I giuristi e il contratto
Il contratto fu un tema di principale interesse dei glossatori, certamente quello in cui più onerosa fu l’opera di rilettura dell’esperienza giuridica del proprio tempo all’interno della struttura autoritativa data dalla compilazione giustinianea. L’alto Medioevo aveva visto infatti la sparizione pressoché totale delle forme contrattuali del diritto romano, prive di rilevanza pratica a causa della scomparsa della circolazione monetaria in un’economia di pura sussistenza, ma soprattutto prive di rilevanza culturale, in un mondo improntato a valori antitetici rispetto a quelli dell’antichità. I modelli contrattuali romani erano per larga parte il frutto di una società individualista, e ciò consentiva di vedere nella volontà comune fra due soggetti il fatto costitutivo di nuove relazioni giuridiche. Quella dell’alto Medioevo è una società primitiva, in cui fattori centrali sono la preminenza della comunità come attore sociale e la realità come unico momento costitutivo delle relazioni giuridiche (Grossi 1995).
In una cultura primitiva, la volontà non è sufficiente a fondare effetti giuridici: essa è solo un elemento, peraltro assai debole, di una fattispecie complessa che deve avere nella comunità un termine necessario di riferimento. Davanti alla comunità si fa così giuramento di adempiere una data prestazione o di astenersi dal turbare il godimento del diritto ceduto; a questa si chiede (come nel gairethinx longobardo, cfr. Cortese 1995) di saldare il vincolo che si crea tra due soggetti con un gesto simbolico che importi il riconoscimento dell’avvenuta modificazione di una situazione giuridica. Un’età primitiva non può concepire un vincolo giuridico che si crei solo attraverso la formulazione di parole, e non trovi al contrario un forte radicamento in una manifestazione concreta.
È così che nell’alto Medioevo il trasferimento e la costituzione di diritti avvengono attraverso complicate sequenze simboliche di azioni materiali, idonee, secondo la cultura del tempo, a sancire l’irrevocabilità della mutazione giuridica provocata dal contratto. Ciò che osta veramente alla comprensibilità delle forme contrattuali romane nel periodo è proprio questo dato: la relazione giuridica non è percepita come rapporto fra due o più persone, ciascuna avente diritti e obblighi verso l’altra, ma come il mutamento della qualità di una cosa. La fattispecie che porta alla cessione di un bene, per es., non è ricostruita come obbligo del cedente a dare una cosa al cessionario, quanto piuttosto come mutamento di quella qualità della cosa che corrisponde al fatto di essere propria dell’uno piuttosto che dell’altro.
I segni usati per sancire l’irrevocabilità di tale modificazione sono assai vari nella cultura altomedievale, e si può solo tentare di identificare quelli statisticamente più ricorrenti. La cessione di un fondo viene testimoniata dall’allontanarsi rituale del cedente dal confine del fondo stesso, accompagnato dal trasferimento al cessionario di oggetti che simboleggiano i poteri esprimibili in fatto su quel bene (attrezzi agricoli, coltelli e così via). Il trasferimento di un oggetto di valore rilevante trova spesso una simbolica contropartita in un oggetto di nessun valore dato al cedente (launegild). Un fatto che vale simbolicamente a stabilire una sorta di reciprocità tra le prestazioni e a costituire un elemento di prova della legittimità del possesso del cessionario sul bene economicamente rilevante: ove questo venisse contestato il cessionario potrebbe agevolmente dimostrare di aver ricevuto legittimamente quel bene poiché il cedente ha accettato in cambio l’oggetto simbolico.
Il consenso, la volontà delle parti scompare dietro questi simboli, i quali sono i soli elementi dotati di una vera e propria rilevanza giuridica all’interno della fattispecie. Al di là del loro significato antropologico, tali elementi tendono giuridicamente a un solo scopo: escludere ogni rilevanza di quelli che il giurista contemporaneo chiama significativamente «vizi del volere». Tutti sono finalizzati a escludere quella caratteristica propria della volontà umana che per la civiltà altomedievale è la più intollerabile: la sua mutevolezza.
L’uomo è per sua natura imperfetto, la sua volontà è quella di un essere destinato a permanere pochi anni sulla Terra; quando si trasferisce valore, tuttavia, non si trasmette solo un oggetto, ma si muta il destino di una stirpe, di un’intera comunità familiare. Una cosa che per i valori del periodo non può essere lasciata alla flebile volontà umana: da qui il ricorso ai simboli, i quali servono per testimoniare un unico aspetto, l’ineluttabilità della cessione. I simboli non costituiscono così i termini di manifestazione della volontà contrattuale, non assolvono, in altre parole, alle stesse esigenze soddisfatte odiernamente dalla forma del contratto. Le singole clausole di un contratto odierno descrivono l’operazione economica complessiva che le parti si ripromettono; i simboli dell’alto Medioevo restano indipendenti rispetto al contenuto del contratto, per modo che da quelli non si può inferire nulla circa l’assetto di interessi che quell’operazione stabilisce tra le parti.
