I Greci e gli animali
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel mondo antico in generale il rapporto della specie umana con gli altri animali è molto più stretto, sia perché gli antichi interagiscono con le altre specie assai più frequentemente, sia perché molto diverso è stato nella storia l’equilibrio ecologico che ha governato le relazioni fra spazi antropizzati (città), semi-antropizzati (campagna coltivata) e natura selvaggia. Per questo motivo le espressioni culturali delle civiltà elleniche, dall’arte alla filosofia, dal mito ai trattati tecnici, dalla divinazione alla medicina e alla farmacopea, pullulano di presenze animali, di figure zoomorfe e teriomorfe chiamate ad operare molteplici funzioni ideologiche, sociali e comunicative.
Come in gran parte delle società preindustriali, anche nel mondo antico gli animali assolvono a compiti assai più importanti e variegati di quelli a cui sono chiamati oggi e occupano spazi di interazione con gli umani più numerosi e differenziati rispetto a quanto avviene nelle civiltà moderne e postmoderne.
Il processo di urbanizzazione e antropizzazione del territorio non era avanzato come oggi. Alla desertificazione di presenze animali contribuiscono in tempi odierni non soltanto la cementificazione e la densità abitativa, ma anche la diffusione di pesticidi, insetticidi e l’insieme delle tecniche di disinfestazione, che hanno via via allontanato dagli ambienti urbani centinaia di varietà di insetti insieme con i predatori che di tali insetti si nutrono; il caso delle rondini, scomparse da molti centri urbani, è forse il più noto. Anche nelle campagne gli effetti delle nuove tecnologie si fanno avvertire. È noto per esempio che la popolazione europea delle api sta subendo negli ultimi anni una drastica riduzione, imputabile alla massiccia diffusione di pesticidi e agenti inquinanti, nonché ai rapidi mutamenti di destinazione dei terreni. Nel mondo antico questo fenomeno sarebbe stato percepito come una disastrosa calamità e come un prodigio funesto da espiare con ogni mezzo, dal momento che le api erano di importanza eccezionale nell’economia e nella dietetica: non si conosceva lo zucchero, e il miele era allora l’unico dolcificante disponibile.
Le città del mondo antico sono strettamente contigue alla campagna (in greco chora) in termini spaziali e, con l’eccezione della Roma di età tardo-repubblicana e imperiale, i centri urbani non hanno le estensioni enormi a cui siamo abituati in tempi moderni. La campagna non è lontana dal centro della città. Contatti e scambi con il mondo agricolo sono quotidiani e costanti. Cavalli, asini e muli da traino
e da lavoro, buoi e pecore e maiali vivi condotti nei mercati cittadini, oche e gallinacei nei cortili e nelle stive, donnole e topi, insetti e aracnidi, rettili e pulci costituiscono presenze animali consuete anche nelle aree urbanizzate. In altre parole, chi vive in città ha un rapporto di assai maggiore familiarità non solo con la campagna circostante, ma anche con le numerosissime specie sinantrope, con gli animali di utilità e da carne e con gli animali da affezione (prevalentemente cani e uccelli) e con parassiti e insetti di vario genere.
Anche il rapporto con la messa a morte degli animali da carne è assai più stretto di quanto non sia oggi. A differenza di quanto avviene attualmente (i mattatoi sono completamente rimossi dalla vista e dalle coscienze dei consumatori di carne), nel mondo antico ciascuno è inevitabilmente destinato ad assistere all’uccisione di un bue o di una scrofa o di un pollo e alle complesse procedure rituali con cui dall’animale vivo e intero si passa alla bestia macellata e al pezzo di carne imbandito sul vassoio. Questa familiarità si riflette nella straordinaria frequenza con cui ci imbattiamo in presenze animali in ogni settore della cultura antica. Non si tratta solo di metafore e similitudini animali, di immagini ed elementi ornamentali zoomorfi, pur onnipresenti nella letteratura e nell’arte, bensì anche di animali in carne ed ossa, come quelli da lavoro e da trasporto; le vittime dei riti sacrificali e delle cerimonie di purificazione; gli animali divinatori, la cui osservazione costituisce uno dei principali veicoli di comunicazione con le divinità; gli organi e le parti del corpo di animali che vengono utilizzati nella produzione di rimedi e veleni, di amuleti e preparati per la cosmesi, di cibi e di filtri magici. Coerentemente con la pervasività e il coinvolgimento degli animali negli spazi dell’attività umana, anche la loro significatività culturale – il loro peso semiotico – è decisamente superiore rispetto ai tempi moderni.
