I grandi tribunali
Con il termine grandi tribunali gli storici chiamano oggi una categoria con un suo connotato specifico, che non è di creazione recente come altre di elaborazione storiografica.
Ai 'grandi tribunali' fece riferimento già nella prima opera di dottrina giuridica in italiano, il fortunato Dottor volgare (1673, cap. VIII, Proemio), il più notevole giurista italiano dell’età moderna: Giovanni Battista De Luca, autore, sempre nel secondo Seicento, dell’ampia opera intitolata secondo il gusto del tempo Theatrum veritatis et iustitiae.
Nella sua lucida disamina di quelli che diverranno più tardi, in Ludovico Antonio Muratori, i ‘difetti’ della giurisprudenza, De Luca indicava nelle dottrine consolidate delle maggiori corti giudiziarie una guida sicura per districarsi nell’aggrovigliato ordinamento giuridico coevo. Perciò era importante avvertire i colleghi sulla tipologia delle decisioni giudiziarie ormai circolanti in modo incontrollato. Talvolta queste presentavano persino errori, tali da motivare nel 1688 un ennesimo intervento della Sacra rota romana diretto a garantire un controllo degli stampati con gli originali firmati dai loro estensori (Ascheri 1976, trad. it. 19952, p. 107). Era ormai divenuto normale riferirsi alle decisioni come fonte di diritto, ma il loro grande numero, sostenuto da una produzione internazionale, le rendeva ormai fonte di dubbia affidabilità non meno delle opinioni dottrinali.
Oggi è normale ricordare il contributo dato dalla giurisprudenza di questi tribunali alla formazione del diritto moderno (Gorla 1981; Serangeli 1992-1994; Grandi tribunali, 1993), ma non è stato sempre così. Il mito del positivismo codicistico, forte anche tra i giuristi storici, ha fatto trascurare per tanto tempo questa fonte, e solo le sollecitazioni provenienti dalla storiografia straniera (in area tedesca molto attivo fu Helmut Coing) e da giuristi comparatisti con forte sensibilità storica (per rinvii puntuali, v. Gorla 1981, p. 912) hanno consentito negli anni Sessanta e Settanta del Novecento di andare al di là delle spesso rapsodiche citazioni reperibili nella storiografia anteriore. Ora si può dire invece scontato un largo rispetto per questa fonte. I libri su questi tribunali e le loro decisioni si sono moltiplicati negli ultimi decenni, e gli studiosi di singoli istituti si guarderebbero bene ormai dall’evitarne un esame nelle loro ricostruzioni storiche rivolte all’età precodicistica.
Questi tribunali, corposa e multiforme realtà dell’età moderna, non possono ritenersi una novità completa, creazione improvvisa del ricco Cinquecento giuridico-istituzionale. Essi, con robuste radici nei secoli precedenti, si svilupparono in base a intuizioni scaturite da tempo per dare risposta agli inquietanti problemi dell’amministrazione della giustizia emersi con le novità politico-istituzionali del Due-Trecento. Allora in Italia si delinearono assetti pubblici più robusti che, stimolati dalla diffusione della cultura universitaria e dagli sviluppi della polemica e dello scontro politico, posero al centro dei propri interessi e interventi (almeno ufficialmente) il problema della giustizia.
Il papato assunse allora quel primato europeo sulle istituzioni ecclesiastiche che comportò anche la creazione di un poderoso apparato amministrativo – motivo, tra l’altro, di una litigiosità crescente tra i differenziati centri di potere che Roma aspirava a coordinare e controllare.
Il regno allora per antonomasia in Italia, quello di Sicilia, visse la vicenda memorabile di Federico II e delle sue Constitutiones, imposte all’applicazione durevole di una complessa gerarchia giudiziaria che fece capo a Palermo e a Napoli dopo i Vespri.
Vinto l’impero, i Comuni riuscirono di solito a definire nell’ambito cittadino le cause dei cittadini – se non di competenza ecclesiastica –, separando la giustizia dai poteri di governo più spiccatamente politico-legislativi.
Le corti podestarili e dei capitani del popolo furono al servizio della politica comunale, beninteso, ma attraverso la mediazione della legislazione. Gli ufficiali forestieri ‘condotti’ per rendere giustizia giuravano di applicare le leggi locali, e poco importava che fossero espressione di una volontà politica a volte brutale contro i nemici politici, discriminati e condannati all’esilio.
L’idea di giudici professionali e fondamentalmente autonomi era già implicita nell’istituzione della Rota romana (1331), l’unico tribunale medievale tuttora operante in Europa. Gli stessi ‘signori’, affermatisi nel Tre-Quattrocento sulle rovine dei Comuni, cercarono di risolvere le loro ambiguità (erano dei ‘tiranni’?) da un lato recependo l’istanza della professionalità, dall’altro riservandosi un’area di discrezionalità ampia, che lasciasse spazio alle esigenze dell’opportunità politica.
Così, come presso il papato si era consolidato l'intervento del Concistoro per le causae maiores rivendicate poi dai concili quattrocenteschi, presso i signori si costituirono dei Consigli di giustizia sovrapposti alle antiche corti comunali, ridimensionate nelle competenze e nei poteri. I nuovi consigli delle corti, sopravvissuti in età moderna, ebbero per di più – distinta da quella di giustizia – una sezione di grazia che apriva a considerazioni di pura equità, e quindi ad argomentazioni extralegali e di opportunità politica lato sensu.
