I giornali: ombra e riflesso
I giornali cattolici: un universo straordinariamente ampio e ben difficilmente circoscrivibile. Alcuni organi formalmente cattolici sono lontani da legami con le istituzioni ecclesiastiche o sono addirittura portatori di una forte polemica anti-istituzionale. Altri, pur non ispirandosi a strette motivazioni di fede, tendono a individuare nel cattolicesimo riferimenti ideali capaci di rafforzare valori comuni, come il senso civico o la coesione sociale1.
Molti altri casi potrebbero essere descritti, ma qui preme soprattutto osservare che attualmente non esistono mappe, cataloghi o lavori di sintesi capaci di descrivere compiutamente questo variegato arcipelago (a cui certo possono essere ascritti anche gli organi dei partiti e dei sindacati di ispirazione cattolica) e che nemmeno le pagine seguenti hanno la pretesa di superare tali lacune, proponendosi di descrivere un ben limitato settore: quello della stampa cattolica quotidiana. Un mondo, questo, che soprattutto a partire dall’inizio del secolo XX avrebbe peraltro rivestito un ruolo non trascurabile, all’interno dell’universo editoriale cattolico2.
Nel marzo 1848, promulgando lo Statuto albertino, il Regno di Sardegna si dota di una legislazione di impianto liberale, che favorisce un rapido sviluppo del settore della stampa3. La svolta coinvolge immediatamente anche i giornali cattolici, che si gettano nella nuova avventura con entusiasmo, anche se in gran parte con l’intento di avversare le politiche di quegli stessi governi liberali che avevano voluto la nuova legislazione. D’altra parte i governi liberali, sia pure in assenza di un vasto pubblico di lettori (a causa dell’elevato tasso di analfabetismo nel paese, della scarsa abitudine alla partecipazione alla vita pubblica, del suffragio elettorale ancora ristretto e del costo mediamente elevato dei giornali), utilizzeranno a loro volta ampiamente – e talvolta in maniera poco limpida – i giornali per conseguire fini politici e gestire il consenso4.
Anche dopo l’unificazione e l’estensione a tutti i territori nazionali delle garanzie statutarie, la stampa cattolica quotidiana – pur presentando una certa diversificazione interna – rimane in gran parte prerogativa del fronte intransigente, vale a dire delle tendenze di quei cattolici che rifiutano con sdegno i principi, i modi e i tempi di costituzione del nuovo Stato e si stringono attorno a un papa ‘prigioniero’ e ‘offeso’.
Con toni da stato d’assedio tale stampa – che, secondo un approssimativo censimento compiuto nel 1863, vanta al suo attivo non meno di una decina di testate5 – si fa portavoce soprattutto dei diritti ‘violati’ della Chiesa e dei bisogni delle masse popolari, adoperandosi nel contempo per stigmatizzare gli ‘abusi’ e le inefficienze della classe liberale al potere6.
La stampa intransigente ha un vero e proprio antesignano nel bisettimanale l’«Armonia della religione colla civiltà», affermatosi nel Regno sabaudo – ma poi anche fuori dai suoi confini – come l’emblema stesso dell’«opposizione cattolica»7. Il giornale nasce nel luglio 1848 per iniziativa del vescovo di Ivrea Luigi Moreno, manifestando inizialmente posizioni piuttosto moderate, tanto da indurlo a guardare con un certo favore anche alle tesi del Primato giobertiano. Poi, dal 1850 (dopo l’approvazione dei primi provvedimenti «anticlericali» e con l’approdo alla direzione del marchese Carlo Emanuele Birago di Vische), inizia ad assumere chiari caratteri di intransigenza, linea favorita anche dall’imporsi, all’interno della sua redazione, del sacerdote sanremese Giacomo Margotti8. Penna brillante, abile polemista, quest’ultimo, pur non essendone direttore, esercita un’influenza determinante sulla testata, divenuta quotidiana nel 1855, segnalandosi anche per alcuni fortunati motti9. Uno in particolare – ‘Né eletti, né elettori’ – usato alla vigilia delle elezioni del 1861, si afferma come uno degli slogan preferiti del fronte astensionista cattolico, riassunto tredici anni dopo nella altrettanto celebre formula del non expedit papale. Nel 1862, dopo la morte di Birago, Margotti diventa a tutti gli effetti direttore, circostanza che peraltro non giova ai destini della testata. Le crescenti divergenze con il vescovo Moreno spingono anzi il sacerdote ligure ad allontanarsi dal giornale e, nell’ottobre 1863, a fondarne a Torino uno nuovo: «L’Unità cattolica»10.
A Milano un ruolo simile a quello interpretato dall’«Armonia» viene assunto da «L’Osservatore cattolico», nato nel gennaio 1864 sulle ceneri de «L’Osservatore lombardo» di Brescia. Inizialmente diretto da Giuseppe Marinoni e da Francesco Vittadini, esso acquisisce i suoi caratteristici tratti di durezza soprattutto dopo il 1872, con il passaggio della sua guida nelle mani di tre sacerdoti: Enrico Massara, Carlo Locatelli e Davide Albertario. Soprattutto quest’ultimo ne determina il taglio e l’impostazione11, rendendolo vivace, assai polemico, sarcasticamente sottile e votato a un’intransigenza non priva di suggestioni in campo sociale12. Il quotidiano non trova nulla nello Stato liberale di veramente accettabile, niente di auspicabile, al di fuori del ritorno al potere temporale dei papi. Nel corso degli anni esso rafforza anzi ulteriormente i toni della sua polemica, tanto che i suoi strali giungono a colpire anche eminenti figure di cattolici moderati, a partire dall’arcivescovo di Milano Luigi Nazari di Calabiana, simpatizzante per la filosofia rosminiana e contrario a un’assoluta intransigenza dei cattolici in campo politico. Giornale e arcivescovo giungono ai ferri corti nel 1878, quandoNazari ordina lo scioglimento della redazione, iniziativa a cuiAlbertario risponde ricorrendo aPio IX. Alla fine si giunge a un accordo in base al quale al giornale viene garantita l’esistenza, ma sotto la stretta vigilanza di un’apposita commissione13.
Nel complesso estranei alla violenza di toni dell’«Armonia» e de «L’Osservatore» sono invece altri due quotidiani lombardi destinati a una lunga esistenza: «L’Eco di Bergamo», fondato nel 1888 da un comitato di laici appoggiato dal vescovo Gaetano Camillo Guindani, e «Il Cittadino» di Brescia, nato il 13 aprile 1878 per iniziativa di un gruppo di esponenti dell’attivissimo movimento cattolico, tra cui il teologo Pietro Capretti e Giorgio Montini, che dal 1881 ne assume la direzione14. Piuttosto incline a una certa moderazione in campo politico, sino a manifestare qualche apertura rispetto a un possibile superamento del non expedit papale, proprio quest’ultimo quotidiano si fa promotore, in occasione delle elezioni del 1880, della formula della ‘preparazione nell’astensione’, poi ampiamente ripresa da altri giornali cattolici e – anni dopo – dallo stesso «Osservatore romano».
Tutt’altra impostazione esprime a Como «L’Ordine», nato nell’agosto 1879 come trisettimanale e divenuto quotidiano nel 1885. Il giornale, che non nasconde la sua scarsa propensione al dialogo con le istituzioni, viene non a caso diretto da un vero e proprio campione dell’intransigentismo, Enrico Massara (ex collaboratore di Albertario a «L’Osservatore cattolico»), il quale rivendica un’opposizione compatta contro lo Stato e un’esaltazione del ruolo della Chiesa e della religione come fondamenti necessari del vivere civile. «L’Ordine» si scontra spesso anche con la censura governativa, che lo colpisce con un sequestro quasi immediato prendendo a pretesto un articolo di commemorazione del nono anniversario di Porta Pia, significativamente intitolato Una data nefasta15. Solo con il trascorrere dei decenni e il mutare delle condizioni politiche certe punte di durezza del giornale si ridurranno, sino a trasformarsi in una maggiore apertura rispetto a un possibile compromesso con i liberali e a un’evoluzione del ruolo dei cattolici all’interno dello Stato.
A Genova, a partire dal settembre 1873, il fronte intransigente viene animato da «Il Cittadino», sorto sotto l’egida dell’arcivescovo Salvatore Magnasco per iniziativa di un gruppo di cattolici papalini, tra cui Maurizio Dufour, Lorenzo Enrico Peirano e Antonio Rivara, suo primo direttore. Per quanto esplicitamente antigovernativo, il quotidiano si dimostra nel complesso piuttosto moderato nei toni, almeno sino a quando la sua guida non viene assunta dal battagliero Ernesto Callegari, che si afferma come una delle migliori penne della storia del giornalismo cattolico.
A Roma e nel Lazio la difesa delle ragioni del papa e della Chiesa viene principalmente assunta da «La Voce della Verità», nata l’8 aprile 1871 come organo della Società primaria romana per gli interessi cattolici e capofila di quella vasta e agguerrita flottiglia di testate romane di cui fa parte anche «La Frusta»16. Nel 1879, dopo la fusione con «Il Messaggero» di Firenze, il giornale perde temporaneamente – in linea con le nuove tendenze espresse da Leone XIII in ambito politico – una parte della sua vis polemica. All’inizio degli anni Novanta, con il passaggio della direzione al battagliero Giuseppe Sacchetti, ritorna di nuovo a una spiccata intransigenza, che si attenua parzialmente tre anni e mezzo dopo, con l’approdo al giornale del marchese Lorenzo Bottini.
Diverso, anche per via del suo particolare ruolo, appare il caso de «L’Osservatore romano», nato a Roma il 1° luglio 1861 per iniziativa del forlivese Nicola Zanchini e del bolognese Giuseppe Bastia, due cattolici papalini rifugiatisi nella capitale dopo l’annessione all’Italia delle legazioni pontificie. Il giornale – apertamente schierato, durante tutto il periodo liberale, su posizioni di convinto temporalismo – nel 1870 assume infatti il ruolo di organo ufficiale della Santa Sede, circostanza che contribuisce a renderlo poco incline all’esasperazione dei toni tipica di altra stampa intransigente17. Se inoltre, durante i primi anni di vita, attraversa un’esistenza difficile, segnata da vari cambi di gestione, esso riesce nel corso dei decenni a consolidare la sua struttura e la sua diffusione.
Poco numerosi sono a Roma gli organi favorevoli a un’intesa con il nuovo Stato e a una politica che favorisca la formazione di gruppi cattolici liberal-conservatori. Tali organi – da «L’Aurora» a «Le Moniteur de Rome», a «Il Conservatore» – vedono per giunta la luce solo dopo la morte, nel febbraio 1878, di Pio IX.