Animali abbondano nelle credenze popolari, nelle superstizioni, nei proverbi, nelle favole, nei riti magici e in quelli sacri, nei miti, negli spettacoli, negli oracoli e persino nei sogni degli antichi.
Più distante, ma non meno produttivo dal punto di vista simbolico, è il mondo selvaggio delle foreste, degli abissi marini e delle rupi montane, habitat non umani in cui si trovano per contro a proprio agio specie come lupi, orsi, cervi, cinghiali, leopardi e linci, animali indipendenti e schivi, che intrattengono con il mondo degli uomini rapporti estemporanei e non codificati. Gli spazi del selvatico (dell’agriotes) sono percepiti come regno dell’imprevedibile e del potenzialmente ostile: non mi è dato sapere chi incontrerò nel bosco o in alto mare, né come questo animale reagirà all’incontro con l’umano.
Nelle solitudini selvagge devo essere pronto alla difesa, come in ogni territorio estraneo e potenzialmente nemico; da quei mondi alieni inoltre – il folto della foresta, le altitudini montane e l’abisso acquatico – possono da un momento all’altro sbucare predatori sanguinari. Il rapporto con le specie selvatiche (theres in greco) è caratterizzato perciò quasi sempre da un acceso spirito di competizione e da giochi di forza.
Nei miti che raccontano l’età delle origini si oscilla in realtà fra due opposti: una rappresentazione dei primordi del mondo come spazi selvaggi infestati da animali pericolosi di cui sbarazzarsi per instaurare l’ordine della civiltà umana (miti dell’eroe civilizzatore che libera la terra dai mostri); e l’idea, di segno opposto, secondo la quale uomini e animali sono vissuti un tempo in perfetta concordia, spartendosi serenamente risorse e spazi e comunicando fra loro (miti dell’età dell’oro), prima che la violenza irrompesse nel mondo portandovi degradazione e sofferenza.
Fra gli esempi del primo tipo di racconti possiamo citare le imprese di Eracle e di Teseo, eroi che disinfestarono la terra da animali mostruosamente nocivi. Miti dell’età dell’oro ricorrono invece prevalentemente negli scritti di tipo diatribico-satirico, in cui l’esaltazione delle virtù “naturali” degli animali vale come contraltare alla critica verso i più comuni difetti dell’umanità. Così, per esempio, avviene nel giambo di Callimaco in cui si narra di come un tempo uomini e animali comunicassero fra loro fino al momento in cui Zeus tolse la parola agli animali per girarla tutta agli uomini: ecco perché gli umani parlano spesso a vanvera (fr. 192 Pfeiffer). Nel paradossale scritto plutarcheo Gli animali irrazionali sono razionali, invece, un maiale di nome Gryllos spiega a Odisseo perché preferisce rimanere nel giardino incantato di Circe (sorta di paradiso terrestre in cui tutto è saggezza e armonia): al contrario di ciò che gli uomini pensano, se lasciate in pace le bestie vivono meglio degli uomini.
Pur non avendo bisogno di cacciare per alimentarsi – agricoltura e pastorizia offrono abbondanza di animali domestici – Greci e Romani continueranno a rincorrere cervi, lepri e cinghiali, facendo di questa attività uno sport per il diporto di giovani aristocratici e uno spettacolo per il pubblico dei circhi e degli anfiteatri.
La pesca è invece a lungo considerata un’attività umile ed esclusivamente destinata a rifornire le tavole di pesci e molluschi. Solo in età ellenistica e romana anche esponenti delle classi agiate prenderanno a praticare la pesca sportiva e si svilupperanno allevamenti ittici di notevoli dimensioni.
I più antichi testi della letteratura greca, Iliade e Odissea – la redazione in nostro possesso risale al VIII-VII secolo a.C., ma si tratta della fissazione in forma scritta di poemi evolutisi in forma orale nei secoli precedenti – sono famosi per molti motivi, uno dei quali è senz’altro l’utilizzo massiccio e sofisticato delle similitudini, in particolare di quelle in cui la comparazione fra il gesto o l’emozione del personaggio protagonista dell’azione è confrontata con quella di un animale. Così troviamo eroi in battaglia che si avventano sul nemico come leoni feroci o lupi, altri che si difendono come cinghiali accerchiati dai cacciatori, altri ancora che “come avvoltoi artigli adunchi, becco ricurvo/sopra un alto roccione stridendo combattono” (Iliade XVI, 428-429).