Quest'ambiguità derivante dal concorso di diritto e di equità fu una conseguenza della contemporanea recezione del diritto comune e di una sorta di principio di legalità, ma anche del rafforzarsi del potere pubblico e delle sue esigenze politiche.
Un Alfonso il Magnanimo re di Aragona, conquistatore del Regno di Napoli, dovette riformare la giustizia e rinnovare il Sacro real consiglio per accreditarsi come nuovo re al governo di Napoli e del suo territorio; così come, oltre mezzo secolo dopo, nel 1499, Carlo VIII, il re di Francia conquistatore, dovette istituire un Senato a Milano, a consolidare e migliorare la tradizione dei Consigli di giustizia sforzeschi.
Tre anni dopo, nella Firenze di Niccolò Machiavelli e degli Orti oricellari, in crisi profonda, tra l'altro, nell’amministrazione della giustizia, si ruppe con la tradizione comunale per istituire un Consiglio di giustizia (poi detto Rota), a imitazione dei principi, in luogo delle corti comunali.
Tribunali nuovi, quindi intorno al 1500: più professionali e strutturati superando la brevità delle cariche degli ‘ufficiali’ comunali, e con i quali i governi volevano dar mostra di una nuova sollecitudine nel rimediare alle complessità del sistema giuridico, avvertito dall’opinione pubblica come sempre più pletorico e incapace di assicurare una giustizia rapida e non costosa.
Paradossalmente o meno, questi tribunali furono affidati alle cure dei giuristi, cioè degli stessi tecnici che quella complessità avevano alimentato nello sforzo di far coesistere il diritto comune dotto, delle università, e i diritti espressione delle volontà politiche locali.
Questa la situazione ‘moderna’, con un forte impatto pubblico per le nuove prospettive che lasciava intravvedere, in Italia e altrove. In Germania, per es., fu così il tempo della riforma del Tribunale camerale dell’impero (Reichskammergericht), che nel 1495 recepì formalmente il diritto comune e introdusse giudici dotti nella corte (Frieden durch Recht, 1994). Si discusse molto di giustizia anche a Venezia: la Repubblica serenissima sentì invece come lesiva della propria indipendenza la delega ai giuristi della giustizia, e la riservò pertanto a cittadini non tecnici del diritto, riuniti in corti giudiziarie talora ampie come assemblee (Quarantia civil e criminal; Cozzi 1982).
I grandi tribunali nacquero – o non nacquero come, eccezionalmente, a Venezia – in contesti con assetti di potere e sensibilità collettive anche molto diversi. Ciononostante, con il tempo si andarono configurando due modelli fondamentali.
Il Senato di Milano, prototipo di altre istituzioni analoghe (Mantova, Parma e Piacenza, Modena), si configurò come un tribunale superiore di giuristi investiti dell’alta funzione di delegati dal ‘principe’ a curare l’amministrazione della giustizia e altre questioni di alta responsabilità – come la formazione delle élites lombarde presso l’Università di Pavia.
I ‘senatori’ dovevano essere pertanto gli operatori migliori disponibili. Lo richiedeva la carica simbolica che assegnava loro la tradizione antica, rinverdita dagli studi degli umanisti del tempo. Il principe si preoccupava di sceglierli con grande oculatezza, per la carica rappresentativa che essi avrebbero assunto nei confronti dei cittadini-sudditi.
Come nell’antica Roma, infatti, la carica era a tempo indeterminato, vitalizia, a meno di imprevedibili comportamenti intollerabili per il principe.
La nomina poneva quindi il beneficiario e la sua famiglia in un Olimpo inquadrato allora nella categoria della nobiltà. In più, era altrettanto doveroso tener conto del peso sociale specifico a livello territoriale della famiglia che veniva investita del grande onore. Per una città del dominio avere un senatore significava acquisire un referente nelle alte sfere del governo centrale da presumersi all’occorrenza sensibile alle richieste e segnalazioni provenienti dai propri concittadini.
Al vertice dello Stato si configurava una distinzione netta tra i collaboratori del principe. Un gruppo stabile di senatori era incaricato formalmente della responsabilità di gestire la giustizia accanto al principe, esaltato per serbare il diritto in scrinio pectoris, e perciò era legittimato a usare un’ampia sfera di potere discrezionale; un altro gruppo, meno stabile perché destinato alla cura di relazioni più elastiche e congiunturali, collaborava sul piano politico, militare e diplomatico. In questo caso la nomina e la revoca erano sottoposte a troppe variabili per poter acquisire la stabilità del senatore, carica quindi ambitissima per il prestigio permanente che assegnava.
Nel primo Cinquecento, per es., ne furono investiti Giovanfrancesco Sannazari della Ripa, discendente da famiglia dell’Oltrepò pavese con propri esponenti già professori all’Università di Pavia. Noto per l’insegnamento prolungato nell’Università di Avignone, egli fu nominato senatore per ottenerne il rientro il patria, come avvenne anche per il grande giurista umanista Andrea Alciato, ben altrimenti noto per le sue opere innovative e l'insegnamento in diverse università francesi.