Per quanto concerne il Napoletano, il compito di tenere vive le ragioni del fronte intransigente viene assunto da «La Libertà cattolica», testata nata nel 1865 a Venezia sotto la guida di Pietro Balan, ma trasferitasi appunto a Napoli il 15 febbraio 186718, a causa della violenta campagna messa in atto dal suo direttore dopo il passaggio del Veneto all’Italia. Anche a Napoli il giornale mantiene una linea di dura intransigenza, vicina a quella della breve stagione veneziana, che lo pone molto distante dall’atteggiamento del concittadino «Il Conciliatore».
Quando, in quello stesso anno, il direttore Girolamo Milone muore – e la direzione passa al fratello Cristoforo – «La Libertà» entra tuttavia in una fase di grave crisi, circostanza di cui si avvantaggia indirettamente un altro quotidiano napoletano, «La Discussione», che riesce a interpretare meglio le due principali anime del mondo cattolico locale: quella antiliberale e temporalista e quella ancora legata a sentimenti di legittimismo filoborbonico e non del tutto estranea alle tendenze del separatismo meridionale19. Il difficile periodo prosegue fino al 1890, anno in cui il futuro cardinale Gennaro Granito di Belmonte riesce a rilanciare il giornale. Allo scopo, egli si affida al sacerdote Giuseppe Pisapia, che ne muta formato, veste tipografica e orientamento, lungo una prospettiva meglio in linea con le aperture della lettera enciclica Rerum novarum20. Anche dopo il 1897, quando il marchese Gaetano De Felice lo rileva, diventandone poi direttore, il programma del giornale rimane sostanzialmente lo stesso, come pure i principali collaboratori; a partire da Rocca d’Adria (pseudonimo di Cesare Algranati), futuro direttore de «La Democrazia cristiana» di Torino e de «L’Avvenire d’Italia». In occasione dei moti milanesi del 1898 ritroveremo significativamente «La Libertà» lodare l’azione delle istituzioni, evidenziando l’abisso che separa il comportamento dei cattolici da quello dei socialisti.
Per quanto concerne la Sicilia, il ruolo di voce principale del fronte intransigente viene assunto dal bisettimanale «La Sicilia cattolica», nato nel 1868 come portavoce della curia palermitana, guidata dal cardinale Michelangelo Celesia. La testata sopravvive sino alla morte dello stesso alto prelato, avvenuta nel 1904, caratterizzandosi per un atteggiamento non sempre duro e anzi talvolta di relativa apertura verso le forze liberali non anticlericali21.
Molto breve si rivela invece l’esperienza del palermitano «Il Sole del Mezzogiorno» (1901-1903), promosso dall’Opera dei congressi, a cui collaborano alcune figure di rilievo del mondo cattolico (Paolo Mattei Gentili, Giovanni Semeria, Luigi Sturzo, Giovanni Battista Valente) e la cui vita coincide di fatto con quella della murriana Democrazia cristiana siciliana22.
Negli anni compresi tra l’unificazione e la crisi di fine secolo la stampa cattolica – soprattutto quella intransigente – conosce dunque una stagione decisamente intensa, per lo meno sotto il profilo quantitativo. Secondo i dati attualmente disponibili, il numero di quotidiani a essa ascrivibili, molti dei quali poco diffusi e ancora scarsamente studiati, ammonta a non meno di una ventina all’inizio degli anni Settanta, a 26 nel 1887, a 25 nel 1893, a 29 nel 190423.
A livello qualitativo la stampa cattolica non appare tuttavia in grado di reggere il confronto con la stampa liberale. Tecnicamente antiquata, culturalmente modesta (se si esclude una parte di quella di ispirazione conciliatorista, timorosa di un possibile allontanamento dalla Chiesa dei ceti intellettuali cattolici che hanno guardato con favore al processo risorgimentale), si dimostra inoltre povera di strutture organizzative e non immune da una certa tendenza al provincialismo e al localismo.
I fatti del 1898 e la conseguente reazione governativa coinvolgono diversi organi di stampa, soprattutto socialisti e cattolici, che vengono accusati di tramare contro le istituzioni. L’opinione secondo cui i tumulti nascono da una cospirazione rivoluzionaria non ha reale fondamento, ma viene ugualmente sfruttata dal governo per giustificare la repressione. Gli scontri tra forza pubblica e dimostranti sono durissimi, soprattutto a Milano, dove viene data carta bianca al generale Bava Beccaris. Varie associazioni operaie e socialiste vengono sciolte, alcuni dei loro leader imprigionati.
Per quanto concerne il mondo cattolico, molta impressione desta la condanna al carcere di don Albertario, l’ardimentoso direttore de «L’Osservatore cattolico»; una sensazione che, peraltro, non si traduce in una levata di scudi in sua difesa. Al contrario, pochi esponenti cattolici si spenderanno per sostenere il sacerdote lombardo, mentre dal fronte moderato e transigente alcuni lo accuseranno addirittura di istigare il popolo alla ribellione, provocando le inevitabili ritorsioni del governo. Altri finiranno per convincersi dell’esigenza di dare vita a un blocco d’ordine formato da liberali e cattolici moderati.
Sta di fatto che, dopo gli avvenimenti del 1898, alcuni organi di stampa (a partire da «L’Osservatore cattolico», diretto, durante la detenzione di Albertario, da Filippo Meda) attenueranno i propri toni, tendendo a rivendicare con sempre maggiore forza i propri caratteri non sovversivi.
Sul piano politico generale, la crisi di fine secolo e il regicidio del 29 luglio 1900 segnano idealmente l’inizio di una nuova stagione, quella giolittiana, caratterizzata da alcune importanti riforme in campo economico e sociale, da una crescente affermazione dei principi liberali e democratici e da un certa espansione dei consumi privati.
Con l’inizio del primo decennio del Novecento, anche le tirature dei maggiori quotidiani nazionali raggiungono quote significative («Il Corriere della sera», ad esempio, giunge a superare le 200.000 copie giornaliere). Le imprese pubblicistiche si sprovincializzano, diventano organismi complessi, gestiti con criteri di economia e programmazione. Tra il 1902 e il 1903 vengono installati da alcuni giornali torinesi e milanesi i primi collegamenti telefonici con Roma e Parigi. Le redazioni dei maggiori quotidiani annoverano ormai nuove figure professionali, come quelle dello stenografo, del corrispondente, del cronista, del reporter, con una inevitabile lievitazione dei costi24.
Anche in conseguenza di questo nuovo stato di cose, alla fine del primo decennio del Novecento la tendenza all’ingresso, nella gestione delle testate, di grandi gruppi industriali e finanziari si accresce. Di fronte alle prime crisi di sovrapproduzione, alle crescenti rivendicazioni dei lavoratori, a un corpo sociale modificato (anche come conseguenza del progressivo allargamento del suffragio), questi ultimi si trovano del resto a dover adottare nuove strategie per difendere i propri interessi. Attraverso il ricorso ai giornali essi tentano di influenzare le scelte dei governi (il cui ruolo, come promotori di investimenti e garanti delle politiche commerciali e doganali, inizia a farsi rilevante) e di creare un clima politico a loro favorevole25.
Pure la stampa cattolica si trova a doversi confrontare con queste sfide, in particolare con quella di un nuovo impegno, in campo politico e sociale, idealmente tracciato nelle sue linee generali dall’enciclica Rerum novarum e dalla nascente scuola sociale cristiana (ma anche con quella di un’accettazione, ormai auspicata da molti, delle istituzioni liberali). Per tale stampa diventa inoltre improrogabile l’esigenza di attrezzarsi per esercitare una opportuna influenza su una serie di nuovi professionisti della penna – redattori, corrispondenti, corsivisti – che si apprestano ad affacciarsi sulla scena pubblica e il cui rilievo inizia a essere ricordato anche nelle lettere pastorali dei vescovi. Si tratta di un dato da non sottovalutare, se si pensa che proprio questi giornalisti verranno chiamati a divulgare il magistero ecclesiastico tra una massa potenzialmente molto ampia di lettori.
Anche la stampa quotidiana cattolica, nell’ambito di un contesto politico e sociale in trasformazione, tenta dunque di non presentarsi impreparata alla sfida dell’inserimento delle masse cattoliche nella vita politica liberale26, nella consapevolezza di dovere adattare ai tempi la sua struttura, la sua impostazione e pure il suo linguaggio27.
Con l’inizio del secolo il peso dei sopravvissuti giornali intransigenti sembra ineluttabilmente destinato ad affievolirsi, a fronte del deciso rafforzamento di quelli favorevoli a un ingresso dei cattolici nel quadro del sistema politico nazionale. Non appare dunque un caso che, proprio in tale ambito, si esprima il principale tentativo cattolico di dare vita a una stampa di informazione all’altezza di quella liberale: la costituzione, nel 1907, di un grande trust editoriale, per opera del conte Giovanni Grosoli.
Nato a Carpi il 31 agosto 1859, giovanissimo promotore di molte iniziative del laicato cattolico nel Ferrarese, Grosoli si era sino ad allora distinto come fondatore del quotidiano bolognese «L’Avvenire» (assieme a un uomo di spicco dell’intransigenza cattolica, Giovanni Acquaderni, che ne era divenuto primo direttore). Nel 1902 gli era stato affidato il compito di sostituire Giambattista Paganuzzi nella difficile fase che aveva preceduto lo scioglimento dell’Opera dei congressi, caratterizzata dal duro conflitto fra i seguaci dell’intransigentismo sociale di Romolo Murri e quello dei gruppi conservatori28.
Dopo un periodo di vita relativamente appartata, nel giugno 1907 Grosoli decide di tornare nuovamente alla ribalta, dando appunto vita – grazie anche al contribuito di alcune banche cattoliche, tra cui il Banco di Roma – alla Società editrice romana (la Ser), con l’obiettivo di creare un cartello della stampa cattolica non direttamente dipendente dalla gerarchia e capace di rivaleggiare, per strumenti e livello tecnico, con la grande stampa liberale.
Nel giro di poco tempo il nuovo trust si trova a raggruppare buona parte dei maggiori quotidiani cattolici dell’epoca: «L’Avvenire» di Bologna, «L’Italia» di Milano, «Il Momento» di Torino, «Il Corriere d’Italia» di Roma29.
