I giuristi alla Costituente
Si è molto discusso negli anni passati sul peso esercitato dalla cultura giuridica e sul ruolo svolto dalla classe dei giuristi nel processo di formazione della nostra carta repubblicana. Ma le ricerche storiografiche sviluppate intorno a questo tema non hanno sinora fatto emergere opinioni consonanti. Infatti, taluni sono stati indotti a pensare che questo peso e questo ruolo siano stati determinanti nella confezione del prodotto costituzionale al punto da influire sul merito politico di gran parte delle scelte adottate nelle diverse materie; altri hanno, invece, maturato la convinzione che, proprio per le caratteristiche storiche del nostro processo costituente, questo apporto dei giuristi sia stato, in definitiva, marginale, non disponendo la cultura giuridica italiana del secondo dopoguerra – anche per le sue caratteristiche prevalentemente formalistiche – di modelli originali di società e di Stato da proporre a quella classe politica che, attraverso i partiti emersi dalla Resistenza, si stava impegnando nella definizione delle basi del nuovo impianto repubblicano.
Le divergenze storiografiche su questo tema possono essere ricondotte a molti fattori: alla difficoltà di analizzare obbiettivamente il clima politico e culturale in cui il nostro Paese, dopo i traumi del fascismo e della guerra, si trovò immerso nella prima fase della ricostruzione; ai pochi elementi documentali di cui disponiamo per cogliere i rapporti che intercorsero tra la fase preparatoria che si sviluppò, tra il 1945 ed il 1946, intorno al ministero per la Costituente e i lavori svolti dall’Assemblea costituente nell’arco temporale che va dal giugno del 1946 al dicembre del 1947; alla limitata conoscenza dei profili umani e professionali di molti dei giuristi presenti alla Costituente, anche con riferimento al loro percorso formativo e alla natura dei loro rapporti con le diverse forze presenti nel quadro politico del dopoguerra.
Tutti aspetti rilevanti, ma sinora non sufficientemente indagati, nonostante l’ampiezza della letteratura che si è sviluppata, nell’arco degli ultimi cinquant’anni, intorno all’‘età della Costituente’. Quello che, in ogni caso, si può dire con certezza, ma sempre in via di prima approssimazione, è che la presenza dei giuristi nella Costituente fu significativa in termini sia quantitativi sia qualitativi.
In termini quantitativi, dal momento che i giuristi – nelle diverse componenti costituite dai docenti universitari, dagli avvocati e dai magistrati – furono la categoria più rappresentata nei banchi dell’Assemblea. Ma anche in termini qualitativi, per la presenza nell’ambito di tale categoria di personalità appartenenti a generazioni diverse, ma particolarmente autorevoli per la loro storia personale o per la loro competenza professionale: da Vittorio Emanuele Orlando, che fu il decano dell’Assemblea e per questo ebbe il compito di aprirne e chiuderne i lavori, ma che, in concreto, non ebbe poi la possibilità di svolgere un ruolo di particolare rilievo; ad Aldo Moro che, in ragione della sua età, fu uno dei più giovani deputati, ma che, nonostante questo, ebbe la possibilità di svolgere un ruolo significativo nella definizione di molti elementi del prodotto che si andava costruendo.
Per approfondire il tema e per tentare una prima valutazione di sintesi si presenta, dunque, utile portare l’attenzione almeno su tre aspetti: sulla presenza dei giuristi con riferimento alle diverse fasi che vennero a caratterizzare il percorso costituente; sul ruolo che gli stessi ebbero modo di svolgere, in ragione delle loro competenze specifiche, nella trattazione delle diverse materie che furono affrontate nella redazione del testo; sui profili di quelle personalità che, sempre in ragione della loro specifica competenza, furono in grado di esercitare un peso particolare sulle scelte adottate.