Il modello del Senato ebbe grande successo presso gli ordinamenti principeschi, perché accreditava il principe come fonte della giustizia e al tempo stesso assicurava una sorta di rappresentanza informale ai territori (ossia alle città, sempre importanti per il potere politico), senza divenire luogo di dibattiti e di scontro per interessi di ceto. Insomma, il Senato non era un parlamento nel senso medievale e ‘moderno’ (post-medievale) del termine, ossia un’assemblea di ceto, ma la sua composizione elastica consentiva un utile collegamento a un tempo con le città e con la nobiltà del territorio. Infatti, nel Ducato di Milano esso finì per supplire di fatto all'assenza di un’assemblea cetuale.
In Piemonte, ugualmente, il parlamento medievale fu di fatto surrogato dal Senato di Torino, cui corrispondevano altri Senati a Chambéry per la Savoia (1559) e a Nizza (1614) per la contea annessa a fine Trecento. Anzi, il Senato di Chambéry si proclamava cour souverain come i Parlements francesi, e acquisì una forte rappresentanza del territorio, mentre il duca s'impegnava sempre più sul versante italiano dei suoi domini. Questo Senato è noto per le decisioni date alle stampe nel 1606 da Antoine Favre, giurista umanista divenuto suo primo presidente, raccolte nel suo cosiddetto Codex Fabrianus.
Senato come istituzione non solo giudiziaria, quindi, e perciò con poteri ‘arbitrari’ e competenze ampie, anche amministrative, perché, essendo a lato del principe e godendo della sua piena fiducia, in un certo senso lo sostitutiva. E perciò le sue sentenze erano anche ritenute non bisognose di motivazione. Il Senato non doveva render conto del proprio operato. Prestava un alto servizio, ma non poteva certo configurarsi come servitore di nessuno. Per di più, last but not least, come i Parlements di Francia esso aveva persino la funzione di registrare gli atti del governo (la cosiddetta interinazione), che consentiva di esercitare un controllo di conformità alle regole fondamentali dell’ordinamento e perciò di accreditarsi (e farsi esaltare dall’apologetica di turno) come al servizio del diritto e della giustizia.
Ma ci fu un modello del tutto concorrente con questo nell’Italia dalle molte culture istituzionali e dalla storia complessa e stratificata. Fu quello che si compendiò sotto la denominazione di Rota. La storia cominciò a Firenze in modo eclatante, e portò presto a configurare un modello propriamente alternativo.
Nel corso del Cinquecento le rote, sulla scia del grande esempio fiorentino, vennero infatti configurandosi come organi giudiziari di ultima istanza tipici degli ordinamenti repubblicani o che comunque avessero avuto un notevole passato del genere. Non a caso furono tribunali con caratteristiche sostanzialmente contrarie a quelli principeschi già ricordati.
Innanzitutto le loro competenze furono soltanto giudiziarie, e poi i loro giudici erano forestieri e con nomina a tempo (da 3 a 5 anni, e di regola non rieleggibili); per di più essi furono tenuti a motivare le loro sentenze in modo più o meno pubblico, quasi a dover render conto del proprio operato. E non solo alle parti, ma in taluni casi al più largo pubblico interessato.
Come si vede, in questo caso non c’era un sovrano o un territorio da rappresentare, ma solo da garantire un servizio che, essendo reso da giudici forestieri che potevano anche non avere avuto alcuna esperienza precedente del territorio, non poteva essere che rigorosamente e solo giudiziario. Qui riconoscere loro poteri politici in senso lato sarebbe stato completamente fuori posto.
Questi organi quindi – un po’ come la Rota romana già ricordata – realizzavano una fondamentale separazione dei poteri ante litteram, che allora poteva pensarsi solo in ambienti con problemi di organizzazione molto peculiari. La Curia romana in Avignone era stato un contesto del genere per il proliferare dei conflitti sull’attribuzione dei benefici ecclesiastici; Firenze e altre città di consolidate tradizioni comunali vissero anch’esse problemi peculiari.
Destinata a un prestigio internazionale e a un ininterrotto futuro plurisecolare (fino all’Ottocento inoltrato), la Rota fiorentina nacque nel 1502 – a distanza ravvicinata dal Senato di Milano, quindi – in un clima politico-istituzionale incandescente.
La crisi del regime mediceo, l’infuocata predicazione di Gerolamo Savonarola e la maturità della discussione politica entro l’ampio ceto dirigente fiorentino avevano rimesso tutto in discussione in quel difficile ultimo scorcio del Quattrocento così vivace e creativo non solo sul piano artistico e architettonico.
La soluzione all’instabilità politica e agli scontri ormai frequenti e inconcludenti sembrò a molti essere a portata di mano guardando al doge dei saggi veneziani, e comportò perciò l’opzione per un capo dello Stato a vita – radicalmente contrario alla tradizione comunale imperniata sui governi bimestrali dei priori. Per la giustizia la subordinazione tante volte lamentata dall’esecutivo dei giudici comunali tradizionali, monocratici – podestà e capitano del popolo forestieri in carica per pochi mesi –, doveva e poteva essere evitata, si pensò, ricorrendo a un collegio di giuristi eletti per più anni e destinati a operare collegialmente in appello.
