I giuristi di fronte alla città e all’Impero
«Supponi che un potente mi sia creditore: si rifiuta di onorare il debito e, proprio per la sua potenza, non posso ottenere giustizia. Un giorno improvvisamente lo incontro: è solo, ha con sé un po’ di cose ed io sono finalmente superiore a lui. Posso farmi giustizia da me e appropriarmi dei suoi beni?». La questione è sottoposta agli studenti da Pillio da Medicina, un docente universitario particolarmente sensibile alle esigenze degli avvocati e della vita del diritto. Sul finire del 12° sec., il giurista non ha dubbi sulla soluzione; sostiene, infatti, che una tale aggressione sarebbe colpevole e punibile perché le leggi della compilazione di Giustiniano prevedono espressamente procedure applicabili ai casi nei quali sia impossibile convenire qualcuno in giudizio (Summa de actionibus, Libellus de preparatoriis litium).
La questione era probabilmente tralatizia ed era passato quasi un secolo dall’inizio dello studio sistematico di quel diritto romano e della riorganizzazione delle istituzioni pubbliche che nella storia giuridica europea si fa coincidere con l’inizio dell’età bassomedievale. La mentalità di un passato recente riaffiorava, però, nell’uomo del 12° sec.: un passato nel quale era stato di sovente molto arduo individuare il giudice che garantisse con imparzialità il rispetto dei diritti individuali e collettivi, la cui tutela rischiava quotidianamente di restare in balia dell’arroganza dei potenti, tanto che, talvolta, i titolari di diritti conculcati ritenevano legittimo reagire passando alle vie di fatto.
Dopo la renovatio imperii e l’incoronazione di Carlo Magno come imperatore, l’impero, trasferito dal pontefice Leone III nell’anno 800 da Costantinopoli a Roma, secondo un leitmotiv dei sostenitori del primato del pontefice sull’imperatore, governava solo nominalmente l’Europa cristiana. Nei secoli dell’età feudale il governo dei popoli e l’amministrazione della giustizia si erano distribuiti tra una miriade di autorità territoriali, laiche ed ecclesiastiche, formalmente subordinate a quelle universali dell’impero e del papato, di fatto autonome. Monarchie, ducati, contee, abbazie, monasteri, signori feudali e rurali esercitavano – legittimamente o per usurpazione – i poteri pubblici fiscali, legislativi, giudiziari, compresi sotto il nome complessivo di regaliae secondo proprie regole o proprie ‘leggi’; la frequente incertezza sui confini delle rispettive giurisdizioni e sul contenuto effettivo di tali prerogative provocava non solo controversie interminabili, ma anche guerre che dilaniavano le popolazioni rurali e cittadine.
Dal punto di vista del diritto, la cerniera tra le due epoche dell’alto e del basso Medioevo è individuabile negli anni Settanta e Ottanta dell’11° sec., nei quali lo scontro tra imperatore (Enrico IV) e pontefice (Gregorio VII) – culminato nel celebre episodio di Canossa del gennaio 1077 – coincide grosso modo con le più antiche testimonianze dell’utilizzo nei tribunali del Digesto di Giustiniano e con la comparsa di nuovi modelli di organizzazione delle città. Si tratta soltanto di alcuni dei fenomeni più vistosi di una trasformazione complessiva del diritto europeo sullo sfondo di una profonda evoluzione della società in tutti gli aspetti della convivenza: dalla crescita demografica a quella della ricchezza, della produzione e del commercio, dalla contestazione del mercimonio delle cariche ‘pubbliche’, a quella dell’arbitrio e dei costumi dei loro titolari, dalla nascita dello studio del diritto romano, appunto, alle origini del suo insegnamento.
La nuova iurisprudentia (Irnerio) non fu studio meramente teorico: i giuristi, dottori di tale scienza – la sapientia civilis per usare i termini di Giovanni Bassiano alla fine del 12° sec. –, ed esclusivi detentori dei suoi segreti erano, si potrebbe dire, alla ricerca di un nuovo diritto per una nuova società. Come già Irnerio, avvocato, esperto di tecnica notarile, giudice e consulente dell’imperatore (e per questo anche scomunicato nel 1119), così i suoi allievi e tutti i successivi doctores furono generalmente anche giudici, avvocati e consulenti di professione dell’imperatore, delle città e delle diverse autorità laiche ed ecclesiastiche. Per esperienza diretta, costoro erano consapevoli che il diritto pubblico esigeva una rifondazione secondo i principi – validi in ogni tempo, e sempre ribaditi nelle epoche ‘rivoluzionarie’ – della preminenza dell’utilità generale sugli interessi dei privilegiati, dell’imparzialità, equità e celerità della giustizia e della pace. Come appare da un dictum del giurista e canonista Graziano degli anni Quaranta del 12° sec., ispirato da un frammento della Πολιτεία di Platone, il percorso lentissimo dell’elaborazione teorica e del tentativo di attuazione pratica della riforma delle istituzioni appare dominato dall’ideale della civitas bene ordinata (dist. 8, c.1).