Tre sono le fasi fondamentali che hanno caratterizzato la nascita della nostra Costituzione. Se si prescinde dall’attività preliminare svolta dalla Consulta nazionale – istituita su iniziativa del governo Bonomi nell’aprile del 1945 per affiancare il governo nella fase transitoria, e in particolare per elaborare la legge elettorale per la Costituente –, la prima vera fase del processo costituente inizia con il decreto luogotenenziale 31 luglio 1945, nr. 435, varato dal governo Parri, che istituisce il ministero per la Costituente, cui viene affidato il compito di «preparare la convocazione dell’Assemblea costituente [predisponendo] gli elementi per lo studio della nuova costituzione che dovrà determinare l’assetto politico dello Stato e le linee direttive della sua azione economica e sociale» (cfr. art. 2 d. legisl. luogotenenziale 31 luglio 1945 nr. 435, in G.U. nr. 96 dell'11 agosto 1945).
Da qui la nascita – insieme con una commissione economica e una commissione per i problemi del lavoro – della commissione per studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato, che ereditò e ampliò i compiti di una precedente Commissione per la riforma dell’amministrazione (istituita già nell’ottobre del 1944) e che operò, come la precedente, sotto la guida di un giurista, Ugo Forti, professore di diritto amministrativo nell’Università di Napoli.
Questa commissione svolgerà i suoi lavori dal novembre 1945 al giugno del 1946, attraverso cinque sottocommissioni incaricate di studiare rispettivamente i problemi costituzionali, l’organizzazione dello Stato, le autonomie locali, gli enti pubblici non territoriali e la sanità. Nella composizione di tale commissione compaiono quasi esclusivamente giuristi, con una prevalenza della componente universitaria, ma con una presenza significativa anche di magistrati (ordinari e amministrativi) e di avvocati. In particolare, la prima sottocommissione, chiamata a trattare i problemi costituzionali, contava tra i suoi componenti docenti affermati quali Roberto Ago, Guido Astuti, Piero Calamandrei, Vezio Crisafulli, Arturo Carlo Jemolo, Costantino Mortati, Gaetano Morelli, Ciro Vitta, Guido Zanobini, Massimo Saverio Giannini, e magistrati delle giurisdizioni ordinarie e amministrative quali Gaetano Azzariti, Leopoldo Piccardi, Emanuele Piga, Antonio Sorrentino, Andrea Torrente.
La commissione Forti, con le sue sottocommissioni, svolse, in un arco di tempo limitato, un lavoro considerevole e di notevole pregio tecnico, ma molto circoscritto sul piano delle scelte politiche, dal momento che, fin dal suo primo insediamento, il ministro per la Costituente, Pietro Nenni, teneva a precisare che funzione della commissione era soltanto quella della raccolta e dello studio dei problemi relativi al riassetto dello Stato e non quella della preparazione di uno schema di costituzione, compito questo riservato all’esclusiva competenza dell’Assemblea costituente che sarebbe nata con le elezioni del 2 giugno 1946.
Ma pur con questa limitazione, la commissione Forti ebbe modo di affrontare la maggior parte degli snodi cruciali che la nascita di una nuova costituzione veniva a porre alla classe politica: dalla definizione dei diritti fondamentali alla forma di governo; dall’organizzazione amministrativa alla posizione del potere giudiziario; dalle garanzie costituzionali ai rapporti internazionali.
Su alcuni di questi temi le proposte avanzate, sia pure con riferimento a un ventaglio di opzioni possibili, verranno a rappresentare il punto di partenza di molte scelte che, nella fase successiva, la Costituente si troverà a dover affrontare, con una continuità di rapporti che veniva, del resto, favorita dal fatto che un numero piuttosto elevato di membri della commissione (20 su 90) si era trasferito, con le elezioni del 2 giugno 1946, nei ranghi dell’Assemblea.
Si giunge così alla seconda fase del percorso costituente che, ai fini del ruolo giocato dalla componente tecnica dei giuristi, resta indubbiamente la più rilevante.