Uno schema, questo, che si ripropone eguale per quei negozi in cui le parti non trasferiscono la proprietà di un bene, ma assumono l’una un credito nei confronti dell’altra. La parte che riceve, per es., una determinata quantità di cosa fungibile (denaro, derrate), obbligandosi a restituirne altrettanta specie e quantità entro un dato termine, dà all’altra parte un oggetto simbolico come prova del suo debito; questo gli verrà restituito allorché avrà adempiuto alla sua obbligazione, e sarà così prova del pagamento. Uno schema primitivo, che consente tuttavia di costruire in modo estremamente semplice quella cessione del credito cui il diritto romano classico poteva arrivare solo dopo molte complicazioni: è sufficiente che il creditore originario trasferisca a un terzo l’oggetto simbolico per dargli tutti i diritti che aveva verso il debitore, il quale si trova così ceduto.
Nel procedere dell’età altomedievale, diventerà operazione comune rivolgersi a un notaio (nome dietro al quale si cela nulla più che uno scrivano, per l’epoca) perché renda testimonianza scritta di quanto interviene tra le parti, ed è così che i documenti notarili del periodo ospitano vivide descrizioni dei gesti fatti dall’una o dall’altra per cedere la titolarità di un bene o assumere un debito. Il significato simbolico del gesto o dell’oggetto si trasferirà progressivamente al documento che ne recherà traccia: sarà così sufficiente trasferire il documento per cedere a colui che lo riceverà tutti i diritti di cui esso fa menzione. La traditio chartae sarà così una clausola frequentissima nei documenti notarili altomedievali.
Il rinnovato uso (la 'riscoperta') del Corpus iuris civilis porterà ai primi giuristi l’onere di esplicare questa realtà nelle forme consegnate da questo testo antico e autorevole. Il Corpus iuris è per i glossatori la sede dell’unica verità possibile in materia di diritto, la quale va solo scoperta attraverso una faticosa interpretazione. Questa soggiace però a due oneri specifici quanto ai significati da trarre dall’autorità del testo: l’effettività, per cui ogni concetto partecipato dal testo romano deve trovare una rispondenza con la realtà in cui si trova a vivere l’interprete; l’omogeneità, per cui i termini reperiti nel Corpus iuris devono avere significati tra loro compatibili, indipendentemente dalla parte del testo in cui si trovano.
Per i giuristi medievali il Corpus iuris non ha una sostanza storica. Essi non sono in grado di distinguere la voce delle varie epoche del diritto romano stratificatesi nella compilazione giustinianea: tutto è per loro sullo stesso piano, e quelle differenze tra significati dello stesso termine, che lo studioso moderno facilmente attribuisce all’evoluzione di quell’esperienza giuridica, costituiscono per i glossatori dei rilevantissimi problemi interpretativi.
Ciò vale soprattutto per la materia contrattuale. Il Corpus iuris consegna infatti all’interprete medievale un insieme variegato di forme negoziali, dal mutuo alla stipulatio, dai contratti bonae fidei del diritto pretorio ai contratti do ut des e do ut facias del diritto tardo antico, ciascuno frutto di una storia particolare che i glossatori non possono comprendere né, soprattutto, considerare come opzione interpretativa (Calasso 19592). La loro unica possibilità è, sotto questo profilo, costruire un’intelaiatura concettuale che possa dar conto secondo una logica unitaria di tutte le differenze esistenti tra le forme contrattuali romane, in modo che esse partecipino dell’unica verità del diritto.
Un apparato che però non poteva ridursi a semplice costruzione intellettuale. Per essere scientificamente valido, esso doveva fondarsi sui valori propri del tempo e fornire uno strumento utile per la comprensione della pratica negoziale dell’epoca. I glossatori lo costruirono in modo alluvionale, ideando una serie di dottrine che sarebbero andate incontro alla selezione del tempo e, mentre talune non sopravvissero, altre furono invece destinate ad arrivare sino alle soglie della nostra contemporaneità.
