacio di Tex alla moglie Lilyth durante un lungo flashback nel numero a colori del 2008 dedicato ai 60 anni del ranger di Bonelli). Non bisogna dimenticare le iniziative speciali, come i Texoni (numeri di grande formato, spesso scritti e disegnati da grandi firme del fumetto internazionale) e le ristampe a colori cartonate di Dylan Dog. Come anche quelle dell’Astorina, la casa editrice di Diabolik, che ha pubblicato albi di formato particolare in cui si raccontano episodi della vita del re del terrore o della sua compagna Eva Kant. Quasi del tutto scomparse le riviste («Linus», l’unica rimasta, non ha più la forza comunicativa di un tempo, così come le nuove «Scuola di fumetto», nata nel 2002, e l’erotica «Blue», nata nel 1991), mentre i settimanali «Lanciostory» e «Skorpio» continuano a proporre, nel loro piccolo formato, fumetti argentini, francobelgi e italiani (alcuni di questi poi ristampati in albi cartonati sempre destinati alle edicole). Da segnalare inoltre, per quanto riguarda il resto della produzione italiana da edicola, il discreto successo di Rat-Man, personaggio umoristico ideato da Leo Ortolani (n. 1967), che nel 1997 ha raggiunto l’edicola (con Panini Comics) dopo essere stato autoprodotto, e nel 2003 è stato incluso tra i Classici del fumetto usciti in allegato al quotidiano «La Repubblica». Notevole è stato infatti il contributo dato alla popolarità del fumetto e allo sviluppo del mercato dagli allegati a pagamento dei periodici italiani, in particolare quelli dei quotidiani «La Repubblica» e «Corriere della sera», e dei settimanali «Espresso» e «Panorama».
La produzione negli Stati Uniti
La storia del fumetto popolare statunitense è stata condizionata dal successo dei film interpretati da attori e basati sulle storie dei supereroi. Grazie al vertiginoso sviluppo del digitale, infatti, il cinema può rendere realistici e spettacolari i movimenti dei personaggi che le vignette lasciano solo immaginare. Il mito moderno del supereroe digitale funziona su grande schermo e i prodotti realizzati mostrano tutti un certo impegno produttivo e un’oculata differenziazione dei target e dei generi. Così il primo film incentrato sui Fantastic Four (Fantastic Four, 2005, I Fantastici Quattro, diretto da Tim Story) puntava sul pubblico delle famiglie, cercando di far risaltare il risvolto ironico dei superpoteri dei personaggi. Mentre Sam Raimi con i suoi film su Spider-Man (2000, 2004, 2007) ha scelto la chiave della tensione avventurosa e allo stesso tempo sentimentale. In tutti questi prodotti si è tentato comunque di stabilire un equilibrio, tipico del fumetto d’azione, fra le scene di combattimento e quelle di dialogo: secondo le teorie del marketing, le prime sono amate dal pubblico più giovane e le seconde da quello adulto. I film più interessanti del recente filone superomistico sono X-Men, diretto da Bryan Singer nel 2000, Iron Man, diretto da Jon Favreau nel 2008, e The dark knight (Il cavaliere oscuro), sempre del 2008, diretto da Christopher Nolan (e seguito di Batman Begins del 2005). In tutti e tre i personaggi fantastici sono al centro di vicende che rinviano a una realtà possibile, qualche volta molto vicina all’attualità (la parte iniziale di Iron Man si svolge in Afghānistān, tra test bellici statunitensi e gruppi terroristici locali). Il successo di questi film non trova corrispondenza nei risultati di vendita degli albi a fumetti, ma nel merchandising, nel successo cioè di tutti i prodotti derivati che sono la grande fonte di guadagno dei gruppi editoriali (in particolare, le storiche Marvel e DC, case editrici rispettivamente dei Fantastici Quattro e di Spider-Man, di Superman e Batman) e che comprendono magliette, figurine e oggettistica varia, ma anche videogiochi sulle diverse piattaforme. Il fumetto per molti versi serve come trampolino di lancio per verificare l’impatto sul pubblico degli eroi dei comic books statunitensi: se il personaggio funziona sulla carta, allora entra nell’immaginario a tutti i livelli e può avere più destinazioni. Importante per la sua longevità è che la figura dell’eroe sappia mantenersi credibile e spettacolare e che contemporaneamente si rinnovi restando al passo con i tempi. Ne consegue che sono fondamentali i character designers, ossia gli artisti che ridisegnano il personaggio e ne rinnovano l’immagine soprattutto attraverso le copertine. Queste ultime infatti offrono, nella sintesi di una sola ‘vignetta’, tra giochi di ombre e di colori, attraverso inquadrature spericolate, il momento idealizzato e la massima emozione. Tra questi spiccano in particolare Marko Djurdjević (n. 1979), un artista tedesco di origine serba, e l’italiano Gabriele Dell’Otto (n. 1973).