Questa fase coincide con il lavoro svolto, in seno all’Assemblea, tra il giugno ed il dicembre del 1946, dalla commissione dei 75, che fu subito istituita, rispettando la proporzionalità dei rapporti di forza emersi dai risultati elettorali, al fine di predisporre un progetto di costituzione da sottoporre all’esame dell’Assemblea. Questa fase intermedia del percorso si rendeva, d’altro canto, necessaria stante l’assenza voluta, nella fase iniziale, di un progetto di costituzione elaborato dal governo.
La commissione iniziava così, nel luglio del 1946, il proprio lavoro a 'tavolo sgombro', vincolata soltanto dalla scelta istituzionale repubblicana già operata dal corpo elettorale e fornita degli elementi di studio elaborati nei mesi precedenti nell’ambito del ministero per la Costituente.
I primi atti della commissione furono l’elezione del proprio presidente nella persona di Meucci Ruini e l’articolazione della propria composizione in tre sottocommissioni, dedicate, la prima (composta di 18 membri, sotto la presidenza del democristiano Umberto Tupini) ai diritti e doveri dei cittadini; la seconda (composta di 38 membri, sotto la presidenza del comunista Umberto Terracini) all’ordinamento costituzionale della Repubblica; la terza (composta di 18 membri, sotto la presidenza del socialista Gustavo Ghidini) ai rapporti economici e sociali.
Ruini, leader di Democrazia del lavoro (una nuova formazione di ispirazione liberaldemocratica), sommava l’esperienza del politico all’autorevolezza del tecnico di alto profilo quale magistrato amministrativo, allontanato dalle sue funzioni dal regime fascista e, dopo la liberazione, reintegrato nelle stesse come presidente del Consiglio di Stato.
Dotato di un'intelligenza lucida, di vasta cultura e di un carattere determinato, Ruini impresse subito al lavoro preparatorio del progetto un ritmo veloce e ordinato. Sua fu l’indicazione preliminare dei temi di cui la commissione avrebbe dovuto, fin dal suo avvio, occuparsi (rigidità o elasticità della Costituzione; opportunità o meno di un preambolo; monocameralismo o bicameralismo; forma di governo) al fine di giungere alla formulazione di una costituzione che doveva essere «piana, semplice, comprensibile anche alla gente del popolo» (La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea costituente, 6° vol., 1971, p. 6).
Ancora sua fu l’iniziativa di costituire, per collegare i lavori della prima e della terza sottocommissione, un comitato di coordinamento composto di 18 membri che, nel corso dei lavori, si sarebbe venuto a trasformare in un comitato di redazione, destinato a divenire il vero centro motore del processo costituente e a rappresentare formalmente, fino alla conclusione dei lavori, la commissione di fronte all’Assemblea. Da notare che di tale comitato vennero a far parte, nei vari momenti, ben nove docenti di materie giuridiche (Gaspare Ambrosini, Calamandrei, Giuseppe Dossetti, Giovanni Leone, Moro, Mortati, Tomaso Perassi, Paolo Rossi, Egidio Tosato), e questo avrebbe indotto successivamente Ruini ad affermare, in un ricordo di tale fase preparatoria, che «la maggior parte dei cattedratici (presenti nella Commissione) erano giuristi» e che tra questi giuristi si trovava «il fiore dei costituzionalisti italiani» (I precedenti storici della Costituzione. Studi e lavori preparatori, 4° vol., 1958, p. 6).
In questa fase la funzione dei giuristi si manifestò, in particolare, nei lavori di impostazione del progetto condotti da quelle personalità che, proprio in ragione delle loro competenze tecniche, furono prescelte per redigere le relazioni introduttive sulle varie materie che venivano, di volta in volta, affrontate. Vediamo così che, nella prima sottocommissione, le relazioni di apertura sul tema delle libertà civili vennero svolte, su linee ispiratrici molto diverse, da un giurista-politico come Giorgio La Pira e da un politico-giurista come Lelio Basso; che il tema relativo al potere legislativo (e, più in generale, alla forma di governo) fu introdotto, nella seconda sottocommissione, da un costituzionalista come Mortati; che la discussione sulle autonomie regionali trovò la sua base di partenza nella relazione di un comparatista quale Ambrosini; che i temi dell’ordinamento giurisdizionale e delle garanzie costituzionali vennero impostati nelle relazioni di due processualisti quali Leone e Calamandrei; che il tema della revisione costituzionale fu svolto dal penalista Rossi.
