I grandi santuari panellenici
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Luoghi di straordinaria ricchezza e complessità, i santuari panellenici offrono un’immagine senza termini di confronto dell’unità culturale e religiosa dei Greci, ma anche delle rivalità e dei contrasti insanabili tra le comunità elleniche.
Nella Grecia delle mille comunità, delle mille aspre rivalità tra le poleis, dei mille dialetti, ci sono dei luoghi in cui i contrasti e le individualità si ricompongono nella definizione di una comune identità ellenica, che è identità religiosa e culturale; in cui lo spirito competitivo che innerva profondamente la cultura greca trova spettacolari manifestazioni nelle forme dell’espressione artistica e nei concorsi agonistici. Sono i grandi santuari panellenici, frequentati da tutti i Greci e dotati di uno statuto internazionale: il santuario di Zeus ad Olimpia nell’Elide, quello di Apollo a Delfi nella Focide, il santuario di Poseidone all’Istmo presso Corinto e quello di Nemea tra Corinto ed Argo, anch’esso dedicato a Zeus.
Luoghi sacri, di antichissima frequentazione, accomunati dallo svolgimento, a scadenze fisse, di concorsi agonali, comprensivi di competizioni sportive, artistiche e musicali, che richiamano contendenti e spettatori da ogni parte del mondo greco; concorsi detti stephanitai, perché il premio per il vincitore di ogni gara è una semplice corona, di olivastro ad Olimpia, di alloro a Delfi, di sedano selvatico all’Istmo e a Nemea. Lo storico Erodoto descrive lo sgomento e la preoccupazione da un ufficiale persiano, alla vigilia della battaglia di Platea, nell’apprendere che avrebbe affrontato un popolo abituato a lottare non per denaro, ma per la gloria di un premio tanto modesto (Storie, VIII, 26, 3). La sua reazione è comprensibile: i concorsi panellenici costituiscono, in effetti, la più chiara manifestazione dell’importanza che la competizione e l’aspirazione alla vittoria di per sé rivestono nella cultura greca, ed in particolare nell’educazione e nello stile di vita degli aristocratici, ispirati a modelli di natura agonale e miranti al raggiungimento dell’eccellenza in ogni aspetto della vita. Risulta a tale proposito significativo ricordare che l’istituzione dei giochi olimpici risale all’VIII secolo a.C., cioè ad un’epoca monopolizzata dall’egemonia dell’ideologia aristocratica, essendo fissata dalla tradizione al 776 a.C.: data destinata a diventare l’unica base per un computo degli anni che fosse comune a tutti i Greci, il che, detto per inciso, dimostra anche la centralità del concorso olimpico rispetto agli altri agones panellenici. All’istituzione delle gare di Olimpia seguiranno quella degli agoni pitici a Delfi (nel 586 a.C., secondo Pausania), dei giochi istmici (582 a.C.) e infine dei giochi nemei (573 a.C.).
Questa proliferazione di concorsi agonali nel corso del VI secolo a.C. è forse dovuta alla necessità di fornire un’opportuna valvola di sfogo ai giovani aristocratici, ancora educati ai princìpi del coraggio e del valore militare, e ansiosi di primeggiare, in un momento in cui la guerra, con l’emergere del modello oplitico, non consente più l’affermazione netta del singolo; l’agone sportivo ribadisce implicitamente la supremazia aristocratica (ed è significativo che generalmente non siano previsti secondi premi: l’importante è vincere, non partecipare), una supremazia del valore, della virtù, dell’audacia, del coraggio e anche della bellezza fisica, in una parola dell’areté, in un tentativo di superamento, o quantomeno di sublimazione, dei conflitti latenti nei processi evolutivi della società greca. Nessuno di questi santuari è fin dagli inizi comune a tutti i Greci: tracce di culto ad Olimpia, a Delfi, a Nemea risalgono almeno all’età geometrica, e forse prima ad Istmia, ma si tratta certo di una frequentazione locale, al limite regionale, destinata ad ampliarsi e a rafforzarsi in età storica, proprio a seguito dell’istituzione dei concorsi. Che questi luoghi ospitino dei santuari fin da età remote non può certo stupire, se si tiene conto della sacralità che spira dai paesaggi suggestivi in cui sono incastonati, come l’ombroso bosco sacro, l’Altis, dominato dalla mole del monte Cronio e prossimo alla confluenza dei due fiumi Alfeo e Cladeo, che accoglie le strutture del santuario di Olimpia, o le rocce Fedriadi (cioè “risplendenti” al sole) incombenti sulla gola della fonte Castalia a Delfi, dove i diversi edifici si collocano su robusti terrazzamenti, in un ambiente selvaggio di grande fascino: del resto, per il pensiero greco, sono proprio la particolare bellezza, l’unicità di un luogo a suggerire all’uomo che un dio lo desidera per sé.