Il primo, «L’Avvenire» («L’Avvenire d’Italia» dal 1902), era nato a Bologna nel 1896, dimostrando sin dall’inizio un orientamento intransigente, anche se il suo appoggio all’esperienza della Lega democratica nazionale di Murri aveva poi contribuito a renderlo piuttosto inviso a una parte dell’episcopato emiliano e allo stesso pontefice30. Il secondo, «L’Italia», era stato fondato a Milano il 25 giugno 1912, sulle ceneri dell’«Unione» di Filippo Meda, che aveva appena cessato di esistere31. Esso si era caratterizzato per un approccio moderno e politicamente ‘libero’, tale da determinare, nel volgere di pochi mesi, un certo sospetto tra i cattolici intransigenti e la stessa Santa Sede. Quanto a «Il Momento», quotidiano fondato a Torino nell’ottobre 1903 e inizialmente diretto daAngelo Mauri (economista e giornalista che aveva lavorato precedentemente a «L’Osservatore cattolico»), esso aveva invece tentato di mantenere buoni rapporti sia con la Curia sia con i governi liberali32. Gli sforzi per affermarsi come un organo moderno e aggiornato non avevano tuttavia sortito i risultati sperati. Tanto che, incapace di diffondersi oltre la ristretta cerchia del clero e dei militanti cattolici, aveva dovuto affrontare varie vicissitudini finanziarie. Nel 1912 esso era passato sotto il controllo del trust grosoliano, che si era accollato anche una parte del deficit.
Un discorso a parte va fatto per «Il Corriere d’Italia», quotidiano nato nella capitale il 26 luglio 1906 su posizioni moderate e conciliatoriste, molto vicine a quelle del vecchio «Giornale di Roma». A fondarlo è un gruppo di ‘conservatori nazionali’ raccolti attorno al principe Ugo Boncompagni Ludovisi, al conte Carlo Santucci e ai vertici del Banco di Roma. Inizialmente la direzione era stata affidata al marchese Gaetano De Felice, poi era passata al futuro deputato del Partito popolare Paolo Mattei Gentili. La nomina di quest’ultimo aveva seguito di poco il passaggio del giornale sotto il controllo della Ser di Grosoli.
A partire da quel momento il quotidiano dimostra l’intenzione di diventare un organo di «penetrazione», capace di misurarsi con il mercato, di rivaleggiare con i quotidiani liberali, di offrire una informazione «varia» e un notiziario «sempre fresco»; di trasformarsi, insomma, in un «bel giornale», per gli standard qualitativi del periodo, aperto anche ai temi della politica nazionale e della cronaca internazionale33. Con l’andare del tempo proprio questo suo approccio finisce tuttavia per renderlo, agli occhi della Santa Sede, sin troppo libero e laico, tanto da indurre il 1° dicembre 1912 Pio X, attraverso un’Avvertenza pubblicata sugli Acta Apostolicae Sedis, a dichiararlo (ma nella stessa condanna cadono anche gli altri quotidiani del trust) non conforme «alle direttive pontificie».
Anche la campagna favorevole alla guerra di Libia, durante la quale «Il Corriere d’Italia» si spinge a equiparare l’impresa a una crociata cristiana contro gli «infedeli» e in cui appare evidente il tentativo di porsi a difesa degli interessi del Banco di Roma, viene disapprovata dalla Santa Sede e dal suo organo «L’Osservatore romano»34.
Queste pesanti ferite inferte a una famiglia di giornali ritenuti troppo vicini a quelli liberali segnano profondamente i destini dell’impresa di Grosoli. Attanagliata da un grave passivo finanziario, nel 1916 – dopo l’elezione al soglio pontificio di papa Benedetto XV – la Ser, a cui la Santa Sede rinnova nuovamente le sue «riserve», viene sostituita dall’Unione editoriale italiana. Una situazione di crescente dissesto, alla quale Grosoli tenta di fare fronte ricorrendo al patrimonio familiare, rende tuttavia inevitabile, il 30 settembre 1918, anche lo scioglimento dell’Uei.
Ha termine in questo modo, all’interno di un panorama dominato dalla grande stampa liberale, il primo massiccio e concorrenziale tentativo di sfida editoriale cattolica.
La guerra del 1914-1918 e l’intenso sforzo propagandistico che ad essa si accompagna segnano, per una nazione di recente formazione come l’Italia, la prima grande esperienza collettiva di mobilitazione.
Accanto alla nascita di numerosi fogli interventisti e alla quasi scomparsa delle manifestazioni di opposizione, derivante dai vincoli imposti dalla censura militare, si assiste al proliferare di varie pubblicazioni di ispirazione religiosa, che si sforzano di sostenere l’accettazione rassegnata degli effetti della guerra e tentano di offrire conforto morale alle vittime del conflitto (una stampa, questa, che in una certa misura contribuisce a rafforzare l’integrazione dei cattolici nella vita dello Stato, poi politicamente sancita dalla nascita del Partito popolare diLuigi Sturzo e dall’abrogazione del non expedit).
Se durante la guerra il patriottismo di molti giornali cattolici non si dimostra inferiore a quello della stampa liberale, dopo la sua fine sono soprattutto i giornali legati al neonato Ppi e ai nascenti sindacati cattolici, riuniti nella Confederazione italiana dei lavoratori, a distinguersi per i loro toni vivaci e per una piena adesione ai principi della competizione democratica. A questi si aggiungono i giornali del disciolto trust e una parte dei settimanali diocesani, che – difficile dire con quale reale consapevolezza – si lasciano coinvolgere nell’euforia per la nascita del nuovo partito, di cui tendono a rilevare soprattutto la connotazione moderata e la vocazione antisocialista.
L’ascesa al potere di Mussolini e le successive ‘leggi fascistissime’ del 1926 sono gravide di pesanti riflessi su questo universo e va qui osservato che le maggiori ricadute, almeno sotto il profilo quantitativo, si verificano proprio tra i quotidiani. Basti pensare che se nel settembre 1924 esistono in Italia 21 quotidiani cattolici (22, se si considera anche «L’Osservatore romano»)35, all’inizio degli anni Trenta ne resteranno in vita solo cinque.
Ben poco sapevamo, sino a qualche anno fa, del reale peso numerico rivestito dalla stampa quotidiana cattolica durante il regime. Oggi siamo invece in grado di disporre di alcuni dati significativi. Particolarmente interessanti appaiono ad esempio quelli riferiti al 1936: un anno situato nel bel mezzo della quasi decennale battaglia condotta dai vertici dell’Azione cattolica per incentivare la lettura dei quotidiani cattolici e al confine tra due eventi – la guerra d’Etiopia e la guerra di Spagna – che indurranno notevoli incrementi nelle tirature di tutti i principali organi di informazione36. Ebbene nel 1936 i cinque quotidiani cattolici ancora in vita, «L’Avvenire d’Italia» di Bologna, «L’Italia» di Milano, «Il nuovo Cittadino» di Genova, «L’Eco di Bergamo» e «L’Ordine» di Como tirano rispettivamente tra le 48.900 e le 60.000, le 30.000 e le 55.000, le 12.000 e le 15.000, le 7.000 e le 7.500 e le 1.500 e le 2.000 copie. L’«Osservatore romano», giuridicamente «italiano» solo fino alla firma dei Patti Lateranensi37, ne tira tra le 20.000 e le 25.00038.
Negli anni di regime, malgrado l’assenza di altre stampe alternative a quella fascista (o fascistizzata), i quotidiani cattolici – anche durante passaggi particolarmente favorevoli per le vendite – non andranno dunque mai oltre una tiratura complessiva di 120.000-165.000 copie, «Osservatore romano» compreso (i quotidiani del trust grosoliano ne tiravano circa centomila dopo la guerra di Libia)39. E questo in un paese che all’inizio degli anni Trenta conta ancora oltre 50.000 preti secolari e circa un milione di iscritti all’Azione cattolica.
Dopo la parentesi del popolarismo, che ha favorito la nascita di un nuovo ‘lettore politico’, la stampa quotidiana cattolica conosce insomma, nel ventennio fascista, un precoce ritorno alle cifre di diffusione del periodo anteguerra.
Va qui osservato che se da un lato, al momento della sua ascesa, il fascismo viene interpretato da una parte del mondo cattolico ed ecclesiastico come un oggetto misterioso, dall’altro gli sbandierati propositi mussoliniani di risolvere la questione romana, di porre fine all’anticlericalismo socialista e di combattere l’azione occulta della massoneria e i valori del liberalismo risorgimentali suscitano al suo interno un indubbio interesse. Molte testate cattoliche riflettono sino in fondo questi sentimenti, manifestando talvolta atteggiamenti di critica, talvolta di lode, in alcuni casi astenendosi dal commentare o dal tentare di interpretare le scorribande delle camicie nere, in altri sottovalutandone volutamente la portata.
All’atto pratico, dei numerosi quotidiani e periodici inizialmente vicini al Ppi, pochi mantengono le posizioni anche dopo la marcia su Roma e, soprattutto, dopo il congresso di Torino del 1923. Oltre ai due organi ufficiali del partito (il settimanale «Il Popolo nuovo» di Giulio De Rossi e il quotidiano «Il Popolo» di Giuseppe Donati), si distinguono le testate che si sono sin dall’inizio pienamente identificate nello spirito del Ppi40, essendone magari diretta emanazione, o che sono nate dopo l’ascesa del fascismo per contrastarne gli obiettivi: «Il Domani d’Italia»41, «L’Idea popolare» di Bergamo42, «Il Lavoratore»43 e «Il Corriere» di Torino44.
Almeno la direzione donatiana de «Il Popolo» merita di essere sinteticamente richiamata45. Nato il 5 aprile 1923 per desiderio del segretario Sturzo, il quotidiano si afferma infatti come un esperimento di indubbio rilievo nel panorama giornalistico dell’epoca, anche per via di alcune iniziative messe in atto dal suo direttore, che finiscono per porlo in una posizione decisamente scomoda (a partire dalla sua denuncia contro Emilio De Bono per l’omicidio Matteotti e dalla sua deposizione al processo per l’assassinio di don Giovanni Minzoni). Nel giugno 1925 Donati deve abbandonare l’Italia per stabilirsi a Parigi, dove prosegue la sua battaglia di opposizione alla dittatura. Il 28 gennaio 1926 fa nascere «Il Corriere degli Italiani», sul quale scriveranno pure esponenti socialisti e repubblicani; nel dicembre 1928 fonda, assieme al socialista romano Dandolo Lemmi, il quindicinale «Il Pungolo».
Alla stampa popolare che vive intensamente la sua battaglia contro l’illegalismo delle camicie nere – e alle testate che si sforzano di rivendicare, sia pure con varie accentuazioni e non sempre in maniera coerente, i caratteri di distinzione tra cattolicesimo e fascismo – si affianca, sin dalla marcia su Roma, una stampa a chiara tendenza filo-fascista, vicina alle oligarchie conservatrici, che non manifesta troppe remore a teorizzare la congruenza tra gli obiettivi dei fascisti e quelli dei cattolici e guarda con un certo interesse ai propositi di ‘moralizzazione’ sbandierati da Mussolini nel campo del costume46. Nel fascismo italiano e nei suoi emuli europei tale stampa riconosce anzi un movimento capace contrastare il socialismo e una serie di vere e proprie ‘sciagure’ indotte dai fenomeni di secolarizzazione47.
