I giuristi e il diritto feudale
I teorici del diritto arrivano ben tardi sui campi dell’esperienza feudale: non è infatti possibile parlare da subito dell’esistenza di un vero e proprio diritto feudale nella tradizione giuridica italiana, ed è anzi un processo assai complesso e lungamente articolato nel tempo quello che porta dalla multiforme e cangiante realtà degli iura propria altomedievali alla sua definitiva riduzione a sistema concettuale e assiologico, a opera di una matura classe di teorici del diritto.
Il feudo fu all’inizio soltanto una res, collocata e percepita come tale entro il divenire della storia: cioè una relazione personale, collegata alla titolarità di un bene specifico (non necessariamente e non esclusivamente di natura territoriale) e, contemporaneamente, congiunta anche a un rapporto intersoggettivo di dipendenza potestativa.
Ignota al diritto romano e alle sue codificazioni, la regola feudale trovò definizione e applicazione soprattutto in ambito germanico e in ambiente militare: fu all’origine prodotto piuttosto latamente antropologico, che non strettamente giuridico (Godelier 1996, pp. 20-26), di valori invece che di norme: sicché fu ben lenta la formazione di una sua generale definizione concettuale in termini di autorità e di forza legittima (Benveniste 1969, trad. it. 1976, 1° vol., pp. 41 e segg.; Pospíšil 1971, p. 162).
Una preliminare precisazione terminologica impone poi ulteriormente di parlare soltanto di feudo, ma non di feudalesimo, categoria fin troppo moderna, figlia delle polemiche dell’Illuminismo, che la più recente e avvisata riflessione storiografica tende ormai a espungere dal contesto medievale (Wickham in Il feudalesimo nell'alto medioevo, 2000, pp. 15-46; Davis 2008, pp. 23 e segg.).
Già l’analisi etimologica del lemma feudum indica come, almeno inizialmente, esso fosse identificato da una comune area di applicazione semantica, che era precipuamente rivolta all'illustrazione del tema della ricchezza e della sua mobilizzazione e trasmissibilità in particolare: com'è invero ben noto (Budriesi Trombetti 1973-1974, pp. 277 e segg.; Arcamone in Il feudalesimo, cit., pp. 915 e segg.; Montorzi 2009, pp. 8 e segg.), sia la ‘ricchezza naturaliter mobile’, cioè il bestiame (che circola con le proprie gambe), sia la ‘ricchezza legaliter mobile’, cioè la moneta (che passa di mano in mano attraverso le transazioni commerciali), vennero definite, secondo un’antica radice indoeuropea (*peqw-), da una medesima unità semantica, donde sarebbero derivati sia i vocaboli latini pecu-s, pecu-nia e pecu-lium (indicanti specifici cespiti di ricchezza quali, appunto, il bestiame e la moneta), sia, anche, con la mutazione fonetica indotta da un fenomeno di rotazione consonantica (Pisani 19613, pp. 36 e segg.), dalla corrispondente forma germanica *fehu-, da cui sarebbe infine derivato il termine gotico neutro faíhu, con analogo significato di Geld, Vermögen («denaro», «patrimonio»).
È appunto da tale ultima variante, che si sarebbe evoluta poi, con l’aggiunta di un suffisso -*od, da alcuni ricostruito come indicativo di possesso, da altri come inserzione solamente eufonica, la particolare e diffusissima forma romanza feud-um (*faihod-).
Di conseguenza, se la normazione giustinianea avrebbe ignorato, comprensibilmente e completamente, sia il termine sia l’istituto del feudum e ogni altra connessa locuzione, la tradizione barbarica parve invece conferire ampio rilievo non solo al feudo in sé considerato, ma anche agli elementi costitutivi e strutturalmente tipici della complessiva relazione feudale.
Ne fanno fede già le testimonianze tacitiane sulla prassi dei capi tribù germanici di accattivarsi con donativi e liberalità la Gefolgschaft di comitive di giovani guerrieri (appellati, con termine d’origine cimbrica, gwas, donde poi gwassus, vassus, vasallus; Publio Cornelio Tacito, De origine et situ Germanorum, 13; Diez 18875, pp. 338-39); e lo attesta anche la figura del miles foederatus, guadagnato al servizio (solo apparentemente e residualmente considerato di natura contrattuale) dell’esercito imperiale romano con la corresponsione di donativi o di parimenti gratuite assegnazioni territoriali, nell’assolvimento di una prassi relazionale vicina piuttosto a quella degli atti di liberalità, costitutivi di un vincolo gratulatorio di fedeltà o di amicizia, che non ai negozi bilaterali a titolo meramente oneroso (cfr. Ammiano Marcellino, Res gestae a fine Corneli Taciti, 25, 6, 10; Montorzi 2009, pp. 9 e segg.).
Gli elementi di quello che in seguito sarà il contratto feudale (identificato dalla pratica beneficiale della corresponsione di donativi e dalla conseguente, gratulatoria, sequela in servitium domini) si trovano, quindi, già partitamente presenti nella tradizione e nell’intero universo antropologico dei costumi barbarici che, per quanto ben lontani ancora da ogni sistemazione formale di carattere istituzionale e giuridico, sono tuttavia attivamente praticati e tramandati nel costume nazionale.