In queste relazioni, ancorché ricche di prospettive e valutazioni di ordine politico, il peso della cultura giuridica dei relatori appare dominante: questo vale, in particolare, per la relazione di Mortati (che lo stesso relatore integrerà molto efficacemente nell’esposizione orale svolta nella seduta del 3 settembre 1946), dove l’analisi politologica s’intreccia fortemente con le ricostruzioni dei modelli giuspubblicistici; o per la relazione di Ambrosini, ricca di prospettive storiche, ma impegnata anche a definire nei dettagli l’impianto del nuovo ‘Stato regionale’; o per le relazioni articolate di Leone e Calamandrei sul potere giudiziario e sulla Corte costituzionale, corredate di spunti e suggerimenti legati a una piena padronanza tecnica del campo della giustizia.
Ma al di là del rilievo di tali relazioni un peso decisivo per l’impostazione che verrà adottata (dalla seconda sottocommissione) in tema di forma di governo sarà esercitato da due giuristi quali Perassi e Tosato: il primo per la presentazione dell’ordine del giorno che verrà votato il 5 settembre 1946 e che condurrà alla scelta preliminare di un governo parlamentare razionalizzato e corretto attraverso meccanismi di stabilizzazione; il secondo per la definizione dei poteri non solo formali, ma anche sostanziali da affidare al capo dello Stato, destinati a spingere il modello di governo italiano verso una ‘contaminazione’ tra parlamentarismo e presidenzialismo.
In sostanza, quello che si può dire è che, in questa fase, la voce dei giuristi si fece sempre sentire – e spesso con accenti innovativi e originali – in tutte le aree fondamentali dell’impianto costituzionale che stava nascendo, relative rispettivamente al quadro dei diritti e doveri dei cittadini, alla forma del governo parlamentare, ai caratteri dello Stato regionale, alla collocazione e ai compiti del potere giudiziario e della giustizia costituzionale.
La terza fase del percorso costituente è quella che si svolge, a partire dal marzo 1947, attraverso il dibattito sviluppatosi in Assemblea, dove la presenza della componente tecnica rappresentata dai giuristi tende, peraltro, a ridursi e a stemperarsi. Questa è la fase, infatti, in cui vengono gradualmente a maturare, sugli aspetti caratterizzati dai dissensi maggiori, gli accordi politici che condurranno a quel 'patto costituzionale' che verrà concluso, sia pure informalmente, tra maggiori forze in campo e che consentirà, pur in presenza di un quadro politico sempre più diviso e conflittuale, di giungere all’approvazione finale della Costituzione con una larghissima maggioranza (con 453 voti favorevoli e solo 62 voti contrari).
In questa terza fase, completato il progetto, furono le dirigenze dei vari partiti presenti in Assemblea ad assumere, in relazione agli obbiettivi politici che ci si proponeva di realizzare, un ruolo di guida dei lavori, ruolo che veniva a limitare e, in molti casi, a emarginare l’apporto delle componenti tecniche. Accadde così che giuristi dotati di grande autorevolezza e prestigio personale e che erano stati in grado di svolgere un ruolo significativo nel corso della seconda fase (come Calamandrei o Perassi), videro molto ridotta la possibilità di trovare ascolto, mentre giuristi di generazione più giovane, ma organicamente collegati al tessuto organizzativo dei partiti maggiori (come alcuni dei giuristi di area democristiana e comunista) trovarono la strada abbastanza spianata per affermare, in una logica prevalentemente politica, le loro visioni di tecnici.
L’unico giurista anziano che, ancorché non appartenente a una forza di maggioranza, riuscì a far sentire fortemente la sua presenza anche in questa fase e ad affermare la sua influenza sulla confezione del prodotto finale fu Ruini: e questo grazie all’opera di mediazione che egli ebbe modo di svolgere attraverso la guida del comitato di redazione investito del compito di verificare la traduzione in formule giuridiche di quel 'patto politico' su cui la Costituzione veniva a impiantarsi.