Sulla stampa cattolica a maggiore vocazione collaborazionista si concentrano anche le attenzioni del duce, che decide di puntare su alcuni esponenti cattolici – come Giovanni Grosoli, Filippo Crispolti, Egilberto Martire – e sul movimento filofascista da loro creato in seguito alla secessione della destra del Partito popolare: il Centro nazionale. Gli animatori di tale movimento, riunitisi per la prima volta il 12 agosto 1924 nella sede de «L’Avvenire d’Italia» di Bologna, sembrano d’altra parte in grado, per le loro posizioni e per il ruolo svolto nelle strategie finanziarie del Vaticano, di influenzare larga parte della pubblicistica cattolica48.
Delegato agli uomini del Centro nazionale il compito di esercitare le dovute pressioni per estromettere dalle redazioni gli esponenti popolari e per traslare senza troppe scosse i giornali sull’auspicata impostazione clerico-fascista – e realizzato, all’inizio del 1923, il salvataggio del Banco di Roma, uno degli antichi finanziatori del trust grosoliano49 –, tra il 1924 e il 1926 Mussolini elargisce cospicui finanziamenti ai quotidiani «L’Avvenire d’Italia», «Il Momento» e «Il Corriere d’Italia»50, con l’intento di sollevarli dallo stato di crisi in cui sono caduti dopo le loro scelte collaborazioniste51.
Un brevissimo accenno merita anche il vastissimo arcipelago della stampa diocesana dipendente dai singoli vescovi, che in misura significativa era stata vicina ai popolari e che, dopo la marcia su Roma, pur apprezzando alcuni degli obiettivi del nuovo governo, manifesta atteggiamenti altalenanti. In alcuni casi si sforza di sostenere i popolari, in altri finisce qualunquisticamente per assimilare i metodi dei fascisti a quelli dei socialisti, con una maggiore indulgenza per i primi, ai quali concede generalmente l’attenuante della reazione alle violenze dei secondi. Dunque anche la stampa diocesana non solleva all’atto pratico preclusioni di fondo rispetto a una possibile guida fascista del paese, sia pure depurata dalle sue connotazioni anticlericali e ricondotta in forme legali52.
Pur nella consapevolezza di quanto possa risultare arbitrario pretendere di analizzare la stampa cattolica tra le due guerre utilizzando, come unico termine discriminante, il suo maggiore o minore grado di appoggio al fascismo (o dimenticando quanto possa essere limitante interpretare con categorie puramente politiche le vicende legate in vario modo alla vita della Chiesa), un dato emerge dunque con chiarezza: la Chiesa, dopo la fase di progressiva erosione del suo ‘ruolo pubblico’, seguita alla formazione del nuovo Stato liberale53, sceglie alla fine di avallare la positiva disposizione del regime a una caratterizzazione in senso confessionale dello Stato, in vista di una restaurazione cattolica nel paese54. E riproduce un analogo atteggiamento in altri stati di impronta autoritaria (come il Portogallo di Salazar, l’Austria diDollfuss, la Spagna di Franco), nella speranza di agevolare la creazione, a livello internazionale, di un ampio schieramento cattolico, in grado di contrastare l’espansione del comunismo55.
Mussolini, dal canto suo, soprattutto dopo la firma deiPatti Lateranensi (che, secondo Renzo De Felice, «consegnano» letteralmente i cattolici italiani al regime)56 si pone come principale obiettivo di assicurarsi il pieno appoggio delle masse cattoliche e, pur di giungere a questo risultato, si dimostra disposto anche ad accettare, all’interno di un sistema dell’informazione interamente assoggettato, la presenza di voci non ostili, ma intimamente persuase della rilevanza morale e civile del proprio ruolo, in parziale contrasto con la costruzione totalitaria del fascismo57.
Nemmeno la periodica alternanza tra le manifestazioni di insofferenza del regime verso la stampa cattolica e le espressioni di disagio delle gerarchie cattoliche per i contenuti ‘immorali’ di certa stampa fascista sembra in grado di annullare la soddisfazione della Chiesa per le prerogative che ha saputo garantire ai suoi giornali al momento della firma degli accordi (anzitutto quella di ‘sopravvivere’), anche a costo di ripiegare su proposte editoriali molto modeste58. L’articolo 2 del Concordato stabilisce in effetti che la Santa Sede e i vescovi possano pubblicare «istruzioni, ordinanze, lettere pastorali, bollettini diocesani ed altri atti riguardanti il governo spirituale dei fedeli». Un diritto che, all’atto pratico, viene interpretato in maniera molto ampia, ben oltre la portata che Mussolini ha inteso ad esso attribuire. Anche la stampa quotidiana e settimanale cattolica si auto-investe infatti della qualifica di stampa ‘garantita’.
Proprio questo approccio permette ai cattolici di alimentare la convinzione che la propria stampa non si sia mai piegata al regime ed abbia anzi sempre salvaguardato una serie di scopi e di interessi esclusivamente propri; la certezza, in altre parole, che se l’avvento del fascismo ha distrutto il soffio vitale dei quotidiani liberali, non ha intaccato quello dei giornali cattolici.
Tutto il rapporto tra stampa cattolica e fascista, come quello tra organizzazioni cattoliche e di regime, si impernia su questo equivoco volutamente irrisolto. Se lo Stato italiano riconosce ufficialmente alla Chiesa un ruolo pubblico e civile (che, nell’ottica di quest’ultima, dovrebbe preludere alla costituzione di un ordine cristiano nel paese), negli ambienti ecclesiastici sopravvive la consapevolezza che occorra sempre lottare per affermare i propri caratteri distintivi.
Naturalmente vi sono anche momenti in cui la stampa cattolica fa sentire in maniera ben distinta il suo appoggio al regime, come ad esempio in coincidenza delle operazioni per la conquista dell’Etiopia; una circostanza che emerge in maniera indubitabile dalla lettura della pubblicistica dell’epoca e che trova un significativo riscontro nel sensibile accrescimento dell’utilizzo dei termini ‘duce’ e ‘fascismo’, sino ad allora mai abusati nei giornali cattolici. Buona parte della stampa cattolica, parafrasando la retorica definizione del ‘posto al sole’, giunge anzi a fare proprie – in una sorta di compenetrazione tra sacro e profano – formule propagandistiche di chiara impronta mussoliniana59.
Se, in quei delicati passaggi, il pontefice mantiene un formale riserbo e l’«Osservatore romano», attraverso gli Acta diurna diGuido Gonella, sceglie una linea di equilibrio, sia pure nell’ambito di una sostanziale accondiscendenza60, la stragrande maggioranza della gerarchia e della stampa cattolica sostengono insomma apertamente l’iniziativa di Mussolini, identificandovi l’occasione per cristianizzare un popolo acattolico e ‘barbaro’. Molti giornali cattolici passano da un sentimento di accettazione a uno di partecipazione; i caratteri dei titoli diventano cubitali, il frasario colorito e dai toni epici61. Il bellicismo italiano assume addirittura le sembianze di un colonialismo nazional-cattolico ‘dal volto umano’, teso non tanto alla sopraffazione del vinto, quanto al suo incivilimento62.
Anche la guerra in Spagna gode del pieno consenso della stampa cattolica63, sebbene la stretta collaborazione venutasi a creare tra l’Italia e la nazionalsocialista Germania sia vista, nel complesso, con un certo sospetto e un uomo come Francisco Franco – assurto a nuovo paladino della fede, ma pur sempre estraneo alle strutture del cattolicesimo organizzato – venga valutato con una maggiore diffidenza64. In quasi tutte le analisi delle principali testate cattoliche vengono biasimati gli ‘orrori’ perpetrati dal comunismo internazionale, mentre la grandezza di Roma, sinonimo di mondo cristiano, diviene l’antitesi di tutte le minacce alla Chiesa, comprese quelle del cosiddetto neopaganesimo, termine generalmente utilizzato per indicare, senza nominarlo, il nazismo hitleriano65. Questa nuova ideologia desta nel complesso una notevole preoccupazione tra le gerarchie, soprattutto per gli aspetti antireligiosi che ne sono a fondamento66.
Il biennio 1943-1945 segna l’emergere, in Italia, di una stampa cattolica clandestina, che ha uno dei suoi simboli ne «Il Popolo», riapparso nell’aprile del 1943 come voce politica della neonata Democrazia cristiana. A Roma, nell’ottobre 1943, esce il primo numero del settimanale «Voce operaia», organo del movimento dei Cattolici comunisti, diventato poi Partito della sinistra cristiana.
Nel dicembre 1943 a Reggio Calabria viene pubblicato il primo quotidiano democristiano dell’Italia liberata, la «Voce della Calabria», presto seguito dall’edizione non clandestina de «Il Popolo», uscito prima come settimanale poi, dopo la liberazione della capitale nel giugno 1944, come quotidiano, sotto la guida di Guido Gonella.
Proprio nel giugno 1944 viene fondato a Roma l’organo ufficiale dell’Azione cattolica, «Il Quotidiano», inizialmente diretto da Igino Giordani, poi da Federico Alessandrini e, dal giugno 1950, da Nino Badano (sotto la cui guida assume posizioni molto conservatrici). La testata vive all’incirca per un ventennio, fino all’aprile 1964, quando viene definitivamente soppressa a causa della decisione della gerarchia di favorire la diffusione, soprattutto nel Centro-Sud, del quotidiano «L’Avvenire d’Italia»67.
Per alcune delle testate sopravvissute alle leggi fasciste, durante la parentesi della Rsi e nell’immediato dopoguerra si apre invece una necessaria fase di riflessione. Solo a «L’Eco di Bergamo», a cui nel novembre 1938 era approdato il trentenne sacerdote Andrea Spada (Gladius), non si assiste a particolari rivoluzioni. Per oltre mezzo secolo Spada si impone infatti come la colonna portante del giornale, resistendo non solo al mutare delle condizioni politiche e dei governi nel paese, ma anche alle lusinghe di Giovanni XXIII – che nel 1959 lo vorrebbe alla guida de «L’Osservatore romano» – e del cardinale Giacomo Lercaro che, confidando proprio sull’appoggio dell’allora pontefice, nel 1960 desidererebbe portarlo a «L’Avvenire d’Italia».