In particolare, la Gawarfida (‘mores’) germanica dà ampio spazio alla Gewere, vale a dire a quella ‘legittimazione d’uso’ (Montorzi 1991, pp. 62, 95-97, 262, 283) che, definita nei linguaggi romanzi anche come vestitura, qualifica e sostiene i normali rapporti di titolarità reale praticati dai soggetti giuridici sia all’interno dei singoli aggregati etnici (gentes, nationes e tribù), sia in seno alle corporazioni gentilizie (Sippe), che ne costituiscono l’intima struttura portante (Grimm 1828, pp. 467 e segg.).
La Gewere consiste in un titolo proprio e positivo (molto spesso esplicitato dai contenuti dello specifico status personale del titolare di essa), che legittima il soggetto giuridico alla percezione di una specifica utilità reale: consistente, a sua volta, in una modalità propria ma non esclusiva di utilizzazione di un bene (per es., l’uso di coabitazione, a titolo particolare e commisurato ai contenuti del rispettivo status individuale, nella domus collettiva della Sippe).
Non solo, perché la Gewere conferisce anche pari rilievo al meccanismo rituale del Lohngeld (Launechildo, Widerdonum, Guiderdone): vale a dire a quella prestazione gratulatoria di ritorno, che necessariamente il beneficiato del trasferimento liberalitatis causa della Gewere stessa deve prestare, secondo l’etica degli usi, al soggetto che ne ha operato a suo vantaggio la traslazione, onde questa possa avere, al tempo stesso, perfezione rituale ed efficacia giuridica.
Nel Lohngeld è d’altronde evidente il retaggio di un sistema antropologico, come quello barbarico, basato su una vera e propria economia del dono (Mauss 1923-24, rist. 1995, pp. 143 e segg.; Gurevič 1970, trad. it. 1982, p. 63; Godelier 1996, pp. 20-22), e quindi regolato non già dalle leggi della cessione di diritti soggettivi contro corresponsione del loro prezzo, con mezzo monetario e con negozi di compravendita, ma dai tre obblighi fondamentali – e tra loro conseguenti e successivi – di dare, ricevere, ricambiare il donum, cioè l’atto di liberalità e il bene la cui Gewere venga, con uno specifico rituale e un corrispondente sacramento giuridico, trasmessa in beneficio. Nell’ordine dei valori reali, si dà rilievo piuttosto al valore d’uso che non al valore di scambio.
Lo schema complessivo che nel rapporto feudale geneticamente si attua è dunque quello che sarà adombrato nella pur tardiva formula dottorale del feudum come «concessio rei pro homagio», concessione della res contro assoggettamento personale (si vedano, tra la seconda metà del Duecento e i primi trent’anni del secolo successivo: Martino Sillimani, De usibus feudorum, nr. 1, c. 3 rb; Pierre de Belleperche, De feudis, tit. I, nr. 1, c. 2 ra; Iacopo Belvisi, Super feudis, c. 80 va): un negozio sinallagmatico, traslativo di Gewere, che viene posto in essere a opera del dominus cuiusdam rei, nei confronti del soggetto beneficiale: il quale ottiene la vestitura di quella particolare res datagli in beneficio (cioè senza corresponsione monetaria di pretium) e, per converso, si vede obbligato a una prestazione gratulatoria, che egli deve a sua volta porre in essere nei confronti del dominus, in termini di servizio e di soggezione potestativa, garantendo la costituzione al di lui favore e a proprio carico di un vero e proprio titolo di rendita (in differenziata ipotesi, a seconda degli usi rituali e/o dei deliberati pattizi: di servizio, di opere, di prodotti sia naturali, sia pecuniari).
L’uso che ancor oggi si fa nel linguaggio finanziario del termine investire è esattamente rappresentato da una simile operazione, perché ancora oggi, quando si sostiene di investire una somma di denaro, per es., in borsa, in realtà si opera un’investitura della relativa disponibilità nei confronti degli agenti di borsa, senza spogliarsi con ciò del diritto di proprietà di quel medesimo capitale, ma addicendolo anzi a divenire, pur nell’alea del mercato finanziario, durevolmente produttivo di una rendita futura (Lyon 1957, p. 431; Montorzi 2009, p. 9).
In tal modo, lo schema feudale – in forza, indubbiamente, di tale sua intima e naturale struttura sinallagmatica – rivela subito la sua versatile plasticità, che lo rende disponibile a essere impiegato nel sistema delle relazioni sociali non solo per consentire la costituzione di vere e proprie assegnazioni fondiarie, ma anche per garantire la produzione di formule contrattuali causalmente tipiche, non necessariamente collative di territorio, ma comunque costitutive realiter di un vincolo futuro di rendita.