Di questo ruolo determinante si trova chiara traccia negli atti della seduta finale della Costituente, svoltasi il 22 dicembre 1947, quando lo stesso Ruini, nel consegnare all’Assemblea il testo della Costituzione, otteneva ampi riconoscimenti da tutte le parti politiche e poteva rivendicare con orgoglio il ruolo difficile, ma determinante, del comitato di redazione, «apparso molte volte come mitica unità» (La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea costituente, 5° vol., 1970) al fine di giungere a quella «transazione» su cui si veniva a fondare, come il solo «equilibrio possibile» fra idee e correnti diverse, il nuovo assetto costituzionale.
Disponiamo a questo punto di molti elementi per tentare una prima valutazione di sintesi in ordine all’influenza che la cultura giuridica e la categoria dei giuristi ebbero modo di esercitare nella costruzione del prodotto costituzionale. Questa influenza, come abbiamo visto, si manifestò con intensità diversa e in forme diverse nelle varie fasi del processo costituente, in ragione delle materie trattate, dei profili politici e professionali delle singole personalità che presero parte a tale processo, dei rapporti che, di volta in volta, vennero a intercorrere tra politici e tecnici: ma fu, nel complesso, un’influenza essenziale e determinante.
E questo, a nostro avviso, per due ordini di ragioni: perché i giuristi costituenti più impegnati in ruoli attivi finirono quasi sempre per operare più come giuristi-politici che come giuristi-tecnici, valorizzando al massimo i loro legami con i partiti di appartenenza; perché la cultura che questi giuristi espressero – ancorché venisse a trovare le sue basi nelle tradizioni dell’età liberale o nell’esperienza del fascismo – fu una cultura non accademica, ma originale e fortemente impegnata a interpretare le novità emerse nella società italiana attraverso le vicende della guerra e della Resistenza e, per questo, particolarmente sensibile, almeno nelle sue punte più alte, tanto alla riflessione storica su tali vicende, quanto all’apporto che si poteva trarre dalle esperienze straniere (continentali e anglosassoni) legate alle migliori tradizioni democratiche.
Basti solo scorrere a questo proposito il dibattito generale che si sviluppò in Assemblea nel marzo del 1947 intorno al progetto di costituzione per trovare la convalida di tale giudizio: in tale dibattito, che fu intenso e di elevatissima caratura, coloro che si attestarono nella difesa di un modello di Stato di diritto ancorato alle forme classiche del governo parlamentare di matrice statutaria (Orlando, Benedetto Croce, Francesco Saverio Nitti), nonostante la loro indiscussa autorevolezza, furono rapidamente scavalcati dagli interventi dei deputati più giovani (che erano in gran parte giuristi), orientati, invece, a individuare la realtà nuova che andava regolata nel pluralismo istituzionale, nei diritti sociali connessi al mondo del lavoro, nel ruolo dei partiti, nel superamento dell’accentramento statale, nei limiti da apporre alla volontà della maggioranza espressa attraverso la legge in funzione di quei valori repubblicani di cui la costituzione diveniva espressione suprema.
Per cogliere la novità del clima culturale che si respirava allora alla Costituente, anche come riflesso di quanto stava accadendo fuori dai confini nazionali, si possono, per es., rileggere le parole pronunciate da un giurista di formazione liberale quale Aldo Bozzi che, nella seduta del 4 marzo 1947, affermava:
Siamo in una fase storica di trapasso tra un mondo che è tramontato o volge al tramonto ed un altro che si affaccia, si delinea all’orizzonte con luce incerta. Noi disponiamo delle macerie del primo, ma non ancora vediamo nettamente delineati gli schemi del secondo. Siamo in una fase di fermento e di travaglio, non solo nel nostro paese, ma in Europa e nel mondo […]. La guerra è stata in gran parte figlia di questa grande crisi dell’umanità ma, a sua volta, è la madre di nuovi disorientamenti, e impone l’ansiosa ricerca di nuovi assetti (La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea costituente, 1° vol., 1970, p. 147).