«L’Italia» di Milano, guidata prima da Nino Perfetti, poi da Gianludovico Pizzolari e da Natal Mario Lugaro, conosce un’esistenza piuttosto travagliata fino alla sua cessazione il 31 dicembre 1944 e alla sua successiva trasformazione in periodico. Riappare come quotidiano il 1° settembre 1945, sotto la direzione di Pio Bondioli, con una nuova testata, «L’Osservatore», poi nuovamente mutata, a partire dall’aprile 1946, in «L’Italia». Negli ultimi anni di episcopato del cardinale Ildefonso Schuster e nei primi del futuro Paolo VI essa si colloca su posizioni piuttosto conservatrici, se pur intervallate da qualche timida apertura riformatrice. Per vedere un cambiamento significativo si deve attendere il maggio 1961 quando, per desiderio dell’arcivescovo Montini, la sua guida passa da Ernesto Pisoni a Giuseppe Lazzati, che la mantiene fino al 1964.
«L’Ordine di Como», che ha sospeso le pubblicazioni dopo l’armistizio del settembre 1943, nel secondo dopoguerra riesce a ritrovare nuova linfa grazie a uomini come Giuseppe Brusadelli – sua anima fino all’improvviso decesso nel 1978 – ed Egidio Maggioni. La sua vita ha fine un quarantennio dopo, nel luglio 1984, quando la tiratura raggiunge ormai a malapena le diecimila copie.
A Genova «Il Cittadino», dopo un ventennio di fortune altalenanti, chiude il suo ciclo nel novembre 1974. Come parziale compensazione per la perdita subita, l’anno successivo viene fondato, per volere del cardinale Giuseppe Siri, il «Settimanale cattolico». Si deve tuttavia attendere un trentennio – in particolare il gennaio 2005 – per vedere il periodico riprendere, sotto la guida di Silvio Grilli, l’iniziale nome «Cittadino», con l’evidente l’intenzione di richiamare alla memoria l’antico predecessore.
Un discorso a parte va fatto per l’organo della Santa Sede, «L’Osservatore romano». Nel secondo dopoguerra, grazie ad alcuni direttori di lungo corso, esso si sforza infatti di mantenere inalterato il taglio misurato che ha caratterizzato la sua quasi secolare storia e anche di interpretare i mutamenti di linea e di ruolo della Chiesa nel mondo contemporaneo. Oltre a Giuseppe Dalla Torre (1920-1960), tra i suoi direttori va segnalato soprattutto Raimondo Manzini (1960-1978), giunto cinquantanovenne alla prestigiosa carica per volere di Giovanni XXIII, dopo le positive prove fornite come direttore de «L’Avvenire d’Italia»68.
Per quanto concerne l’organo della Dc, «Il Popolo», negli anni Cinquanta esso tenta di aprire una nuova fase della sua esistenza sotto la guida di due personaggi di spicco come Ettore Bernabei (dal 1956 al 1960) eAldo Moro (dal 1960 al 1963). Alla resa dei conti, sebbene rimanga la principale voce del maggior partito italiano, il quotidiano non riesce tuttavia a superare i limiti di una tiratura modesta. La Dc appare del resto sin dall’inizio interessata non tanto a sostenere una vera e propria stampa di partito, quanto a controllare i media a larga diffusione. Essa governa saldamente il paese, ha suoi uomini nelle strutture chiave dello Stato, compresi i settori dell’istruzione e dell’informazione (attraverso cui gestisce radio, cinema e la nascente televisione) e non ha particolari esigenze di avere voci aggiuntive che sostengano la sua politica.
Nei primi anni del dopoguerra si attivano o si ripropongono in Italia anche altri esperimenti di quotidiani cattolici: «Il Domani d’Italia» a Napoli (1944); «La Sicilia del popolo» a Palermo (1945); «Il Popolo nuovo» a Torino (1945)69; «L’Adige» a Trento, organo personale di Flaminio Piccoli (1946); «Il Quotidiano sardo» di Mariano Pintus, organo dell’Azione cattolica (1947); «Il Gazzettino» di Venezia, entrato proprio nel secondo dopoguerra nella sfera di influenza democristiana; la vecchia «Gazzetta del popolo» di Torino, passata nelle mani della Dc nel 1957. Ma si tratta di espressioni talvolta effimere, talvolta destinate a subire, nel giro di poco tempo, significative trasformazioni editoriali e di indirizzo politico70.
Il concilio Vaticano II segna l’avvio di un diverso rapporto tra Chiesa e stampa71. Mentre tra i giornalisti cattolici emergono sempre maggiori aspirazioni di ‘autonomia’72, molti loro giornali tentano di emanciparsi dai modelli che li vedono relegati al ruolo di strumenti di orientamento e formazione sottoposti allo stretto controllo della gerarchia, quando non addirittura di semplici tramiti tra ‘cattedra’ e ‘masse’73.
Mentre Pio XII, pur dimostrando vivo interesse per la stampa (e per i mass media in generale), non si discosta mai da schemi piuttosto consolidati, lo stacco del concilio suscita notevoli trasformazioni anche a livello di magistero. L’istruzione pastorale Communio et progressio (23 maggio 1971), nata come strumento di applicazione del decreto Inter mirifica (4 dicembre 1963), affronta in un’ottica di apertura la questione del rapporto tra la Chiesa e i mass media, descritti come un «dono di Dio», fonti preziose per incoraggiare la libera espressione del pensiero, accendere il desiderio di sapere del lettore, sollecitarne la riflessione74.
La Santa Sede decide di dotarsi anche autonomamente di nuovi strumenti. Se, ad esempio, sino a quel momento il principale canale di accesso alle notizie provenienti dal Vaticano era stato il «servizio stampa» de «L’Osservatore romano» (diretto da un redattore del giornale, Luciano Casmirri), con il concilio viene attivato un apposito ufficio stampa, ufficialmente inaugurato il 6 ottobre 196275.
Le nomine decise all’inizio degli anni Sessanta ai vertici della stampa quotidiana (che, a parte «L’Osservatore romano», annovera in tutto sei testate: «L’Avvenire d’Italia», «L’Eco di Bergamo», «L’Italia», «Il Cittadino» di Genova, «L’Ordine» di Como e «Il Quotidiano» di Roma, poi soppresso nel 1964) esprimono a loro volta questo nuovo corso. Mentre a «L’Eco di Bergamo» prosegue il lungo ‘regno’ di Andrea Spada76, alla guida de «L’Avvenire d’Italia» nel febbraio 1961 giunge il trentenne Rainero La Valle (cresciuto nelle file della Fuci, giornalista de «Il Popolo» e poi direttore del democristiano «Popolo di Milano»), il quale si pone in una prospettiva di marcato rinnovamento e anche di apertura politica rispetto alle forze della sinistra. Al Servizio informazione romano cattolico (il Sirc) approda il veneto Giancarlo Zizola, che in una certa misura incarna il modello di La Valle. A «L’Italia» di Milano nel maggio 1961 giunge Giuseppe Lazzati, intellettuale di tendenze accentuatamente conciliari e sensibile alle esigenze di rinnovamento provenienti dal laicato e da vari settori della Chiesa. Muovendosi senza particolari autocensure, Lazzati si dimostra piuttosto libero nelle sue scelte e disposto anche ad andare incontro a pubbliche disapprovazioni pur di portare avanti la sua linea (come quando sostiene l’esperimento del centro-sinistra nella versione auspicata da Aldo Moro, che proprio a Milano conosce la sua prima attuazione in un grande centro)77.
Si tratta tuttavia di brevi parentesi, che non reggono alla prova del tempo e del nuovo rapido mutamento del quadro politico.
Il 1° agosto 1967 La Valle (che, oltre al sostegno a una possibile politica democristiana di alleanze a sinistra, ha assunto posizioni molto critiche rispetto alla politica statunitense nel Vietnam), viene di fatto indotto a rassegnare le dimissioni78, segnale inequivocabile, dopo l’avvio dell’opera di ‘riassetto romano’ e l’indebolimento della posizione dell’arcivescovo di Bologna Giacomo Lercaro, del desiderio della gerarchia di garantire un’attuazione meno ‘traumatica’ della linea postconciliare79. A «L’Italia» di Milano, che non riesce ad aumentare le sue tirature, nel luglio 1964Giuseppe Lazzati lascia il suo incarico al torinese Carlo Chiavazza. La situazione di deficit si mantiene tuttavia piuttosto grave, come del resto a «L’Avvenire d’Italia» di Bologna, ragione per cui la Santa Sede inizia a ventilare la prospettiva di una fusione tra le due testate, con la creazione di un unico quotidiano cattolico ‘nazionale’. L’operazione si concretizza nel dicembre 1968, quando viene fondato «Avvenire». La sede del giornale viene trasferita a Milano e il pacchetto azionario suddiviso tra la Cei e la diocesi ambrosiana. Per la guida la scelta cade su un ex giornalista del «Giorno» e capocronista della sede Rai di Milano: Leonardo Valente.
Anche in questa sua nuova veste l’«Avvenire» – nel complesso un buon prodotto editoriale, sostenuto con forza da Paolo VI, che lo identifica come fondamentale strumento di crescita per i cattolici – non decolla. Il 19 ottobre 1969 Valente viene sostituito da Angelo Narducci, allora vicedirettore, il quale si sforza di fare del giornale della Cei un organo di respiro nazionale, moderno, informato, vicino ai problemi sindacali, sociali e del terzo mondo. Ma nemmeno la nuova impostazione risolve il passivo di bilancio di una testata le cui tirature continuano a stagnare tra le 100 e le 115 mila copie80. Dopo le dimissioni di Narducci, nell’aprile 1980, in tre anni si verificheranno altrettanti cambi di direttori81.
Una parentesi giornalistica piuttosto vivace si chiude dunque nel volgere di pochi anni. Molte delle strade tracciate dal concilio Vaticano II vengono accantonate, diversi giovani direttori, coinvolti nella effervescente stagione postconciliare e favorevoli a un ampio processo di rinnovamento nella Chiesa e nel paese, sono allontanati dai propri incarichi.
Alcuni organi di stampa cattolici tornano a parlare dei protagonisti di quella stagione di rinnovamento quasi solo con intenti critici, come avviene ad esempio nel 1987 in occasione della vicenda che vede coinvoltoGiuseppe Lazzati, tirato in ballo da un’inchiesta dal titolo Tredici anni della nostra storia, pubblicata a puntate dal settimanale «Il Sabato». Nella circostanza, gli autori avevano ritenuto di individuare proprio nella figura di Lazzati i tratti distintivi di quel particolare gruppo di «cattolici intellettuali (fra gli epigoni del gruppo di ‘Cronache Sociali’)» all’interno del quale si sarebbe andata attuando una «corrosione protestante del cattolicesimo politico»82.
L’iniziativa solleva una certa eco nel mondo cattolico e induce tra l’altro il movimento della Rosa bianca – associazione per l’educazione alla politica e alla democrazia fondata nel 1979 da un gruppo capeggiato dal giornalista Paolo Giuntella – a denunciare al tribunale ecclesiastico di Milano Antonio Socci e Roberto Fontolan, i due autori dell’inchiesta.