E le immagini utilizzate non sono solo prelevate dal mondo dei cacciatori e della selva, ma anche da quello dei pastori e degli agricoltori: quando i compagni di Odisseo finalmente lo rivedono vivo, gli corrono incontro commossi e festanti come vitelli che vedono le loro madri tornare dal pascolo e si fanno loro incontro saltando di gioia (Odissea X, 410-414); le mosche che volano intorno agli ovili quando i secchi son pieni di latte appena munto sono come i nugoli di Achei che si affollano sulla piana di Troia prima dell’attacco (Iliade II, 469-472); e Agamennone passa in rassegna le truppe come un toro che si aggira maestoso e superbo fra le vacche (Iliade II, 480-483).
La persistente comparazione fra il mondo umano e quello animale e il continuo slittare dal punto di vista del predatore a quello della preda, da quello del cacciatore a quello del braccato, dalla prospettiva della bestia a quella dell’uomo che la contiene, la governa o la minaccia, crea nei poemi una fitta rete di corrispondenze tra i due mondi. A differenza di tempeste, fiumi, boschi, macchine e navi, gli animali hanno in comune con gli umani non solo la vita e la morte, ma anche la fame e la sete, la paura e il coraggio, la compassione e la cura dei piccoli, la gioia, il desiderio e la commozione.
In Omero troviamo inoltre le prime testimonianze di tanti temi incentrati sulle interazioni fra uomini e animali che sono caratteristiche della cultura greca in generale e ricorrono nei testi delle epoche successive. Un motivo culturalmente assai rilevante è quello del valore di prova virile attribuito alle imprese cinegetiche e, in particolare, allo scontro con il cinghiale (sys o hys agrios, syagros, kapros). La cicatrice che segna la gamba di Odisseo – e che consentirà alla vecchia nutrice di riconoscerlo dopo 20 anni di assenza da Itaca – altro non è che il marchio del coraggio dimostrato dall’eroe quando era ancora un ragazzo.
Un lungo flashback nell’Odissea racconta l’episodio: durante un soggiorno presso il nonno materno, il giovanissimo Odisseo era uscito per la sua prima battuta di caccia da protagonista insieme agli zii; il ragazzo aveva in quell’occasione dimostrato, come era richiesto, energia, passione e forza d’animo nell’affrontare la belva nella boscaglia; l’animale era riuscito a ferirlo per primo, con i suoi micidiali denti a sciabola, ma Odisseo aveva saputo prontamente reagire ed era riuscito a infliggere un colpo fatale alla preda (Odissea, XIX, 428-466). Così il ragazzo aveva provato di avere stoffa di eroe e si era conquistato l’ingresso nella società dei maschi adulti. Il tema del ragazzo chiamato a dimostrare di essere uomo attraverso il confronto con un cinghiale ricorre anche in alcuni racconti tradizionali, primo fra tutti quello di Meleagro (Omero, Iliade, IX, 529 ss; Apollodoro, Biblioteca, I 8, 2-3). A Calidone il giovane figlio del re Oineo aveva capeggiato un manipolo di uomini scelti per liberare la regione da un gigantesco cinghiale che devastava campi e vigne per volere della dea Artemide, signora del mondo selvatico. Ma il tema non è circoscritto a vicende leggendarie fuori del tempo. Racconta Egesandro di Delfi (FHG, I, 419 Jacoby) che in Macedonia un ragazzo non può mangiare insieme agli altri adulti fino a che non sia riuscito a colpire un cinghiale in uno scontro aperto, senza l’ausilio di reti. Per questo il generale Cassandro è stato costretto a pranzare come un ragazzino vicino a suo padre fino a 35 anni, essendo giunto a quell’età senza riuscire a compiere l’impresa. Data l’assenza (o la scarsa presenza) di leoni, tigri e pantere nelle foreste della Grecia (anche gli orsi non devono essere così numerosi), è abbastanza plausibile che sia proprio il cinghiale a costituire la preda più frequente della “caccia grossa”, l’avversario più temibile da fronteggiare. In ogni caso, l’attività cinegetica può essere considerata parte integrante dell’educazione del ragazzo alla lotta, alla vigilanza, alla destrezza e alla resistenza. In piena età classica Senofonte, nel suo trattato Cinegetico, raccomanda ogni genere di caccia in quanto attività adatta ad esercitare corpo e mente alle fatiche e alle sfide della guerra, e indica quella al cinghiale come la più pericolosa e impegnativa.