Concetti questi ricorrenti, ripetuti con forza, nella stessa occasione, in tanti altri interventi quali quelli di Orlando, di Palmiro Togliatti, di La Pira.
In questo quadro, i richiami alle teorie istituzionali di Maurice Hauriou e Léon Duguit venivano ad intrecciarsi con quelli riferiti alla dottrina personalistica di Emmanuel Mounier; le citazioni dei padri fondatori della Costituzione americana con gli spunti tratti dall’esperienza peculiare del parlamentarismo inglese.
I giuristi dettero, dunque, il loro contributo alla nascita di una cultura nuova di matrice democratica, che venne peraltro a maturare gradualmente attraverso un confronto tra le varie posizioni politiche a mano a mano che il processo costituente si andò sviluppando dalla fase preparatoria, dove il ruolo dei tecnici fu dominante, alla fase decisionale, dove i politici riaffermarono, invece, la loro funzione di guida.
D’altro canto si può dire che a una presenza significativa dei giuristi nelle varie fasi del processo costituente contribuì anche il fatto che tale categoria venne in prevalenza a partecipare a questo processo portando una visione generale (cioè politica) dei problemi e non una visione ispirata alla difesa di interessi di natura corporativa. Difesa che prevalse – ma non senza ragionevoli motivazioni di ordine storico – soltanto quando si trattò di affermare, in sede di disciplina del potere giudiziario, la sopravvivenza della giustizia amministrativa e contabile contro la tendenza (di cui Calamandrei fu il principale assertore) che spingeva verso la ricomposizione unitaria della giurisdizione. Ma, al di là di questo episodio, nella massima parte dei casi la difesa degli interessi della categoria fu recessiva, come quando si trattò di definire la composizione di organi di forte caratura giuridica quali il Consiglio superiore della magistratura o la Corte costituzionale, dove si giunse, nelle scelte finali, a un dosaggio molto equilibrato che compensava la presenza necessaria della componente tecnica con una forte presenza anche di una componente politica di matrice elettiva.
Ma quando si passa a misurare l’influenza esercitata dalla categoria dei giuristi sui caratteri finali del prodotto costituzionale, molto rilievo assume anche il richiamo alla natura della materia trattata, dal momento che esistono nell’impianto costituzionale settori – come quello della tutela dei diritti di libertà, dell’assetto del potere giudiziario, delle garanzie costituzionali – in cui la tecnica del giurista si presenta, per sua natura, come la più idonea a suggerire non solo le linee portanti, ma anche i contenuti specifici delle discipline da adottare. Da qui il ruolo rilevante che in tali materie, fu giocato, anche su aspetti di dettaglio, da giuristi quali Moro, Bozzi, Tosato, Calamandrei, Leone, Rossi, ciascuno dei quali disponeva di una conoscenza scientifica e di una esperienza specifica sui singoli argomenti trattati.
Al di là di questo, il ruolo dei giuristi fu in ogni caso essenziale specialmente per tracciare l’architettura e l’impianto complessivo del disegno costituzionale. E questo in ragione di quelle che furono le motivazioni storiche più rilevanti di un ‘patto costituzionale’ che si presentava destinato a radicare una democrazia moderna in una società profondamente divisa tra ideologie diverse: patto costituzionale diretto, dunque, a garantire in forme transattive la convivenza sulle lunghe distanze tra forze politiche radicalmente contrapposte e, per questo, potenzialmente eversive rispetto alle normali regole della democrazia.
È noto che questo patto – in partenza molto difficile da realizzare per le condizioni date – poté alla fine maturare, prima attraverso il lungo (e, in gran parte, riservato) lavoro preparatorio svoltosi in seno alla commissione dei 75 (dove Ruini, come si diceva, ebbe modo di svolgere un ruolo di arbitraggio essenziale) e poi attraverso il confronto sviluppatosi in seno all’Assemblea grazie all’equilibrata combinazione che si riuscì a realizzare tra le varie componenti del modello che si andava costruendo, dove le diverse ideologie ebbero modo di affermarsi in misura diversa, trovando pur sempre un punto di partenza comune nelle istanze connesse alla valorizzazione della persona umana e alla difesa del pluralismo sociale, politico e istituzionale.