Entrano così nel campo delle situazioni a colorito feudale non solo le corresponsioni di iurisdictio a fondamento territoriale, ma anche tutte quelle attribuzioni di Gewere su titoli reali che la prassi di relazione sociale elabora nel tempo come costitutive di una rendita di prestazione o di servizio: rapporti non solo e non necessariamente a fondamento immobiliare (enfiteusi, livelli, precarie ecc.), ma anche causalmente destinati alla soddisfazione di fini di custodia sia personale, sia reale, come accade nelle figure tardoantiche dei buccellarii, del saio, o sago, del caballarius (Montorzi 2009, pp. 12 e segg.).
Una sostanziale 'fluidità' delle forme giuridiche feudali, quella in tal modo evidenziatasi nella prassi, che non mancò a suo tempo di essere autorevolmente notata e segnalata (Violante 1995, pp. 11-39).
Tali saranno poi anche quei feudi su rendita (come i feudi di cassa o di cantina; Lib. feudorum, 2, 1), in cui la res feudalis sarà un bene mobile fungibile, cioè una somma di denaro, ovvero una quantità di prodotti naturali; tali feudi assumeranno la caratteristica di essere detti ministeriali, perché contribuiranno ad affollare le residenze signorili (Mor 1953, pp. 208 e segg.; Montorzi 2009, p. 9) di artigiani ed esercenti ministeria (mestieri), i quali si legheranno in virtù di tale investitura a risiedere e a prestare servizio stabilmente entro le residenze signorili, vale a dire in curte domini (Reynolds 1996, pp. 431 e segg.; Lyon 1957, pp. 189 e segg.).
La titolarità reale proveniente dalla situazione feudale non potrà poi dirsi originariamente proprietaria o governata da meccanismi giuridici costruiti sul modello del diritto soggettivo di stampo romanistico, addetto all’esercizio di un potere esclusivo di godimento della res feudalis, ma sarà piuttosto regolata dal modo di titolarità reale tipico dell’esperienza e della cultura giuridica delle etnie germaniche: quello non esclusivo della Gewere/Vestitura.
I contenuti semantici del termine Gewere furono individuati soprattutto da Jakob Grimm (1828, p. 556) e, in seguito, da Ferdinand Holthausen (1934, p. 121): originariamente destinato a esprimere il significato di Kleidung («vestito»), il sostantivo femminile gotico gawaseins (wasjan = kleiden, «vestire»; Kluge 1911, rist. 1921, p. 122) sarebbe infatti da ultimo passato a esprimere la situazione soggettiva di titolarità reale: cioè, appunto, la vestitura, la legittimazione a far uso di un particolare cespite di utilità, che era attiva in via non esclusiva in testa a un soggetto specifico, in quanto fornito di un suo peculiare status; al modo appunto di una veste, che si indossa e si utilizza, quasi essa fosse semioticamente espressione del proprio e personale status soggettivo, ma che resta pur sempre esterna e fisicamente estranea (tanquam signum, potrebbe dirsi) al soggetto che ne fa legittimamente uso (Lib. feudorum, 2, 2; Grimm 1828, pp. 555 e segg.; Montorzi 1991, pp. 94 e segg.).
La prassi di applicazione dello schema feudale, oltre che naturalmente in ambito militare, trovò ampia diffusione fin dall’inizio anche nel generale e multiforme panorama delle titolarità reali. Al riguardo, sono due luoghi della Commedia di Dante Alighieri (Inferno, XXVII, 135; Purgatorio, XI, 88) a fornire tra i primi il documento convincente di quanto una simile logica feudale avesse nel tempo pervaso di sé (finanche in senso lessicale) la comunicazione, sia linguistica sia giuridica, interna allo spazio culturale italiano.
In età bassomedievale, infatti, lo stesso termine feudum (soprattutto nelle diverse sue varianti volgari fio e feo) viene reso disponibile a esprimere diversi tipi di situazione percettiva o esecutiva, oltre che particolari modi di fruizione reale (Diez 1887, pp. 140-41). Si va, per es., dalla designazione di normali fatti retributivi, laddove feudo appare talvolta con il valore di ‘salario del giusdicente’ (Miscellanea fiorentina di erudizione e storia, 1° vol., 1886, p. 96); alla individuazione di veri e propri interventi ablativi e sanzionatori (pagare il fio, proprio in Dante, Inferno, XXVII, 135, Purgatorio, XI, 88); ovvero alla denominazione di normali e regolari somministrazioni di rendite finanziarie (cfr., per es., nella seconda metà del Duecento, Monte Andrea da Fiorenza, sonetto 64, vv. 3-4, ove censo e fio sono trattati come sinonimi; cfr. anche la casistica offerta in Castellani 1980, 2° vol., pp. 27-40, e 2000, p. 55).
Il feudo pare dunque proporsi al modo di un generale e generico schema di rapporto giuridico, il quale coinvolge al tempo stesso uomini e cose, ed è parte tipica di un sistema di valori, in cui la titolarità reale genera potestà e poteri intersoggettivi di iurisdictio: poteri e potestà organizzative di uomini su altri uomini, la cui logica fondante si esprime nel principio che esiste necessariamente un rapporto biunivoco fra la qualità giuridica della res di cui i singoli soggetti sono titolari, e lo status che gliene compete, in quanto a quel titolo, appunto, investiti.