Sempre in Omero troviamo le prime testimonianze di animali da trasporto, in particolare muli (hemionoi, letteralmente “semi-asini”) destinati a trainare carri in situazioni di pace e cavalli (hippoi), che in guerra trainano i cocchi sui quali gli eroi attraversano la pianura troiana per raggiungere il campo di battaglia (dove però combattono appiedati: gli eserciti dell’epica non conoscono contingenti di cavalleria, che faranno parte della armate elleniche soltanto a partire dall’età classica).
Pur non prevedendo la monta dell’animale e rimanendo mediati dal giogo e dal carro, i legami fra cavalli e padrone appaiono comunque molto stretti. Ogni cavallo possiede un nome proprio che lo identifica – in genere nomi che ne evocano le qualità fisiche o morali, come Xánthos (Fulvo), Balíos (Screziato), Pódargos (Pièveloce o Zampabianca), Áithon (Ardente), Lámpos (Splendente), Pédasos (Salterino). Fra l’animale e il padrone intercorre un rapporto di fiducia e consonanza di sentimenti: Ettore, per esempio, si rivolge ai propri destrieri chiedendo loro di ripagare le cure con cui vengono allevati da Andromaca (Iliade, VIII, 185-197), saltando il fossato e conducendo il cocchio alla velocità del vento fino alle navi degli Achei.
Il caso più famoso – e il più commovente – riguarda i due cavalli di Achille, Xánthos e Balíos, figli immortali del vento e di un’Arpia, che, impietriti dal dolore per la morte del loro auriga Patroclo, versano calde lacrime, le teste chine a terra (Iliade, XVII, 426-440).
Anche in epoche successive epiteti come Hippódamos (Domatore di cavalli) o Phílippos (Appassionato di cavalli), Hippocrátes (Cavaliere provetto), Hípparchos (Comandante di cavalleria), e molti altri composti con hippos, sono nomi propri assai diffusi, specialmente fra i rampolli delle famiglie nobili. E chiunque abbia a che fare con gli aristocratici si aspetta di sentirli discutere dei loro destrieri preferiti, di quanto siano veloci e resistenti e di come si siano comportati durante le ultime uscite. Numerose stele funebri che ornano le tombe dei nobili raffigurano il defunto in compagnia del proprio cavallo.
All’inizio della commedia di Aristofane intitolata Nuvole, il vecchio Strepsiade lamenta che il proprio figlio, dall’eloquente nome di Pheidippídes, abbia ereditato dalla nobile madre una tale passione per i cavalli da ridurlo sul lastrico a forza di spese (allevare cavalli era anche a quei tempi estremamente costoso).
Oltre che nelle imprese belliche, i cavalli appaiono infatti coinvolti nelle attività ludiche e sportive fin dalle età più arcaiche.
Le corse con i carri sono fra le gare più prestigiose, come mostrano bene, oltre alle numerose rappresentazioni iconografiche, anche le composizioni poetiche (epinici) scritte per celebrare le vittorie degli aurighi e degli eminenti personaggi che hanno “sponsorizzato” la scuderia vincente. Nelle maggiori feste della Grecia (ad Olimpia come a Corinto o a Delfi) il programma prevede sia corse con carri sia con cavalli montati.
Di un famosissimo fra gli antichi compositori di epinici, Pindaro, ci sono pervenuti numerosi versi che celebrano “il fior fiore dei cavalli dalle zampe instancabili” (Olimpiche, III 3-4), corsieri e pariglie veloci come il vento, che regalano alle loro scuderie il prestigio di una fama diffusa.
Oltre all’ippica, in epoca classica era popolare anche il combattimento dei galli. Raffigurazioni vascolari e testi letterari testimoniano che tale spettacolo è un passatempo apprezzato già nell’Atene dell’epoca classica (V e IV sec. a.C.), dove non solo i ragazzi, ma anche gli adulti, come narra anche Platone, si divertono ad allevare pulcini promettenti (Leggi, VII 789 b) per farli poi esibire nei teatri, nei ginnasi e nelle case da gioco. L’orgoglio “virile” di questi animali è tanto proverbiale che si crede che, una volta sconfitto da un avversario, un gallo smetta di cantare per la depressione e la vergogna (Eliano, La natura degli animali, 4. 29).
Alcune bestiole vengono allevate come animali da compagnia. I bambini greci, in particolare, amano giocare con cagnolini, uccellini e leprotti, ma anche caprette, scimmiette, cerbiatti e insetti. A testimoniarlo sono numerose raffigurazioni su vasi e su pietra; alcune di queste sono stele funerarie in cui giovani defunti, sia maschi sia femmine, sono rappresentati nei loro momenti più gioiosi, circondati dai loro giocattoli e dai loro pets. Qualche immagine testimonia pure la presenza di gatti (ailouroi), sebbene essi non siano probabilmente diffusi quanto la donnola (galee) come animale domestico e cacciatore di topi. Anche gli adolescenti non disdegnano la compagnia di animali; quando cominciano ad essere corteggiati dagli adulti – molti ragazzi vengono educati alla vita virile intrattenendo una relazione di tipo omoerotico con un uomo di prestigio – ricevono spesso in regalo dai loro compagni degli animali (soprattutto cani, lepri e galli), come mostrano alcune pitture vascolari.