È attraverso queste istanze comuni, che spingevano tutte in direzione di scelte di tipo garantista, che si poteva giungere infine alla definizione di un modello che veniva a trovare le sue basi in alcuni assi portanti costruiti sul terreno giuridico con sapiente tecnica combinatoria: aggiungendo alle forme dello ’Stato di diritto’ le prospettive dello ‘Stato sociale’; alle libertà civili e politiche i diritti economici e sociali (secondo la dialettica che si venne fin dall’inizio a sviluppare tra La Pira e Basso); correggendo il governo parlamentare con alcuni elementi propri dei regimi presidenziali (dove il compromesso tecnico fu raggiunto intrecciando le posizioni di Mortati con quelle di Perassi e Tosato); innestando sull’impianto unitario dello Stato forti elementi di decentramento territoriale (secondo quel modello di ‘Stato regionale’ che nasceva essenzialmente dalla combinazione del progetto di Ambrosini con la posizione espressa dai giuristi appartenenti alla rappresentanza comunista e liberale).
Questa complessa e delicata ricerca di equilibri tra esigenze diverse e spesso contrapposte scaturiva da spinte squisitamente politiche, quali erano quelle connesse alla costruzione di un modello di regime democratico adatto a una società ‘divisa’, ma poneva anche la necessità di mettere a punto una strumentazione tecnica che soltanto la scienza giuridica era in grado di offrire. Per questo i giuristi e la loro cultura svolsero, come si diceva, una funzione che assunse particolare rilievo non tanto nel definire i contenuti del ‘patto costituzionale’ su cui la nuova carta repubblicana veniva impiantata, quanto le linee portanti di un modello di organizzazione sociale e istituzionale in grado di tradurre tali contenuti dalla sfera della politica a quella del diritto, conferendogli l’impronta storica della stabilità.
Alla fine la Costituzione che nacque con il voto del 22 dicembre 1947 fu la costituzione voluta e patteggiata dai partiti emersi dalla Resistenza e, in primo luogo, dai tre partiti di matrice ciellenistica – Democrazia cristiana, Partito comunista, Partito socialista – che alla Costituente, coprendo complessivamente il 75% dei seggi, venivano a occupare una posizione largamente maggioritaria. Ma alla costruzione del suo impianto i giuristi (e specialmente i giuristi più organicamente inseriti nella vita interna di tali partiti) ebbero modo di concorrere attivamente, esprimendo una cultura che, per i tempi, non poteva certo dirsi rivoluzionaria, ma neppure conservatrice, in quanto veniva a innestare gli istituti di un disegno nuovo su un tronco antico.
È alla cultura dei giuristi che va, quindi, riferita la definizione delle basi di quella ‘democrazia pluralista’ e di quello ‘Stato costituzionale’ in cui vengono tuttora a riassumersi i tratti più caratteristici del nostro ordinamento repubblicano: un ordinamento che, per l’equilibrata complessità delle sue componenti e la forza dei suoi valori, esprime tuttora un modello valido e originale nel panorama delle costituzioni moderne.
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I precedenti storici della Costituzione: studi e lavori preparatori, Milano 1958, 4° vol. di Raccolta di scritti sulla Costituzione: 27 dicembre 1947-27 dicembre 1957, a cura del Comitato nazionale per la celebrazione del primo decennale della promulgazione della Costituzione.
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Alle origini della Costituzione italiana: i lavori preparatori della Commissione per gli studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato (1945-1946), a cura di G. D’Alessio, Bologna 1979.
La fondazione della Repubblica. Dalla Costituzione provvisoria alla Assemblea Costituente, a cura di E. Cheli, Bologna 1979;.
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