Indipendentemente dal seguito della vicenda, il caso suona come l’ennesimo segnale di diffidenza nei confronti di un universo ‘cattolico-democratico’ ormai ritenuto poco in linea con le nuove tendenze della Chiesa. E questo soprattutto dopo l’elezione al soglio pontificio di Giovanni Paolo II, il fallimento della prospettiva politica del «compromesso storico», i risultati dalle elezioni politiche del 1979, che vedono la contestuale sconfitta del Partito comunista e della Democrazia cristiana.
Con l’inizio degli anni Novanta del secolo XX il panorama dei quotidiani cattolici risulta ormai delineato in maniera piuttosto precisa. Anche se sopravvivono ancora «Il Cittadino» di Lodi (nato nel gennaio 1989 dalla trasformazione dell’omonimo bisettimanale) e «L’Eco di Bergamo», buona parte del peso grava su «Avvenire», appartenente per il 75,6% a una fondazione emanazione della Cei e per il rimanente a un gruppo di imprenditori cattolici.
L’arrivo alla sua direzione di Guido Folloni, nel febbraio 1983, coincide con un certo rinnovamento editoriale e con l’assunzione di un ruolo di primo piano da parte degli uomini diComunione e liberazione. Si afferma, inoltre, un forte ancoraggio al magistero di Karol Wojtyla, il quale – al contrario del predecessore – non intende spendere il denaro della Santa Sede per continuare a sostenere un giornale che, sin dalla sua fondazione, fa registrare un costante passivo di bilancio.
Dopo la parentesi di Lino Rizzi, divenuto direttore nell’ottobre 1990, nel gennaio 1994 la testata passa a Dino Boffo, il quale resta in carica fino al settembre 2009, quando viene indotto alle dimissioni da una violenta campagna di stampa innescata da alcuni quotidiani, tra cui «Il Giornale» di Vittorio Feltri, come risposta ai rilievi avanzati in merito ad alcuni aspetti della vita privata del capo del governo Silvio Berlusconi.
Boffo trasforma «Avvenire» in un giornale informato, aggiornato e in linea con i mutati gusti grafici del pubblico: una scelta che, dopo un ulteriore profondo maquillage attuato nel maggio 2002, consente ad esso di realizzare una non insignificante crescita delle tirature, tale da riportarlo nel 2008, dopo una parentesi per nulla esaltante in termini di vendite, a una diffusione media di circa 105 mila copie (nono tra i quotidiani di informazione italiani, in un momento di flessione generalizzata per tutta la stampa)83.
Il nuovo direttore – un fedelissimo del cardinaleCamillo Ruini – si afferma come un giornalista capace, dotato di buone doti organizzative e non privo di vis polemica, caratteristica a cui non manca di attingere anche per scaldare il dibattito all’interno del mondo cattolico; come avviene, ad esempio, in occasione delle frequenti polemiche con «Famiglia cristiana», delle discussioni sulla vicenda dei Pacs, della disputa sulla partecipazione alla guerra americana in Iraq, del botta e risposta che, nel 2004, lo vede contrapporsi allo storico Pietro Scoppola.
Soprattutto questa vicenda appare emblematica dei difficili rapporti che animano le diverse anime del mondo cattolico. L’11 ottobre 2004 la candidatura diRocco Buttiglione alla Commissione europea viene bocciata per via di alcune posizioni espresse dall’uomo politico italiano in merito agli omosessuali (giudicate non in linea con gli indirizzi comunitari). In alcune aree del cattolicesimo italiano, come ad esempioComunione e liberazione, la bocciatura viene interpretata come il frutto di un nuovo ‘totalitarismo culturale’ delle istituzioni europee. Affermazioni, queste, a cui Scoppola – sul quotidiano «la Repubblica» del 10 novembre – replica in maniera decisa, indicando come «del tutto irrealistica» e «priva di ogni fondamento» l’idea di «un’offensiva anticattolica» in Europa. Al contrario, Scoppola intravede proprio tra i cattolici italiani l’emergere di una progressiva quanto pericolosa deriva «clerico-fascista»84. Le dure risposte di Boffo su «Avvenire» giungono nei tre giorni successivi. Il direttore del quotidiano della Cei accusa tra l’altro lo storico romano di essere preda di «un’ossessione autolesionista», tale da renderlo incapace di «delucidare con la dovuta accortezza i rischi» che «ammorbano l’ambiente comune»85.
Un cenno va ancora riservato alla parabola dell’organo ufficiale della Democrazia cristiana, «Il Popolo», che nel 1994 subisce una sensibile trasformazione. Sciolta la Dc, il giornale diviene organo del nuovo Partito popolare di Mino Martinazzoli, ruolo che mantiene anche dopo il 1995 e la scissione interna fra l’ala facente capo a Rocco Buttiglione (favorevole a un’intesa con le forze della destra) e quella del futuro segretario Gerardo Bianco. «Il Popolo» diventa da quel momento un quotidiano a tiratura e foliazione ridotte, quasi un’agenzia interna a uso dei militanti vicini al partito, specie dopo il fallimento del progetto di potenziamento tentato da Rosy Bindi. Nel 2003 cessa a tutti gli effetti le pubblicazioni, per lasciare spazio al nuovo organo del raggruppamento politico della Margherita (in seguito del Partito democratico), il quotidiano «Europa», il quale eredita dallo storico giornale che era stato del Partito popolare di Luigi Sturzo e dellaDemocrazia cristiana di Alcide De Gasperi gran parte della redazione e molti dei collaboratori.
In conclusione, la stampa quotidiana cattolica si presenta alla sfida del secolo XXI animata da nuovi propositi, ma anche segnata dal permanere di buona parte dei problemi che hanno storicamente caratterizzato la sua esistenza, a partire dal ricorrente e mai realmente appagato desiderio di diventare davvero autonoma dal papa, dalla Cei e dalle gerarchie ecclesiastiche86.
La tendenza della Chiesa a controllare la sua stampa – sia per non incrinare la compattezza dell’istituzione, sia per affermare la sua presenza in contesti geografici poco toccati dal cattolicesimo organizzato – non ha del resto mai dato prova, se non per brevi periodi, di volersi realmente affievolire87.
Resta, nel campo della stampa quotidiana con ambizioni ‘nazionali’, la netta sensazione di una cronica discrepanza tra le risorse investite – talvolta ingenti – e i risultati concretamente conseguiti, soprattutto in termini di vendite e di diffusione (a fronte delle migliori prove offerte dai quotidiani ‘provinciali’, capaci di radicarsi in un determinato contesto geografico ed economicamente meno dispendiosi, anche per via di un mercato meno fluttuante).
Appare certo difficile stabilire se tutto questo possa essere interpretato come il segnale di un sostanziale fallimento, da parte della Chiesa italiana, del suo piano di centralizzazione e delocalizzazione dell’appartenenza religiosa e del suo progetto di inserimento, tra centro romano e periferia, di un interlocutore come il quotidiano cattolico nazionale (capace di superare l’azione di mediazione locale dei vescovi e dei parroci e nel contempo di offrirsi come prodotto di informazione a larga diffusione, a cui attingere anche al di fuori di una ristretta militanza cattolica). Sembra tuttavia di potere dedurre che i lettori abbiano generalmente trovato allettante l’acquisto di un giornale cattolico solo nel caso di una sua stretta identificazione con un territorio: una circostanza, questa, di cui sono ben coscienti i dirigenti della Federazione italiana settimanali cattolici, i quali – a fronte di una Chiesa privata del contributo di mediazione di un grande partito – sono riusciti a conservare una capillare presenza nel contesto locale e a dare vita a un dialogo con interlocutori politici, sociali e culturali molto diversi88.
Dopo la disintegrazione della Dc e l’avvio di una fase di crescente deideologizzazione, anche la Chiesa ha ormai preso atto di tale circostanza e non ha mancato di recepire – e in un certo senso di anticipare – gli eventi, muovendosi sia sul terreno politico, sia su quello ecclesiale. La svolta ‘interventista’ ha trovato una delle sue espressioni nel forte sostegno a quei movimenti – come Comunione e liberazione – che alla posizione di mediazione scelta dall’Azione cattolica hanno teso a contrapporre un forte coinvolgimento in tutti i luoghi dove si forma e gestisce il potere. La gerarchia non ha inoltre mancato di muoversi per favorire appunto la rivalutazione della dimensione locale. Una strategia che, nell’ambito della stampa, ha trovato – come abbiamo visto – una delle sue manifestazioni nel sostegno alla grande famiglia dei settimanali diocesani, attraverso cui le chiese locali si sforzano di modellare il messaggio attorno ai singoli contesti territoriali.
1 Ringrazio Marta Margotti per le indicazioni fornitemi durante il convegno Der lange Weg in die Moderne. Kommunikations-, Öffentlichkeits- und Mediengeschichte im deutsch-italienischen Vergleich, organizzato dal Centro Italo-Tedesco di Villa Vigoni nel novembre 2009.
2 Per un utile quadro storico e bibliografico F. Malgeri, La stampa quotidiana e periodica e l’editoria, in DSMC, I, 1981, pp. 273-295; G. Romanato, Stampa cattolica italiana: profilo storico, in Stampa cattolica, stampa d’opinione?, Padova 1986, pp. 31-73. Da vedere sono i vari contributi di Angelo Majo, tra cui La stampa cattolica in Italia. Storia e documentazione, Casale Monferrato 1992. Di carattere molto generale sono invece i lavori di G. Licata, Giornalismo cattolico italiano (1861-1943), Roma 1964 e Centoventi anni di giornali dei cattolici italiani, Milano 1981.
3 F. Della Peruta, Il giornalismo dal 1847 all’Unità, in F. Della Peruta, A. Galante Garrone, La stampa italiana del Risorgimento, Roma-Bari 1979, p. 468; B. Gariglio, La stampa quotidiana torinese del Risorgimento, in La stampa in Piemonte tra Ottocento e Novecento, «Quaderni del Centro Studi C. Trabucco», 20, 1994, pp. 9 segg.
4 V. Castronovo, Stampa e opinione pubblica nell’Italia liberale, in V. Castronovo, L. Giacheri Fossati, N. Tranfaglia, La stampa italiana nell’età liberale, Roma-Bari 1979, p. 12.
5 Cfr. I giornali conservatori d’Italia, «Armonia», 22 dicembre 1863, pp. 1-2.
6 A. Majo, La stampa cattolica in Italia, cit., p. 67.
7 Sull’«Armonia», utili indicazioni bibliografiche in M. Margotti, La stampa cattolica (1859-1864), in La nascita dell’opinione pubblica in Italia. La stampa nella Torino del Risorgimento e capitale d’Italia (1848-1864), a cura di V. Castronovo, Roma-Bari 2004, pp. 217-218, nn. 22-23. Cfr. inoltre B. Gariglio, La stampa quotidiana torinese, cit., pp. 9 segg.