La res è fonte di qualificazione giuridica per il soggetto che ne è titolare: res sanctificat hominem, a seconda e in conformità dei titoli legittimatori di Gewere che il rapporto feudale di volta in volta esprime (Hintze 1970, p. 15; Montorzi 2005, p. XIII nota 4).
Bisognerà sottolineare ulteriormente, poi, la caratteristica naturalmente beneficiale del negozio costitutivo di una situazione feudale, perché il vincolo si qualifica come connotato anche da un naturale elemento causale di liberalità, al modo di quei rapporti tralatizi e costitutivi di status che, a partire almeno dall’autorevole lezione di Max Weber (19473, 2° vol., pp. 417-18), si è costantemente interpretato come delle Verbrüderungsgesellschaften, delle vere e proprie società di affratellamento: meccanismi giuridici utili a che un soggetto potesse trasmettere in via costitutiva ad altro soggetto i contenuti del proprio status giuridico. Ove status è da intendersi non soltanto nel lessico altisonante delle dignitates territoriali e giurisdizionali, ma anche nella campitura lessicale più dimessa e quotidiana, della dotazione potestativa che, di volta in volta, si addiceva ai singoli soggetti giuridici in virtù della loro concreta e specifica situazione di titolarità reale (enfiteuti, precaristi, livellari ecc.).
E, a ben vedere, colui che investe, opera comunque, anche a prescindere da ogni intrinseca e specifica valutazione motivazionale dell’atto in concreto da lui esperito, un gesto di liberalità nei confronti del soggetto investito, che ricava da quel processo/rituale di investitura una duplice dotazione di status.
In primo luogo, infatti, questi vede positivamente potenziata e arricchita la propria condizione soggettiva dall’investitura che egli riceve per la Gewere relativa al cespite di ricchezza/bene di cui viene investito; in secondo luogo, poi, egli ne riceve anche un condizionamento negativo di status, conseguente alla necessaria gratitudine che deve esibire al dominus sotto forma di servitium.
È per tale via che il vincolo etico del Lohngeld (letteralmente il ‘valore remunerativo’) diviene obbligo giuridico alla prestazione del servitium feudale.
Perché il dono di cui qui si tratta non è mera dazione unilaterale, ma frutto di rapporto bilaterale e causa costitutiva di vincolo nel soggetto donatario recipiente a esibire e prestare la propria gratitudine – nelle forme stabilite dall’uso consuetudinario ovvero per espressa pattuizione – in risposta all’atto della corresponsione liberale stessa.
Lo schema complessivo che, insomma, geneticamente si attua è quello di un negozio bilaterale traslativo di Gewere, con la costituzione a favore del dominus e a carico del vassus di un vero e proprio titolo di rendita.
Lo schema feudale ne esce atteggiato quindi al modo di una delle molte relazioni tipiche, attive e praticate nel campo del diritto cosiddetto volgare: di quel diritto, cioè, che si sviluppò nella prassi consuetudinaria dall’incontro tra le preesistenti etnie latine e le sopravvenienti etnie barbariche, proprio allo stesso modo in cui si determinò in parallelo il crogiuolo etnico entro cui si svolse la formazione dei linguaggi volgari.
Colpisce, poi, non poco, come il rapporto di soccida (Montorzi 2005, pp. 3-18), analogamente sviluppatosi in ambito volgare (anche in senso linguistico, per essersi denominato in esito alla volgarizzazione del termine latino societas), sia fornito di strutture causali analoghe, se non addirittura identiche, a quelle ataviche del feudo: è infatti anch’esso un rapporto sinallagmatico e associativo, causalmente preordinato al trasferimento di Gewere su bestiame, inteso anch’esso come cespite produttivo di ricchezza (sia riguardo al potenziale lavorativo da esso sviluppato, sia in considerazione del suo utilizzo con fine di allevamento).
Se, quindi, lo svolgimento di tali rapporti trovò naturale collocazione nell’ambito delle relazioni negoziali e contrattuali, è logico anche attendersi che la linea di evoluzione e di complessiva crescita concettuale di esse si svolgesse entro i domini della cultura professionale di giudici, avvocati e pratici del diritto: i quali, appunto, ne furono sia gli artefici, sia i successivi regolatori e interpreti ultimi.
Ed è entro tale ambito di esperienza che il diritto feudale avrebbe trovato una propria primitiva sistemazione formale: non già per premature esigenze di carattere teorico, bensì, essenzialmente, per necessità di carattere negoziale e probatorio. Fu infatti entro tale ambito professionale che cominciarono a formarsi e a circolare elaborati testuali volti a salvaguardare, per iscritto e per il futuro, la memoria dei modi in cui i riti e le tecniche della pratica feudale si erano fissati nell’uso giuridico.