I giudici erano anche forestieri, contro la tradizione veneziana, per garantire estraneità al tessuto cittadino, e dovevano rendere conto del loro operato dando le ragioni della sentenza. I motivi, anche dei giudici dissenzienti, dovevano entro otto giorni essere trascritti, separatamente dal dispositivo, presso l'arte dei giudici e notai, dove chiunque ne avrebbe potuto prendere copia. Significativamente, i motivi dovevano essere scritti su pergamena, materiale ormai raro e costoso che garantiva però la conservazione nel tempo.
La Rota si configurava così come un’eccezione vistosa nel panorama giudiziario del tempo. Rendere conto del giudizio significava dare soddisfazione alla parte soccombente in primo luogo, ma era anche un modo per giustificare il proprio operato di fronte alla cittadinanza tutta che, volendo, poteva controllare l’operato dei suoi (costosi) giudici condotti da fuori.
Oltreché in funzione garantista, la motivazione sui punti di diritto implicati dal caso portato in giudizio interessava perché dava affidamenti sulle future pronunce, almeno finché i giudici non fossero stati rinnovati. Grazie a questa normativa, i litiganti potevano all'occasione ricordare ai successori l’orientamento precedente: non già per obbligare a una pronuncia analoga (la vincolatività non era prevista), quanto per fare quanto meno riflettere più attentamente i giudici di fronte alla responsabilità di innovare rispetto a una pronuncia passata.
Che questo tipo di procedura fosse rapidamente imitato in città-Stato simili a Firenze, in crisi politico-istituzionali meno discusse ma grosso modo analoghe a quella fiorentina, e cioè a Siena, Genova e Lucca, suggerisce che la motivazione fosse percepita come un atto dovuto alla cittadinanza in un momento di disaffezione grave per le istituzioni cittadine. Che poi altri Comuni con tradizioni di larga partecipazione cittadina alla vita pubblica, come Perugia, Bologna e infine Ferrara nel delicato momento della devoluzione allo Stato pontificio pretendessero o riuscissero comunque a strappare dal governo pontificio ormai dominante un riconoscimento del genere, è un fatto che conferma il rilievo simbolico che la motivazione aveva finito per acquisire.
A Firenze l’eccezionalità complessiva della normativa è più evidente, sia perché per alcuni anni l’obbligo di motivare si estese anche ai processi penali, sia perché esso fu conservato anche dopo il crollo della Repubblica. Il nuovo governo mediceo alla ricerca di consenso non ebbe alcun interesse a revocare la novità introdotta dalla Repubblica.
I due modelli consentivano soluzioni intermedie o soluzioni alternative.
In quest’ultimo senso si mosse la Repubblica di Venezia, anche in età moderna ufficialmente contraria alla recezione del diritto comune e del sistema giudiziario ‘dotto’, fondato sul giudice di formazione universitaria e sulla procedura romano-canonica che richiedeva l’impiego di avvocati anch’essi di formazione dotta.
Le soluzioni intermedie tra i due modelli riguardarono essenzialmente due ambiti.
Il primo è dato dalle situazioni di transizione verso un compiuto sistema senatoriale come quello descritto, oppure di adozione del sistema senatoriale in modo parziale anche con recezione di talune pratiche rotali.
A Napoli, per es., il Sacro real consiglio rispondeva al modello del Senato, ma, privo di ‘rappresentanza territoriale’ e di competenze politico-amministrative di rilievo, poteva vantare un’ampia discrezionalità, anche perché dal 1503 al 1713 operò con accanto soltanto un viceré – il rappresentante del re che in altra sede, in Consiglio collaterale, esaminava con tre giuristi i casi più delicati da un punto di vista politico. Quanto alle pratiche rotali, nei Senati di Torino e Nizza (non in quello di Savoia, in quanto corte sovrana) nel corso del Seicento si introdusse l’obbligo di motivare in funzione endoprocessuale.
Il secondo ambito è quello della giurisdizione mercantile che, sull’onda dei precedenti tardomedievali, continuò a essere nei propositi alternativa a quella ordinaria. Sia perché le Mercanzie fecero ricorso a giudici non professionali, membri della corporazione stessa, sia perché nelle intenzioni esse dovevano realizzare giudizi di equità, non subordinati al rigore del diritto dotto romano-canonico.
Tuttavia, il contesto fortemente influenzato dal diritto comune condizionò anche questa giurisdizione. Indicazioni eloquenti si hanno, ad es., per Firenze, ove i giudici erano assistiti da un consulente dotto, oppure per Pesaro, città portuale con intensi rapporti commerciali con l’altra sponda dell’Adriatico, ove lo statuto dei mercanti del 1532 obbligò a organizzare dei corsi di diritto romano per introdurre gli associati, due volte alla settimana e utilizzando testo e glossa, alle sottigliezze di un diritto di cui anch’essi non potevano fare a meno. Nella stessa Venezia, un mercante già nel 1470 lamentava che si dovesse essere ormai dottori in legge per potersi orientare nelle complicate clausole di un contratto di assicurazione (Ascheri 1976, trad. it. 19952, p. 42).
Nel corso del Cinquecento, poi, il diritto commerciale fece il suo ingresso nel mondo della trattatistica di diritto comune con il tractatus di Benvenuto Stracca (De mercatura, 1553). Erano maturi i tempi per una raccolta di decisiones in materia provenienti dalla città in cui, per l’integrazione del ceto mercantile con quello politico, la Rota civile cumulava anche la competenza altrove riservata alle Mercanzie, cioè Genova.