Il termine e il concetto di ordine (ordo) assumono un ruolo fondamentale nel pensiero giuridico dell’età nuova (cfr. Grossi 20062, pp. 76-85). Nel sempre arduo e conflittuale tentativo di tenere separate sfera religiosa e sfera civile, l’impero e la città si propongono – e sono adottati dai giuristi – quali elementi trainanti per riorganizzare la società ‘laica’ nel perseguimento dell’utilità generale e del bene pubblico (termini e concetti già ben presenti nella compilazione giustinianea e, come quello di ordo, ricorrenti nel Medioevo) fondato su norme che non diano adito a dubbi interpretativi (Azzone, Summa ad Cod. 1, 14, § 8) e sulla giustizia nella loro applicazione. L’impero aspira sia a riassumere la titolarità e l’effettivo esercizio del potere, dopo la frammentazione altomedievale, sia a sottrarsi – pur nel suo ruolo di difensore della Chiesa – all’interferenza delle gerarchie ecclesiastiche che, dal 4° sec., con la legittimazione della religione cristiana e delle sue istituzioni da parte dell’imperatore Costantino, erano state profondamente implicate nel governo di tutti i livelli di organizzazione, da quella delle comunità rurali fino all’ordinamento supremo dell’Europa cristiana. Dal canto suo, la città – come originale associazione giuridica – rivendica autonomia (libertas) e attrae popolazioni rurali con la promessa di libertà e sicurezza contro le prepotenze dello sfruttamento feudale e dei potentati laici ed ecclesiastici: «l’aria della città rende liberi» (Padoa Schioppa 1995, rist. accresciuta 2005, p. 210).
I giuristi individuano gli strumenti indispensabili all’impero e alle città per portare a compimento tali intendimenti nelle leggi fatte compilare e riordinare nel 6° sec. da Giustiniano nell’intento di consolidare la struttura di un ordinamento (respublica) accentrato e gerarchicamente ordinato nel nome dell’utilità generale (Moatti 2009).
I giuristi non sembravano dubitare che quelle antiche leggi fossero diritto vigente nel ‘nuovo’ sacro impero romano germanico, anche se la desuetudine, nella quale erano cadute per tanti secoli, e l’assenza di aggiornamento potevano creare qualche imbarazzo: era sotto gli occhi di tutti il fatto che, quantunque gli imperatori germanici si proclamassero continuatori dell’impero romano (si pensi a Enrico IV del quale si è detto), la vita del diritto continuava da secoli a essere regolata da complessi di norme di stampo grosso modo germanico, in parte scritti e di natura legislativa (agli ultimi decenni dell’11° sec. risalgono due compilazioni del diritto longobardo-italico, una delle quali, il liber papiensis, è integrato dall’interpretazione dei giudici), in parte orali e di natura consuetudinaria, come, prime tra tutte, le consuetudini feudali. Con questo diritto ‘vivente’, i giuristi continuarono a misurarsi ben oltre la fondazione dell’insegnamento del diritto romano: non tutto poteva o meritava di essere accantonato. Le prime associazioni di cittadini furono costituite con la procedura del giuramento reciproco, a evidenza improntato a quello feudale, tra cittadini e membri degli organi da loro eletti. Tramite patti giurati erano regolati i rapporti tra città e signori feudali e quelli tra l’impero e le autorità inferiori. Nonostante ciò, come sembrava dire l’autore delle celeberrime Quaestiones de iuris subtilitatibus scritte intorno al 1160, la nuova scienza giuridica stava superando gli ostacoli creati nel passato dalla noncuranza degli imperatori transalpini, dalla scomparsa dei libri di quelle leggi e dei relativi centri di studio (§ V, De veteri iure enucleando).
Impero e città stavano seguendo vie parallele nella loro riorganizzazione: mentre nei fatti, a livello locale, le città – svincolatesi dal controllo delle autorità legittime (i vescovi nella maggior parte dei casi) – iniziavano concretamente a sperimentare nuove regole nel governo e nella giustizia, la dottrina giuridica al suo esordio si concentrò, soprattutto, sul ruolo e sulla funzione dell’imperatore quale possibile garante – tramite le leggi ereditate dall’impero romano – di un nuovo ordine. Secondo Irnerio, iniziatore della scuola dei legisti, le finalità perseguite dall’impero consistevano nel realizzare nei rapporti giuridici equità e giustizia e dare attuazione alla ‘volontà’ degli uomini conforme alla legge tramite le sentenze pronunciate dai giudici (Materia codicis). Iurisdictio è un altro pilastro del nuovo linguaggio giuridico (e della nuova concezione) del diritto (Costa 1969). A partire da Irnerio, intorno al termine polivalente – tanto nelle fonti romane, quanto in quelle medievali – di iurisdictio si costruisce il diritto pubblico medievale: iurisdictio è, innanzitutto, obbligo di fare giustizia e titolarità dei poteri coercitivi necessari per realizzarla (Irnerio, gl. ad Dig. 1, 21, 1: «Imperium: sine quo nulla esset iurisdictio»); assume, infine, il significato di potestà di amministrazione e di governo tout court. Una delle costituzioni pubblicate a Roncaglia da Federico Barbarossa nel 1158, nel momento della sua massima potenza, rivendica all’imperatore, con le parole omnis iurisdictio et omnis districtus, ogni potere ivi compreso quello esclusivo di nominare iudices, un termine ambiguo anche nel diritto romano, che forse comprendeva, più genericamente, tutti coloro che esercitavano funzioni pubbliche. Iurisdictio finì per designare non soltanto la potestà suprema dell’impero, ma anche quella delle città e delle monarchie a esso soggette.