Il caposaldo del sistema è la nozione di pactum, partecipata ai glossatori da un passo ulpianeo, il primo del titolo omonimo, ubicato nel titolo de pactis nel secondo libro dei Digesta (Dig. 2, 14, 1, che i glossatori, dalle prime parole, chiamano, come loro metodo proprio, legge Huius edicti). Questa nozione non era la sola a poter essere adottata in questo ruolo. Il Corpus iuris parla di promissio e di conventio, per es., concetti che vengono puntualmente analizzati dai glossatori, ma scartati perché la definizione che di essi si può trarre dal testo romano appare più lontana dai valori propri di quella società. La promissio è il fatto di una sola persona, mutevole come la sua volontà; la conventio è invece termine troppo generico, indica il riunirsi in un solo posto che può essere figura del contratto come di troppe altre cose. Il pactum è invece definito dal testo ulpianeo come «duorum pluriumve in idem placitum consensus» (consenso sul medesimo punto di due o più persone): una nozione che richiama direttamente l’aequitas e che rende così cardine del sistema un concetto che per il diritto romano individua soltanto una statuizione accessoria al contratto, mai suscettibile di costituire autonomamente una relazione giuridica, ma capace soltanto di introdurre un fatto modificativo o estintivo di una delle situazioni soggettive risultanti dal contratto cui aderisce.
Per il diritto romano il pactum non può produrre un’azione, ma solo un’eccezione: l’esempio tradizionale è quello dell’accordo successivo con cui si riduce il prezzo di un contratto di compravendita già intercorso tra due parti; l’effetto è quello di predisporre un’eccezione per il compratore, con cui impedire la pretesa avversaria a vedere saldato l’importo originario del prezzo. Nel placitum consensus i giuristi romani vedono qualcosa di meno del vero e proprio contractus, i giuristi medievali vi vedono invece qualcosa di più: la radice della ineluttabilità, l’elemento inverato dal simbolo, che vale a mettere l’atto di disposizione al riparo dall’incostanza e dalla volubilità.
Esistono per i glossatori due profili di giuridicità nel pactum, uno che si connette direttamente all’aequitas, come norma fattuale, l’altro che deriva invece dalla qualificazione data dall’ordinamento. Per il primo profilo l’accordo fra due o più parti esiste come termine di legittimazione della costituzione, modifica, o estinzione di una relazione giuridica tra loro intercorrente. La semplice esistenza del pactum è quindi causa dell’atto di disposizione, con la conseguenza di rendere irripetibile l’adempimento spontaneo. Questa prima dimensione non può descrivere però il diverso effetto dell'azionabilità dell’accordo, la possibilità per una parte di citare l’altra dinanzi al giudice per ottenerne l’adempimento. Tale compito è proprio della seconda dimensione giuridica del pactum, quella per cui il contratto viene riconosciuto dall’ordinamento e provvisto di una tutela in giudizio.
Per descrivere il primo profilo, i glossatori affermano che il pactum produce una naturalis obligatio. Per il diritto romano il termine indica quel dovere morale che rende irripetibile una prestazione cui non si sarebbe stati giuridicamente obbligati, e che pure si è adempiuta spontaneamente: quasi un termine intermedio tra l’indebito e il giuridicamente dovuto. Nella lingua giuridica che i glossatori costruiscono in autonomia, pur partendo dai termini del diritto romano, esso assume un significato completamente diverso: obligatio naturalis è per loro l’effetto principale dell’accordo, quello di imporre alle parti l’adempimento di quanto da esse voluto.
La possibilità di esigere in giudizio l’adempimento è per i glossatori un effetto diverso, che consegue a una particolare struttura dell’accordo, non a qualsiasi pactum. Analizzare questa seconda dimensione significa quindi per il giurista misurare le differenze tra le singole forme contrattuali romane, e riportarle secondo criteri generali e conformi ai valori del proprio tempo. La prima dimensione giuridica del pactum non sarà mai realmente in discussione tra i giuristi medievali, la seconda sarà invece sede di una complessa evoluzione tecnica.
I primi glossatori si affideranno al nomen contractus per tracciare una prima, elementare distinzione tra patti che stanno in generali nomine e patti che, al contrario, stanno sub speciali nomine. I primi diventano obbligatori solo quando una parte dia spontaneamente seguito alla prestazione cui si è obbligata, i secondi sono invece obbligatori nel momento stesso in cui si stringe l’accordo. In questo modo essi non fanno che replicare sotto una diversa terminologia la distinzione tra contratti nominati e innominati che arriva all’opera giustinianea dal diritto romano tardoantico. Essa non consente di razionalizzare altro che le forme contrattuali partecipate dal testo romano, descrivendo una sistematica priva di una vera presa sulla realtà. Sarà per questo rapidamente sostituita con quella dei vestimenta pactorum la quale, tra alterne vicende, caratterizzerà le dottrine in materia di contratto del diritto comune fino all’età dei codici e, in taluni contesti, anche successivamente a questa.