La raccolta, stampata nel 1581 e poi molte volte unitamente ai tractatus in materia, ebbe un gran successo per la novità e perché le decisioni inquadravano la problematica specifica entro gli schemi del diritto comune, rendendole così utilizzabili ovunque nell’Europa del tempo essendo in latino: come alla corte dell’Ammiragliato di Londra, in un'area di common law per eccellenza (European courts).
Un altro tribunale non riconducibile ai modelli principali prima delineati per la delicatezza della sua funzione è quello dell’Inquisizione romana, il Sant’Uffizio, che ebbe un peso rilevante nella società dell’età moderna fino alle soppressioni imposte dalle autorità statali per arginare il mare di proteste sollevato da un’opinione pubblica sempre più sensibile alle critiche illuministiche.
Il tribunale, fondato nel 1542, ebbe un’organizzazione centrale che impose un raccordo continuo tra il centro – un vero ministero, diremmo oggi – e le sedi periferiche (Prosperi 1996). Queste erano tenute a render conto in modo continuo ed esaustivo di ogni loro iniziativa, e a operare obbedendo alle circolari provenienti da Roma con precise istruzioni – che imponevano, ad es., un rigoroso segreto sulle procedure locali preliminari per non danneggiare irrimediabilmente l’inquisito. Com’è comprensibile, però, di questo tribunale solo alcuni processi con esiti clamorosi ebbero risonanza pubblica, per cui si tratta di un ‘grande tribunale’ più per il suo (discusso) rilievo storico complessivo che non per l’influenza della sua giurisprudenza. Peraltro, la sua documentazione, concentrata essenzialmente in Vaticano, solo da pochi anni è accessibile agli studiosi.
Il diverso contesto politico-istituzionale in cui ebbe luogo la costituzione dei grandi tribunali spiega la complessa storia e tipologia delle loro decisioni.
Anche in questo caso, infatti, si riscontrano due percorsi molto diversi.
Da un lato, ci fu una serie di corti che ritennero per tanto tempo estraneo alla loro procedura (stylus curiae) la redazione di decisioni per le parti o addirittura per il pubblico, e dall’altro corti che avevano invece già nella normativa istitutiva l’obbligo di motivare.
Come s’è anticipato, il primo caso corrisponde ai senati e alle corti a essi assimilabili, come il Sacro real consiglio di Napoli. In questo caso, si tratta di corti collegiali che usavano annotare dati relativi alle cause in corso in appositi registri, ma non ebbero né sentirono come obbligo giuridico quello di registrare né di indicare esplicitamente alle parti i percorsi seguiti per giungere alla decisione posta alla base del dispositivo – che si limitava a un generico rinvio agli atti (sul tipo: «visto quel che c’era da vedere, sentenziamo…»).
In questo caso le decisioni che furono rese pubbliche non possono che rispecchiare gli appunti e i ricordi personali del singolo giudice, che pure può avere scrupolosamente tenuto conto delle opinioni dei colleghi.
In genere è molto sbrigativo il rinvio ai dibattiti in camera di consiglio nella prima raccolta di giurisprudenza italiana passata a stampa. Si tratta delle 404 decisioni (Decisiones Sacri Realis Consilii Neapolitani, 1509) di Matteo d’Afflitto, un professore napoletano del tardo Quattrocento, autore di più opere dottrinali, divenuto a fine carriera giudice del Sacro real consiglio e quindi estensore di decisioni in senso lato, perché non mancano nella sua raccolta anche pareri del Consiglio (come quello dato al re per uno struprum avvenuto a Sarno; Decisiones, cit., dec. 276). Le sue decisioni ebbero subito un grande successo (Vallone 1988, pp. 133 e segg.), e vennero più volte ristampate nel corso del Cinquecento, con le note di aggiornamento di altri giuristi e giudici napoletani. In questo modo le decisioni erano messe al corrente delle più recenti pronunce del tribunale e degli sviluppi dottrinali e normativi. La raccolta, pur non esente da critiche per l'inaffidabilità del reporting su singoli casi, spianò la strada alla fortuna del genere letterario nel regno.
Molti giudici imitarono d’Afflitto e le raccolte divennero entro il Cinquecento un numero imponente (Del Bagno 1993; Milletti 1995). Quando apparve la raccolta di d’Afflitto, però, circolavano raccolte più antiche di decisioni, che possono aver sollecitato l’opera del giudice napoletano.
In particolare, tre raccolte della Rota romana redatte nella seconda metà del Trecento, con l’interpretazione giudiziaria delle più recenti raccolte di decretali pontificie, avevano circolato con una ricca tradizione manoscritta ed erano poi passate a stampa nell’età degli incunaboli. Queste decisioni hanno caratteri accostabili a quelle successive di d’Afflitto. Si tratta ugualmente di reports, cioè di ricordi processuali degli uditori su punti di diritto chiariti in Rota, e i dibattiti che alimentarono i dubbi dei giudici vi vennero esposti molto sinteticamente dal raccoglitore e poi ordinati secondo titoli tratti dalle raccolte di decretali per fare attività utile agli operatori nei tribunali ecclesiastici.