Sembra inoltre che questi santuari rivestano, fin dalle loro origini, una funzione oracolare e divinatoria, che è solo ipotizzabile per Nemea (dove il tempio presenta sul fondo della cella un adyton sotterraneo, adatto ad ospitare cerimonie di tipo mantico), ma che è certa, e ben nota, per Delfi e per Olimpia: a Delfi, il celebre oracolo della Pizia garantirà una crescente e solida fama al santuario, che farà ombra all’oracolo olimpico. Quest’ultimo sembra rivestito di particolare autorevolezza tra VIII e VII secolo a.C. (epoca alla quale risalgono doni votivi di notevole impegno, tra cui grandi tripodi geometrici in bronzo), e forse di una “specializzazione” in questioni di carattere bellico, il che sarebbe da interpretare come un segnale della connotazione specificamente guerresca dello Zeus di Olimpia: una connotazione che sembrerebbe peraltro dimostrata anche dall’enorme quantità di armi (oltre 100 mila è solo il numero degli elmi!) dedicate, già a partire dalla fine dell’VIII secolo a.C., all’interno del santuario olimpico. Armi confiscate dai Greci ai nemici, tra le quali spiccano per numero quelle riconducibili agli Etruschi e ad altre popolazioni dell’Italia, da riconnettere probabilmente alla violenza dell’impatto della colonizzazione greca nell’Italia meridionale. Si istituisce dunque, fin dalla delicata fase del movimento colonizzatorio, un rapporto preferenziale tra i Greci d’Occidente e il santuario di Olimpia, destinato a rafforzarsi soprattutto nel corso dell’età arcaica, quando le comunità greche di Magna Grecia e di Sicilia ribadiranno con forza e con dispendio di mezzi la propria identità ellenica realizzando ad Olimpia edifici votivi sontuosi e impegnativi e inviando ai giochi olimpici i loro atleti migliori.
Ma è l’istituzione dei concorsi, che richiamano enormi masse di pellegrini (incoraggiati a muoversi dalle loro città dalla proclamazione di ekecheiriai, sacre tregue atte a garantire l’incolumità dei viaggiatori), a trasformare questi santuari (soprattutto Olimpia e Delfi, in misura minore Nemea e Istmia) in appuntamenti internazionali, luoghi privilegiati di comunicazione, di diffusione culturale, di pubblicizzazione di atti ed eventi significativi della vita politica, come trattati di pace e di alleanza; ma anche in veri e propri laboratori di sperimentazione e di innovazione in ambito artistico e architettonico, nonché letterario (basti pensare al genere dell’epinicio, tra le forme più elevate della lirica di tutti i tempi, che nasce proprio nell’ambito dei concorsi) e, infine, in perenni cantieri in costruzione: ogni secolo vede l’introduzione di nuovi edifici o la trasformazione di quelli già esistenti, a rispondere alle esigenze di atleti, spettatori e pellegrini, ma anche a seguito delle complesse vicende storiche e politiche del mondo greco. Ad Olimpia risale agli inizi del VII secolo a.C. la realizzazione, nell’area orientale del santuario, di forme quanto meno rudimentali di stadio e di ippodromo, destinati ad ospitare, rispettivamente, le gare più antiche degli agones olimpici (come la corsa dello stadio, quella del doppio stadio o diaulos, e il pentathlon) e quella più spettacolare e amata, la corsa dei carri, introdotta, secondo la tradizione, nel 680 a.C. Nello stesso periodo, e proprio in questa stessa area a destinazione agonistica, ha inizio lo scavo di pozzi (che agli inizi del V secolo a.C. raggiungeranno il ragguardevole numero di 21) per l’approvvigionamento idrico, destinati a rispondere all’aumento del fabbisogno d’acqua in occasione dei giochi, che oltretutto si tengono, ogni quattro anni, intorno alla metà di luglio, spesso con una insopportabile calura. Per lo stadio di Olimpia, dopo la fase del VII secolo a.C. (nella letteratura archeologica definita Urstadion) sono documentate almeno tre successive fasi costruttive, tra la metà del VI e la prima metà del V secolo a.C.: lo stadio III, le cui strutture sono attualmente visibili, ha una lunghezza di oltre 191 metri per circa 30 di larghezza ed una capacità di oltre 40 mila spettatori. L’ippodromo appare completamente obliterato dalle acque del fiume Alfeo, ma doveva trovarsi a sud dello stadio e ad esso parallelo: le misure della struttura sono riportate da un manoscritto bizantino del XII secolo, mentre la configurazione della linea di partenza in forma di prora di nave con il rostro culminante in un delfino di bronzo è descritta da Pausania (Periegesi della Grecia VI. 20,10).