L’argomento interpretativo principale è di un’assoluta semplicità: il testo romano afferma che il pactum nudum, terminologia che in quell’esperienza vale appunto a descrivere la condizione di inferiorità di questa minima forma di accordo nei confronti del contractus, può produrre solo un’eccezione; il giurista medievale con la sua interpretazione creatrice è pronto a ideare un altro tipo di accordo, specularmente definito come pactum vestitum, il quale, in ragione appunto della sua veste, è titolo per una tutela attiva. La dottrina è iniziata dal Piacentino (12° sec.) e trova massimo compimento in Azzone (o Azone; a cavallo tra 12° e 13° sec.). Il Piacentino si è limitato a rileggervi le principali forme contrattuali romane. I vestimenta sono per lui cinque: la res, come nel caso del mutuo; i verba, che contraddistinguono la stipulatio; le literae, ossia la redazione per iscritto che fonda l'azionabilità del chirographum; infine il consenso, ma solo ove porti l’accordo fra le parti in uno speciali nomine, come nel caso della compravendita.
L’operazione è elementare: la struttura delle singole forme contrattuali romane viene analizzata in modo da identificare tutto ciò che esiste in esse oltre l’accordo. Ogni contratto romano si scinde pertanto in due elementi: il pactum, ossia il momento dell’accordo, sempre eguale a se stesso qualunque sia il tipo contrattuale considerato, che da solo non potrebbe produrre un’azione; il vestimentum, il momento che rende azionabile l’accordo, appunto la dazione dell’oggetto contrattuale nel mutuo, la formula rituale della stipulazione, e così via.
La teoria dei vestimenta fu innanzitutto un momento di comprensione dei modelli contrattuali romani. In questo senso, essa pose più di un problema ai glossatori, come quello dato dai contratti ex fide bona del diritto romano, in cui non vi è un elemento ulteriore rispetto al consenso su cui poter fondare l’azione. Il Piacentino lo risolse affermando che il consenso non vale sempre e comunque a dare azionabilità all’accordo: ciò riesce solo se il patto vestito sia definibile secondo un nomen proprio.
Presso i primi glossatori, i pacta vestita coincidevano difatti con i contratti nominati del diritto romano; i giuristi posteriori estendono questa classificazione anche ai contratti innominati, creando altri vestimenta. Azzone individua così il vestimentum del rei interventus per rappresentare la realtà dei contratti della specie do ut des e do ut facias, in cui l’accordo rimane privo di un’obbligatorietà per le parti fino al momento in cui una di esse esegue spontaneamente la prestazione cui si era impegnata. In questa fattispecie la prestazione dell’oggetto contrattuale non caratterizza l’accordo fin dalla sua nascita, ma interviene dopo e in modo del tutto eventuale a dare effettività a quanto voluto dalle parti.
Nel patto vestito re, come nel caso del mutuo, la prestazione dell’oggetto contrattuale è necessariamente contemporanea alla formazione del consenso. Un accordo con cui una parte s'impegni verso l’altra a prestarle del denaro non è giuridicamente rilevante, per i glossatori; è rilevante solo quella volontà che si manifesta effettivamente nella traditio della somma, fatto che costituisce chi la riceve debitore a restituire il tantundem. Il fatto dell’accordo e il fatto della tradizione dell’oggetto contrattuale sono dunque elementi costitutivi parimenti necessari nella struttura del patto vestito re.
Il patto vestito dell’interventus rei ha una struttura diversa, in cui l’accordo è in sé autonomo e la prestazione dell’oggetto contrattuale vale solo a adempiere un onere da cui dipende la sua piena azionabilità. Un diverso regime con cui si descrive la fondamentale differenza tra questi due tipi contrattuali romani: l’unilateralità del mutuo, in cui la sola parte obbligata è quella che ha ricevuto la cosa; la bilateralità del contratto innominato, in cui la prestazione dell’oggetto contrattuale è allo stesso tempo adempimento di un obbligo e precondizione di un eguale diritto.
La costruzione concettuale dei glossatori non è fatta per sovvertire le forme contrattuali romane: lo scopo di questi giuristi è solo quello di trovare un ordine fra queste, che deve necessariamente esistere, atteso il vincolo di autorevolezza che il testo ha verso l’interprete. Il tutto si traduce nel costante sforzo dei glossatori di comprendere attraverso criteri unitari tutti i casi di accordo definiti dal testo romano come produttivi di azione.