Gli animali sono ampiamente utilizzati anche come collaboratori. Nei lavori agricoli, le cui più antiche testimonianze troviamo nel poema didascalico Opere e giorni di Esiodo, troviamo buoi, asini e muli, cavalli e cani come abituali compagni di lavoro del contadino nelle attività di aratura, semina, macinatura, trasporto.
Il cane (kyon) in particolare è certamente fra gli animali più presenti negli spazi di vita di uomini e donne. Fin dai poemi omerici ne troviamo differenti tipologie con differenti impieghi: da caccia, da pastore, da guardia, da “salotto”.
Le rappresentazioni dell’epica variano da scene con cani randagi pronti a gettarsi sulle carogne e i cadaveri giacenti sul campo di battaglia a interni di case di lusso, dove cani adorni di delicati collari e distesi sotto i “divani” dei commensali stanno in attesa di succulenti avanzi gettati a terra (questi cani vengono per questo chiamati cani trapezéis “da tavola”).
Anche con questi animali, quando allevati e tenuti a vivere all’interno di un gruppo umano, la relazione è molto stretta. Ci si aspetta che si dimostrino ubbidienti come servi fedeli, affidabili come collaboratori incaricati di mansioni delicate e affezionati come mogli e figlie devote. L’episodio di Argo, il vecchio segugio che, ormai in procinto di morire, riconosce Odisseo dopo 20 anni di assenza da Itaca è uno dei passi letterari più famosi del poema omerico (Odissea, XVII, 290-327):
“Argo il cane del costante Odisseo, che un tempo
aveva allevato di persona – ma poi non ne aveva goduto – prima di
partire per la sacra Ilio. In passato c’erano stati giovani che lo portavano
a caccia di capre selvatiche, di cervi e di lepri:
ma ora giaceva là, trascurato – mentre il suo padrone era lontano
– in mezzo al letame, sterco di muli e di buoi che davanti
alla porta si ammucchiava […]
là giaceva il cane Argo, infestato di zecche.
Ma quando si accorse che Odisseo gli era vicino,
si mise a scodinzolare e abbassò entrambe le orecchie:
perché di correre incontro al suo padrone ormai non aveva più
forza. Allora l’eroe, distolse lo sguardo e si asciugò una lacrima […].
Destino di morte nera colse a quel punto Argo,
proprio un momento dopo aver rivisto Odisseo, dopo venti anni”.
Molte altre testimonianze letterarie ci informano di quanto conto si faccia sul cane come difensore delle proprietà e del bestiame, oltre che come compagno di scorribande nei boschi e di banchetti in sale principesche.
A differenza di molte culture orientali, in cui è guardato con repulsione e tenuto lontano dagli spazi abitativi e sociali antropizzati, la società greca apprezza dunque grandemente l’utilità del cane e la sua capacità di entrare in relazione stabile con gli esseri umani. E tuttavia, proprio perché su di esso fanno gran conto, i Greci nutrono nei confronti di questo animale una fiducia meno cieca di quella che induce la nostra cultura a chiamare il cane Fido per antonomasia.
Fra le molte elaborazioni che lo riguardano, ve ne sono molte in cui il cane appare un soggetto non totalmente affidabile: lo si pensa per esempio pronto ad attacchi di improvvisa e imprevedibile voracità lupina – accessi di aggressività che i Greci denominavano lyssa (da lyk-ja, il comportarsi da lykos “lupo”); lo si sospetta di collusione con il nemico – il lupo, la volpe, il ladro – cui potrebbe consegnare qualche capo di bestiame o libero accesso in casa in cambio di congruo compenso; si teme che manifesti il suo affetto solo per ottenere un tozzo di buon pane o un succulento pezzo di carne, come il più viscido degli adulatori.
Come si comprende facilmente, è proprio il fatto che al cane siano affidati così numerosi e delicati compiti che genera le inquietudini di cui trasudano queste credenze: il rischio di vedersi traditi o delusi da un cane è ovviamente proporzionale all’importanza della fiducia che su di esso si investe.