Nei secoli successivi, nell’area ad ovest rispetto all’Altis sorgeranno altre strutture connesse all’attività sportiva, come la palestra con annesso ginnasio (risalente alla fine del III secolo a.C.), o alle necessità logistiche e di rappresentanza legate allo svolgimento degli agoni olimpici, come il Leonidaion: un’immensa struttura ricettiva (74,80 x 81,08 m) destinata ad accogliere spettatori di riguardo, fatta costruire nell’ultimo terzo del IV secolo a.C. da Leonida di Nasso (come testimonia l’iscrizione sull’architrave esterno), e costituita da un’ampia serie di locali (alcuni dei quali interpretabili come sale per banchetti) articolata intorno ad un cortile a peristilio delimitato da colonne doriche, che oggi si presenta come una delle rovine più impressionanti di Olimpia. Pressapoco contemporanea alla costruzione del Leonidaion è quella dell’imponente Portico di Eco, il corridoio colonnato che costeggia il lato occidentale dell’Altis verso lo stadio: una costruzione certo motivata, in parte, dal desiderio di offrire un po’ d’ombra agli spettatori degli agoni, ma forse soprattutto dal bisogno di creare un diaframma tra l’area sportiva, con la sua allegra confusione, e l’area sacra del santuario, in un momento in cui l’originaria connotazione religiosa dei giochi, con l’affermazione dell’atletismo professionale, sembra essersi appannata.
La preoccupazione di tenere ben distinta la zona agonale dall’area sacra vera e propria è chiaramente leggibile almeno fin dall’epoca classica nella pianta del santuario di Delfi, dove le strutture destinate ad ospitare le manifestazioni sportive e gli allenamenti si collocano al di fuori del peribolo del santuario: l’ippodromo, non ancora identificato, doveva trovarsi nei pressi di Crisa, mentre lo stadio trova spazio sul pendio occidentale della collina, ad un livello superiore rispetto alla terrazza su cui troneggia il tempio di Apollo, e dominato dal maestoso incombere delle Fedriadi. Nel suo stato attuale, lo stadio delfico è il prodotto della profonda ristrutturazione condotta nel II secolo, per iniziativa del ricchissimo oratore e filantropo Erode Attico, sul primitivo impianto, assai più semplice, risalente alla metà del V secolo a.C. Come Olimpia, anche Delfi può vantare un ginnasio, luogo di incontro per i cittadini maschi adulti e di allenamento per gli atleti durante lo svolgimento degli agoni: la struttura oggi visibile risale al IV secolo a.C. ma insiste su un impianto più antico e si sviluppa su due terrazzamenti contigui ad est del tempio di Apollo, il più alto dei quali ospita le strutture per l’atletica leggera (lo xystos colonnato e la paradromis a cielo aperto, entrambi lunghi uno stadio, ovvero 184,968 m), mentre sul terrazzo inferiore la palestra per i lottatori è affiancata da uno spogliatoio e da una grande piscina di forma circolare. Il programma dell’agone pitico, che si tiene ogni quattro anni nel mese di agosto, prevede, accanto alle gare sportive (e ad eventuali, forse saltuari, concorsi tra pittori, sui quali offre testimonianza Plinio il Vecchio, Nat. Hist. XXXV, 58), competizioni musicali (auletica e citarodia) ed anche, in epoca tarda, concorsi poetici e drammatici: non è del tutto chiaro dove queste competizioni artistiche si svolgessero fino al II secolo a.C., periodo in cui viene eretto il grandioso teatro collocato nell’angolo nordoccidentale del temenos di Apollo.