Ma perché le decisioni della Rota fiorentina, quelle depositate ufficialmente e rese accessibili a tutti, non ebbero per tanto tempo pubblicazione, come del resto quelle della Rota di Siena che la seguì presto (1504) e delle altre rote istituite successivamente: Genova (1529), Lucca (1529), Perugia (1530), Bologna (1535) e Ferrara (1599)? La loro accessibilità per legge può aver favorito la circolazione locale manoscritta, mediante selezione ‘naturale’ delle decisioni più innovative o esaurienti. La novità della pubblicità delle decisioni aveva però bisogno di tempo per consolidarsi con la coscienza della loro utilità, e il fatto che i giudici cambiassero spesso e i precedenti non fossero vincolanti possono spiegare un’iniziale ritrosia a pubblicare. Ma ci fu qualcosa di più nel granducato di Toscana, dove nel Cinquecento mediceo se ne vietò addirittura la pubblicazione (Ascheri 1976, trad. it. 19952, p. 121). Si ritenne forse che esse non fossero opera privata del loro estensore o che potessero nuocere, dando mostra di un orientamento giurisprudenziale che presso una singola rota aveva difficoltà a sedimentarsi per il cambio frequente dei giudici. Del resto, i successori avrebbero dovuto ricercare negli archivi le decisioni non stampate che facevano al caso sub iudice, con dispendio notevole di tempo. Era più facile citare dei precedenti giudiziari ricorrendo ai decisionisti napoletani a stampa, che non alla tradizione manoscritta del tribunale di cui si faceva parte.
Un’altra considerazione va fatta sul gradimento delle raccolte giurisprudenziali. Mentre le decisioni dei senati e delle corti assimilabili erano tendenzialmente più aperte all’innovazione, dato il potere fortemente equitativo che tali corti rivendicavano, quelle delle rote, cioè di organi con competenze solo giudiziarie, si muovevano di solito nel solco delle opinioni più consolidate del diritto comune, perché formate da giudici itineranti, privi di arbitrium, non radicati in una specifica tradizione locale e pronti a ripartire per esercitare il loro ruolo in una corte analoga altrove.
I giudici rotali formarono perciò un ceto di professionisti fondamentalmente omogeneo e ben inquadrato nel sistema di diritto comune nonostante l’attività prestata presso tribunali di ordinamenti diversi nel corso degli anni. Questo spiega anche l’analogia che può rilevarsi nello stile della loro motivazione, di solito ampia e tendente a rispondere alle varie obiezioni avanzate in giudizio contro la conclusione raggiunta.
Il giudice rotale doveva soddisfare, s’è detto, un’ansia di giustizia non di sudditi ma di utenti che si ritenevano portatori delle aspettative di un cittadino cresciuto in un ambiente repubblicano – attuale o anche solo ormai vivo nel ricordo: a Firenze, a Siena e nelle ex-città-Stato ormai inglobate nello Stato pontificio.
Nella tradizione rotale fiorentina e in quella da essa dipendente la decisione veniva redatta, a termini di legge istitutiva, con o dopo la pronuncia della sentenza – inaugurando uno stile destinato a rimanere ben radicato nella nostra storia processuale. Ma ci fu un altro stile che divenne caratteristico della Rota romana e di quella istituita sul suo modello: la Rota maceratese, anch’essa detta ‘sacra’ per connotare una competenza che si estendeva a materie spirituali, oltre quelle civili usuali.
Questo stile deve la sua peculiarità a un carattere di fondo del diritto canonico e della sua procedura. Trattandosi di un diritto fortemente intrecciato con le questioni che possono essere motivo di peccato, e quindi anche di dannazione eterna, il diritto canonico e il suo processo aspira ad accertare la verità dei rapporti più che la loro stabilità – come nel diritto civile. Di qui la tendenza a rivedere le decisioni prese, anche nell’aspirazione ad avvicinarsi a soluzioni condivise per la loro evidenza. In questo spirito, ad esempio, nella cultura canonistica maturò l’idea (rimasta minoritaria) che la sentenza basata su consilium sapientis potesse essere rivista ove intervenisse un consilium più esperto e che quindi esso in generale ostacolasse la formazione della cosa giudicata.
Presso la Rota questa cultura condusse a predisporre durante l’iter processuale una decisio presentata alle parti anteriormente al dispositivo dall’auditor ponens, relatore al collegio. Di fronte alla decisio-progetto di sentenza era possibile l’acquiescenza della parte perdente ma anche la sua reazione di rigetto, che implicava la risposta motivata ai punti risolutivi controversi che venivano compendiati in appositi dubia. Con ciò il processo continuava, portando a un’ulteriore decisio – con rinvio dei tempi e ulteriori spese, divenuti proverbiali nelle intricate cause fedecommissarie.
Questo stile fu per tanto tempo informale e interno al tribunale, nel senso che le decisiones endo-processuali potevano essere non formalizzate. Ma esse cominciarono a conservarsi e a raccogliersi a cura dei uditori e degli avvocati, perché potevano evidentemente essere utili in casi futuri analoghi.
