I generi musicali
Declino e ascesa dei generi musicali
La querelle sui generi musicali che ha caratterizzato il ventennio a cavallo tra la fine del 20° e i primi anni del 21° sec. può essere ricondotta a una serie di ragioni che investono livelli diversi del fare, ascoltare e pensare musica. La diffusione delle tecnologie digitali di riproduzione, trasmissione e manipolazione delle fonti sonore ha avuto come effetto, tra gli altri, quello di produrre strategie compositive non ancorate al bagaglio accademico tradizionale ma cresciute per così dire ‘sul campo’, ovvero in una pratica nella quale la mescolanza di stili e tipologie è stata avvertita come un elemento di ricchezza reso governabile dal perfezionamento dei mezzi tecnici. Sul piano dell’ascolto, la priorità attribuita alla ‘novità’ e alla dimensione spettacolare ha dato vita a forme di ibridazione che hanno complicato le distinzioni fra musica colta e popolare, sperimentazione controllata e improvvisazione, uso ‘basso’ e uso ‘alto’ della tecnologia, complessità e semplificazione, come pure fra installazione sonora, scultura musicale e arte plastica. Dal lato speculativo, infine, ci si è concentrati sulle trasformazioni sociali delle modalità della fruizione musicale, oppure ci si è riallacciati a un più antico dibattito filosofico sulla legittimità della suddivisione dei territori artistici in sottogruppi da definire in modo più o meno rigoroso: una questione che risale almeno all’Estetica (1902) di Benedetto Croce, che in Italia ha trovato il suo contraltare teorico negli scritti di Luciano Anceschi (per es., in Progetto di una sistematica dell’arte, 1983) e fuori d’Italia la sua più precisa discussione nella Ästhetische Theorie di Theodor W. Adorno, pubblicata postuma nel 1970.
Prospettive pragmatiche, percettive, sociologiche ed estetiche hanno dunque posto e affrontato con strumenti diversi lo stesso problema. I rispettivi punti di vista, tuttavia, si sono incrociati solo occasionalmente e, quando ciò è avvenuto, in modo asimmetrico. Chi ha rivendicato o pronosticato il tramonto dei generi musicali tradizionali, infatti, ha spesso inteso la sua posizione come un esplicito rifiuto nei confronti della teoria, considerando la propria prassi legittima e autosufficiente come può esserlo un semplice dato di fatto. Chi ha teorizzato quella tendenza, per contro, di rado ha fatto leva su presupposti di ordine generale, di natura estetica o filosofica, e più spesso è partito da un’analisi di quegli stessi dati concreti che non aspiravano a essere sorretti da teorie. In un arco di tempo relativamente breve espressioni come ibridazione, attraversamento, abbattimento dei confini tra i generi musicali sono diventati slogan malleabili e di pronto uso nei quali si sono riconosciuti sia forme di sincretismo e creolizzazione tipiche dei processi di globalizzazione culturale, sia discorsi che non aspiravano all’universalità, anzi dichiaravano l’impossibilità di ‘grandi narrazioni’ anche nel campo dei fenomeni musicali, salvando come unica verità generale quella che veniva loro incontro dal terreno della prassi: il venir meno, appunto, della funzionalità delle distinzioni di genere ereditate dalla tradizione eurocolta.
Guardando il dibattito in retrospettiva, si può vedere come esso sia fondato solo su una parte dei fenomeni osservabili. Non veniva presa in considerazione, per es., l’eventualità che i generi musicali tradizionali sopravvivessero all’epoca del loro tramonto, che i confini potessero essere in molti casi rafforzati dalle forme di distribuzione e commercializzazione del materiale musicale, che nuovi generi musicali potessero nascere e che ciascuno di essi potesse essere definito in base a precisi profili identitari: più di 200 sono quelli attualmente codificati per ‘etichettare’ i file musicali reperibili su Internet. Persino le musiche per principio non classificabili in un genere musicale, perché concepite espressamente come intersezione fra generi musicali distinti, hanno trovato una loro paradossale categoria di riconoscimento: crossover. La funzione di quest’ultima ricorda quella di una tra le farraginose suddivisioni attribuite da Jorge Luis Borges, in un suo saggio (El idioma analítico de John Wilkins, 1952; trad. it. in J.L. Borges, Tutte le opere, i° vol., 1984, pp. 1004-05), a una enciclopedia cinese: fra le varie voci che ripartiscono il regno animale in esseri «appartenenti all’Imperatore», «imbalsamati», «addomesticati», «disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello» o «che da lontano sembrano mosche», compare infatti la categoria degli animali «inclusi in questa classificazione» come riassunto iperbolico di tutte le altre e smentita di ogni ulteriore tentativo di ordinamento possibile. Se le barriere tra i generi musicali sono superate, la creazione di una categoria stabilita proprio a partire da tale superamento, ma che fa di questo un genere musicale a sé stante, sembra chiudere un circolo in cui fra teoria e prassi si inserisce l’opera di un ‘terzo intruso’: la dinamica sociale del consumo musicale, appunto, la quale interviene a categorizzare anche la potenziale assenza di categorie.