Accanto all’interventus rei fa così la sua comparsa il più complesso dei vestimenta: la contractus cohaerentia. Il pactum del diritto romano classico è l’accordo finalizzato a modificare un contratto facendo nascere l’exceptio. Il diritto tardoantico vede però in questa manifestazione di consenso anche il titolo per un’autonoma azione per verba prescripta, quindi della stessa specie della tutela apprestata per i contratti do ut des e do ut facias. I glossatori, che non possono spiegare storicamente il fenomeno, sono pertanto obbligati a ricostruire questa fattispecie con lo stesso strumento che serve a spiegare gli altri fenomeni contrattuali. Per loro il patto aggiunto a un contratto produce due effetti: la tutela derivante tipicamente dal contratto si estende innanzitutto a comprendere gli obblighi derivanti dal patto accessorio (pactum informat veterem actionem); l’accessorietà del patto produce poi un’autonoma azione praescriptis verbis con cui chiedere l’adempimento solo di quanto successivamente disposto tra le parti. L’obbligo di pagare il prezzo versando la somma a un creditore del venditore, assunto dal compratore con un patto aggiunto alla compravendita, può così essere tutelato o con l’actio venditi (e dare quindi per inadempiuto l’intero contratto) o con l’actio praescriptis verbis, e dare per inadempiuto solo il patto aggiunto.
L’individuazione dei vestimenta deve però creare, per i glossatori, dei vincoli di sistema e non semplicemente descrivere le ipotesi di accordo produttore di azione. Esiste una serie di casi descritti nel testo romano in cui il patto, pur rimanendo nudo, produce azione in giudizio. Questi devono essere così descritti usando la stessa logica, la quale deve servire in questo caso a mostrare l’unicità di queste fattispecie.
Nella sistematica di Azzone l’ultimo vestimentum è così il legis auxilium, la qualificazione che il consenso ottiene direttamente dalla norma superiore ma che, proprio per questo, non può estendersi oltre i limiti del singolo caso concreto previsto dal testo romano. Il legis auxilium è così un momento di chiusura dell’ordinamento dei vestimenta, in forza del quale non un qualsiasi fatto può essere momento di qualificazione del consenso, ma solo quelli che riescono a ricomprendere più fattispecie.
La sistematica dei vestimenta pactorum rappresenta tuttavia solo una delle dottrine dei glossatori sul contratto. L’altro pilastro fondamentale del loro edificio è la teoria dell’id quod interest, sulla base della quale essi costruiscono un ulteriore strumento sconosciuto al diritto romano: la tutela dell’adempimento attraverso la condanna per equivalente. Nel lessico del giurista romano, l’id quod interest è un parametro per la quantificazione del risarcimento da fatto illecito; il relativo titolo del codice giustinianeo riporta un forte dibattito circa la possibilità o meno che venga risarcito non solo il valore che la cosa danneggiata ha sul mercato, ma anche lo speciale interesse che in quel bene determinato aveva colui il quale ha subito il danno.
I glossatori si servono di questo concetto innanzitutto per dare risposta a un problema interpretativo per loro particolarmente pressante: se nella compravendita il compratore possa o meno chiedere il trasferimento della proprietà della cosa nell’inadempimento del venditore. La compravendita del diritto romano è un negozio meramente obbligatorio, che non trasferisce immediatamente la proprietà della cosa venduta; ciò è però incomprensibile per il giurista medievale, atteso che l’equità che governa ogni aspetto del diritto contrattuale richiede che chi si assume un determinato obbligo venga condannato ad adempiere proprio questo, e non una prestazione diversa.
I primi glossatori isoleranno una prima, debole distinzione tra interesse circa rem, il valore che il bene avrebbe al momento in cui si sarebbe dovuto adempiere all’obbligazione, e interesse extra rem, il valore che la prestazione inadempiuta avrebbe avuto per quel particolare creditore. La distinzione su cui si baserà il corso successivo del diritto comune è quella di Azzone.
L’interesse è per essa di tre specie: conventum, commune, singulare. Il primo rappresenta ciò cui la parte inadempiente si è liberamente obbligata con il contratto; il secondo consiste nel valore che la prestazione ha comunemente, quindi il suo valore di mercato al tempo dell’inadempimento; il terzo rappresenta l’ammontare del risarcimento capace di tenere indenne la parte lesa da ogni conseguenza derivante dall’inadempimento. Su questa tripartizione Azzone ricostruisce sotto il profilo funzionale l’intera tipologia dei contratti per come risulta dal testo romano. Il criterio guida è dato dalla risarcibilità dell’interesse singulare. In una prima categoria di contratti, detti per questo certi, questo risarcimento può essere disposto solo nel limite del doppio dell’interesse commune; in una seconda categoria, quella dei contratti incerti, esso può essere chiesto e stabilito senza alcun limite predeterminato e lasciato così al libero convincimento del giudice. Nella ricostruzione azzoniana, la prestazione in dare, ossia trasferire la proprietà di una cosa, è sempre certa e quella in facere sempre incerta: la conseguenza è che mentre l’inadempimento della prima trova un limite predefinito, quello della seconda espone il debitore a una condanna in infinitum.