Il cane è in sostanza l’animale che più di tutti è integrato non solo negli spazi di vita dell’uomo, ma anche nelle sue dinamiche sociali e morali: ci si aspetta che si comporti bene, che rispetti le regole condivise e della buona educazione… un po’ troppe pretese per la povera bestiola, che per quanto possa sforzarsi di adeguarsi alle norme umane, è destinato a violarne suo malgrado parecchie.
Non è infrequente, per esempio, che due cani si accoppino in momenti e luoghi poco opportuni o che non resistano a una pentola di zuppa lasciata incustodita in cucina, e queste frequenti trasgressioni guadagnano alla specie fama di incontinenza o mancanza di ritegno (anaideia).
Pur molto vicino e considerato quasi un membro della comunità umana, il cane è però destinato ad occuparvi al massimo un posto di grado infimo: per questo stesso motivo “cane” (kyon) è anche uno degli insulti più comuni con cui, nel mondo greco, si apostrofa chi non rispetta le prescrizioni della morale e le buone maniere.
Gli animali sono oltretutto importantissimi mediatori di messaggi divini. Non che possano parlare agli uomini direttamente – solo ai cavalli di Achille, stirpe equina immortale, la dea Era ha eccezionalmente concesso di pronunciare parole umane e di predire così al loro signore morte imminente sotto le mura di Troia (Omero, Iliade, XIX, 408-417); per il resto gli animali passano agli uomini informazioni su aspetti invisibili dello stato del mondo (il futuro, un evento passato di cui non ci si è accorti, la coperta ostilità di un dio) attraverso azioni che vengono interpretate come segni criptati da professionisti secondo le regole codificate dell’arte divinatoria.
Sono per esempio considerati significativi il volo degli uccelli, specialmente dell’aquila (aetos) e della civetta (glayx), considerati sacri rispettivamente a Zeus e ad Atena; l’apparizione di serpenti (opheis, drakontes), manifestazione di potenze infere e anime dei defunti; l’inatteso abbaiare di cani, segno infausto o indizio della presenza nei paraggi della dea Ecate.
Ma importante è anche l’ispezione delle viscere delle vittime immolate sugli altari degli dèi (hieroscopia).
Gli antichi usano uccidere gli animali da carne di grossa taglia – bovini, pecore, capre e maiali – seguendo un rituale molto complesso e carico di tensione religiosa: il sacrificio. La bestia viene condotta all’altare debitamente addobbata di bende sacre nel corso di una solenne processione; se si rifiuta di avanzare o di starsene buona vicino all’altare, viene lasciata andare – nessuna violenza la deve costringere a restare; viene quindi aspersa con acqua e chicchi di orzo e ci si aspetta che essa crolli la testa in segno di approvazione prima di essere immolata e macellata. Parte della bestia – il sangue, la sezione posteriore della colonna, con l’osso “sacro” e la coda, il grasso, insieme a pezzi scelti di carne – viene quindi riservata alla divinità cui è dedicato il sacrificio e messa sull’altare; i celebranti invece arrostiscono sul fuoco dell’ara le frattaglie nobili (cuore, fegato, polmoni, reni) e le mangiano sul posto, condividendole con il dio; le parti di muscolo vengono invece suddivise in porzioni e distribuite ai partecipanti al rito o conservate e successivamente vendute nei mercati locali.
Questa prassi, che vincola la macellazione a una sanzione divina, è stata fondata, secondo la tradizione, da Prometeo, il quale aveva cercato di ingannare gli dèi durante un pranzo comune e aveva così involontariamente causato il definitivo allontanamento dei numi dalle tavole umane (Esiodo, Teogonia, 535 ss, Opere e giorni, 42 ss). Attraverso la nuova prassi sacrificale stabilita da Zeus, agli esseri umani sarebbe stata da allora in avanti destinata un’alimentazione a base di carne cotta, diversa da quella delle bestie, esseri mortali mangiatori di cibo crudo, e da quella degli dèi, immortali mangiatori di nettare, ambrosia e “fumo sacrificale” (knise).
Anche altri animali vengono tuttavia sacrificati alle divinità e non per scopi alimentari: rituali di espiazione e di purificazione, iniziazioni, incantesimi, giuramenti e necromanzie prevedono l’uccisione di cani, cavalli, uccelli di varie specie, oltre a porcellini, agnellini e capretti, che vengono lasciati a dissanguare e decomporsi o bruciati completamente sugli altari (olocausto) o gettati in mare, in pozzi o forre, come avveniva per esempio nel rito celebrato dalle donne ateniesi in onore di Demetra (Tesmophoria). Dai corpi degli animali inoltre si ricavano materie utilizzate per la confezione di strumenti (tendini, setole, avorio, osso) e vestiti (pellami, pellicce) e per la preparazione di farmaci: le ricette degli antichi trattati di medicina abbondano di ingredienti di origine animale (si può dire che pressoché tutte le parti anatomiche siano sfruttate per i differenti scopi terapeutici).