Occorre perciò distinguere due fenomeni complementari, che viaggiano però in direzioni opposte e la cui disinvolta sovrapposizione finisce, invece, per creare confusione intorno alla vita e alla morte dei generi musicali oggi: per un verso, infatti, si assiste a una tendenza nominalistica sempre più minuziosa e dispersiva, alla quale collaborano sia le grandi imprese di distribuzione del materiale fonografico sia i singoli utenti della rete, i quali aggiungono specificazioni destinate a rimanere impresse sui file, in formato testuale, senza possibilità di intervenire con una qualsiasi forma di verifica o di regolamentazione; dall’altro si realizza, invece, un processo inverso di indebolimento delle ripartizioni maggiori, come quelle fra musica colta e popolare, musica di ricerca e commerciale. Il declino dei generi musicali riguarda essenzialmente quest’ultimo versante e si presenta come l’effetto non solo di una trasformazione di lunga durata, tale da avere investito almeno l’intero 20° sec., ma anche di un riassestamento estetico che segue un’epoca di sperimentazioni a oltranza condotte a partire da un forte connubio fra teoria, analisi scientifica del suono e tecnologia che si è tradotto, molto spesso, in una sorta di ideologia del fare, pensare e ascoltare musica. Parlare di declino dei generi musicali significa, allora, parlare della crisi del monopolio esercitato dalla tradizione accademica sulle procedure della composizione. A fronte di questo processo, i cui primi segnali possono essere ricondotti all’emergere della corrente americana del minimalismo musicale e simbolicamente possono essere identificati con la prima esecuzione di In C (1964), brano di Terry Riley (n. 1935), l’altro versante appare non solo più sfumato, ma persino paradossale, giacché appunto coincide con una crescita esponenziale delle distinzioni fra i generi musicali. Da quest’ultimo punto di vista, si può sostenere che l’utilità pratica e teorica dei generi musicali sia decaduta essenzialmente in forza di una sorta di bulimia classificatoria: quando diviene possibile una tassonomia che ratifica, anziché ordinare, la polverizzazione delle pratiche musicali, il valore cognitivo dei generi viene meno e conserva una residuale utilità solo nell’orientamento dei consumi musicali.
Crisi dei modelli accademici: i primi segnali
Già a partire dagli anni Trenta del Novecento la diffusione della radio, poi del disco, aveva ampliato il repertorio accessibile fino a comprendere materiali musicali di ogni epoca, provenienza, stile e tipo. Ciò che ancora nei primi anni del secolo appariva come una proiezione nell’esotico (per es., in opere come Madama Butterfly, 1904, o La fanciulla del West, 1910, di Giacomo Puccini) oppure come un derivato della cultura ottocentesca delle grandi esposizioni universali (a quella parigina del 1889 si deve l’incontro tra Claude Debussy e la musica dell’Estremo Oriente, in particolare giapponese e giavanese), si trasformava nella matrice di una nuova sensibilità storica e geografica, nella consapevolezza di appartenere a un universo musicale plurale le cui gerarchie di valore potevano mutare nei diversi luoghi e nelle diverse epoche. L’estensione dei metodi della ricerca etnologica anche all’ambito degli studi musicali rafforzò l’emergere di questa sensibilità: l’idea che non solo esistessero musiche diverse, lontane nel tempo e nello spazio, ciascuna dotata di una propria storia e legittimità, ma che anche all’interno dell’Europa sopravvivessero enclaves i cui linguaggi musicali differivano da quelli consolidati nell’eredità classica, trasformò notevolmente il rapporto con il patrimonio popolare facendo di quest’ultimo l’oggetto di una ricerca sistematica e non più solo una fonte a cui attingere liberamente per riplasmarla. L’opera di compositori e ricercatori come gli ungheresi Béla Bartók (1881-1945) e Zoltán Kodály (1882-1967) si colloca sul crinale di questo atteggiamento, dato che i risultati dell’indagine etnomusicologica si riverberano in sostanziali modifiche del loro linguaggio, ma rifluiscono pur sempre nel tentativo di adattare l’impronta popolare a organici strumentali e a modalità d’esecuzione di tipo classico. In una versione non portata a termine di Les noces, e successivamente in Mavra (1922), Igor Stravinskij (1882-1971) inserì nell’orchestrazione, senza alcun intento di rigore etnologico, uno strumento utilizzato nelle comunità gitane, il zymbalon, in quelli che possono dunque essere considerati fra i primi tentativi di fare ricorso alla cultura popolare al fine di estendere o di integrare la gamma timbrica di un organico strumentale tradizionale.
Il caso di Stravinskij si rivela però interessante soprattutto da un altro punto di vista: senza avere teorizzato il superamento né dei confini tra i generi musicali, né della distinzione tra musica colta e popolare, il suo percorso appare a tratti come l’emblema di un mutamento che offre significativi spunti di riflessione anche riguardo alla recente querelle sui generi. La fortuna delle sue composizioni più note testimonia anzitutto la permeabilità di una distinzione tradizionale come quella tra musica sinfonica e da balletto: nate per la compagnia dei Ballets russes fondata nel 1909 a Parigi dall’impresario Sergej Djagilev (1872-1929), composizioni come L’oiseau de feu (1910), Petruska (1911), Le sacre du printemps (1913) e altre si sono presto sganciate dal rapporto con la coreografia e si sono imposte nel repertorio sinfonico, com’è accaduto anche a lavori di altri autori, a cominciare da La valse di Maurice Ravel (1875-1937), anch’essa scritta per i Ballets russes ma eseguita in concerto (1920) e approdata alla danza solo più tardi. La distinzione fra musica sinfonica e musica da balletto era stata, tuttavia, sempre piuttosto labile, come pure era accaduto nel caso di quella fra musica sinfonica e musica di scena per il teatro di prosa. Anche nel corso dell’Ottocento si incontrano casi analoghi, da Ludwig van Beethoven a Robert Schumann, così che gli esempi di Stravinskij, Ravel e altri possono essere considerati solo come l’indice dell’intensificazione di un processo di scambio già avviato da tempo fra generi musicali affini. Non si può sottovalutare, d’altra parte, che proprio un coreografo particolarmente attento all’opera di Stravinskij, Maurice Béjart (1927-2007), sia stato fra i primi a introdurre in maniera sistematica nei suoi spettacoli musiche originariamente non destinate alla danza, a partire da Messe pour le temps présent (1967), dove comparivano brani delle tradizioni indiane e giapponesi accanto a quelli scritti per l’occasione da Pierre Henry (n. 1927). La linea seguita dalla coreografia più recente, che utilizza per la danza musiche nate in contesti diversissimi – dalla popular music alle opere della tradizione classica e popolare – segna, in questo senso, l’abbattimento stabile di un confine e porta alla ribalta un terreno nel quale non ha più valore, ormai, la distinzione fra un genere musicale dedicato e uno no. Decisivo però, per il rilievo qui accordato a Stravinskij, è stato il suo avvicinamento al jazz, ovvero a un tipo di pratica difficilmente classificabile come un genere musicale e paragonabile, piuttosto, a un continente abitato da molteplici generi musicali improntati alle più varie forme di accostamento e commistione. Per Stravinskij, il contatto con una realtà musicale spontaneamente esposta al meticciato sonoro comportò l’abbandono del riferimento al patrimonio della musica popolare russa e la costruzione di organismi sonori dominati dal principio dell’ibridazione stilistica. La presenza di musiche del passato, come in Pulcinella (1920), di metodi compositivi antichi o tradizionali, come in Monumentum pro Gesualdo (1960) e Sinfonia di salmi (1930), della tecnica dodecafonica, a partire da Threni (1958), oltre che di espliciti riferimenti al jazz, come in Ebony concerto (1946), mostra come Stravinskij abbia cercato costantemente di superare le barriere fra le diverse condotte stilistiche e concepito il lavoro del compositore come quello di un artista onnivoro che metabolizza ogni influenza attingendo alle fonti sonore più disparate. Sebbene egli non abbia posto la questione dei generi musicali, e abbia anzi per lo più agito rispettandone le distinzioni consolidate, con la sua opera viene sollevato il problema della fusione tra stili differenti: un tema, come si vedrà, che non soltanto si è spesso sovrapposto al dibattito sui generi, ma che fornisce anche una significativa chiave di lettura delle trasformazioni più recenti dell’universo musicale.