La prestazione del venditore è in tradere, consiste cioè nell’obbligo di trasferire il possesso della cosa perché il ricevente ne acquisti la proprietà. Essa è un termine intermedio tra quella in dare e quella in facere: per sua natura, essa consiste in un fare – trasmettere il possesso –, tuttavia ha a oggetto un bene il cui valore è certo per definizione: in questo caso quindi il debitore inadempiente si espone, a fronte di un adempimento dal valore definito, al rischio di una condanna indefinita.
Il giurista medievale risolve così il problema che egli vede nella compravendita del diritto romano: non potendo ricostruire contro la lettera del testo gli effetti del contratto in modo da dare azione al compratore per avere trasferita la cosa venduta, egli costruisce una sanzione per l’inadempimento che può renderlo in fatto del tutto sconsigliabile.
La diversa risarcibilità del danno da inadempimento costituisce pertanto un criterio per la ridefinizione in senso funzionale delle fattispecie contrattuali romane, che va di pari passo con la ridefinizione delle stesse in senso strutturale data dai vestimenta. La possibilità per il debitore inadempiente di essere condannato o meno in infinitum si ricollega nelle dottrine dei glossatori al fatto che il consenso sia provvisto di un determinato vestimentum e non di altri. Essa esiste nella compravendita, per es., perché questa da un lato si costituisce con il consenso e dall’altro importa obblighi di natura diversa per il compratore e per il venditore. L’obbligazione del compratore è predicata in un dare, ossia nel trasferimento della proprietà della somma di denaro, quella del venditore è predicata in tradere, ossia nel trasferimento del possesso della cosa; la prima è quindi certa, la seconda incerta.
Nella permuta, contratto affine alla compravendita, le obbligazioni di entrambe le parti sono costituite in un dare, quindi nel trasferimento della proprietà e non del semplice possesso, e sono entrambe certe per definizione, ma il contratto non si realizza nel momento in cui si forma il semplice consenso, bensì nel momento in cui una delle due parti spontaneamente adempie alla propria prestazione. Una data struttura obbligatoria del contratto è il prodotto di un certo vestimentum e si riflette in una determinata struttura di tutela, comportando che il risarcimento del danno creato dal mancato adempimento debba essere ricostruito in modo diverso a seconda dell’obbligo che la parte che riceve un danno ha nei confronti di chi glielo arreca. Nel caso della compravendita, ove al compratore può essere chiesto in giudizio il pagamento della somma, poiché questi non ha verso il venditore una tutela eguale, l’ordinamento, secondo la visione dei glossatori, assicura una maggior tutela sul piano del risarcimento. La stessa esigenza non vi è nella permuta, ove le prestazioni delle parti sono della stessa specie e ciascuna di esse è tutelata dalla non obbligatorietà del consenso prestato, che consente a ciascuna parte di rifiutare l’adempimento una volta che non abbia adeguate garanzie dell’adempimento della controparte.
Si realizza quindi un diverso equilibrio tra le obbligazioni delle parti, che merita una diversa tutela delle situazioni soggettive: una logica che sarà riportata dai glossatori su tutte le altre forme contrattuali romane, arrivando a isolare in ciascuna il suo peculiare contenuto obbligatorio in funzione della struttura contrattuale.
Il vestimentum della contractus cohaerentia porta, sotto questo profilo, ai maggiori esiti interpretativi. Il quesito che i glossatori si pongono è questo: posto che il patto aggiunto al contratto può modificarne la struttura, portando l’azione che ne risulterebbe a tutelare prestazioni accessorie a quella tipica, fino a che punto la modifica fa restare il contratto nel tipo di origine e oltre quale punto lo fa transitare in un altro tipo? Una questione ben lungi dall’essere puramente teorica, atteso che da essa passa la differenza fra novazione totale e novazione parziale del contratto, la prima comportando la cessazione totale degli effetti del contratto originario e la contemporanea stipula di un nuovo negozio, la seconda la sopravvivenza del primo a condizioni diverse.
La soluzione dei glossatori sarà destinata a lunga fortuna: si avrà la novazione totale del contratto ove il patto aggiunto valga a modificare quegli aspetti della struttura obbligatoria da cui esso traeva la propria qualificazione; si avrà, all’opposto, solo l’integrazione del contratto originario allorché il patto aggiunto introdurrà o modificherà un aspetto esteriore rispetto a quello da cui dipende la qualificazione.