Nel frattempo intervenne la riforma fiorentina e delle altre città, anche appartenenti allo Stato pontificio, che adottarono lo stile rotale. Fatto sta che nella riforma della Rota romana del 1563, si dispose l’obbligatorietà della consegna della decisio alla parte richiedente. Con ciò essa era formalizzata, ma si andò oltre, disponendo, caso unico per il tempo, la vincolatività delle antiche decisioni trecentesche di cui si è discorso: le raccolte di decisioni Antiquiores, Antiquae e Novae. Esse da allora avrebbero posto pertanto principi vincolanti per i giudici, a meno che una maggioranza qualificata (di 2/3) non ne disponesse la inapplicabilità al caso in esame.
Le decisioni rotali erano destinate perciò ad acquisire un peso rilevante entro il mare magnum della giurisprudenza del tempo.
Il tribunale era costituito da giudici internazionali (come lo storico del diritto canonico e giurista filologo spagnolo Antonio Agustín), ormai rappresentanti dell’orbe cattolico tutto: le cause potevano provenire da qualsivoglia diocesi e le materie investite dalla corte non erano certo così ristrette come oggi. La Rota s’interessò anche, e attivamente, di questioni di diritto commerciale, ad es., e non solo per le questioni dei cambi, sempre più spinose, oltreché delle consuete questioni di diritto civile coinvolte dal diritto canonico o di quelle civilistiche in senso stretto, provenienti dalle diocesi dello Stato pontificio.
L’autorevolezza acquisita dalla corte è bene esplicitata da un dato eloquente. La trattatistica dottrinale d’antico regime, molto ricca in quell’epoca che aveva ormai abbandonato la forma del commento ai Corpora iuris, dava spesso spazio, in appendice, alle decisioni della Rota che confermassero le opinioni sostenute nel testo. Il trattato offriva il materiale giurisprudenziale utile per l’adeguata citazione in giudizio. Perciò le decisioni erano apposte anche ai commenti agli statuti comunali (come quelli di Roma del 1580, finemente annotati da Francesco Maria Costantini; Decisiones S. Rotae Romanae alibi non impressae et ad interpretationem statutorum Almae Urbis selectae, 1702), oppure a opere della mole e diffusione del citato Theatrum di De Luca (1669).
Le decisioni della Sacra rota romana, con quelle del Sacro real consiglio, furono le più numerose e più frequentemente stampate: le prime erano connotate per l’internazionalità e l'alto livello dei suoi giudici; le seconde riflettevano l’eminente posizione sociale e culturale dei giuristi a Napoli, ove affluivano in ultima istanza le cause più importanti dal vasto regno.
La diffusione europea delle une e delle altre si basa su un fatto oggi inusitato. La giurisprudenza di un alto tribunale, italiano o straniero, non era formalmente vincolante neppure per il tribunale che la creava, ma era ‘comunicabile’ al di fuori della sua area di competenza territoriale, come diceva De Luca, cioè al di là dei confini dello Stato entro il quale era stata elaborata. Nel sistema di diritto comune del tempo portava comunque un contributo/proposta, come un intervento dottrinale. Ma rispetto a questo godeva dell’autorevolezza del tribunale, della sua attendibilità.
Perciò avevano larga diffusione sia le decisioni autentiche quali quelle della Rota romana, sia i semplici reports del Consiglio napoletano. Diversi nella genesi, i loro interventi erano comparabili per essere pur sempre di collegi di eminenti giuristi.
La storia di questa giurisprudenza, perciò, richiede un lavoro delicato e paziente, perché implica anche l’esame di decisioni e opere dottrinali straniere del tempo. Gino Gorla segnalò vari casi di decisioni italiane ritenute utili in giudizio all'estero (anche in Louisiana). Ma, mentre dalla riforma segnalata di metà Cinquecento le raccolte cronologiche della Rota romana (oltreché quelle personali degli uditori presso i quali le cause erano coram) permettono di seguirne con compiutezza la giurisprudenza, il supremo Consiglio napoletano si conosce senza la stessa continuità solo grazie all’iniziativa occasionale privata dei giudici e dei loro eredi.
Fatta salva la ‘comunicazione’ delle opinioni giurisprudenziali facilitata dalla stampa e dallo spoglio latino dei giuristi, le decisioni avevano un diverso peso entro i singoli ordinamenti in base all’autorità del tribunale da cui promanavano.
Nello Stato pontificio si assisté alla contemporanea fioritura di due tribunali con competenze esclusive quali la Rota romana e quella maceratese. Ma all’interno dello Stato c’erano anche quelle di Perugia, Bologna e Ferrara, le cui decisioni autentiche vennero pubblicate solo episodicamente, a riflettere un’autorevolezza tendenzialmente locale delle loro decisioni.
La pronuncia di una Rota come quella di Roma o di Macerata aveva un altro rilievo. Per le loro decisioni soprattutto si diceva che avessero vis legis, ma si dovevano citare correttamente, cioè per quanto decidessero sul punto specifico, e non per i semplici obiter dicta. La singola pronuncia andava quindi contestualizzata, come raccomandò De Luca e come si raccomanda anche oggi. Ma il credito delle raccolte crebbe rapidamente intorno al 1600, e ci fu chi pensò che combinando la saggezza dei vari tribunali si potessero ritenere risultati più affidabili. Si proposero così all’attenzione degli operatori dei condensati della sapienza giurisprudenziale mettendo assieme sintesi di quel sapere – ovviamente non solo italiano, ma europeo: come nella Compilatio di Giacomo Antonio Marta (1620).