Musica e rumore: l’erosione tecnologicadi una gerarchia
È stato però l’apporto di nuove tecnologie per la manipolazione elettronica del suono a favorire, sin dalla fine degli anni Cinquanta, il progetto di una sintesi musicale in grado di ricondurre a un’unica, indifferenziata tradizione cosmopolita i linguaggi sonori delle diverse culture e latitudini del pianeta. La nozione di Weltmusik teorizzata da Karlheinz Stockhausen (1928-2007), e da lui messa in opera in composizioni come Telemusik (1966) o Hymnen (1967), si fondava sulla possibilità di sottoporre materiale preregistrato a processi di modulazione elettroacustica – intermodulazione – in grado di rendere omogenei elementi originariamente estranei fra loro: nel caso di Telemusik suoni delle tradizioni giapponese, indonesiana, africana, come pure di frammenti del patrimonio americano ed europeo; nel caso di Hymnen una serie di inni nazionali provenienti da una grandissima quantità di Stati. Il lavoro di Stockhausen era uno sviluppo dell’esperienza maturata dal GRMC (Groupe de Recherches de Musique Concrète) fondato nel 1951 a Parigi da Pierre Schaeffer (1910-1995), ingegnere del suono e compositore che lavorando per la RTF (Radio Télévision Française) aveva avuto modo di utilizzare suoni registrati per definire lo sfondo sonoro degli sceneggiati radiofonici: il termine bruitage, attestato nel gergo della radiofonia francese dal 1946, indica un lavoro assai diverso da quello in precedenza appannaggio del cosiddetto rumorista. Già negli anni Trenta, l’armamentario standard di questa figura professionale comprendeva una serie di attrezzature da utilizzare direttamente durante la realizzazione di uno sceneggiato radiofonico senza interventi di manipolazione sonora: piccole passerelle di ghiaia per riprodurre l’effetto dei passi, porte con vari tipi di serratura, una serie di campanelli d’avviso, sirene, lastre metalliche, microfoni installati dentro cornette telefoniche per modificare il suono dell’emissione vocale e così via. Il bruitage, invece, agiva su suoni registrati che venivano trasformati con un lavoro di manipolazione dei nastri che si rivelò potenzialmente efficace anche per l’ampliamento della gamma di suoni da introdurre in una composizione musicale. Nel 1949, insieme a Pierre Henry, Schaeffer aveva dato dimostrazione di questa possibilità mescolando agli strumenti musicali suoni ripresi dall’ambiente della vita quotidiana in Symphonie pour un homme seul. Due anni dopo, sempre insieme a Henry e con il contributo dell’ingegnere Abraham André Moles, Schaeffer concentrò programmaticamente la sua attenzione sul ‘paesaggio sonoro’ nel quale siamo immersi e sugli ‘oggetti sonori’ che vi incontriamo, da lui non considerati differenti tra loro né per genere, né per valore. Avere integrato nella composizione rumori prodotti dal vivo, durante l’esecuzione, e più spesso preregistrati su nastro magnetico, come pure avere attribuito importanza fondamentale alla dimensione psicoacustica dell’ascolto, è stato un passo decisivo verso l’erosione dei criteri sui quali si fonda la distinzione tra i generi musicali e ha comportato il sacrificio di uno dei suoi più importanti baluardi: la notazione della musica secondo il sistema codificato in età barocca.
La produzione di eventi sonori di cui non è possibile precisare i parametri di altezza e di durata, ovvero i cardini della notazione classica, ha reso le partiture sempre più simili a prescrizioni di regia che orchestrano azioni eventualmente collocabili a una notazione tradizionale. Una tendenza, questa, che ha largamente oltrepassato l’epoca pionieristica della musica concreta, che si ritrova, per es., in una composizione del 1983 di Giorgio Battistelli (n. 1953), Experimentum mundi, nella quale una serie di artigiani è chiamata a compiere operazioni pur sempre coordinate da un direttore d’orchestra, e che si può considerare in parte superata con l’introduzione dei campionatori di suono digitali, i quali permettono di trasferire il rumore preregistrato su una tastiera Midi che ne modifica l’altezza in modo da renderla compatibile con i parametri della notazione tradizionale. In City life, brano per nastro magnetico e ensemble amplificato del 1995, il compositore americano Steve Reich (n. 1936) ha dato una dimostrazione efficacissima e di facile ascolto di una simile possibilità, arricchendo il suo progetto con un filmato che ricostruisce passo dopo passo la registrazione dei suoni dal vivo, per le strade di New York, la loro manipolazione e l’integrazione finale nella partitura d’orchestra tramite l’intervento del campionatore e della tastiera Midi.