Anche per i lettori dei fumetti dei supereroi è ormai finita l’epoca della catarsi, della soluzione di tutte le problematiche attraverso la figura dell’eroe. Pur se il comic book superomistico è comunque destinato a un pubblico perlopiù adolescenziale, i fumetti più riusciti appaiono interessati ai problemi sociali e politici del nostro tempo. Così Spider-Man, dopo gli attentati alle Twin Towers nel 2001, in un suo albo appare commosso per la grande tragedia toccata in sorte alla sua città e si interroga su quanto avrebbe potuto fare per evitarla; e in un altro albo del 2009 incontra il nuovo presidente Barack Obama e può stringergli la mano, mentre il presidente gli rivela di essere sempre stato un suo grande fan e sottolinea come in qualche modo siano entrambi uniti da uno stesso obiettivo. Una delle espressioni più emblematiche del rapporto che si instaura tra i lettori e i supereroi è stata la miniserie Civil war, rispecchiamento nell’ambito dei fumetti del dibattito statunitense sul conflitto tra sicurezza nazionale e necessità di salvaguardare la libertà individuale. Scritta da Mark Millar (n. 1969) e disegnata da Steve McNiven, racconta in sette numeri (pubblicati tra il 2006 e il 2007) la decisione del governo americano di obbligare tutti i supereroi a registrarsi nel Superhuman registration act svelando le proprie identità. Questo evento causa la spaccatura della comunità dei supereroi in due fazioni («Tu da che parte stai?» è stato lo slogan della saga). Favorevole è, infatti, il gruppo che fa capo a Iron Man, contrario quello che fa capo a Capitan America. Per quanto originale, l’idea alla base della miniserie è comunque la rielaborazione di situazioni già in nuce in precedenti serie scritte da Brian Michael Bendis (n. 1967), un’altra grande firma del fumetto superomistico. In Civil war Spider-Man è schierato con Iron Man e dunque accetta di svelare pubblicamente la propria identità, sino a quel momento segreta, di Peter Parker. Questa scelta di sceneggiatura, che sembrava segnare un punto di non ritorno, visto che i lettori dei fumetti dei supereroi si aspettano da sceneggiatori ed editori il massimo rispetto sulla coerenza narrativa degli avvenimenti che coinvolgono i personaggi, ha avuto un’eco sui quotidiani di tutto il mondo (compresa l’Italia dove grande è stata negli anni la fortuna del personaggio noto dal 1970 come Uomo Ragno). Ma la Marvel dopo Civil war ha deciso di annullare certe situazioni che avevano modificato la vita di Spider-Man e di farlo tornare quindi ad avere un’identità segreta e mai rivelata nelle successive avventure.