I contrasti e la diversità sui medesimi punti di diritto dei frammenti risalenti a varie epoche della storia romana confluiti nella compilazione giustinianea furono immediatamente percepiti dai giuristi medievali (come denunciato, per es., dalle già citate Quaestiones de iuris subtilitatibus, § XI [XII], In quibus causis), accuratamente soppesati ed elaborati attraverso il filtro della cultura medievale e di un’esperienza che risentiva della concezione feudale della società e dei rapporti tra questa e il potere. In bilico sull’asse delle leggi romane, tra coerenze e opposti, il ragionamento rigorosamente giuridico risentì inevitabilmente, per lo più sottacendole, delle emergenze politiche storicamente ben individuabili che ne resero accidentato il percorso per le improvvise accelerazioni seguite da momenti di stagnazione o da inversioni di rotta: ne scaturì non solo una massa talora ‘inestricabile’, per ammissione degli stessi giuristi, di opinioni contrastanti, ma anche la costruzione di un pensiero giuridico originale, più o meno consapevolmente creativo rispetto alla matrice romanistica, sui temi della dialettica e dello scontro tra i poteri.
In queste poche pagine sarà possibile rendere conto soltanto di alcuni schemi di ragionamento e di argomentazione elaborati dai doctores del basso Medioevo e via via adattati a differenti contesti per la soluzione delle questioni relative al coordinamento tra i due differenti ambiti della respublica, l’impero e la città, esemplificabili nella contrapposizione tra istanze assolutistiche e istanze legalitarie nella definizione della natura del potere (Quaglioni 2004). A tale contrapposizione si ricorre, per es., sia per graduare l’efficacia della legge del princeps (prima solo quella dell’imperatore, successivamente quella di monarchi, signori e città per effetto del riconoscimento a tali istituzioni delle medesime prerogative dell’imperatore) nel loro rapporto o con i principi di diritto naturale o con la consuetudine espressione della ‘volontà del popolo’ o della comunità locale, sia per configurare il diritto delle città di ‘contrattare’ con l’autorità a esse sovraordinata i propri obblighi e le proprie sorti fino all’enunciazione del diritto di resistenza. Tra i temi dominanti del dibattito sulle istituzioni merita, inoltre, ricordare la considerazione della legge come baluardo all’incertezza del diritto e alla discrezionalità del giudice; l’individuazione del giudice competente in base a criteri vincolanti di valore, di territorio e di natura della causa, per evitare di lasciare alla politica la scelta del giudice; la determinazione dell’efficacia del patto e del giuramento per garantire la certezza e l’affidabilità degli accordi raggiunti tra soggetti ‘pubblici’ e nel contempo come limite all’arbitrio del princeps. Patti e giuramenti avevano avuto una disciplina specifica nel diritto romano con precipuo riguardo al diritto privato; nell’alto Medioevo, come si è accennato, erano stati, invece, i pilastri dei rapporti tra i ‘poteri’.
La ‘fortuna’ – per usare le parole di Azzone (Summa ad Cod. 1, 14, § 18) e di Accursio (gl. Principatum ad Cod. 1, 14, 4) – incorona Federico I di Svevia, detto il Barbarossa, nel 1152 come re di Germania e nel 1155 come imperatore. L’avventura sua e dell’Europa inizia, apparentemente, come quella di uno dei tanti principi transalpini che, incapaci persino di ‘imitare’ gli antenati romani, rischiavano continuamente di trasformare la potestas in violenza e in tirannide; secondo l’habitus degli imperatori romani avrebbero, invece, dovuto essere clementi con i vinti, affidabili per gli alleati e giusti verso i sudditi (come ribadiscono le Quaestiones de iuris subtilitatibus, I [II]). Il quadro dei primi anni di governo offerto dagli atti ufficiali e dalle cronache (fatti oggetto di uno sterminato lavoro storiografico e di periodiche reinterpretazioni) è impressionante per la rete dei rapporti e la complessità delle situazioni, che il princeps teutonicus e i suoi consulenti (tra i quali l’‘integralista’ Rainaldo di Dassel) cercano di ricondurre sotto il diretto controllo imperiale con il consueto ricorso alla guerra o ai patti: riaffermazione dei diritti pubblici e ricognizione della legittimità dell’esercizio da parte di feudatari e città, mediazioni politiche, privilegi e concessioni, veri e propri trattati per la spartizione delle regaliae (tra i quali quello con i veneti del 1154) e loro pubblicazione con l’invio a tutti i popoli soggetti. Il termine populi comprendeva le città. La rottura con il pontefice Alessandro III ebbe una lunga incubazione, a partire dal 1152 e dal mistero dell’assenza di legati pontifici all’incoronazione di Federico come re di Germania fino alla Dieta di Besançon del 1157, sede di una violenta battaglia sull’uso di formule giuridiche e del termine beneficium, che aveva indotto Federico e la sua corte a sospettare che la Chiesa intendesse subordinare l’impero a un vincolo di vassallaggio feudale e il pontefice Adriano IV alla necessità di spiegazioni e di scuse.