In ciascuno dei casi menzionati, a operare la sintesi fra rumore e suono, o fra materiali musicali di origine diversa, era comunque una sorta di metalinguaggio che forniva al lavoro di composizione i suoi parametri di base. In particolare, se si guarda alla sperimentazione elettroacustica degli anni Cinquanta e Sessanta, è stato il metodo di composizione seriale, sviluppato a partire dalle esperienze delle avanguardie del primo Novecento, a proporsi come un medium capace di ricondurre le esperienze musicali più diverse a un unico denominatore comune. Più che annullare i confini tra i generi musicali o, per usare i termini di Stockhausen, unificare in un solo organismo sonoro «la musica di tutta la terra, i paesi e le razze», si trattava di sottoporre i materiali di partenza a un tipo di elaborazione altamente codificato, coerente con le teorie e la pratica sperimentale della tradizione musicale eurocolta. Il passaggio dalla composizione delle forme di relazione tra i suoni alla composizione ‘del’ suono come tale, per usare ancora una terminologia di Stockhausen, segnava però il passaggio a una zona nella quale fra origine, livello di elaborazione e identità dei singoli suoni vigeva una sostanziale indistinzione. Partendo dallo studio fisioacustico del suono e sviluppando la sua analisi in base ai principi del linguaggio seriale, Stockhausen finiva per equiparare la struttura microacustica del rumore e quella macroacustica della composizione musicale, teorizzando così l’annullamento di ogni gerarchia di valori fra i diversi materiali sonori. Coerentemente egli si dedicava all’uso di una strumentazione tecnica in grado di generare i suoni elettronicamente, senza più accordare alcun tipo di privilegio agli strumenti musicali tradizionali. Pur se non riconducibili completamente alla sua influenza, anzi spesso guidati da compositori che nutrivano interessi diversi da quelli di Stockhausen, i programmi di ricerca delle principali istituzioni attive in questo campo hanno condiviso il punto di riferimento costituito dai metodi della composizione seriale, rimanendo perciò in questo modo nel solco della tradizione accademica: negli anni Sessanta lo Studio für elektronische Musik della radio di Colonia, l’Instituut voor sonologie dell’università di Utrecht, il francese Groupe de recherches musicales o lo Studio di fonologia musicale della RAI di Milano; negli anni Settanta l’IRCAM (Institut de Recherche et de Coordination Acoustique/ Musique) di Parigi, il MIT EMS (Massachusetts Institute of Technology Electronic Music Studio) di Boston, il CCRMA (Center for Computer Research in Music and Acoustic) della Stanford university, l’EMS (Elektron Musik Studion) di Stoccolma.
Gli ulteriori sviluppi delle tecnologie hanno impresso a questa impostazione un mutamento radicale. Con la comparsa del personal computer, l’aumento esponenziale della sua potenza di calcolo e la nascita di software per il trattamento del suono a disposizione di utenti privati, non più bisognosi della mediazione dei grandi centri di ricerca istituzionali, il ruolo che precedentemente veniva attribuito a un metalinguaggio unificatore è decaduto fino a essere sostituito dalla tecnica stessa. La capacità di controllare i parametri della composizione attraverso la competenza nell’uso del software si è imposta come sostituto della disciplina accademica. Inoltre, ciò che era stato privilegio degli operatori professionali tramite l’accesso ad archivi riservati – in particolare quelli delle radio pubbliche dei diversi Paesi – è divenuto alla portata di ogni utente tramite i contenuti messi a disposizione da Internet: in particolare tramite i programmi che consentono il file sharing e tramite siti ad ampia diffusione come MySpace.com, oltre che tramite canali di vendita on-line assimilabili al modello iTunes store. Sulla base di queste premesse, è chiaro come la frammentazione delle pratiche musicali, demandate all’iniziativa dei singoli più che a progetti di ricerca finanziati dalle istituzioni, e neppure riconducibili integralmente a sollecitazioni di tipo commerciale, abbia portato a un’ibridazione di materiali e di generi tale da far affermare che la ‘confusione’, e non l’ordine, sia il carattere dei processi musicali contemporanei, e che l’ideale di musica ‘pura’, ‘assoluta’, teorizzato e praticato in Occidente a partire dal Romanticismo, abbia fatto posto alla realtà di una musica essenzialmente «impura» (Pascal 2005, p. 318), una pratica che non risponde a prescrizioni di metodo.
La domesticità musicale del rumore è, oggi, un fatto acquisito, sia che lo si intenda come disegno di un paesaggio sonoro, drammatizzazione e sottolineatura dei testi con effetti paragonabili all’opera del bruitage, come avviene, per es., nella musica rap americana; sia che lo si intenda invece come vero e proprio materiale per l’elaborazione musicale, come nel caso dei dj-performers che lavorano con suoni generati elettronicamente, oppure con suoni della natura e del mondo animale. I parametri seriali dell’eredità avanguardistica sono, in queste ultime tendenze, superati, se non proprio ignorati, così com’è abbandonata anche quell’esigenza di scrittura e di notazione tradizionale che ancora si riscontra nella già citata City life di Reich. La possibilità di trasformare l’elaborazione digitale del suono in un segnale analogico per la diffusione acustica in ‘tempo reale’, non più appannaggio solo delle grandi apparecchiature dei centri istituzionali di ricerca ma accessibile tramite personal computer, sdoppia il lavoro della composizione in due fasi reciprocamente dipendenti: da un lato, un progetto che seleziona materiali e ne individua linee di sviluppo, dall’altro, una performance che trasforma concretamente in musica il progetto.