8 Il vescovo Moreno riesce a coinvolgere nell’impresa anche Gustavo Cavour e Antonio Rosmini, oltre al futuro arcivescovo di Torino Gaetano Alimonda. La direzione viene affidata al teologo Guglielmo Audisio.
9 E. Lucatello, Don Giacomo Margotti, direttore dell’«Armonia», in Giornalismo del Risorgimento, Torino 1961, pp. 287-340.
10 Su quest’ultimo giornale, che Giacomo Margotti dirige fine alla morte nel 1887 e che si pone grosso modo sulla stessa linea dell’«Armonia», cfr. L. Bedeschi, Lineamenti dell’antimodernismo. La querela Meda-Unità Cattolica (Documenti e considerazioni), «Nuova rivista storica», 1970, pp. 125-176; M. Tagliaferri, L’Unità cattolica. Studio di una mentalità, Roma 1993. Su alcuni giornali torinesi del periodo M. Margotti, La stampa cattolica, cit., pp. 218 segg.; G. Tuninetti, «Lo Smascheratore» e «L’Ordine». Stampa cattolica conservatrice e reazionaria a Torino, in Cattolici in Piemonte: lineamenti storici, «Quaderni del Centro Studi C. Trabucco», 2, 1982, pp. 47-69.
11 Cfr. F. Fonzi, L’Osservatore Cattolico e i conservatori, «Humanitas», 7, 1952, pp. 592-602; A. Majo, Don Massara e «L’Osservatore Cattolico», «Ricerche storiche sulla Chiesa Ambrosiana», 10, 1981. Su Albertario cfr. F. Fonzi, Don Davide Albertario (la realtà e il mito), «Quaderni di cultura e storia sociale», 6-7, 1954, pp. 377-389; V. Rognoni, A. Majo, G. Rumi, Davide Albertario giornalista, Milano, 1981; A. Canavero, Albertario e «L’Osservatore Cattolico», Roma 1988.
12 Su questi aspetti, indicazioni ancora utili in P. Scoppola, La stampa cattolica di fronte al problema sociale, in Id., Coscienza religiosa e democrazia nell’Italia contemporanea, Bologna 1966, pp. 52 segg.
13 Molti anni dopo – nel dicembre 1907 – in un clima ormai mutato, «L’Osservatore», si fonderà con «La Lega lombarda». Sul tema cfr. A. Majo, La stampa quotidiana cattolica milanese. 1860-1912. Mezzo secolo di contrasti, Milano 1972.
14 F. Molinari, A. Fappani, «Il Cittadino di Brescia» (1878-1926). Mezzo secolo di lotte per la libertà, Brescia 1979; A. Fappani, Giorgio Montini. Cronache di una testimonianza, Roma 1974.
15 Cfr. ad esempio Diocesi di Como, a cura di A. Caprioli, A. Rimoldi, L. Vaccaro, Brescia 1986, p. 137.
16 Sul tema cfr. F. Malgeri, Storia de «La Voce della Verità», «Rassegna di politica e storia», 113, 1964, pp. 12-27; Id., La stampa cattolica a Roma dal 1870 al 1925, Brescia 1965; F. Mazzonis, L’Unione Romana e la partecipazione dei cattolici alle elezioni amministrative di Roma (1870-1881), «Storia e politica», 2, 1970, pp. 216-258.
17 Sulle origini del giornale F. Leoni, «L’Osservatore Romano». Origini ed evoluzione, Napoli 1970; F. Cavalli, Nel centenario de «L’Osservatore Romano», «La Civiltà cattolica», 2666, 1961, pp. 140-152.
18 Si tratta del luogo da cui proviene uno dei suoi primi fondatori, l’abate Girolamo Milone (originario, in particolare, di Forio d’Ischia).
19 Su questi temi A. Cestaro, La stampa cattolica a Napoli dal 1860 al 1904, Roma 1965, pp. 129-157.
20 Ibidem, p. 129.
21 F. Riccobono, «La Sicilia cattolica». Problemi sociali, politici e vita religiosa (1868-1904), Palermo 1986. Un successivo tentativo di quotidiano cattolico regionale si esprime nel 1910, con la nascita del «Corriere di Sicilia».
22 A. Sindoni, Un frutto tardivo dell’Opera dei Congressi in Sicilia: Il Sole del Mezzogiorno (1901-1903), «Rivista di Studi Salernitani», 3, 1969, pp. 229-259.
23 F. Malgeri, La stampa quotidiana e periodica, cit., p. 280; M. Tagliaferri, L’Unità cattolica, cit., pp. 3-6.
24 V. Castronovo, La stampa italiana, cit., pp. 138-139.
25 Ibidem, pp. 141-143.
26 M. Margotti, La stampa cattolica, cit., p. 215.
27 Ibidem, p. 260.
28 Sulla figura di Grosoli e sul suo ruolo in campo editoriale cfr. R. Sgarbanti, Ritratto politico di Giovanni Grosoli, Roma 1959; L. Bedeschi, Significato e fine del trust grosoliano, «Rassegna di politica e storia», 116, 1964, pp. 7-24 e P. Giovannini, Cattolici nazionali e impresa giornalistica. Il trust della stampa cattolica 1907-1918, Milano 2001.
29 A questi si aggiungeranno il «Messaggero toscano» di Pisa e «Il Corriere di Sicilia» di Palermo.
30 Sul giornale cfr. ad esempio L. Bedeschi, Le origini de «L’Avvenire d’Italia», «Rassegna di politica e storia», 13, 1967, 149, pp. 82-90; Id., «L’Avvenire d’Italia» durante la prima guerra mondiale, ibidem, pp. 173-178; R. Aubert, Premessa a una storia dell’«Avvenire» (Riflessioni metodologiche per una storia della stampa), «Humanitas», 4, 1967, pp. 488-512.
31 Sugli anni del primo dopoguerra cfr. L. Ganapini, «L’Italia» (1918-1925), in 1919-1925. Dopoguerra e fascismo. Politica e stampa in Italia, a cura di B. Vigezzi, Bari 1965, pp. 525-604; A. Majo, La stampa quotidiana cattolica milanese, II, 1912-1968, Le vicende de «L’Italia», Milano 1974.
32 Sulle origini del giornale B. Gariglio, Cattolici democratici e clerico-fascisti. Il mondo cattolico torinese alla prova del fascismo (1922-1927), Bologna 1976, pp. 39-42.
33 P. Giovannini, Cattolici nazionali, cit., pp. 38 segg.
34 Sulle posizioni del quotidiano «L’Avvenire d’Italia» in merito alla politica coloniale del nuovo Stato cfr. M. Palazzi, L’Opinione pubblica cattolica e il colonialismo: «L’Avvenire d’Italia» (1896-1914), «Storia contemporanea», 10, 1979, pp. 43-87.
35 «Annali dell’Italia cattolica», 1, 1925, pp. 387-404.
36 Sul tema si vedano soprattutto M. Forno, La stampa cattolica alla prova del fascismo, «Contemporanea», 4, 2003, pp. 621-646; Id., La stampa del Ventennio. Strutture e trasformazioni nello stato totalitario, Soveria Mannelli 2005, pp. 223-292. Ma cfr. anche il n. 33 (2003) della rivista «Storia e problemi contemporanei», introdotto da un saggio di Daniele Menozzi intitolato Stampa cattolica e regime fascista.
37 Solo fino alla firma del Concordato la direzione e l’amministrazione del giornale, in mano alla Compagnia di San Paolo, hanno in effetti sede in territorio italiano; cfr. E. Bressan, Mito di uno stato cattolico e realtà del regime: per una lettura dell’«Osservatore Romano» alla vigilia della Conciliazione, «Nuova rivista storica», 1-2, 1980, p. 84.
38 M. Forno, La stampa cattolica, cit., p. 624.
39 Cfr. i dati forniti da P. Giovannini, Cattolici nazionali, cit., pp. 55, 87-88, 190, 203, 222.
40 Per un quadro di insieme cfr. G. Vecchio, Politica e democrazia nelle riviste popolari (1919-1926), Roma 1988.
41 Sul giornale popolare F.L. Ferrari, «Il Domani d’Italia», a cura di G. Dore, Roma 1958; F.L. Ferrari, «Il Domani d’Italia» e altri scritti del primo dopoguerra, a cura di M.G. Rossi, Roma 1983; G. Vecchio, Politica e democrazia, cit., pp. 63-68.
42 L. Bramati, Un giornale antifascista: «L’Idea popolare», «Studi e ricerche di storia contemporanea», 22, 1984, pp. 63-76.
43 Sull’esperienza del «Lavoratore» B. Gariglio, La crisi del sindacalismo bianco e il caso del «Lavoratore», in I cattolici tra fascismo e democrazia, a cura di P. Scoppola, F. Traniello, Bologna 1975, pp. 35-74.
44 Sul quotidiano B. Gariglio, Cattolici democratici, cit., pp. 157-172.
45 Cfr. L. Bedeschi, Giuseppe Donati nel Partito popolare italiano e la direzione del «Popolo», in Giuseppe Donati tra impegno politico e problema religioso, a cura di R. Ruffilli, P. Scoppola, Milano 1983, pp. 119-121; M. Casella, Igino Giordani e il Partito popolare italiano. La collaborazione a «Il Popolo Nuovo» e a «Il Popolo» (1920-1925), «Clio», 3, 1990, pp. 413-447. Per quanto concerne la terza pagina del giornale cfr. invece La terza pagina de «Il Popolo» (1923-1925), a cura di L. Bedeschi, Roma 1973.
46 Sappiamo da alcune ricerche recenti che la stessa Santa Sede accetta, sin dall’inizio, non senza riserve anche l’esperienza del Partito popolare, a cui assicura un appoggio molto cauto. Ne fa ad esempio cenno B. Gariglio, Laicato cattolico italiano e Torino negli anni della formazione universitaria di Émile Chanoux, in Contre l’état totalitarie. Aux sources de la pensée chanousienne, a cura della Fondation Émile Chanoux, Aosta 2008, pp. 165-166.
47 M. Forno, La stampa cattolica, cit., pp. 626-628; ma anche F. Traniello, L’episcopato piemontese in epoca fascista, in Chiesa, Azione cattolica e fascismo nell’Italia settentrionale durante il pontificato di Pio XI (1922/39), a cura di P. Pecorari, Milano 1979, p. 118.