Anche ad Istmia le competizioni musicali rivestono una notevole importanza nel programma del concorso, che si tiene, con cadenza biennale, a cavallo tra la fine di aprile e gli inizi di maggio: qui la costruzione di un teatro a gradini rettilinei risale al 400 a.C. circa, ed è preceduta dalla costruzione dell’ippodromo e dello stadio, i cui primitivi impianti sono da ricondurre agli inizi del VI secolo a.C., con numerosi interventi di restauro e di ripristino; l’antico stadio appare sostituito, intorno alla seconda metà del IV secolo a.C., da una nuova e più spaziosa struttura, decisamente distinta dall’area sacra.
Anche Nemea, dove il concorso panellenico si tiene ogni due anni tra agosto e settembre, deve aver potuto contare, fin dall’epoca dell’istituzione dei giochi, almeno di uno stadio e di un ippodromo: sul sito sono attualmente leggibili le strutture sportive realizzate dopo la violenta distruzione del santuario alla fine del V secolo a.C., in relazione ai contrasti tra Argo e la piccola città di Cleone per l’egemonia su Nemea e i suoi agoni. A seguito di questo episodio, il santuario è interessato da un articolato piano di ricostruzione, che comprende non solo un nuovo tempio e un nuovo stadio, ma anche un sontuoso complesso balneare, dotato di un’ampia piscina rettangolare e, soprattutto, una sorta di antesignano dei moderni villaggi olimpici: una struttura di forma allungata situata sul limite meridionale del santuario e divisa in quattordici locali, verosimilmente destinati ad alloggio dei partecipanti ai concorsi. Il cuore di questo programma edilizio è la costruzione del tempio dedicato a Zeus, un periptero realizzato nel calcare locale, con colonne doriche piuttosto snelle, che sostituisce il tempio più antico, databile intorno alla fine del VII secolo a.C., dalle dimensioni più modeste ma dotato di un frontone con decorazione dipinta. La ricostruzione del santuario nemeo si data alla fine del IV secolo a.C.: è possibile che dietro sia da riconoscervi la volontà (e, ovviamente, l’impegno finanziario) di Alessandro Magno o di suo padre Filippo II, assai interessati (come si vedrà) a conquistarsi uno spazio in quella straordinaria vetrina che i santuari panellenici sono per il mondo greco.
A Olimpia la monumentalizzazione dell’area sacra è successiva alla realizzazione delle prime strutture sportive, nonostante l’anteriorità del culto rispetto all’istituzione del concorso. Per lungo tempo, il culto di Zeus si celebra su un altare a cielo aperto, formatosi con il progressivo accumularsi delle ceneri dei sacrifici animali, impastate con l’acqua del fiume Alfeo: la tradizione attribuiva ad Eracle la fondazione di questo altare, ancora esistente all’epoca di Pausania, che ne fornisce una descrizione (Periegesi della Grecia V, 13, 8-11).
Agli anni 600-590 a.C. risale il tempio di Era, un dorico periptero con sei colonne in facciata e dalla cella lunga 100 piedi (hekatompedon), scompartita da due file di colonne in tre navate che enfatizzavano la centralità della statua di culto (forse un gruppo scultoreo raffigurante la coppia divina Era-Zeus) di cui resta la base: la struttura originale era in legno e mattoni crudi su ortostati in pietra, e le 40 colonne lignee, progressivamente sostituite nel corso dei secoli con colonne in pietra grazie a donazioni private (Pausania ne vede ancora una in legno di quercia) avevano capitelli decorati da foglie di bronzo delle quali si conservano alcuni frammenti.