Al tempo stesso, l’elaborazione del suono in ‘tempo reale’ permette di raffinare la manipolazione del rumore e di colmare la distanza fra la sperimentazione colta, di matrice accademica, e la sperimentazione effettuata in base alla propria competenza informatica e al proprio istinto musicale. Ad accomunare questi due indirizzi è soprattutto l’interesse per il timbro, la caratteristica più complessa e stratificata del suono. Campionatori, sintetizzatori e software di elaborazione digitale consentono oggi di imitare gli strumenti esistenti, di sviluppare musicalmente il rumore o di creare suoni integralmente nuovi. All’inizio del Novecento era stato Arnold Schönberg (1874-1951) a porre l’accento sulla materia timbrica del suono, teorizzando e praticando quella che egli aveva definito Klangfarbenmelodie, una melodia di timbri, appunto, cioè di colori sonori. Quasi cent’anni più tardi tanto i compositori di formazione accademica quanto gli artisti della scena pop e i radicali della sperimentazione underground continuano ancora a lavorare sulla materia del suono; tuttavia le tecnologie di cui dispongono hanno reso infinitamente più ampio il loro campo di esplorazione e le possibilità di rendere musicale il rumore si sono accresciute fino a minare alle fondamenta il bisogno di ancorarsi fortemente a una precisa tecnica di composizione.
La macchina come medium
La centralità assunta in questo processo dal computer è tale da fugare l’impressione che alcune esperienze isolate dei primi anni del 20° sec. – valga per tutte quella degli Intonarumori costruiti nel 1913 da Luigi Russolo e divenuti poi un emblema del movimento futurista – siano dello stesso segno: in quei primi tentativi, infatti, tipi di suono differenti da quelli degli strumenti classici, e in qualche caso assimilabili al rumore, venivano sottoposti a un trattamento che non sovvertiva i valori musicali della composizione, oppure si presentavano allo stato grezzo – per es., suoni di sirene – come semplice elemento di colore paragonabile all’uso dei campanacci con i quali Gustav Mahler evocava, nelle sue sinfonie, il suono della natura. Oggi, al contrario, l’uso del computer costringe a ripensare le strategie a cui è sottoposto il trattamento del suono. Né grezzo né intonato, il rumore trasforma i principi della composizione purché sia preventivamente manipolato dal medium del computer. Non più affidata a un metalinguaggio compositivo, la sintesi musicale di materiali non preordinati da una gerarchia di valori viene così in prevalenza delegata alle possibilità del mezzo tecnico.
Il pericolo che una simile delega comporta è quello di una «ipervalutazione del medium, promosso a strumento per un’immediata autolegittimazione dell’opera» (Carboni 2005, p. 108). Il destino dei generi musicali, il doppio binario che conduce da un lato al loro superamento, dall’altro alla loro parcellizzazione, è in gran parte legato agli effetti di uno scambio nel quale l’uso, anche virtuosistico, del mezzo tecnologicamente più avanzato viene identificato con la qualità dell’opera o della performance, oppure inteso come segno di una novità potenzialmente inseribile in una forma di catalogazione ulteriore. Il ritorno a una nozione come quella di gusto, la riduzione del giudizio estetico all’espressione di preferenze personali, sono altrettanti sintomi di un processo nel quale, perduto l’orientamento sommariamente fornito dalla distinzione tradizionale fra i generi musicali, come pure fra musica ‘alta’ e ‘bassa’, il fare musicale legittima le proprie scelte in base alla capacità di mettere a frutto le caratteristiche della macchina. È solo apparentemente un paradosso il fatto che, nel momento in cui il rumore viene sistematicamente integrato nell’esperienza musicale, questa si trovi meno esposta all’imprevedibilità e alla contingenza. L’aspettativa del pubblico si è polarizzata fra la ripetizione del già noto e il sensazionalismo della novità tecnologicamente assistita, ma proprio per questo ogni innovazione è come depotenziata a priori, perché già attesa e, dunque, impossibilitata a proporsi come instaurazione di un orizzonte di senso ancora inesplorato. Scriveva Emilio Garroni: «oggi, di fronte all’arte-rischio, che sottrae il senso per restituirlo in negativo, non c’è più l’arte tradizionale o tradizionalista, che donava il senso o si illudeva di poter ancora donare il senso, ma potrebbe esserci piuttosto l’arte di intrattenimento […] che semplicemente accompagna il senso, ignorando radicalmente il non-senso, come se il senso trasparisse naturalmente da ogni fatto, importante o trascurabile, della vita e dell’arte» (Estetica. Uno sguardo-attraverso, 1992, pp. 235-36). Questa osservazione, che Garroni raccordava alla percezione di una «caduta dell’esemplarità dell’arte» nel mondo contemporaneo, si può estendere al campo della musica e trova una conferma proprio nel modo in cui, aggirando il sistema dei generi musicali, è venuta a formarsi una sorta di rete onnicomprensiva nella quale trovano posto, come fattori di unificazione, non solo l’ipervalutazione del medium, ma anche il ritorno intensivo all’uso dell’armonia tradizionale, ovvero della tonalità.