Nel frattempo, il primo atto dello scontro con Milano era avvenuto sul piano giudiziario. Nel 1155 Milano era stata giudicata in contumacia dal tribunale imperiale a seguito della denuncia di Como e Lodi per esercizio di una potestas iniusta, come a dire ‘usurpazione di potere’: aveva preteso da loro il pagamento di tributi spettanti all’impero, le aveva distrutte e poi aveva impedito che risorgessero. Per uno dei tanti paradossi della storia, l’occasione della lotta contro le autonomie cittadine era stata offerta all’imperatore proprio da città che, in aggiunta, qualche anno più tardi violeranno l’antica alleanza passando dalla parte – dei ‘ribelli’ – della Lega lombarda.
Gli imperatori germanici – come quelli romani – avevano sempre riconosciuto le città come propri interlocutori e, non diversamente dagli imperatori romani, erano ormai soliti consultarsi cum sapientibus (cioè con esperti di diritto) sia per la soluzione delle controversie, sia per la redazione delle leggi. Nel 1136 Lotario III cita tra i propri consulenti, oltre ai nobili del regno e dell’impero, i giudici delle città lombarde e toscane che, in taluni casi (quello più noto si legge in una missiva al vescovo di Arles dalla quale cito), stavano manifestando tiepidezza, invece che piena fedeltà, per la potestas dell’impero – romano –, che intendeva reprimere gli interessi ‘privati’ e garantire con la pace per i sudditi (commoda subiectorum) la conservazione del bonum statum della res publica e l’accrescimento della propria dignitas (Cost. Imperialis benevolentiae). Nel 1151 i pisani chiedono a Corrado III di aiutarli contro i loro nemici, dichiarando fedeltà a lui e all’imperium: l’imperatore risponde di essere certo che, in pace e in guerra, per terra e per mare, i pisani erano sempre stati imperii romani domicilium e manifesta piena intenzione di intervenire per fare ‘ordine’ e pace in Italia (ad res Italiae ordinandas et pacandas). Il medesimo programma è enunciato, nella seconda dieta di Roncaglia del 1158, da Federico Barbarossa, nella costituzione sul divieto di alienare feudi (Cost. Imperialem), un adattamento, in declinazione italiana e cittadina, della costituzione de pace tenenda, pubblicata per la Germania nel 1152 allo scopo di garantire nei rapporti feudali sia il primato del regno, sia la tutela dei diritti dei singoli secondo le parole ius suum observare che si rifanno a un frammento di Gaio.
La partecipazione di giuristi nella dieta di Roncaglia, davanti a tutti i grandi dell’impero, è straordinaria. Intervengono i quattro dottori Martino, Bulgaro, Ugo e Jacopo, allievi di Irnerio, e l’apporto di esperti delle leggi giustinianee alla redazione delle leggi ivi pubblicate è evidente, benché sia incerto se essi abbiano giocato la loro partita a favore dell’impero o a favore delle città: probabilmente l’uno e l’altro. La costituzione Regaliae conteneva un elenco di tutti i beni, diritti e poteri dell’impero. La Omnis iurisdictio, di cui si è detto, intendeva ridare attuazione al sistema gerarchico dell’impero ribadendo il principio che solo l’imperatore, esclusivo titolare di giurisdizione e di poteri coercitivi, aveva il potere di conferire il mandato per il loro esercizio ai giudici, tenuti a prestare il giuramento di fedeltà. Nella Hac edictali, tra le diverse materie disciplinate, era specificato che tali giudici erano responsabili del controllo sulla prestazione del giuramento di fedeltà all’imperatore da parte di tutto il populus. Forse in vista di questo, a seguito di trattative e specifici accordi, le città lombarde erano rappresentate a Roncaglia da ventiquattro giudici. Si è detto che Federico, entrato in quel consesso come condottiero, ne uscì nelle vesti di statista (Mayali 1988, p. 156). Certamente, nella lunga età del Barbarossa, la nuova cultura giuridica si insinuò a tutti i livelli del potere.