Il patto, con cui le parti di un contratto di compravendita si accordano perché il compratore non paghi il prezzo in danaro, ma ceda al venditore la proprietà di un bene, comporterà la novazione totale del contratto di compravendita a favore di un nuovo contratto di permuta tra le parti poiché quell’accordo successivo cambia un elemento essenziale e imprescindibile del contratto di compravendita, il fatto che il prezzo debba consistere in una somma di denaro. La mutazione di questo elemento vale cioè a portare il negozio da un modello contrattuale a un altro, assoggettando così il volere delle parti a oneri diversi per quanto riguarda la manifestazione del consenso, l’adempimento, la tutela delle situazioni soggettive risultanti. L’accordo con cui il compratore si obbligherà non solo a pagare il prezzo in denaro, ma anche a portare per suo conto quella cifra in una piazza lontana, non modifica il nucleo della qualificazione del contratto, ma aggiunge a questo solo un obbligo ulteriore.
Nel primo caso i glossatori parlano di pactum de substantia, poiché esso incide il nucleo sostanziale del contratto, nel secondo di un patto accidentale, poiché aggiunge al contratto un elemento che non ne modifica la struttura. Termine intermedio rispetto a questi sarà quello di natura contractus, un’area della struttura contrattuale in cui i glossatori sistemano quei caratteri che, pur non essenziali alla qualificazione del consenso, tuttavia identificano delle particolarità proprie di quel modello e infungibili con quelle di altri modelli simili.
L’esempio prediletto dai glossatori è quello dell’accordo con cui il compratore rinuncia alla garanzia per evizione del venditore: escludere questa non porta il contratto fuori dal modello della compravendita, ma la modifica di questo aspetto non può essere vista semplicemente come mutazione di un elemento esterno al contratto, dal momento che la garanzia per evizione è una tutela propria della compravendita e vale a distinguere questo modello da altri contratti di scambio.
Si disegna così una tipologia delle forme romane che serve al giurista medievale per dare, attraverso l’autorità di quei modelli, risposte alle necessità del suo tempo. La tipicità del diritto romano vede nel deposito un contratto che può avere a oggetto solo una o più cose infungibili, che vengano restituite al termine nella loro individualità. I glossatori ammettono, invece, con relativa facilità un deposito o un pegno di cosa fungibile, da restituire nel tantundem alla fine del rapporto contrattuale. È sufficiente dire che ciò modifichi la natura, ma non la substantia del contratto di deposito per creare un nuovo contratto che possa razionalizzare un’esigenza sconosciuta all’antichità romana: quella della banca, creazione autentica del basso Medioevo.
Il sistema che viene così a crearsi nell’opera alluvionale di più generazioni di glossatori fu alla base delle dottrine dei giuristi successivi, provvisti di ben altro bagaglio culturale. Questi lo sottoposero a una critica serrata e lo confutarono in molte sue parti, senza tuttavia trovare una dottrina alternativa che riuscisse a sostituirlo del tutto.
La critica più radicale fu quella di Jacques de Révigny (1230/40-1296), capofila dei cosiddetti ultramontani (i giuristi della scuola di Orléans), e si centrò su due punti: l’impossibilità di configurare nella realtà un pactum privo di vestimentum e l’unicità della nozione di interesse.
Sul primo profilo, l’argomento fondamentale di Révigny è quello per cui ogni accordo tra due parti nasce nel momento in cui un consenso è espresso; poiché nessun consenso può essere disgiunto dalla sua manifestazione, se ne deduce che nessun accordo è veramente nudo, essendo necessaria per la sua esistenza o una formula verbale o la redazione per iscritto. L’unico vestimentum è, per gli ultramontani, il rei interventus, perché solo in quel caso il consenso privo di effetti ha una sua autonomia concettuale nell’ambito della fattispecie complessiva.
Analogo il ragionamento sull’id quod interest. Per gli ultramontani il valore convenzionale attribuito dalle parti all’oggetto del contratto è cosa qualitativamente diversa dal danno che l’inadempimento provoca nel patrimonio del creditore, il quale deve essere sempre determinato in concreto. Il fatto che in taluni casi esso non possa superare il valore convenzionale o quello mercuriale della prestazione non deve avere alcuna conseguenza sulla definizione dell’interesse.
I giuristi francesi sostituiranno quindi alla tipologia strutturale basata sui vestimenta una tipologia funzionale, centrata sul concetto di species contractus. La compravendita è una species contractus, un modello negoziale voluto dall’ordinamento per assolvere determinati scopi; essa può concludersi attraverso i verba, le literae o direttamente con la consegna della cosa, tutti elementi che, presso i glossatori, costituivano la radice di altrettanti vestimenta, nessuno dei quali poteva ricorrere insieme ad altri nel qualificare una stessa fattispecie.