Al 470 a.C. ca. risale la costruzione del tempio di Zeus, opera dell’architetto Libone di Elide; questo maestoso edificio, il più grande tempio del Peloponneso, costituirà subito, e per molto tempo, il principale punto di riferimento per l’architettura templare di ordine dorico: le sue forme saranno precocemente riprese nel nuovo tempio di Poseidone nel santuario dell’Istmo, iniziato poco dopo l’incendio che tra il 470 e il 450 a.C. aveva distrutto un più antico edificio sacro, in legno e mattoni crudi, elevato nella prima metà del VII secolo a.C.
Tornando al tempio di Zeus ad Olimpia, è curioso che questo ambizioso edificio, con la sua ricca e complessa decorazione figurata, debba attendere per una quarantina d’anni la propria statua di culto: il colosso crisoelefantino realizzato dal maestro ateniese Fidia e destinato ad essere incluso nel canone ellenistico delle sette meraviglie del mondo. Lo Zeus fidiaco, del quale non ci resta che l’accurata descrizione di Pausania (Periegesi della Grecia V, 11, 1-10) e qualche riflesso su monete dell’Elide e su una gemma di età imperiale oggi a Parigi, costituisce una sorta di esasperazione, nelle dimensioni, nella policromia e nella ricchezza polimaterica, del modello di riferimento della statuaria crisoelefantina, la statua della Parthenos realizzata dallo stesso Fidia per Atene: a dimostrazione dell’ambiziosità progettuale e dell’importanza dell’impegno finanziario che il santuario di Olimpia può permettersi di affrontare in questo che è certo il momento più florido della sua lunga storia. Lo Zeus fidiaco, secondo Strabone (Geografia VIII, 3, 30), sfiorava con la testa il soffitto del tempio (come conferma anche la riproduzione della statua sulla gemma già citata), tanto da dare l’impressione che l’avrebbe sfondato se si fosse alzato dal suo trono. Non si tratta del risultato di un errato calcolo proporzionale, ma, verosimilmente, di un effetto voluto, come dimostrano anche le dimensioni dell’atelier in cui Fidia ha realizzato il suo capolavoro (ben conservatosi per essere stato trasformato in chiesa cristiana e accuratamente scavato), dimensioni che ricalcano esattamente quelle della cella del tempio. La grandezza di Zeus è tale da giganteggiare in qualunque edificio, per quanto magnifico, creato dall’uomo: questo il messaggio del colosso con il quale Fidia affronta la difficile sfida che per la creatività dell’artista è la rappresentazione del divino. In posizione centrale tra il tempio di Era e quello di Zeus, si colloca il Pelopion, il sepolcro-cenotafio (heroon) dell’eroe Pelope, figlio di Tantalo, il cui mito, narrato da Pindaro (Olimpiche, I, 67 ss.) e rappresentato sul frontone est del tempio di Zeus, è strettamente connesso alle origini degli agoni olimpici (origini che, in altre versioni, chiamano in causa Eracle): la struttura, databile al V secolo a.C., consiste in un recinto di forma trapezoidale, dotato di un grandioso propylon dorico, che racchiude degli alberi cresciuti al di sopra di un antico tumulo funerario, databile al III millennio a.C.
Il Pelopion di Olimpia costituisce probabilmente il modello seguito a Nemea per la ricostruzione, nel corso del III secolo a.C., dell’heroon di Ofelte, figlio di Licurgo e di Euridice, punto a morte da un serpente per l’imprudenza della sua nutrice, Ipsipile, che lo posa a terra per procurare dell’acqua ai Sette in cammino da Argo verso Tebe. Anche l’heroon di Nemea presenta più fasi costruttive, di cui la prima è databile all’età arcaica, forse contemporanea all’istituzione dei giochi, che si svolgono proprio per celebrare la morte di Ofelte. Anche i giochi istmici sono connessi alla vicenda mitica della morte di un fanciullo, Melicerte/Palemone, affogato con la madre, Ino/Leucotea, che, impazzita per volontà di Era, si era gettata in mare con il bambino in braccio. Sulla base del rapporto, istituito dalla tradizione, tra gli agoni panellenici e la morte di fanciulli o di giovani di stirpe regale, sarebbe da riconoscere negli agoni stessi delle cerimonie funebri finalizzate a restituire il vigore della vita alla figura così celebrata tramite una serie di prove di resistenza fisica (e basti a tale proposito ricordare i giochi funebri in onore di Patroclo descritti nel libro XXIII dell’Iliade, o quelli per Achille ricordati dall’ombra di Agamennone in Odissea , XXIV, 85 ss.).