Il ritorno della tonalità
L’equiparazione dei materiali musicali, il collocamento del suono e del rumore in una zona di indistinzione che li legittima a pari titolo, il tendenziale approdo allo svuotamento di contenuti della classificazione dei generi musicali, hanno alle spalle un processo storico di solito definito ‘dissoluzione del linguaggio tonale’. Benché continuamente trasformato nell’arco di tempo che va dal Rinascimento alla prima metà del 20° sec., quel linguaggio aveva offerto ai musicisti e al loro pubblico una serie di punti di riferimento condivisi: relazione tra i suoni, concatenamento armonico, regole di costruzione dei brani e delle melodie. La fine di quel sistema, avviata nella seconda metà del 19° sec. e sancita dall’avvento delle prime avanguardie novecentesche, ha potuto far affermare che il grande evento fondativo della cultura musicale dell’Occidente contemporaneo sia stata la rottura dell’unità linguistica che aveva dominato in precedenza. A partire da questa frattura è stato possibile spingere l’indagine sul suono sino al confine del rumore mettendo a confronto tra loro non più note e forme musicali, ma eventi e oggetti sonori. Che si siano determinate, da simili premesse, confusioni, sovrapposizioni o comunque una diffusa impurità tra generi musicali un tempo distinti, è una conseguenza ovvia. Così com’è ovvio che l’ampliamento dell’orizzonte delle esperienze musicali conosciute, con la valorizzazione di apporti popolari anche extraeuropei non riconducibili all’ambito della tonalità, abbia contribuito a relativizzare il ruolo attribuito a quest’ultima. Meno ovvio, invece, è che un’unità si sia ricostituita, e in parte sia in corso di ricostituzione, precisamente a partire dalla tonalità, ovvero dall’elemento che era stato all’origine della frattura. Se si considera il lavoro sul suono compiuto nel corso del 20° sec. e proseguito agli inizi del 21°, il linguaggio tonale non si rivela all’altezza delle trasformazioni subite dalla musica. Quando si ha a che fare con le proprietà fisiche e percettive dei fenomeni sonori, la nota musicale, le scale e il sistema dell’armonia tradizionale non possono più essere intesi come valide unità di riferimento: l’analisi e la composizione richiedono un grado maggiore di flessibilità, si è portati a isolare nozioni nuove, come quelle di «massa», «grana», «andamento» (P. Schaeffer, Traité des objets musicaux, 1966), oppure a lavorare con distinzioni concettuali più astratte, come le opposizioni «ordine/disordine, semplice/complesso, omogeneo/eterogeneo, analogia/contrasto, continuo/discreto, statico/dinamico etc.» (Molino 2001, p. 773). D’altra parte, negli ultimi trent’anni, in parallelo con la diffusione di massa del computer e dei suoi mezzi di trattamento elettronico del suono, il linguaggio della tonalità è riemerso come fattore di unificazione e motore dello sconfinamento dei generi musicali l’uno nell’altro. Non è possibile ridurre questo fenomeno unicamente a quella che, secondo la classica lettura di Th.W. Adorno, va sotto il nome di industria culturale, ovvero a una forma di amministrazione della produzione culturale che dipende essenzialmente dal mercato. La tonalità, infatti, si è riproposta come principio operativo di facile condivisione nell’incontro e nell’interazione fra culture e tradizioni diverse. Non c’è dubbio che le abitudini del consumo musicale, determinate su scala planetaria dalla diffusione della popular music di impronta americana, abbia facilitato il ricorso alla tonalità, anzi l’abbia reso, nella maggioranza dei casi, una scelta automatica. Ma pubblico e industria culturale sono soltanto uno dei vertici di un triangolo nel quale, oltre alle differenti tradizioni d’origine, bisogna contare come terzo polo il bisogno pragmatico di mettere in comune le esperienze musicali nell’epoca della globalizzazione.
World music e ibridazione culturale
Che si tratti di un aspetto pragmatico lo dimostrano le vicende della world music, genere dai confini molto ampi e fluttuanti, definiti oltretutto non a partire dai metodi delle ricerche etnomusicologiche, bensì a partire dalle pratiche di ibridazione che trovano nel linguaggio tonale della popular music il loro denominatore comune. L’espressione world music venne adottata inizialmente proprio in ambito etnomusicologico: nel 1948 Curt Sachs (1881-1959) la impiegò in una sorta di mappatura delle tradizioni musicali del pianeta, Our musical heritage, facendola comparire nel sottotitolo (A short history of world music) della seconda edizione del volume (1956). Alla fine degli anni Sessanta, però, il suo semplice significato descrittivo venne trasformato nella denominazione di un nuovo genere musicale grazie all’iniziativa di un gruppo di discografici e critici musicali inglesi interessati a rafforzare l’attrattiva commerciale delle musiche pop africane e indiane, fino ad allora denominate afro-pop e indie-pop (Collins 2001, p. 1). Un’operazione da ‘industria culturale’, dunque, ma che divenne nel corso degli anni Ottanta una forma di riconoscimento di pratiche diversissime, unite proprio dal riferimento a un comune impianto tonale. Di fatto, la radice pop delle ibridazioni sperimentate nell’ambito della world music – dalla mescolanza di strumenti popolari ed elettrici, fino alla collaborazione fra musicisti tradizionali e icone dello star system musicale – ne ha fortemente condizionato lo sviluppo e si è evoluta parallelamente al progresso degli strumenti tecnologici per la sintesi e l’elaborazione del suono. Non però l’indagine sul rumore, in questo caso, ma quella sul timbro inteso come ‘colore’ sonoro decontestualizzato, e come veicolo del sincretismo musicale, ha fatto sì che gli ingredienti standard della world music siano diventati appunto il ricorso alle forme della musica rock, a un’elettronica soft e a un sistema di costruzione ereditato dal sistema storico dell’armonia tonale. Un sottogruppo della world music, in italiano denominato musica etnica, è stato introdotto per distinguere, fra le musiche del mondo, quelle che conservano una maggiore vicinanza con le pratiche tradizionali e quelle già sottoposte, invece, a una sorta di livellamento tonale. L’emergere, inoltre, di quel vasto fenomeno culturale che va sotto il nome di New Age, e che anche in musica ha prodotto un genere musicale a sua volta suddiviso in sottocategorie (la più nota e diffusa delle quali è quella battezzata ambient music dall’inglese Brian Eno), ha quasi rovesciato i presupposti del confronto tra le diverse musiche del mondo facendo sì che esse appaiano compatibili fra loro alla sola condizione di essere ricondotte verso un rapporto il più possibile semplice con i principi del linguaggio tonale. Se ne può avere un esempio riferendosi alla predilezione del genere New Age per i codici ripetitivi della corrente minimalista e guardando alla recente collaborazione fra un compositore e pianista italiano, Ludovico Einaudi (n. 1955), e un musicista del Mali, Ballaké Sissoko (n. 1968), interprete della kora, strumento a corde tradizionale: il loro album Diario Mali (2003) è emblematico di questo tipo di simbiosi che opera attraverso il recupero dell’armonia tonale. Ma un esempio ugualmente di rilievo può essere quello del gruppo finlandese Värttinä, fondato nel 1983, il quale a partire da un lavoro di riscoperta delle radici della tradizione ugro-finnica, con attenzione rivolta a una serie di varianti tribali, negli anni Novanta ha elevato a virtuosismo l’innesto di vocalità siberiane e balcaniche, nonché di strumenti musicali di area mediterranea, facendo riferimento in modo sempre più accentuato a un’impronta di tipo pop-rock per unificare tutto il materiale utilizzato. Ancora, la fondazione nel 2001 del gruppo strumentale The silk road ensemble da parte del violoncellista americano di origine cinese Yo-Yo Ma (nato a Parigi nel 1955), offre una simile forma di sincretismo tonale fra strumenti classici e tradizionali, e fra musiche che vanno dal Rinascimento italiano al patrimonio orientale.