Il mito di Prometeo pone gli uomini decisamente al di sopra degli altri animali, accomunandoli agli dèi nella spartizione della vittima. Gli dèi stessi godono della tavola sacrificale, in cui si aspettano di ricevere la parte dovuta. Questo dato è peraltro coerente con il carattere eminentemente antropomorfo della religione greca.
Le divinità che la popolano presentano caratteri umani e, benché talvolta invocati con epiteti come “Occhi-bovini” (Era Boopis oppure “Occhi-di-civetta” (Atena Glaukopis), non vengono mai raffigurati con fattezze animali. Gli dèi teriomorfi sono anzi considerati una buffa caratteristica di popoli stranieri (come il dio-sciacallo Anubi o la dea-gatta Bastet degli Egizi) oppure arcani retaggi di religioni primitive sopravvissute in luoghi appartati della Grecia (una Demetra a testa di cavallo è venerata nel santuario arcadico di Figaleia). E tuttavia i miti greci sono popolati di strani esseri di natura ibrida: satiri con la parte inferiore del corpo e orecchie di forma asinina, centauri dal busto umano ma corpo e zampe equine, sfingi, sirene e arpie, mezze donne e mezze uccelli. Questi esseri sono però pensati abitare zone selvagge (boschi, distese marine, isole lontane) oppure, come nel caso dei Centauri, si crede siano vissuti in un lontano passato e si siano poi estinti. Appartengono cioè a un ordine diverso e distinto da quello che regola il mondo “normale”, cioè quello delle aree antropizzate in cui vige il pieno controllo delle istituzioni umane.
Fra le varie implicazioni del rito sacrificale vi è anche il fatto di sancire la liceità dell’uccisione degli animali domestici e del loro allevamento allo scopo di ricavarne carne.
Tale prospettiva, ampiamente condivisa dalla maggioranza delle culture ufficiali, non è però esente da contestazioni anche aspre. Orfici e pitagorici, per esempio, rifiutano il sacrificio cruento e praticano il vegetarismo, nella convinzione che lo spargimento di sangue e il cibarsi di “cadaveri” impediscano all’uomo di raggiungere lo stato di purezza necessario per procurarsi un felice destino oltremondano.
Essi credono inoltre nella metensomatosi, cioè nel fatto che l’anima di ogni essere si dissoci dall’individuo dopo la morte del suo corpo per andare a reinsediarsi in un altro corpo vivente – di uomo o di altro animale, a seconda di come l’individuo si è comportato nella vita precedente. Questa credenza, come è ovvio, è difficilmente conciliabile con l’uccidere e il mangiare carne previsti dalla religione sacrificale.
Il dibattito sulla liceità dell’uccisione di animali è vivace e continua ad attraversare il mondo antico per secoli. Bisogna infatti ricordare che le società antiche (come tutte le società umane) non sono blocchi culturali omogenei e che pertanto vi sono presenti atteggiamenti diversificati non solo a seconda delle epoche e dei luoghi, ma anche dei gruppi sociali e dei singoli individui. Se la caccia e l’alimentazione carnea sono pratiche ampiamente condivise, non manca chi le disapprova considerandole crudeltà ingiustificate. Nel I secolo è Plutarco a raccogliere una ormai secolare istanza di pietà nei confronti delle sofferenze animali e a sostenere che, se pure vogliamo negare agli animali dei diritti e una personalità giuridica (in quanto esseri privi di ragione), tuttavia non possiamo negare di essere vincolati, nei confronti di alcuni di loro, da legami di natura etica ed affettiva: “quando si tratta di benefici, di riconoscenza, accade che il loro flusso, che scaturisce dalla ricca sorgente della dolcezza, si estenda fino agli esseri irrazionali” (Vita di Catone, V 2).
Favole (ainoi) con protagonisti animali sono diffuse nella cultura popolare da tempi immemorabili e se ne trovano primi esempi già nei poeti arcaici Esiodo e Archiloco. Ma le più famose sono certamente quelle raccolte nel corpus esopico.