A questo schema sfugge in parte il mito di fondazione dei giochi pitici di Delfi, che celebrano l’uccisione del serpente Pitone da parte di Apollo, desideroso di impadronirsi del santuario di Delfi, di cui il serpente era il guardiano per ordine di Gaia, la Madre Terra; lo scontro tra il dio e il serpente è il tema del nomo pitico, composizione musicale eseguita dai partecipanti al concorso di auletica che si tiene nel secondo giorno degli agoni delfici. Ma anche a Delfi, secondo la tradizione, è sepolto un protagonista di quella che, per i Greci, rappresenta l’età degli eroi: Neottolemo, figlio di Achille, ucciso proprio nel santuario, forse per un contrasto relativo alla spartizione delle carni delle vittime sacrificali, e sepolto nei pressi del tempio di Apollo. Il santuario delfico, benché sacro ad Apollo, racchiude entro il suo peribolo luoghi dedicati al culto di altre divinità.
Sulla terrazza di Marmaria si allinea una serie di templi, tra cui l’edificio dedicato ad Atena Pronaia (“che sta davanti al tempio”) e l’elegante Tholos in marmo pentelico, con peristasi esterna di 20 slanciate colonne doriche e cella circondata da 10 colonne corinzie, quasi tangenti alla parete, sostenute da un podio anulare in calcare bluastro, realizzata agli inizi del IV secolo a.C. dall’architetto Teodoro di Focea, autore, come ricorda Vitruvio (Sull’architettura VII, Pref. 12), di un trattato relativo alla realizzazione dell’edificio. Altre divinità contendono poi ad Apollo lo spazio dello stesso tempio a lui dedicato: la cella racchiude infatti un altare di Poseidone e quello di Estia, considerato il sacro focolare di tutti i Greci, mentre la parte più segreta dell’edificio, l’adyton, cela la tomba di Dioniso.
Il tempio troneggia su un maestoso muro di sostegno in accurata opera poligonale, cui si addossano le eleganti colonne ioniche in marmo pario della stoà dedicata dagli Ateniesi nel 480-470 a.C.; le rovine oggi visibili dell’edificio sacro sono relative alla ricostruzione degli anni 370-360 a.C., successiva ad un terremoto che distrusse il precedente tempio, realizzato tra il 514 e il 510 a.C. per iniziativa degli Alcmeonidi (la potente famiglia aristocratica ateniese esiliata per volontà dei Pisitratidi), con una raccolta di fondi alla quale partecipa addirittura il faraone egiziano Amasis. L’edificio del IV secolo a.C., un periptero con sei colonne sulla fronte e quindici sui lati ed una cella di forma allungata tra pronao e opistodomo distili in antis, ricalca la planimetria e conserva molti materiali del tempio degli Alcmeonidi, che però non è certo il primo dedicato in Delfi ad Apollo: un edificio più antico, probabilmente realizzato in legno e mattoni crudi, viene distrutto da un incendio nel 548 a.C., mentre le fonti (Pausania, Periegesi della Grecia X, 5, 9) registrano la tradizione relativa ad un tempio archetipico: una capanna, costruita dallo stesso Apollo intrecciando rami di alloro, la pianta a lui sacra. Nel pronao del tempio, come ricorda Pausania, “sono scritte massime utili agli uomini per condurre la propria vita. Sono state scritte da coloro che i Greci chiamano i Sapienti [...] Sono questi gli uomini che, giunti a Delfi, hanno consacrato ad Apollo le celebri massime ‘Conosci te stesso’ e ‘Nulla di troppo’” (Periegesi della Grecia X, 24, 1).