Con ciò la certezza del diritto per via giurisprudenziale, ricercata superando le infinite sottigliezze dottrinali, finiva per allontanarsi. L’abuso delle citazioni, usate in modo quantitativo più che qualitativo, rendeva il sistema giuridico fondato sul concorso di diritto comune e diritti locali estremamente incerto.
Andava superata la gestione dei ‘dottori’; la critica contro di loro finì per coinvolgere anche i tribunali per la contraddittoria massa di decisioni che avevano ormai prodotto. Ma come procedere? La Francia dette un segnale già entro il Seicento con le poderose opere legislative di re Luigi XIV: una legislazione riordinata per materia, in testi coerenti e per quanto possibile chiari, era la strada da percorrere.
In Italia questa soluzione fu imboccata dapprima dai Savoia, la dinastia più sensibile nel primo Settecento a riformare le istituzioni ereditate dal passato guardando alle sperimentazioni dei Paesi allora in grande sviluppo, come la Francia e le Provincie Unite. Le loro Costituzioni del 1723 segnarono per l’Italia un passo avanti notevole. Per quanto ci riguarda, nella revisione del 1729, con il divieto ad avvocati e giudici di ‘allegare’ i dottori per rispettare il primato delle norme di legge, e con la previsione del valore vincolante della giurisprudenza delle corti superiori in caso di lacuna legislativa. Qualcosa del genere si fece nella Modena degli Estensi, il cui Consiglio di giustizia (1761) ebbe motivazioni e decisioni interpretative (Tavilla 2006, pp. 209 e segg.) per rimediare alle situazioni di incertezza.
Ma c’erano anche tanti Stati refrattari. A partire dal Regno di Napoli, dove Bernardo Tanucci, il professore pisano condotto dal re come ministro riformatore, incontrò resistenze insormontabili nel tentativo di imporre la motivazione al Sacro real consiglio. I suoi famosi Dispacci del 1774 furono revocati dopo pochi anni.
A Milano invece la spinta riformatrice dell'imperatore Giuseppe II riusciva infine – con il Regolamento processuale del 1786 – a travolgere il Senato, sempre più criticato dagli illuministi come baluardo della nobiltà e della conservazione dato il suo potere ‘arbitrario’ presentato come potere equitativo – che in età spagnola doveva in ogni caso tener conto degli interventi del Supremo consiglio d’Italia istituito a Madrid nel 1556.
La sua giurisprudenza era stata di un rilievo relativamente modesto fuori dell’ordinamento lombardo nel mondo ‘comunicabile’ del diritto comune. Il Senato aveva avuto da integrare nel patrimonio ‘comune’ le Costituzioni per il dominio del 1541 dell'imperatore Carlo V e pertanto la sua giurisprudenza, priva di decisioni ufficiali e affidata alle note marginali delle riedizioni delle Costituzioni e alla trattatistica dottrinale di origine lombarda, era rimasta con un carattere prettamente ‘regionale’. Intanto, quella dei tribunali veneziani, che non si alimentavano dei dibattiti del diritto comune, era rimasta addirittura cittadina e priva di raccolte a stampa significative.
Il Settecento fu piuttosto il secolo della Rota fiorentina, che poté dotarsi di raccolte modernamente strutturate – mentre continuavano a essere aggiornate quelle della Rota romana –, superando le antiche avversioni locali per la stampa delle decisioni e forse anche di disfunzioni gravi rilevate in età medicea. Allora, in un relazione riservata al granduca, si lamentò che
gli auditori di Rota alcuni hanno ad abitare per le ville de' Fiorentini, se bene hanno cause frequenti avanti di loro, altri mercantano in mercanzie del lor Paese e le vendono con vantaggi a mercanti che litigano avanti di loro, procrastinando la spedizione (= conclusione) della causa sino non sia concluso il partito (= l'affare). Altri in occasione di figliolanze fanno compare (= padrino) li più grandi e favoriti della Corte. Altri professano particolare dipendenza da principali ministri, andando anco a farli anticamera et arrolandosi scopertamente al loro patrocinio (Fasano Guarini 1983, p. 246).
Eppure, furono i senati a venire travolti come istituzioni dell’antico regime, mentre le rote romana e fiorentina, in quanto organi formalmente tecnici esenti da responsabilità politiche, poterono sopravvivere, e le loro raccolte continuarono a essere punto di riferimento del dibattito giudiziario e dottrinale anche fuori del loro ordinamento.
Tanto che, con la Restaurazione, sia a Roma sia a Firenze, che avevano conosciuto le novità francesi, ripresero la loro funzione, continuando a esercitare il loro ruolo entro la cornice del diritto tradizionale.
Ovunque si sperimentavano i codici sull’esempio francese o austriaco e si superava il sistema di diritto comune, ma in Toscana e nello Stato pontificio la marginale conservazione o adozione di ordinamenti analoghi a quelli francesi non significò anche il superamento dell’antico diritto civile. Nuovi codici e regolamenti innovarono il diritto penale e le procedure, ma l’antico diritto a gestione sapienziale, il diritto per antonomasia, il diritto civile, continuò a trovare nei ‘dottori’ e nella giurisprudenza dei tribunali, in particolare delle rote romana e fiorentina, il suo fondamento moderno.
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