Appartengono a simili prodotti alcune compilazioni minori, certificative della normale pratica feudale, come i cosiddetti capitula Hugonis, che Karl Lehmann (Consuetudines feudorum [libri feudorum, jus feudale Langobardorum], edidit K. Lehmann, 1892, p. 3) attribuì a Ugo da Gambolò, presumibilmente giudice a Pavia nel 1112 (Montorzi 1991, p. 20): essi contengono regole e principi sui feudi collativi di dignità, sull’investitura e sulla successione feudale. La loro compilazione ebbe verisimilmente origine in Milano dopo il 1150 (Weimar in Handbuch der Quellen und Literatur der neueren europäischen Privatrechtsgeschichte, 1° vol., 1973, pp. 166 e segg.; Cortese 1982, p. 134).
Antecedente al 1158 è poi un’operetta contenente le consuetudines Regni, forse così databile e silentio perché essa ignora le costituzioni di Roncaglia emanate, appunto, quello stesso anno (Lib. feudorum, 2, 28. rub.).
Ma è senza dubbio più significativa la formazione di quella raccolta di schede di documentazione procedimentale e rituale – consistente di costituzioni imperiali, documenti epistolari, soprattutto certificazioni giurisprudenziali – che, formatasi in ambito padano-forense con fini essenzialmente pratici e probatori, ben presto prese a circolare, con mimesi giustinianea nella propria struttura formale partita in libri e titoli, sotto il nome di Usus, o Consuetudines o Libri feudorum.
Che i Libri feudorum non siano stati il prodotto di un solo autore ma un vero e proprio testo di apparato, frutto dell’attività disordinata (stando almeno alle lamentele del duecentesco Odofredo, Summa in usus feudorum, c. 2v) di molti autori, è del resto cosa ben nota, documentata attraverso la vicenda della loro progressiva redazione per successive compilazioni (Laspeyres 1830, pp. 326-39; Calasso 1954, pp. 554 e segg.; Weimar in Handbuch, cit., pp. 166 e segg.; Cortese 1982, p. 135; Weimar 1990, pp. 32-35), tra la seconda metà del 12° sec. e la prima metà del successivo, a partire dalla cosiddetta compilatio Obertina (così denominata da due lettere di informazione feudistica indirizzate al figlio Anselmo dal giudice milanese Oberto dall’Orto), per passare poi alla cosiddetta Ardizzoniana (così chiamata perché fu il testo che ebbe nelle mani Iacopo d’Ardizzone per realizzare la sua Summa feudorum); e per pervenire infine alla redazione dei Libri feudorum che fu detta Accursiana o Vulgata, perché fu quella che rimase nell’uso ordinario dei pratici e dell’accademia e fu glossata da Iacopo Colombi prima e da Accursio poi.
L’officina entro cui si produsse il testo dei Libri feudorum fu essenzialmente forense e pratica, e la cultura che in essi si tramandò e documentò fu sospesa, come è stato osservato, «tra pratica di giudici e scienza di dottori» (Di Renzo Villata in Il feudalesimo, cit., pp. 651 e segg.).
Fu in particolare il testo delle due epistole obertine tramandato nei Libri a offrire il documento forse più vivace di quella cultura che, animando i fori feudali dell’Italia padana, contribuì in modo determinante alla realizzazione di quel vero e proprio documento di diritto forense che furono i Libri feudorum.
La qualità di quella prima feudistica, documentata in quei testi obertini, si palesa immediatamente come raffinata ed evoluta: non ignara del diritto romano e delle fonti giustinianee, essa dimostra, tuttavia, anche una sicura conoscenza delle fonti letterarie classiche, che la porta, per es., ad applicare un luogo di Seneca per dare un’ineccepibile definizione giuridica del rapporto beneficiale e sinallagmatico di feudo (Lib. feudorum, 2, 23).
Il tutto, con l’avvertita consapevolezza che la materia feudale, soprattutto, pare per il momento riducibile a un paradigma piuttosto retorico che non giuridico; ove l’intero tessuto argomentativo è governato dalla discorde voce dei diversi curiarum mores, e dalla constatata incapacità, per il giurista, di costringere quella variegata materia a un canone logico unitario, sia precettivo, sia istituzionale, che si palesi a sua volta come suscettibile dell’applicazione di un sistema definitorio comune (Lib. feudorum, 2, 1).
Non di meno, comunque, la via che i giuristi soprattutto di scuola cominceranno ben presto a battere per ridurre l’intera materia feudale entro i limiti categorici e istituzionali della dottrina giuridica, sarà fortemente caratterizzata da spunti metodici decisamente influenzati dalla voga glossatoria bolognese, romanistica e savante al tempo stesso.
Si può veramente dire che il diritto romano si offerse allora ai giuristi di scuola come uno strumento categorico formidabile e indispensabile per procedere a una standardizzazione concettuale dell’altrimenti disiecta materia dell’esperienza feudale.