Tre grandi autori
Per capire veramente il fumetto angloamericano di questi ultimi anni è però necessario ricordare tre autori fondamentali: Eisner, Frank Miller (n. 1957) e Alan Moore (n. 1953). Il primo, come già detto, è stato l’inventore del graphic novel, ma il suo contributo all’evoluzione del fumetto come mezzo di comunicazione, alla crescita degli autori e della loro consapevolezza nell’usare un linguaggio popolare e nobile a un tempo è ancora tutto da scoprire, ed è stato comunque enorme fino alla sua morte sopraggiunta quando era ancora giovanissimo artisticamente (si vedano al riguardo i suoi studi raccolti nei volumi Comics and sequential art, 1985, ed. riv. 2008, trad. it. Fumetto e arte sequenziale, 1997, nuova ed. 2005; Graphic storytelling, 1996, trad. it. Narrare per immagini, 2001). Negli ultimi anni della sua vita aveva lavorato indefessamente, e tra gli ultimi volumi da lui firmati sono da ricordare Fagin the jew (2003; trad. it. Fagin l’ebreo, 2008), rivisitazione del personaggio dell’Oliver Twist di Charles Dickens, e The plot. The secret story of the Protocols of the Elders of Zion (2005; trad. it. Il complotto. Storia segreta dei protocolli dei Savi di Sion, 2005), una sorta di ricerca della verità a proposito della leggenda sul complotto ebraico per conquistare il mondo che Eisner racconta con il suo stile che parte da un’accezione realistica per sconfinare nella teatralità delle espressioni (talvolta la recitazione sembra rifarsi a quella, esagerata, del cinema muto), come se i personaggi fossero destinati a vivere tragedie e desolazioni.
Miller è un autore innovativo più sul piano narrativo che su quello grafico, ma il successo delle sue opere ha influito enormemente sul destino del fumetto e sul rapporto con il mezzo cinematografico. In particolare il film Sin city (diretto nel 2005 da Robert Rodriguez insieme allo stesso Miller), tratto dalla sua famosa serie di fumetti in bianco e nero iniziata nel 1991, è stato il primo importante tentativo di ricreare sullo schermo non solo situazioni e atmosfere, ma anche lo stile grafico della pagina disegnata. L’effetto è stato molto interessante perché, per quanto il disegno sia stilizzato e il racconto esagerato, il fumetto in quanto tale non può che rimandare alla realtà: infatti anche se una vignetta disegnata su una pagina non può essere un frammento del reale, attraverso la lettura si trasforma in un ponte tra il lettore e il reale stesso. D’altro canto l’immagine cinematografica, visibilmente truccata con effetti speciali e giochi di colori, mette in evidenza la sua confezione, si mostra come una costruzione e come un filtro tra lo spettatore e la realtà. Nel caso del film Sin city siamo di fronte a una caricatura del reale, che in parte sdrammatizza le situazioni fumettistiche. Questa esagerazione di stile è meno evidente in 300, film del 2006 diretto da Zack Snyder e basato sul graphic novel di Miller che amplifica per quanto possibile le tematiche reazionarie dell’autore, il suo culto della lotta, del corpo, della morte, nell’esaltazione dell’epico tentativo di resistenza degli spartani. Nel 2008 Miller è passato dietro la macchina da presa per dirigere l’adattamento cinematografico di The Spirit (il personaggio di W. Eisner le cui storie vennero pubblicate a partire dal 1940 e sino al 1952), con una fedeltà all’originale modesta quanto i risultati artistici raggiunti.
Moore, inglese di Northampton, è lo sceneggiatore che più di tutti ha saputo condurre il fumetto lungo i sentieri della psiche, della spiritualità e della ricerca filosofica. Assurto anche lui alla notorietà soprattutto in virtù di alcuni film tratti dai suoi fumetti (in particolare From Hell, 2001, La vera storia di Jack lo squartatore, diretto da Albert e Allen Hughes, V for Vendetta, 2005, V per Vendetta, di Andy e Larry Wachowski, e Watchmen, 2009, di Zack Snyder, dai quali ha preso le distanze non consentendo di inserire il proprio nome nei titoli), Moore si è avvicinato a un linguaggio sempre più complesso e intelligente, ricco di richiami e di citazioni filosofiche ed esoteriche. Significativi esempi di questo interessante percorso sono le serie Promethea, disegnata dal 1999 al 2005 da J.H. Williams III e Mick Gray, e Lost girls, disegnata da Melinda Gebbie (l’edizione definitiva della serie, iniziata nel 1991, risale al 2006, mentre in Italia i tre volumi di Lost girls – Ragazze perdute sono usciti nel 2008).