Dopo i ben noti episodi della guerra contro i comuni lombardi, la pace di Costanza del 1183 modificò certamente, sotto molti aspetti, i tratti del coordinamento ‘costituzionale’ tra impero e città, che l’imperatore aveva dettato a Roncaglia. È indubbio che, dopo sette anni di negoziazioni, le città della Lega conseguirono la titolarità della maggior parte dei diritti regali, tra i quali il diritto di eleggere i propri ‘amministratori’ e i propri giudici e di applicare le proprie consuetudini, e che i comuni, con i loro consulenti, ritenevano che la pace di Costanza li avesse emancipati dal controllo dell’impero. All’occhio attento del giurista, che aveva piena cognizione delle leges giustinianee e delle costituzioni di Roncaglia, quel compromesso non risolveva definitivamente tutti i problemi del rapporto tra città e impero. A complicare le cose, sembra che circolasse un testo che ne stabiliva la scadenza al termine di trent’anni. Sul finire del Trecento lo aveva sotto mano Baldo (cons. 300, vol. V; In usus feudorum, De allodiis, § ad hoc; Imperialis, § Criminalibus), quando i problemi per le città erano divenuti, come vedremo, ancor più complessi.
I trentacinque anni dell’impero di Federico I avevano provocato una sorta di cortocircuito tra i due soggetti pubblici sui quali, nell’Italia settentrionale e centrale, si era ripartita la funzione di organizzare la società. L’impero che, nelle costruzioni teoriche, era servito ai giuristi per dare forma all’ideale di un unico potere ordinante della società cristiana occidentale si era dimostrato nei fatti un soggetto politico ingombrante. La pace di Costanza aveva derogato ai principi di una rigorosa subordinazione gerarchica delle città all’impero – sostituendola con lo strumento ‘feudale’ del giuramento di fedeltà –, ma nella forma di un privilegio graziosamente concesso dal principe ad alcune città, che rendeva precario e parziale l’equilibrio raggiunto. Secondo i principi dell’assolutismo scolpiti nelle leges di Giustiniano, l’imperatore, lex animata in terris (Nov. 105, 2, 4), era la sola fonte di norme valide ed efficaci («Quod principi placuit legis habet vigorem», Inst. 1, 2, 6) ed era legibus solutus (Dig. 1, 3, 31; cioè non obbligato a rispettare le leggi) e quel privilegio, come tutte le altre concessioni imperiali, avrebbe potuto in qualsiasi momento essere annullato, come, per es., ritenne di poter fare Federico II nel 1226 in occasione del successivo conflitto contro le città lombarde. Se questo fosse avvenuto, sarebbero rientrate in vigore le costituzioni di Roncaglia. È ben vero che i giuristi dello studio di Bologna si guardarono bene dal considerarle dello stesso rango delle leggi di Giustiniano. Cercarono, anzi, di far ‘scomparire’ la più ingombrante, la Omnis iurisdictio, che, comunque, continuò a circolare e fu forse nelle mani di Dante Alighieri (v. Monarchia, a cura di D. Quaglioni, in D. Alighieri, Opere, ed. diretta da M. Santagata, 2° vol., 2012) e certamente in quelle di Baldo. La Hac edictali e la Regaliae, insieme con la Imperialis benevolentiae di Lotario III, furono, infine, stabilmente aggiunte alla seconda redazione del testo delle consuetudini feudali che, proprio sulla metà del 12° sec., un giudice milanese aveva iniziato a mettere per iscritto. Per questa via, dopo il commento dell’autorevolissimo Accursio, tra la metà e la fine del 13° sec., iniziarono a essere studiate anche nell’Università di Bologna. Nel diritto feudale si individuarono altresì i principi per la costruzione delle prime linee del diritto delle genti, che noi chiamiamo diritto internazionale pubblico.
A ogni buon conto, anche la compilazione giustinianea aveva riconosciuto le città come titolari di diritti e prerogative da esercitare secondo procedure legislativamente disciplinate. Per gradi, prima Piacentino e Pillio (nella summa ai Tres libri), poi Azzone, nella summa al Codice destinata ad avere un successo straordinario nei secoli successivi, evidenziano la congruenza dell’organizzazione delle città del loro tempo con quella delle città romane in seguito a una minuziosa ricognizione dei frammenti disseminati tra Codice, Istituzioni e Digesto e anche sotto il ‘nome’ di enti assimilabili per via analogica come respublica e provincia: per es., ai decuriones delle città imperiali corrispondevano i consiliarii, membri delle assemblee cittadine medievali che si riunivano e deliberavano con le medesime formalità previste per i collegi romani (Pillio ad Cod. 10, 32 e 47); mentre il giudizio sulla correttezza dell’azione dei titolari di un publicum officium al termine dell’incarico (Azzone ad Cod. 1, 49, 1) si diffuse nel corso del Duecento con il sindacato del podestà. Pur insistendo sulla natura privata di tutte le città eccetto Roma, Pillio sostiene che, seppure impropriamente, il titolo del Codice di Giustiniano, De iure reipublicae (Cod. 11, 30), riguardava tutte le città. Azzone supplisce alle lacune con l’analogia (ad Cod. 1, 40); giustifica le differenze: l’adozione del sistema elettivo (in luogo di quello della designazione vigente nell’impero) per il conferimento delle cariche pubbliche è dovuto all’‘attuale’ aumento demografico dei populi. Gli torna anche utile richiamare la ‘costituzione’ di Federico per le città di Lombardia – la pace di Costanza – per giustificare l’estensione della giurisdizione cittadina alla repressione dei reati, una prerogativa che, come è costretto ad ammettere, le altre città avevano, invece, usurpato (ad Cod. 1, 55). Tutte le città di Lombardia, peraltro, colpevoli di usurpazione di prerogative imperiali, erano state redarguite da Pillio, in un frammento condiviso successivamente dal giudice di parte imperiale Rolando da Lucca (ad Cod. 11, 30; Conte, Menzinger in corso di stampa). Quantunque difensori delle autonomie, i giuristi continuavano a preoccuparsi di stabilire un confine oggettivo tra il giusto e l’ingiusto, tra il diritto e le prassi devianti.