Laddove i tentativi di ibridazione e di confronto culturale paiono meno condizionati dal riferimento alla tonalità, ma sono improntati a un diverso atteggiamento sperimentale, gli innesti trovano spesso la loro ragion d’essere nell’adozione di sistemi di scrittura più complessi, ma di nuovo riconducibili all’influenza dei linguaggi accademici maturati in Occidente. Così è, per es., nella musica del cinese Tan Dun (n. 1957), il quale passa da opere liriche come Tea – A mirror of soul, con un organico di strumenti di ceramica, pietra, carta e orchestra sinfonica, a colonne sonore come quella del film di Ang Lee Wo hu cang long, noto con il titolo Crouching tiger, hidden dragon (2000; La tigre e il dragone), premiata con l’Oscar nel 2001. Ma è anche il caso di compositori che inseriscono strumenti tradizionali in generi musicali classici come quelli dell’opera o del concerto, quasi che tali generi costituiscano una cornice sufficientemente solida da giustificare la presenza di materiali eterogenei. Se ne può dedurre che globalizzazione, sincretismo e ibridazione spingono verso il superamento dei generi tradizionali per crearne di nuovi, concepiti ad hoc, quando la sintesi è operata da un metalinguaggio condiviso – la tonalità –, da forme familiari a livello mondiale per la loro diffusione commerciale – la canzone pop, le sonorità e i ritmi della musica rock –, oppure dal medium elettroacustico. Spingono, invece, verso la riappropriazione di generi musicali più in linea con la tradizione eurocolta quando rinunciano a quei fattori unificanti. È sintomatico, d’altra parte, il fatto che nelle culture che hanno opposto maggiore chiusura nei confronti della musica pop occidentale, per es., in quelli arabi, fenomeni di sincretismo come quelli fin qui descritti siano molto meno presenti e che l’innesto di strumenti, linguaggi e pratiche della cultura araba nell’Occidente europeo siano legati soprattutto alla riscoperta delle tradizioni più arcaiche della musica dell’area mediterranea, risalendo fin verso epoche e luoghi che furono teatro di un continuo e fecondo contatto culturale.
Un’epoca di stabilità estetica
Nel 1967, nel volume Music, the arts and ideas, il compositore e musicologo americano Leonard B. Meyer (1918-2007) avanzava tesi che, lette oggi, paiono sorprendentemente anticipatrici. «Non solo», egli scrive, «i diversi stili contemporanei potranno svilupparsi fianco a fianco», ma «gli stili del passato saranno in grado di coesistere con gli attuali come costruzioni valide, coerenti e potenzialmente vitali. Analogamente, sarà concesso […] all’Occidente di prendere in prestito elementi di altre culture. Il mutamento sarà possibile. Ma l’invenzione di nuove costruzioni o il recupero di altre più antiche non produrrà necessariamente, e nemmeno probabilmente, uno sviluppo cumulativo», al contrario: «il mutamento tenderà ad assumere la forma di una stasi fluttuante» (p. 153). Un periodo di immobilità, in effetti, e di un’estetica della stabilità è quello che accompagna la recente mescolanza e ridefinizione dei generi musicali. L’ipotesi di Meyer suppone pur sempre una visione della storia orientata da linee di movimento o di tendenza che si sarebbero provvisoriamente, ma per un periodo dalla durata imprevedibile, sospese. Oggi constatiamo che i tentativi di fusione e di ibridazione, di collage stilistico e culturale che pure Meyer aveva previsto privilegiano, piuttosto che il tempo e la storia, lo spazio come dimensione operativa e di intervento, si tratti dello spazio geografico, concreto, oppure di quello immateriale messo in condivisione tramite Internet. Sono appunto la pari dignità degli stili, l’eterogeneità degli elementi messi in comune, l’integrazione del rumore in musica resa sistematica dal computer, la sopravvivenza di elementi unificanti la cui condivisione dipende dalla diffusione planetaria di una forma commercialmente prevalente, a caratterizzare un momento nel quale la prospettiva di ulteriori incroci appare più verosimile del riemergere di una tendenza estetica in grado di unificare gli sviluppi futuri della musica. Questa ha perduto, nel Novecento, la sua secolare unità linguistica per ritrovarla in forma dispersa, ancorata ai suoi principi più consolidati ed elementari. Contemporaneamente l’incremento della delega tecnica produce un campo d’esperienza nel quale l’apertura all’eterogeneo, all’imprevedibile e al contingente appare ridotta a misura che gli effetti dei suoni elettronicamente manipolati vengono codificati in standard ai quali l’ascoltatore è chiamato a reagire individualmente, secondo le proprie predilezioni e la propria cultura. La querelle sui generi musicali è direttamente legata, da questo punto di vista, a quella sugli stili, e il tramonto delle distinzioni tradizionali sembra il prodotto dell’equiparazione complessiva tra forme, sonorità e materiali che vengono il più delle volte giustapposti, seguendo la pratica ormai consueta del ‘taglia e incolla’, ma anche sapientemente elaborati in base alle possibilità offerte da nuovi software per il trattamento del suono.