I manga
I fumetti giapponesi, ossia i manga, rivestono un’enorme importanza sul piano delle innovazioni comunicative del fumetto, sul rapporto fra quest’ultimo e i nuovi media, e infine sul piano della quantità dei prodotti importati in Italia. Gli inizi del nuovo secolo hanno segnato per la produzione giapponese un importante cambiamento generazionale. A partire dalla fine degli anni Settanta un’intera generazione si appassionò in Italia ai personaggi giapponesi divenuti famosi grazie alla programmazione televisiva (da Mazinga a Heidi, da Candy Candy a Jeeg Robot). L’opinione comune che si diffuse però allora nel nostro, ma anche in altri Paesi, fu decisamente negativa nei confronti degli eroi dei manga e degli anime (i cartoni animati) ritenuti esteticamente brutti, ma anche violenti e diseducativi. Ciò ha provocato negli anni un rallentamento della loro programmazione da parte della televisione generalista, limitata all’introduzione di pochi prodotti nuovi e alla riproposizione delle vecchie serie di successo (Heidi in particolare ha il primato delle repliche sulle reti RAI e Mediaset e, attualmente, anche su DeAKids, il canale satellitare per ragazzi della De Agostini).
La passione per i prodotti giapponesi non è comunque venuta meno e viene soddisfatta attualmente soprattutto attraverso i DVD, Internet e i manga venduti in edicola o in fumetteria. In Italia, come nel caso dei supereroi statunitensi, anche le vendite dei fumetti incentrati su personaggi nipponici non si sono mai avvicinate a quelle dei personaggi di successo bonelliani, di Diabolik o di Topolino. Il manga più venduto e ristampato è stato Dragon Ball, ideato nel 1984 da Akira Toriyama (n. 1955) e lanciato dall’omonimo cartone animato, il quale, nei momenti migliori, ha raggiunto le centomila copie vendute. Per il resto il mercato del manga risulta frammentato in decine di pubblicazioni diverse, divise per generi di lettori (i bambini e/o le bambine, gli adolescenti maschi, le adolescenti femmine, i lettori adulti ecc.). In questa marea di materiale (in cui spiccano per popolarità Nana, manga di Ai Yazawa, n. 1967, pubblicato in Giappone dal 2000 e giunto in Italia nel 2002, e Naruto, manga di Masashi Kishimoto, n. 1974, pubblicato in Giappone a partire dal 1999 e giunto in Italia nel 2003) è difficile scegliere significativi esempi usciti in Italia in questi primi anni del Duemila. Di grande rilievo è un autore come Naoki Urasawa (n. 1960), che ha ideato due splendide e lunghissime saghe avventurose: Monster, iniziata nel 1994 e conclusasi nel 2001, e 20th Century boys (1999-2006) seguita da 21st Century boys (2006-07), in cui Urasawa usa tutto il suo straordinario talento per avvincere il lettore con situazioni di forte impatto emotivo, vivacizzate da continui colpi di scena. Un altro manga interessante e visionario è Homunkurusi (iniziato nel 2003 e tradotto in italiano con il titolo Homunculus dal 2005) di Hideo Yamamoto (n. 1968). Il protagonista, Susumu Nakoshi, un trentaquattrenne in crisi, accetta di fare da cavia per l’esperimento dello studente di medicina Manabu Ito e di sottoporsi alla trapanazione del cranio. Grazie a questa terribile operazione riuscirà a vedere, attraverso il suo occhio sinistro, le persone trasfigurate dalla realtà del loro inconscio.
Anche il manga ha i suoi esempi di graphic novel autobiografico (oltre alle opere di Taniguchi cui si è già accennato). Come l’appassionante Boku no Tezuka Osamu (1989; trad. it. Tezuka secondo me, 2007) di Takao Yaguchi (propr. Takao Takahashi, n. 1939, popolare autore del personaggio di Sanpei, ragazzo pescatore protagonista del manga e dell’anime di grande successo negli anni 1980-1982), splendida biografia del grande autore Osamu Tezuka (1928-1989) raccontata attraverso le vicende del giovanissimo Takao (Yaguchi stesso), dapprima appassionato lettore dei manga del maestro e quindi destinato a diventare successivamente egli stesso un mangaka, coronando un sogno che sembrava impossibile.