48 Sul tema cfr. M.G. Rossi, Movimento cattolico e capitale finanziario. Appunti sulla genesi del blocco clerico-moderato, «Studi storici», 13, 1972, pp. 249-288; Id., Le origini del partito cattolico. Movimento cattolico e lotta di classe nell’Italia liberale, Roma 1977.
49 Cfr. ad esempio G. De Rosa, I conservatori nazionali. Biografia di Carlo Santucci, Brescia 1962, pp. 103 segg.
50 R. De Felice, Mussolini il fascista, II, L’organizzazione dello stato fascista (1925-1929), Torino 1968, p. 150.
51 M. Forno, La stampa cattolica, cit., pp. 628-629.
52 Ibidem, p. 630.
53 F. Traniello, L’Italia cattolica nell’era fascista, in Storia dell’Italia religiosa, III, L’età contemporanea, a cura di G. De Rosa, Roma-Bari 1995, p. 264.
54 P. Scoppola, La Chiesa di fronte al fascismo, in Dall’Italia giolittiana all’Italia repubblicana, a cura di A.A. Mola, Torino 1976, p. 150; Id., La Chiesa e il fascismo durante il pontificato di Pio XI, in Il regime fascista, a cura di A. Aquarone, M. Vernassa, Bologna 1974, pp. 195-232.
55 G. Campanini, I cattolici e il fascismo italiano, «Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia», 3, 1998, pp. 206-207; P. Scoppola, La Chiesa e il fascismo durante il pontificato di Pio XI, in Id., Coscienza religiosa e democrazia nell’Italia contemporanea, Bologna 1966, p. 399.
56 R. De Felice, Mussolini il fascista, II, L’organizzazione dello Stato fascista cit., p. 383.
57 M. Forno, La stampa del Ventennio, cit., p. 254.
58 «Primum vivere, postea philosophari», scrive il direttore del settimanale «Luce!», Carlo Sonzini, il 30 settembre 1927; cfr. D.C.S., Un problema vitalissimo per tutti i cattolici. Il nostro quotidiano, «Luce!», 30 settembre 1927, p. 1.
59 F. Traniello, R. Viarisio, Il significato religioso del Concordato. Ipotesi per un’interpretazione storica, «Humanitas», 1-2, 1974, p. 56.
60 Sul contributo fornito dal quotidiano per dimostrare il carattere ineluttabile della guerra cfr. S. Sambaldi, Dalla preparazione dell’intervento alla conquista dell’impero. «L’Osservatore Romano» e la guerra d’Etiopia, settembre 1935 – maggio 1936, «Storia e problemi contemporanei», 26, 2000, pp. 210-229.
61 M. Isnenghi, Stampa di parrocchia nel Veneto, Padova 1973, pp. 66-68.
62 F. Traniello, L’Italia cattolica nell’era fascista, cit., p. 293.
63 Sull’argomento cfr. ad esempio G. Rumi, Mondo cattolico e guerra civile spagnola: l’opinione ambrosiana, «Rivista di storia della Chiesa in Italia», 1, 1982, pp. 35-48; M. Tesini, L’ideologia della «crociata»: «L’Avvenire d’Italia» di Bologna, in I cattolici italiani e la guerra di Spagna, a cura di G. Campanini, Brescia 1987, pp. 127-152.
64 G. Campanini, Introduzione a I cattolici italiani e la guerra di Spagna, a cura di G. Campanini, cit., p. 17. Sintomatico, a questo proposito, il contenuto degli Acta diurna pubblicati da Guido Gonella su «L’Osservatore romano» tra il 1933 e il 1940; G. Gonella, Verso la 2a guerra mondiale. Cronache politiche. «Acta Diurna» 1933-1940, a cura di F. Malgeri, Roma-Bari 1979.
65 G. Campanini, Introduzione, cit., p. 29; L. Urettini, Propaganda anticomunista nella stampa cattolica dalla guerra di Spagna alle elezioni del ’48, in La Democrazia cristiana dal fascismo al 18 aprile. Movimento cattolico e Democrazia cristiana nel Veneto. 1945-1948, a cura di M. Isnenghi, S. Lanaro, Venezia 1978, pp. 406-409.
66 Cfr. F. Sandmann, «L’Osservatore Romano» e il nazionalsocialismo (1929-1939), Roma 1976. Per quanto concerne le posizioni di alcuni quotidiani cattolici in relazione alla questione ebraica, si veda invece G. Miccoli, Santa Sede e Chiesa italiana di fronte alle leggi antiebraiche del 1938, «Studi Storici», 4, 1988, pp. 821-902.
67 S. Magister, La politica vaticana e l’Italia (1943-1978), Roma 1979, p. 372. Sull’esperienza del giornale cfr. M. Casella, L’Azione cattolica alla caduta del fascismo. Attività e progetti per il dopoguerra (1942-’45), Roma 1984, pp. 156 segg; Id., Giornali cattolici e società italiana. Religione, politica, democrazia nelle pagine de «L’Osservatore Romano» e de «Il Quotidiano» (1944-1950), Napoli 1994, pp. 203 segg.; Id., «Il Quotidiano» diretto da Igino Giordani (1944-1946), in Igino Giordani. Politica e morale, a cura di T. Sorgi, Roma 1995, pp. 287-319.
68 Sulla direzione di Dalla Torre negli anni tra le due guerre cfr. F. Malgeri, Chiesa, cattolici e democrazia. Da Sturzo a De Gasperi, Brescia 1990, pp. 55-82.
69 Su quest’ultima esperienza F. Traniello, Gli esordi de «Il Popolo Nuovo» (1945-46). Cultura e politica in un quotidiano democratico-cristiano torinese, in Giornali e giornalisti a Torino, Torino 1984, pp. 105-112; P. Damosso, Etica, politica e democrazia: il caso de «Il Popolo Nuovo», «Quaderni del Centro studi C. Trabucco», 14, 1989, pp. 37-75.
70 I frutti del nuovo clima si fanno sentire su tutta la struttura editoriale cattolica. L’8 aprile 1945 viene ad esempio costituita l’Ueci, di cui entrano a far parte alcune tra le principali case editrici cattoliche dell’epoca (tra cui Morcelliana, Vita e Pensiero, Studium, Ave, San Paolo), con l’obiettivo di lavorare per una ‘ricostruzione’ morale e cristiana del paese. Cfr. F. Malgeri, Gli editori cattolici e il ritorno alla democrazia in Italia: la nascita dell’Ueci, in, Democrazia e cultura religiosa. Studi in onore di Pietro Scoppola, a cura di C. Brezzi, C.F. Casula, A. Giovagnoli, et al., Bologna 2002, pp. 351-369.
71 Sulla presenza dell’informazione religiosa nella stampa nazionale cfr. ad esempio L’informazione religiosa nella stampa italiana, a cura di T. Tentori, Milano 1986; G. Costa, La notizia e la religione. Cinquant’anni di giornalismo religioso in Italia, Roma 1999.
72 Sul settore delle riviste, molto utile D. Saresella, Dal Concilio alla contestazione. Riviste cattoliche negli anni del cambiamento (1958-1968), Brescia 2005.
73 M. Marazziti, I papi di carta. Nascita e svolta dell’informazione religiosa da Pio XII a Giovanni XXIII, Genova 1990, pp. 9, 84-85.
74 Su questi temi cfr. ad esempio L. Liverani, Il magistero ecclesiale sul giornalismo, in F. Malgeri, P. Scandaletti, Giornalismo cattolico, cit., pp. 153-178.
75 P. Levillain, Il Vaticano II e i mezzi di comunicazione sociale, in Storia della Chiesa. La Chiesa e il Vaticano II (1958-1978), Cinisello Balsamo 1994, pp. 518-549.
76 Si tratta della persona che, come presidente della Conferenza dei direttori delle testate cattoliche, fa la spola tra Aldo Moro e la Santa Sede quando «Il Nuovo cittadino» e «L’Italia» di Pisoni sferrano una dura offensiva contro la prospettiva del centro-sinistra; cfr. M. Marazziti, I papi di carta, cit., p. 98.
77 Sull’esperimento di Lazzati, M. Margotti, «L’Italia» di Lazzati. Il quotidiano cattolico milanese agli inizi degli anni ’60, Milano 1993.
78 Si veda ad esempio M. Isnenghi, Giornali e giornalisti. Esame critico della stampa quotidiana in Italia, Roma 1975, p. 38. Sull’esperienza dell’«Avvenire d’Italia» nel secondo dopoguerra cfr. anche N.S. Onofri, P. Facchinetti, C. Zilocchi, Giornali e giornalisti in Emilia Romagna. La storia dell’Aser e dell’Ordine regionale dei giornalisti, II, 1945-2005, t. I, Bologna 2008, pp. 141-172.
79 R. La Valle, «L’Avvenire d’Italia», cit., p. 116.
80 A. Bertani, Stampa cattolica italiana: problemi e prospettive, in Stampa cattolica, stampa d’opinione?, cit., p. 85.
81 I successori di Narducci saranno rispettivamente Angelo Paoluzzi, Pier Giorgio Liverani e Guido Folloni; cfr. A. Majo, La stampa cattolica, cit., pp. 220-225.
82 Cfr. ad esempio in G. Vecchio, D. Saresella, P. Trionfini, Storia dell’Italia contemporanea. Dalla seconda guerra mondiale al Duemila, Bologna 2002, p. 505.
83 C. Draghi, «Avvenire». Debolezza e forza del giornale dei vescovi, «Problemi dell’informazione», 4, 2008, pp. 394, 440.
84 P. Scoppola, Il ritorno della religione e il pericolo del conflitto, «la Repubblica», 10 novembre 2004, pp. 1, 16.
85 D. Boffo, Ma non sarà un’ossessione autolesionista?, «Avvenire», 13 novembre 2004, p. 2. ma anche Idee acute e immaginari complotti, ibidem, 11 novembre 2004, p. 1.
86 Si vedano ad esempio le rivendicazioni periodicamente emerse all’interno dell’Unione cattolica stampa italiana, sodalizio nato a Roma nel maggio 1959 che raccoglie i giornalisti cattolici presenti nelle varie testate nazionali. Sulle sue origini A. D’Angelo, Per una storia dell’Unione cattolica stampa italiana a quarant’anni dalla nascita, in F. Malgeri, P. Scandaletti, Giornalismo cattolico e quarant’anni di Ucsi, Roma 1999, pp. 41-79.
87 Su questi temi cfr. ad esempio le annotazioni di R. La Valle, «L’Avvenire d’Italia», cit., pp. 115 segg.
88 Su questa particolare realtà si vedano L. Ceccarini, Le voci di Dio. Stampa cattolica e politica in Italia, Napoli 2001, pp. 87-146 e il materiale prodotto dalla stessa Fisc nel corso degli ultimi quarant’anni.