La conformità delle istituzioni ‘comunali’ al modello del diritto romano, insomma, non era in discussione, purché le città non offrissero all’imperatore di turno il pretesto per recedere dall’osservanza di qualsiasi costituzione o patto, come sarebbe potuto accadere o, appunto, con l’abusare dei privilegi ottenuti o con l’adottare regole (in forma di consuetudini applicate dai giudici o di statuti deliberati dalle assemblee generali) ingiustificatamente difformi dai principi di diritto e dalle norme imperiali che regolavano le medesime fattispecie.
A questo punto, occorreva spostare il ragionamento sul piano dell’impero per verificare se davvero gli imperatori fossero completamente assolti dal rispetto delle leggi e dei patti stipulati con le città. Alla definizione della potestà assoluta dell’impero si contrapponeva, infatti, nella stessa compilazione giustinianea quella di una potestà ordinata secondo diritto e di un imperatore che si riconosceva subordinato al diritto secondo le parole della costituzione digna vox (Cod. 1, 14 ,4).
Azzone non ha dubbi: quantunque legibus solutus, l’imperatore romano si era dichiarato vincolato al rispetto delle leggi (Summa ad Inst., proemium, § 1). Senza obblighi, ma per saggezza e coerenza – l’espressione de virtute animi era stata utilizzata da Cicerone e Sallustio – avrebbe dovuto tener sempre a mente (§ 17) che aveva ottenuto l’elezione dalla fortuna e l’autorità (authoritas) dalla spontanea concessione del populus con la cosiddetta lex regia de imperio. Con la concessione (translatio) dei poteri di governo al princeps, quest’ultimo non aveva completamente abdicato all’esercizio del proprio potere originario (Summa ad Cod. 1, 14, § 8). In altre parole, il popolo – sembrerebbe quasi nell'accezione ciceroniana di principio fondativo (Moatti 2009, p. 269) – avrebbe potuto legittimamente destituire l’impero e riappropriarsene.
La teoria, elegantemente e rigorosamente giocata sul filo del diritto imperiale, si contrapponeva a quella più risalente, secondo cui la rinuncia dei popoli alla titolarità e all’esercizio dei poteri pubblici era stata definitiva. L’una e l’altra costituirono i pilastri del dibattito sulla 'costituzione medievale', nella contrapposizione tra potere assoluto e potere limitato dalla legge – un potere che osserva o serve le sue leggi secondo Odofredo (ad Cod. 1, 14, 4) – e furono per secoli oggetto di riflessione in una molteplicità di varianti.
Se la riaffermazione teorica del potere del populus di moderare l’uso ingiusto e illegittimo del potere da parte dell’imperatore poteva rassicurare i comuni, non tutto nella loro vita politica andava al meglio e assicurava ai cittadini pace e tranquillità.
Nelle assemblee cittadine l’arroganza delle maggioranze politiche era un attentato continuo alla sicurezza delle minoranze: che le leggi delle maggioranze al governo tendessero a garantire interessi merivoli di tutela, utilità generale e giustizia (i fondamenti della legittimazione dei regimi comunali) era di frequente quantomeno dubbio. La ben nota dolorosa testimonianza di Dante è sintomo di problemi diffusi tra Duecento e Trecento. Come rileverà Francesco Petrarca, infatti, anche nei «governi di molti» delle repubbliche comunali toscane, apparentemente perfette nell’attuare, tramite consigli di diversa composizione, i principi della collegialità e della rappresentanza, i poteri forti riuscivano a far trionfare i loro interessi contro l’utilità generale (Senilium, VI, 2). Nel contempo il faticoso equilibrio comunque raggiunto dalla cultura giuridica sul binomio città-impero era messo in discussione dall’emergere della figura dei signori che, soprattutto nell’Italia settentrionale, si proponevano come i nuovi garanti della pacificazione e della giustizia nella lotta tra le fazioni con una gestione monocratica del potere anche tramite l’assegnazione delle cariche pubbliche. Nei comuni, le maggioranze politiche, ora spontaneamente, ora convinte dallo spettro di una conquista armata, li eleggevano e conferivano loro poteri straordinari in deroga agli statuti e ai principi della costituzione comunale, che aveva attribuito all’assemblea rappresentativa la titolarità e l’esercizio di tutte le prerogative di diritto pubblico. Era, in fondo, una riproduzione a livello cittadino del meccanismo dell’antica lex regia.