Crisi generazionale e nuovi studi
Due considerazioni finali sui fumetti in questo avvio di secolo. La prima sulla crisi generazionale che li ha colpiti, specialmente in Italia. Proprio il linguaggio che, secondo l’opinione comune, è adatto ai bambini, vive tra i più piccoli (ma anche presso gli adolescenti) un momento di grave impopolarità. Questo anche per la mancanza di prodotti specifici, soprattutto di periodici. Le eccezioni sono «il Giornalino», settimanale cattolico edito dalla San Paolo, dalla linea editoriale coraggiosa, a metà tra lo svago e la didattica, su cui pubblicano molti maestri del fumetto italiano, da Massimo Mattioli a Sergio Toppi, e «Topolino», in forte crisi di vendite non solo per l’abbassarsi del livello medio delle storie a fumetti (quasi tutte realizzate da autori italiani), ma anche perché gli adolescenti hanno spostato negli anni il loro interesse verso argomenti e personaggi più adulti (o comunque meno infantili). La fascia intermedia che si colloca tra la Pimpa (personaggio per bambini creato da Altan) e Dragon Ball (destinato a lettori più grandi) viene occupata da personaggi che non necessariamente provengono dai fumetti, ma possono essere icone televisive o del merchandising: come le fatine Winx, nate nella serie animata televisiva creata dalla Rainbow di Iginio Straffi e diventata un successo internazionale, o i Gormiti, mostri nati come giocattoli e solo in seguito divenuti personaggi dei cartoni animati.
La seconda considerazione è relativa al fatto che mai come in quest’ultimo periodo la storia dei primi anni dei comics negli Stati Uniti è stata analizzata a fondo e studiata (per es., dal noto sceneggiatore italiano Alfredo Castelli e dal saggista statunitense David Kunzle) a indicare un interesse comunque forte per questo mezzo espressivo e per la sua storia. La lunga discussione se fosse davvero Richard Felton Outcault (1863-1928) con il suo Yellow Kid (personaggio apparso prima sulla rivista «Truth» nel 1894 e poi approdato, il 5 maggio dell’anno successivo, sul supplemento domenicale del «New York World» di Joseph Pulitzer) l’inventore del fumetto moderno (cioè di un linguaggio che si avvalesse delle possibilità offerte dalla stampa e dalla distribuzione) è attualmente giunta a una conclusione pur sempre passibile di verifiche. Se infatti Yellow Kid è il primo personaggio della storia del fumetto, a inventarne il linguaggio (cioè a definirne le caratteristiche) è stato il ginevrino Rodolphe Töpffer (vissuto tra il 1799 e il 1846). Non solo con grande capacità comunicativa ma anche con assoluta consapevolezza. Ecco quello che scrive Töpffer nell’introduzione all’Histoire de monsieur Jabot (1833; trad. it. Storia del signor Jabot, 1973), uno dei suoi fumetti: «Questo piccolo libro è di natura mista. È composto da una serie di disegni accompagnati da una o due righe di testo. I disegni senza testo avrebbero un significato oscuro. I testi senza disegno non avrebbero alcun significato».
Bibliografia
Per ulteriori approfondimenti sugli argomenti trattati si vedano: P. Gravett, Graphic novels, everything you need to know, New York 2005, e D. Kunzle, R. Töpffer, Father of the comic strip, Jackson 2007.
Per un più ampio panorama sui nuovi orientamenti della critica riguardanti il fumetto e il cinema di animazione si vedano:
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Magnus, pirata dell’immaginario, a cura di Hamelin, Bologna 2007.
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Gianni De Luca, il disegno pensiero, a cura di Hamelin, Bologna 2008.
Il secolo del fumetto. Lo spettacolo a strisce nella società italiana 1908-2008, a cura di S. Brancato, Cisterna di Latina 2008.
D. Barbieri, Breve storia della letteratura a fumetti, Roma 2009.
Due o tre cose che so di lui. Scritti su Altan, a cura di D. Brolli, Bologna 2009.
Sergio Toppi, il segno della storia, a cura di Hamelin, Bologna 2009.