E nell’adyton, dove è custodito l’omphalos, la pietra ogivale caduta dal cielo e simbolo del culto apollineo, seduta sul suo tripode profetizza la Pizia. L’icona tradizionale della sacerdotessa di Apollo presente nell’immaginario collettivo, invasata ed estatica come la descrive Lucano (La guerra civile, V, 169 ss.), intossicata dalle foglie di alloro e dai gas venefici che si levavano dal foro praticato nel terreno nei pressi del tripode, ha suscitato perplessità in molti studiosi ed è stata a volte ripudiata; ma le recenti indagini di una équipe americana hanno evidenziato che il tempio è costruito su del calcare bituminoso, che può effettivamente emanare dei gas, tra cui l’etilene, che ha effetti narcotizzanti ed euforizzanti. Che sia questa la spiegazione scientifica della violenta estasi della Pizia?
Non sono soltanto gli edifici sacri, le statue di culto e gli impianti sportivi a contendersi l’attenzione del visitatore nei santuari panellenici; questi luoghi, infatti, traboccano di offerte e di doni votivi, privati e pubblici, modesti o sontuosi: simboli di devozione ma, soprattutto, espressioni dell’ambizione e delle intenzioni autorappresentative di comunità e di singoli desiderosi di lasciare il proprio segno in questi straordinari depositi della memoria collettiva.
A Delfi e ad Olimpia eleganti tempietti distili in antis, i thesauroi, come monumentali scrigni tengono al riparo dagli agenti atmosferici e dalla cupidigia degli uomini le preziose offerte votive di numerose poleis: eretti soprattutto tra il VI e la prima metà del V secolo a.C., con la varietà delle loro forme architettoniche, lo splendore degli apparati decorativi, la ricercatezza dei materiali, i thesauroi, affacciati sulla Via Sacra e disseminati sulla terrazza di Marmaria a Delfi o disposti ordinatamente in fila ad Olimpia, fanno a gara nell’ostentazione delle potenzialità economiche e delle rivalità tra le diverse comunità. Tra i più belli, vale la pena di ricordare almeno quello dei Sifni, eretto a Delfi intorno al 525 a.C. dagli abitanti dell’isola cicladica con la decima delle rendite delle loro miniere d’oro e d’argento, caratterizzato dalla grazia manierata delle cariatidi in chitone ionico che sostengono sull’alto copricapo (polos) l’architrave e il frontone, sul quale campeggia la lotta tra Apollo ed Eracle per il possesso del tripode; e quello degli Ateniesi, costruito, anch’esso nel santuario pitico, tra 490 e 485 a.C. con le spoglie dell’esercito persiano sconfitto a Maratona: l’eccezionale impegno economico di questo tempietto dorico in antis (che è stato ricostruito in situ con i frammenti originali), le cui metope dedicate alle imprese di Eracle e di Teseo costituiscono una celebrazione dei valori di Atene, è reso evidente dal fatto che si tratta del primo edificio completamente in marmo pario costruito fuori da Paro.
Ma le comunità greche possono realizzare, nei santuari panellenici, anche strutture di altra natura: gli abitanti dell’isola di Cnido, ad esempio, possono riunirsi a Delfi nella loro Lesche, un edificio a pianta rettangolare forse adibito anche a sala per banchetti, costruito intorno alla metà del V secolo a.C. e completamente affrescato all’interno dal più grande pittore del momento, Polignoto di Taso, con due ambiziose composizioni, affollate di personaggi, raffiguranti la distruzione di Troia e la discesa di Ulisse agli inferi, delle quali resta soltanto la dettagliata descrizione di Pausania (Periegesi della Grecia, X, 25,1 ss.).
Ad Olimpia, invece, trova spazio il primo edificio riservato nel mondo greco al culto dinastico: il Philippeion, la raffinata tholos marmorea voluta da Filippo II di Macedonia come dono votivo a Zeus a seguito della battaglia di Cheronea (338 a.C.), con le cinque statue crisoelefantine, raffiguranti i membri della famiglia reale macedone, realizzate dal grande scultore Leocare.