A fronte del cedimento della politica, sono ancora i giuristi a cercare di porre un freno a tali deviazioni dall’ordine: molti, per lo più rimasti senza nome e ignorati dalla ricostruzione storica, con minor risonanza e qualche risultato, combatterono la lotta contro i tiranni sul campo, nell’opposizione quotidiana ai loro provvedimenti. Gli imperatori del momento erano, invece, di sovente disposti a legittimare i poteri dei nuovi signori con la concessione del titolo di vicari imperiali o, dalla fine del Trecento, di vassalli dell’impero dietro la promessa di fedeltà e la prestazione di un corrispettivo in denaro o in aiuti militari. Gli imperatori (Enrico VII, Ludovico il Bavaro, Carlo IV) impostano la loro azione politica e armata sulla distinzione delle città in fedeli e ribelli. Due costituzioni di Enrico VII del 1313 (Ad reprimendum e Qui sunt rebelles) entrano a pieno titolo nel dibattito giuridico una quarantina d’anni più tardi, grazie al commento di Bartolo da Sassoferrato, giurista autorevolissimo per limpidezza di pensiero e capacità di comunicazione, per la cattedra universitaria e, non ultimo, per il titolo di consulente dell’imperatore Carlo IV: il debito di riconoscenza verso quest’ultimo non gli impedisce, comunque, di costruire la teoria della città sibi princeps (della città-Stato). I vizi delle dittature dei signori, nella formazione e nel funzionamento, più o meno manifesti (come quello della depressione della cultura), sono da lui elencati nel trattato sulla tirannia (De tyranno).
Ben prima di Bartolo, però, la necessità di individuare freni e rimedi alla patologia delle istituzioni imperiale e cittadina aveva indotto i giuristi a ripensare la natura del potere tramite l’interpretazione del diritto romano e del diritto canonico e senza dimenticare le antiche fonti letterarie e teologiche e l’opera contemporanea dei maestri della teoria politica. Per taluni, l’istituzione imperiale, originariamente destinata alla tutela dei popoli come ‘superiore’ a tutte le istituzioni laiche, continua a costituire il baluardo legittimo – nel ruolo e nella funzione – al disordine dei tempi. L’impero non è (solo) il prodotto delle vicende della storia e la designazione del suo titolare non è (solo) il risultato di una fortunata concatenazione da eventi: la fortuna secondo Andrea d’Isernia (nel distacco dalla polemica che poteva sentire un suddito del regno di Sicilia, ormai effettivamente indipendente dall’impero) è termine ambiguo, che può indicare sia merito sia demerito (In usus feudorum, De pace tenenda, § Federicus). Per lui, come per Cino da Pistoia, l’amico di Dante, per Dante stesso e altri che li seguiranno, l’impero è il frutto non del caso, ma della necessità o del disegno del supremo ordinatore dell’universo (a Deo) e deve corrispondere ai requisiti di un potere ordinato, nel rispetto delle leggi: non per legge (che, anzi, lo rende ‘assoluto’), ma certamente per ‘obbligo’ di onestà e per l’impegno assunto con la pubblicazione della lex Digna vox: «grave est fidem fallere». Promesse sono anche i patti stipulati con le città e i feudatari: «il contratto stipulato dal principe è legge» (Cino da Pistoia, ad Cod. 1, 14, 4). L’imperatore di Alberico da Rosciate, diversamente dai suoi sudditi, non è sottoposto alla legge, ma si è volontariamente inserito nel sistema della legge (in lege positus) (ad Dig. 1, 1, 31): sui requisiti necessari affinché il ‘comando’ sia ‘legge’, i giuristi non hanno dubbi.