Stile, autorialità e generi musicali
Sulla questione degli stili, però, è opportuno riferirsi a parole scritte da Adorno: «i grandi artisti non sono mai stati quelli che incarnavano lo stile nel modo più puro, più lineare e più perfetto», ma quelli che «si sono riservati il diritto di diffidare dello stile e […] si sono tenuti meno ad esso che alla logica interna dell’oggetto». A essersi conformata allo stile prevalente, inteso come «somiglianza con le altre opere» e dunque «surrogato della propria identità» mancante, è stata semmai «l’opera mediocre», nella quale possiamo leggere non lo spirito dell’arte come tale, bensì uno specchio del mondo sociale a cui quell’opera è appartenuta (Die Dialektik der Aufklärung, 1947; trad. it. 19974, pp. 137-38). Inteso come lo stile dominante di un’epoca contrassegnata da una fluttuante stabilità estetica, il superamento dei generi musicali si rivela un fenomeno ambivalente e in ogni caso meno glorioso di quanto non affermi la retorica che a esso si accompagna. Alle sue spalle, come unico punto di riferimento, si profila una questione a prima vista liquidata dalle teorie strutturaliste degli anni Sessanta e poi, più massicciamente, dalla polverizzazione delle pratiche musicali – e artistiche in genere – resa possibile dalla tecnologia e da Internet: la questione dell’autorialità. È la figura dell’autore a imporsi come criterio distintivo fra le diverse esperienze della musica, al punto tale che il luogo comune per cui a ogni compositore corrisponde attualmente una diversa estetica si dimostra vero soltanto nei casi nei quali la ricerca individuale rompe le frontiere dello stile e vanifica la preoccupazione di non allinearsi a qualsivoglia genere musicale per rispondere a un’esigenza di autonomia dell’opera prodotta.
L’importanza attribuita all’autorialità rimane coerente, tuttavia, con la tendenza alla parcellizzazione dei generi musicali e si profila come un criterio d’ordine pur sempre problematico. Il nominalismo dei generi musicali vecchi e nuovi trova la sua giustificazione in quello che ancora Adorno definiva «un elemento universale dell’arte» non riducibile a classificazioni di tipo didattico, accademico o commerciale (Ästhetische Theorie, 1970; trad. it. 1975, p. 336). «Il genere», scrive Adorno, «accumula in sé l’autenticità delle singole creazioni artistiche» e ne diviene una caratteristica immanente, un principium individuationis che permette di sollevarle dal loro carattere irriducibilmente singolare (pp. 336-37). È chiaro, invece, come la concentrazione sull’autore e la moltiplicazione dei generi musicali stemperino la potenzialità strutturante dell’opera, la possibilità che essa dia luogo a un territorio d’esperienza formata, limitando lo sguardo a singolarità non proiettabili verso un orizzonte più ampio. L’autore diviene un principium individuationis sostitutivo dei generi musicali, ma ciò che questi, sebbene transeunti e modificabili, hanno in comune «con l’idea platonica» – sono ancora parole di Adorno (p. 338) – non è applicabile all’individualità dell’autore se non a prezzo di convenire con le strategie dello star system. Un’epoca di stabilità estetica, d’altra parte, non autorizza molto di più, e solo in rari casi l’opera e le intuizioni di un autore finiscono per coincidere con la codificazione di un genere musicale: si pensi al legame che tuttora istituiamo tra John Cage (1912-1992) e la musica aleatoria, così come tra Gérard Grisey (1946-1998) e la musica spettrale, oppure tra B. Eno (n. 1948) e la ambient music. L’invenzione di un genere musicale, detto altrimenti, si prefigura come l’unica possibilità di sollevare la propria pratica musicale dal piano della mera singolarità a quello di un’universalità comunque provvisoria e circoscritta.
L’unico ambito nel quale la diatriba sui generi sembra non avere esercitato gran peso è quello del jazz, nel quale pure le distinzioni interne di genere non mancano. Qui, però, quello dell’autorialità è un principio diffuso e transeunte, che si consuma nel momento dell’esecuzione (che possa essere fissato su disco non è significativo al riguardo) e che mette in comune le personalità più differenti, ciascuna delle quali può contribuire all’evento musicale con un proprio apporto originale. È sintomatico che le collaborazioni fra musicisti jazz delle estrazioni più diverse vengano definite ‘progetti’ e che un conoscitore di quel tipo di musica si distingua per il fatto di sapere riconoscere una lista pressoché interminabile di nomi, riflesso appunto di quell’apporto personale dato da ciascuno dei partecipanti a un’esecuzione. All’ombra di un’ingannevole definizione di generi musicali, come già si è detto, il jazz è oggi rimasto un luogo in cui né l’uso della tecnologia, né il ricorso a formule comuni, come la tonalità, protegge dall’imprevedibile e dal contingente. Che una simile nozione dell’autorialità, indebolita rispetto al modo in cui l’abbiamo classicamente concepita, e che un territorio originariamente ibrido come quello del jazz rappresentino, attualmente, il luogo di alcune fra le istanze più vitali della nuova musica, lascia intendere che anche un’epoca di stasi estetica può essere percorsa in maniere differenti, senza dover correre necessariamente il rischio dell’assoluta omologazione.
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