La prassi di dedicare agli dèi la decima del bottino a seguito di una vittoria militare popola Delfi e gli altri santuari di ex voto di guerra: tra questi, ben pochi sono quelli che celebrano vittorie collettive della grecità contro un nemico esterno, come il tripode in oro sorretto da una colonna in bronzo alta otto metri formata da tre serpenti attorcigliati (quest’ultima si trova oggi sulla piazza dell’Ippodromo di Istanbul, dove giunse per volontà dell’imperatore Costantino) consacrato dai Greci a Delfi dopo la battaglia di Platea, o la statua in bronzo di un Apollo con in mano la prua di una nave, alta oltre cinque metri, dedicata (anch’essa a Delfi) a seguito della battaglia di Salamina (480 a.C.). Nella maggior parte dei casi, infatti, gli ex voto sono memorie figurate delle irriducibili e sanguinose rivalità tra le poleis della Grecia. A Delfi, il visitatore antico è accolto, sulla Via Sacra, da una vera e propria “guerra degli ex voto”, come l’ha definita Pierre Lévêque, nella quale si fronteggiano i gruppi scultorei dei Sette contro Tebe e degli Epigoni, dedicati da Argo a seguito della vittoria sugli Spartani nel 456 a.C., e quello dei Navarchi, eretto dagli Spartani nel 405 a.C. dopo la vittoria su Atene ad Egospotami; e ancora, l’ex voto degli Ateniesi realizzato dopo Maratona e il donario dei Siracusani, eretto per ricordare la disfatta di Atene seguita alla sua spedizione in Sicilia alla fine del V secolo a.C.: grandi capolavori artistici, espressioni delle mortali divisioni politiche tra gli Elleni. Ad Olimpia, una delle più raffinate e compiute espressioni della statuaria postfidiaca, la Nike di Paionio di Mende, svetta su un pilastro alto nove metri: per celebrare la vittoria conseguita nel 425 a.C. dai Messeni e dai Naupatti al fianco di Atene nella guerra del Peloponneso, ma anche per sconfiggere, in magnificenza, lo scudo dorato posto, circa 30 anni prima, sul colmo del tetto del tempio di Zeus dagli Spartani, per ricordare una loro vittoria su Atene.
Anche attraverso le forme artistiche, dunque, si esprime lo spirito agonistico che domina nei santuari panellenici e che trova un’altra importante forma di manifestazione nella statuaria atletica: un genere che nasce in connessione con i concorsi panellenici, che gode di uno straordinario favore e che conosce un rapido sviluppo in virtù del prestigio e della fama che la statua di un atleta vittorioso può riverberare sulla sua città di origine, se eretta all’interno di uno di questi sacri recinti; recinti che di queste statue dovevano essere davvero gremiti, e non è certo un caso che a Delfi sia stato rinvenuto il bronzo che forse meglio di ogni altro rappresenta per noi la complessità del concetto di areté e la profondità dello spirito agonistico greco, ovvero il noto Auriga. Ma innumerevoli sono gli oggetti d’arte e i doni votivi che si offrono all’ammirazione dei pellegrini e intorno ai quali ruotano aneddoti curiosi o antiche leggende, che Pausania racconta nella sua Periegesi della Grecia, opera che riserva uno spazio assai ampio proprio alla descrizione degli anathemata, pubblici e privati, nei santuari panellenici: estesa è, ad esempio, la descrizione dell’eccezionale cassa in oro e avorio, ornata a finissimo rilievo con scene mitologiche e allegoriche, in cui Cipselo (tiranno di Corinto tra il 657 e il 628 a.C.) era stato, ancora bambino, nascosto dalla madre quando i rivali Bacchiadi lo cercavano per ucciderlo, e che era stata poi donata per ringraziamento dai suoi discendenti all’interno del tempio di Era ad Olimpia (Periegesi della Grecia, V, 17, 5-19, 9).
Ed è ancora questo autore a ricordare i sontuosi doni votivi dedicati da Creso, re di Lidia di proverbiale ricchezza, nel santuario di Apollo a Delfi, e che sono stati ipoteticamente identificati con i più raffinati tra i numerosi oggetti artistici (ad esempio, con le due splendide statue crisoelefantine raffiguranti probabilmente Apollo e Artemide) restituiti, nel 1937, da due fosse scavate di fronte alla Stoà degli Ateniesi. Simili fosse hanno la funzione di raccogliere devotamente i doni votivi più antichi, per lasciare spazio a nuove dediche: l’abbondanza e l’eterogeneità cronologica ed estetica dei materiali rinvenutivi costituiscono un ulteriore, prezioso tassello utile ai fini della comprensione della centralità e della complessità del ruolo che i santuari panellenici rivestono nel mondo ellenico.