E, in effetti, il percorso che conduceva dal feudo alla feudistica si palesò sin dall’inizio come delineato da schemi generali romanistici, e come reso praticabile dall’accorta adozione di strumenti logico-retorici che consentissero per analogia (gl. Salva reverentia, Lib. feudorum, 2, 22, 1; Montorzi 1991, pp. 51 e segg., 318) l’inventio di un adeguato nomen iuris romanistico per le res feudales che parevano giacere ancora innominate (o solo volgarmente nominate) nella contraddizione altrimenti incoercibile dell’esperienza storica; in modo che, quindi, fosse finalmente possibile al giurista di collocare quelle stesse res entro le nitide categorie di quella sola e vera filosofia della prassi, che era correttamente ricostruibile soltanto in corpore iuris (come avrebbe espressamente detto il glossatore nella glossa possideat, Lib. feudorum, 2, 2, 1; Montorzi 1991, pp. 100-01).
Sarà in particolare Pillio da Medicina, sulla base di antichi materiali accademici, a compilare tra i primi, a fini di categorizzazione giuridica, un apparato glossatorio ai Libri feudorum (Montorzi 1991, pp. 48 e segg.): secondo l’opinione di Peter Weimar (in Handbuch, cit., p. 187), l’opera fu probabilmente redatta a Modena poco prima del 1200, quando Pillio svolse attività giudiziaria nel tribunale di corte imperiale (Weimar 1990, p. 73).
L’apparato di Pillio è stato tramandato solo sulla base di manoscritti che seguono la recensione ardizzoniana, ed è rimasto incompleto: un’edizione ne fu a suo tempo realizzata da Antonio Rota sulla base di un testo che pure presentava notevoli difformità dal tessuto normalmente esibito dalla tradizione degli altri manoscritti (Archivio di Stato di Roma, ms. 1004; Rota 1938, p. 41 in partic., per le anomalie testuali): esso, plausibilmente, era l’espressione di una tradizione manoscritta influenzata, nell’evidente mutevolezza della propria contraddittoria varietà, dall’uso prevalentemente forense che ne era stato fatto: talvolta opportunista ed estemporaneo sotto il profilo filologico, e attento piuttosto all’immediata e temibile autorità scolastica dei libri magistrorum, che non alla espressa e attenta verifica della loro continuità di tradizione testuale (Dolezalek 1985, 1° vol., p. 41).
L’apparato comincia con una lunga introduzione a mo’ di summa, che fu poi assunta dentro la versione più larga dell’apparato accursiano: è la summa cui normalmente si riferisce l’apparato ordinario delle glosse ai Libri feudorum nelle allegazioni recate anche dalle edizioni a stampa e si tratterebbe del testo edito nel 1892 da Giovanni Battista Palmieri sotto il nome del glossatore Ugolino de’ Presbiteri: che Emil Seckel (1900, pp. 250 e segg.) avrebbe invece voluto di Colombi, e Weimar attribuì poi (1990, p. 71) – sul filo di una mera (e, forse, non adeguatamente circostanziata) verisimiglianza – direttamente ad Accursio.
Per quanto l’ipotesi sia stata a suo tempo messa in dubbio (già in Weimar 1982, p. 432), è opinione tradizionale che l’intera compilatio dei Libri feudorum sia stata aggiunta, nella sua stesura cosiddetta Ardizzoniana, ai Libri legum di de’ Presbiteri, in coda alle collationes dell’Authenticum, di cui costituì la decima collatio (Laspeyres 1830, pp. 326-39; von Savigny 18342, rist. 1956, 3° vol., pp. 520-27). Fu corredata della glossa ordinaria di Colombi, costruita sulla tessitura della precedente glossa di Pillio (ma Weimar, come si è visto, propende per un’attribuzione della glossa ordinaria ai Libri feudorum direttamente ad Accursio).
Secondo Weimar (1990, pp. 71 e segg.), l’apparato ai Libri feudorum sarebbe stato scritto da Pillio in un’epoca piuttosto tarda della sua vita, per passare poi attraverso due successive rielaborazioni per mano di Accursio, che l’avrebbero definitivamente consolidato nell’apparato ordinario ai Libri feudorum.
Ma l’apparato non fu solo prodotto d’accademia: Weimar stesso, infatti, mette in evidenza come l’opera dei giuristi di cattedra più illustri e famosi fosse affiancata e supplita anche in prosieguo di tempo dall’attività interpolatoria dei petiarii bolognesi (p. 79).
Se poi lo ius feudale fosse o meno ius scriptum, sarebbe parso inizialmente un problema in parte almeno esegetico, destinato ad ancorarsi a una parallela questione di coordinamento testuale: se vi fosse, cioè, continuatio textus – e quindi anche letturale – tra il diritto imperiale giustinianeo e quello imperiale moderno, laddove esso trattava dello status delle persone e delle collationes delle dignitates (cfr., per es., tra Quattro e Cinquecento, Franceschino Corti, De feudis, c. 43 vb, nr. 2).
Indicazioni di Odofredo (Lectura super Codice, 1552, in l. Inter equitatem, § 1, C. De constitutionibus [Cod., 1, 14, 1], nr. 10, c. 35 rb, ad finem) invocavano al riguardo una sorta di riserva di legge imperiale in materia feudale, quasi che tale materia rendesse per essa requisito sostanziale la forma scritta: nel senso, beninteso, della lex imperialis.