Quanto alla vecchia questione (risalente a una mitica ‘discussione’ tra Federico Barbarossa, Martino e Bulgaro sulla natura dell’impero) se agli imperatori spettasse il dominium dell’impero, oppure soltanto l’'amministrazione’, la seconda soluzione era ormai condivisa dalla maggioranza dei giuristi. Tra i tanti, Alberico da Rosciate, seguendo il filo ininterrotto delle autorità, a partire da Bulgaro e passando per la glossa accursiana, giustificava la potestà imperiale come iurisdictio e protezione (ad Digestum vetus, prima constitutio, § 12) che Bartolo da Sassoferrato chiamava anche difesa (ad Dig. 1, 3, 32). La cessione (donazione, vendita) di territori e di prerogative giuspubblicistiche (regaliae) costituiva, inoltre, l’esatto l’opposto della funzione di iurisdictio, che gli imperatori detenevano per accrescere la dignità, l’onore, la potenza, l’utilità dell’impero. Nella contestazione dell’antica donazione di Costantino alla Chiesa, Jacopo Bottrigari già aveva tratto conseguenze estreme: seppure in forma di delega di poteri imperiali, la cessione di beni e diritti costituiva violazione del dovere di accrescere la potenza dell’impero ed estingueva il rapporto di mandato tra popolo e imperatore: qualora, delegando altri, il mandatario avesse cessato di esercitare le funzioni attribuitegli, il popolo avrebbe riacquistato il suo potere (Comm. ad Cod. De novo codice faciendo). Per altri, il popolo avrebbe potuto, se non abolire la funzione, almeno deporre singoli imperatori (per es., Alberico, ad Dig. 1, 3, 9, § 5).
Non per questo i giuristi avevano sottovalutato la funzione della città (o almeno di alcune città) di perseguire, a sua volta, l’utilità e l’ordine dei popoli. In un altro frammento del Digesto (Dig. 1, 1, 9) da tempo era stata individuata la giustificazione della coesistenza del diritto generale dell’impero con quello proprio di ogni populus: questo testo giustificava l’autonomo potere normativo delle città a prescindere da concessioni imperiali. La dottrina di Bartolo da Sassoferrato distilla i risultati del percorso interpretativo dipanatosi tra 13° e prima metà del 14° sec. e fissa una tappa fondamentale: il fatto che nel Corpus iuris il principe fosse indicato come solo titolare del potere legislativo (Cod. 1, 14, 12) doveva essere interpretato nel senso che l’imperatore era l’unica autorità di carattere monocratico a esserne titolare. La stessa compilazione giustinianea ammetteva, invece, che organi di natura collegiale legiferassero: le assemblee cittadine, al suo tempo (hodie e secondo l’assimilazione già ‘creata’ da Pillio e da Azzone), erano tra questi. La tolleranza (l'acquiescenza) silente del princeps di fronte a ordinamenti che per consuetudine gestivano palesemente poteri pubblici (sotto il consueto termine di iurisdictio) comportava una prescrizione dei diritti imperiali ed equivaleva a una concessione espressa (ad Dig. 1, 1, 9). Per consuetudine le maggiori città si governavano da sé (come sibi princeps) e, come possiamo aggiungere, al pari delle grandi monarchie europee (si pensi innanzitutto alla Francia). Queste ultime, infatti, grazie alla formula «il re nel suo regno è imperatore» (rex in regno suo est imperator), avevano giustificato da più di un secolo, anche per il sostegno della Chiesa espresso nel 1202 dalla decretale Per venerabilem, la loro effettiva insubordinazione all’impero.
Del tutto opposta appare in proposito la teoria di Baldo degli Ubaldi che, in più punti, cita la costituzione Omnis iurisdictio del Barbarossa, assente nei testi ‘ufficiali’ universitari, e la giustifica, nella parte che prevede per i giudici istituiti dall’imperatore il giuramento di fedeltà, con una legge di Giustiniano (Nov. 15, 1, 1).
La iurisdictio imperiale è imprescrittibile (cons. 300, vol. V). Per altri percorsi, tuttavia, Baldo giunge a risultati analoghi a quelli del maestro. Nell’effettività della vicenda storica, infatti, «qualunque cosa prescriva la legge», quando l’impero non adempie la propria funzione, ‘i popoli’ devono avere la forza e la serenità di essere la ‘luce’, il capo (dux) e la legge di sé stessi, di sciogliere, per così dire, gli ormeggi e prendere il comando della loro nave, come aveva fatto Ulisse secondo un canto di Ovidio (Remedia amoris, v. 385). L’unico potere che la ‘legge imperiale’ non ha è quello di escludere che i propri sudditi, in assenza di un governo illuminato, si prendano carico del proprio destino: in loro aiuto può soccorrere il vigore (la fortitudo) di altri principi e popoli e la consuetudine generale.
Lo sfogo del giurista era bensì relegato nel commento al diritto ‘minore’ delle consuetudini feudali; in quella sede, già Andrea d’Isernia aveva giustificato, sia con l’inerzia degli imperatori, sia con le loro ingiuste guerre di conquista, la libertà dei regni di Francia e di Sicilia (Praeludia feudorum). A ogni buon conto, il potere supremo di impero era così disgiunto dalla persona fisica dell’imperatore e dalla struttura dell’istituzione imperiale: la ‘sovranità’, che ‘non muore mai’ (Baldo degli Ubaldi, Super feudis, Imperialis, § Nos Romanorum) ed è la fonte del processo circolare del potere (Baldo degli Ubaldi, Super feudis, De allodiis, § Iurisdictionem), spetta a chi è in grado di garantire ai popoli sicurezza e ordine.
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