Il cambio di prospettiva è totale: mentre per i glossatori la dimensione funzionale del singolo modello contrattuale è tutta inscritta nel perimetro della sua struttura (talché la compravendita può concludersi solo con lo scambio del consenso, restando la sua eventuale redazione per iscritto solo una mera precostituzione di prova), per gli ultramontani trascende il dato strutturale, potendo riproporsi in più di una forma contrattuale. Questo modo di razionalizzare la realtà del contratto rende prive di significato molte delle questioni che avevano occupato i glossatori, principalmente quella della novazione del contratto.
Per gli ultramontani, il patto aggiunto al contratto non viene rivestito dell’efficacia di questo, e se può dirsi produrre un’azione, ciò è per una pura eccezione voluta dalla norma superiore, che non può essere mai estesa oltre i suoi limiti. L’unica azione che in via generale può derivare dall’accordo integrativo o modificativo è l’actio praescriptis verbis, che nasce tutte le volte in cui vengono a incontrarsi due diversi fatti normativi e ciò sia nel caso in cui entrambi potrebbero produrre effetti in proprio, sia nel caso in cui uno dei due non lo potrebbe.
Se la critica degli ultramontani è efficace, non altrettanto la loro capacità creatrice di un sistema alternativo a quello dei glossatori; alla fine di questa esperienza, Pierre de Belleperche (1250-1308) identifica la species con il nomen contractus, riportando, sia pure su ben altro spessore culturale, il fulcro della tipologia negoziale sul criterio principe dei primi glossatori.
Gli apparati dei commentatori procederanno sempre dall’esposizione delle opinioni della glossa e dalle speculari critiche degli ultramontani, utilizzando questo dibattito per discernere le questioni ancora bisognose di analisi da quelle sulle quali si era ormai formata una dottrina consolidata. Il novero dei vestimenta non fu così più veramente in discussione, e le critiche degli ultramontani sul punto vennero ridotte a sistema, evidenziando come le species contractus fossero da loro comunque individuate attraverso i momenti di qualificazione individuati dai glossatori.
Argomenti non dissimili furono usati per la nozione di id quod interest: gli apparati dei commentatori generalmente concordano sul fatto che solo quello singulare possa veramente meritarsi il titolo di id quod interest, ma evidenziano al contempo come ciò non tolga rilevanza ai criteri del prezzo convenuto e del valore di mercato del bene. Il risultato è nella ridefinizione dei termini complessivi del dibattito.
Bartolo da Sassoferrato utilizza indirettamente la nozione di species contractus per centrare la sua attenzione sulla dichiarazione delle parti. Lo strumento è la stipulatio, termine che può essere assunto in due accezioni distinte: quoad materiam, ossia nella sua sostanza formale, esso è un modello contrattuale fra tanti, ma quoad effectum esso è sinonimo di obbligazione. In questo secondo significato, ogni contratto ha in sé una stipulatio, ossia una dichiarazione verbale tra le parti che descrive i termini del negozio concreto; dall’analisi di questa si dovrà poi dedurre il vestimentum che provvede il consenso di effettività. Questo elemento resta comunque essenziale: non tutto ciò che le parti possono dichiarare può trovare tutela, e non tutti i vestimenta possono ospitare lo stesso contenuto obbligatorio. Ciò che cambia rispetto alla visione dei glossatori è il criterio per individuare il contenuto del contratto, ora offerto da quella che Bartolo definisce l’individualità della prestazione.
Ove una prestazione sia stata intesa in concreto dalle parti come di preponderante importanza rispetto alla controprestazione, o agli altri obblighi che la stessa parte si sia assunta, essa è individua, poiché non tollera di essere offerta in modo parziale; la sua sostituzione per volontà dei contraenti comporta la novazione integrale del contratto. Nel caso contrario, essa può essere totalmente o parzialmente sostituita da una prestazione alternativa, sia per volontà delle parti con una novazione parziale, sia per intervento del giudice, con una condanna in equivalente. Esisteranno quindi contratti di compravendita per cui si potrà chiedere in giudizio la condanna del venditore al trasferimento della cosa e altri che, al contrario, potranno essere tutelati solo da una condanna al risarcimento del danno.
Le tesi bartoliane non costituiranno ovviamente il punto finale dell’elaborazione dottrinale del diritto comune, che procederà attraverso aspri dibattiti. Esemplare il caso di Baldo degli Ubaldi che, nel giovanile trattato sui pacta, segue da presso l’impostazione dei glossatori, per distaccarsene nei commenti al Corpus iuris della maturità, ove porta a esiti ulteriori la prospettiva della dichiarazione.
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Bartolo da Sassoferrato, Commentaria, Venetiis 1590.
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