Non a caso, forse, Enrico da Susa (l’Ostiense) avrebbe affiancato, nel suo noto elenco di fonti dello ius commune (Summa, 1612, proem., nr. 7, col. 6), la novella lombarda (i Libri feudorum?) alle consuetudines feudorum: perché in tale distinzione di textus si celava, forse, quella più radicale fra ius scriptum e ius non scriptum, e si riproponeva in definitiva una differenziazione delle possibili utilizzazioni dello ius feudale: il diritto, da una parte, delle norme imperiali o, comunque, scritte, e quello, diverso, pur se affine, delle situazioni di titolarità reale meramente consuetudinarie.
Comunque sia, non pare allora priva di significato, nel Duecento, la posizione di Simon de Paris (nel suo commento in l. Praeses provinciae, Cod., 8, 52, 1; Waelkens 1984, p. 176 nota 3; Montorzi 2005, p. 130), il quale sosteneva il principio che lo ius feudale avesse natura scritta.
Un diritto scritto è sottratto infatti all’anarchia apparente della consuetudine e, soprattutto, è oggetto immediato delle operazioni di analisi, critica e giudizio interpretativo di una classe di giudici tecnici, che si siano formati alla scuola dello ius civile e del diritto regio.
Forse, un luogo in particolare dei Libri feudorum (2.2) va nella direzione di questa esigenza di razionalizzazione del diritto feudale, ed esprime in modo appropriato la necessità che tali vicende giuridiche fossero ridotte in scripto, per essere lette secondo una simile cadenza di analisi rigorosamente romanistica e retorica.
«Investitura quidem proprie dicitur possessio», infatti, scrive già la Compilatio antiqua dei Libri feudorum (Consuetudines feudorum, cit., p. 24), in consonanza con le Consuetudini milanesi del 1216 (Liber consuetudinum Mediolani anni MCCXVI, a cura di E. Besta, G.L. Barni, 19492, p. 119), cimentandosi in una delle poche operazioni di traduzione linguistica che il diritto comune feudale conduce allo scoperto, senza ricorrere alla loro trascrizione concettuale in una tessitura di argomenti brocardici – come del resto esso abitualmente fa, soprattutto a partire da Pillio e dalle sue grandi categorizzazioni glossatorie, che per prime hanno tentato di organizzare la feudistica come scienza autonoma.
Spira attraverso i detti dell’ignoto estensore del testo feudistico la lingua della proprietas verborum: quella, cioè, dei linguaggi tecnici definitivamente guadagnati a un codice retorico fornito di uno statuto corporativo autonomo e qualificante.
Il testo opera una forzatura lessicale e impropriamente identifica come se fossero sinonimi due enti in realtà tra loro antitetici: equipara, cioè, un procedimento in divenire come l’investitura, con un rapporto reale e definitivamente compiuto e statico, come la romanistica possessio.
Il luogo, in realtà, è autoritativo, al modo di un magistrale obiter dictum, e dissimula la forzatura conseguente all’avvenuta assegnazione di un codice di individuazione linguistica, di significato e senso rigorosamente giuridico e romanistico.
In virtù di esso, si marcano e si delimitano definizioni e concetti di carattere generale e categorico; in modo che il diritto scritto si sovrappone a determinare e qualificare quello volgare, attraverso l’imposizione di un reciso e ultimativo nesso di attribuzione semantica (Montorzi 1991, pp. 94 e segg.).
È, in buona sostanza, l’elezione di un codice linguistico assoluto, quasi il passaggio dalla singola parola volgare, alla struttura generale della lingua romanistica.
Si perviene, in tal modo, a realizzare un raccordo organico tra gli istituti del diritto volgare e consuetudinario e il nuovo textus della feudistica: che nel frattempo si va raccogliendo in un dettato strutturale, al cui interno la prassi e le consuetudini giurisprudenziali delle curie feudali milanesi e lombarde trovano infine sistemazione formale e appropriata illustrazione linguistica e terminologica.
In quella sede, una forma soltanto verbale (un mera parola come Gewere, vestitura) viene ulteriormente specializzata e legata a un nesso di sinonimia strutturale con il termine del latino giuridico possessio.
L’uso di un tale sistema di individuazione semantica consente, infine, al giurista di realizzare il raccordo definitivo della materia feudale – in origine dominata dalla discontinua normativa consuetudinaria e dalla tumultuaria prassi cancelleresca e giudiziaria – con lo ius scriptum e le sue terse e nitide categorie concettuali.
È qui, in questa operazione logico-linguistica conclusiva, che nasce il diritto feudale in quanto tale, che è appunto diritto fornito di autonome classi di significato e di interpretazione, di un lessico individuo e di un insediamento professionale altrettanto autonomo e distinto.
Oltre alla redazione di apparati o di isolati corredi glossatori, anche il genere della summa ebbe molta fortuna in ambito feudale, e non vi è da stupirsene: non solo la scrittura di una summa feudorum assolveva al fine essenzialmente editoriale di creare un utile sussidio di lettura per un textus singolarmente nuovo e sostanzialmente ‘disordinato’ nella propria disponibilità, come erano i Libri feudorum.
Proprio nel caso specifico dei Libri feudorum stessi – i quali solo da poco erano approdati con Ugolino all’inserzione fra i Libri legum – la redazione di una summa feudale svolgeva, per di più, anche una concreta funzione di diffusione – alla lunga, quasi di vera e propria propaganda – del textus feudistico novellamente inserto in quel canone autoritativo scolastico.
Non per caso, una delle ricorrenti preoccupazioni introduttive dei vari summatores feudali sarebbe stata quella di accreditare il textus feudale stesso come autorizabilis (Andrea d’Isernia, In usus et consuetudines feudorum, proem., nr. 24 in fine, p. 6; siamo tra gli ultimi due decenni del 13° sec. e il primo del successivo), cioè come effettivamente suscettibile di un suo uso argomentativo e di una sua conseguente trattazione scolastica: a dirla in breve, a inserirlo, davvero e ultimativamente, nel sistema dello ius commune.
La summa, a questo punto, poteva ardire di proporsi all’utente lettorio come strumento ultimo non solo di apprendimento del textus, ma anche come mezzo di sua concreta costruzione e ri-costruzione, sia a fini di interpretazione e applicazione, sia a integrazione delle deficienze di tradizione e di contenuto del testo feudistico stesso (cfr. Iacopo d’Ardizzone, Summa feudorum, cap. I, c. 224 rb, in fine; l’opera risale al 1240 circa).
Le summae feudorum si collocano, quindi, naturalmente entro il filone delle indagini di recensione categoriale inaugurato già a opera di Pillio e dei suoi cimenti glossatori sui Libri feudorum: lo testimonia espressamente il proemio della summa di Iacopo d’Ardizzone, quando l’autore presenta la sua opera e la sua funzione estrema, come quella di un prodotto strutturale quasi di catalogazione categorica, organizzato per genera.
E, forse, non è un caso che gli stessi interventi glossatori sui Libri feudorum originino dall’attività di Pillio e sentano fortemente l’influenza del suo brocardico Libellus disputatorius, un’opera in tre libri in cui egli raccoglie e recensisce tematicamente luoghi testuali romanistici, utili per l’argomentazione giuridica (Dolezalek 1985, 1° vol., p. 496).
I brocardi erano, com'è noto, dei tipi di notazione testuale dai confini e dalla funzione abbastanza mutevole: si trattava in sostanza di coppie di argumenta testuali tra loro contrapposti, che pervenivano poi alla soluzione unitaria della loro iniziale contrapposizione analitica (Weimar in Handbuch, cit., pp. 143-44; Weimar 1967, pp. 98 e segg.); si trattava, in sostanza, del frutto di una 'moda didattica' di estrazione colta e accademica, che correva in parallelo con l’altro prodotto letterario di estrazione più marcatamente pratica degli ordines iudiciarii, che erano in definitiva dei veri e propri manuali per giudici e avvocati (Cortese 1982, p. 105).
Tale fu l’orizzonte culturale e di strumentazione retorica entro cui si mosse il moto di giudici, avvocati e giuristi per la sistemazione scientifica e l’illustrazione didattica dei Libri feudorum.
L’operazione trasformò definitivamente i Libri feudorum in textus, e influenzò pesantemente per il successivo futuro l’uso politico – di ideologia della sovranità e dell’istituzione politica – che gli interpreti ne avrebbero per sempre fatto.
Così sarebbe stato nella Napoli angioina quando, al momento della instaurazione della nuova signoria monarchica, un modesto funzionario d’apparato come Dullio Gambarini avrebbe intrapreso, sotto evidente copertura e istigazione regia (Montorzi 2005, pp. 71-133), l’operazione (di vera e propria politica del diritto) di mettere in circolazione una Margarita feudorum, che fosse strumentale alla risoluzione dei casi feudali alla luce del diritto scritto dei libri feudorum stessi.
Fu quello, in maniera forse paradossale ai nostri occhi moderni, un deliberato intervento di politica anticonsuetudinaria, ad usum curiae: si tentò, in tal modo, di dare ai giudici feudali del Regnum uno strumento che finalmente affrancasse il loro raziocinio professionale dal dettato condizionante del fatto consuetudinario; l’uso di un diritto feudale scritto avrebbe infine liberato la razionalità giudiziale da un supino atteggiamento interpretativo, meramente recettivo del dato consuetudinario.
Ma sarebbe poi stato il proemio della lectura feudorum di Baldo degli Ubaldi (Montorzi 2005, pp. 290 e segg.) a siglare in modo definitivo, addirittura perentorio, l'acquisita autosufficienza disciplinare e scientifica del diritto feudale: esso era finalmente divenuto, a detta del giurista perugino, diritto di curia; quindi fonte e strumento di un giudizio fondato esclusivamente sull’autonomia istituzionale dell’organo giudicante, anziché su una prona e ripetitiva ricezione del dato consuetudinario.
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