L’intera raccolta mette in scena animali che dialogano e interagiscono con individui di altre specie (il lupo con l’agnello, il leone con il cavallo, l’asino con il cane, il maiale con il contadino e così via) in episodi spesso divertenti in sé, ma da cui si possono trarre anche insegnamenti sulle conseguenze di certi comportamenti umani: e così faranno per secoli i lettori di Esopo, alcuni dei quali si premureranno di esplicitare la “morale della favola” aggiungendola in forma di commento finale alle singole scenette. Cani, donnole, lupi, volpi, leoni e buoi rivestono così il ruolo di caratteri di cui esemplificano virtù e vizi in maniera metaforica e, perciò, divertente: l’asino mostra come finisce lo sciocco maldestro, la volpe cosa rischia il malvagio che vuole ingannare il prossimo e così via.
Il principio per cui ogni specie animale presenta peculiarità caratteriali individuanti – la volpe astuta, il lupo arrogante e violento, il cavallo altezzoso, il cane adulatore – non è del resto solo tipico della favola. Lo ritroviamo anche in altri generi, come per esempio la poesia di invettiva. Semonide di Amorgo, per esempio, utilizza proprio le specie animali per classificare i tipi di donna da cui ogni uomo dovrebbe guardarsi: la donna “cane” è curiosa e petulante, quella “maiale” sporca e disordinata, la “cavalla” snob; solo la donna “ape” è consigliabile come moglie, in quanto laboriosa e discreta.
Da questa stessa prospettiva nasce anzi una “scienza” indiziaria, chiamata fisiognomica, che sostiene di poter dedurre il carattere di una persona osservandone i tratti somatici. Le persone bionde, per esempio, sarebbero coraggiose in quanto hanno capigliatura “leonina”; quelle con il collo grosso e pieno focose (hanno infatti colli da toro), mentre quelle con colli lunghi e sottili codarde (come i cervi).
In epoca ellenistica, con l’estendersi delle conoscenze geografiche e dei rapporti con terre lontane conseguente alle conquiste di Alessandro il Macedone, si diffonde in Grecia l’interesse per le specie esotiche.
I sovrani persiani sono famosi per i loro paradeisoi, parchi delle meraviglie popolati da bestie di ogni specie e i sovrani ellenistici – in particolare i Tolemei che regnano in Egitto – prendono a imitarne l’esempio. Diodoro racconta di come Tolemeo II Filadelfo sia disposto a spendere qualunque cifra pur di osservare da vicino esemplari dei più strani animali della terra e induca perciò i suoi sudditi a cimentarsi in catture inverosimili per i suoi giardini zoologici. Una volta gli viene portato un serpente di dimensioni incredibili, che viene reso docile e costituisce per anni uno spettacolo straordinario per tutti gli stranieri di passaggio (III. 36. 2-4 = Agatharch. F 80 b Jacoby).
Ancora sul modello dei sovrani orientali, si cominciano poi a organizzare cacce grosse (una moda inaugurata da Alessandro, che ama affrontare leoni e tigri, nonché uscire per battute collettive in cui vengono uccisi migliaia di animali) e incredibili parate di animali addomesticati, la cui maestà e potenziale ferocia bene illustra gli attributi della regalità.
Nella processione tenutasi sotto il regno dello stesso Tolemeo II sfilano serpenti, colombe, asini montati da satiri e sileni, carri trascinati da elefanti, caproni, orici, bubali, struzzi, onélaphoi, asini selvatici, carri trainati da cavalli, cammelli e cammelle, muli; quindi pappagalli, pavoni, meleagridi, fagiani e altri uccelli etiopici, pecore etiopiche, arabe, euboiche; bovini indiani, etiopici; un grande orso bianco; 14 leopardi; 16 pantherai, quattro linci, tre giovani leopardi, una giraffa e un rinoceronte (il racconto è in Ateneo, V 197 e 203b).
Il gusto per il meraviglioso si esprime nelle forme più varie. Isocrate racconta che ogni anno si tengono ad Atene spettacoli chiamati “meraviglie” (thaumata), in cui si mostrano leoni ammansiti e orsi ammaestrati: i leoni si dimostrano benevoli verso i loro allevatori mentre gli orsi si rotolano, fanno la lotta e imitano altre attività umane (Antidosis, 213-4). Nel frattempo, raccoglitori di notizie sensazionali racimolano da reportages di viaggi e resoconti di esplorazioni descrizioni di specie animali sconosciute avvistate in terre remote: uomini con teste di cane (Cinocefali), incroci di cani e tigri (cani d’India), belve antropofaghe dotate di tre file di denti (Manticora).
A questa tendenza si contrappone l’interesse per l’indagine naturalistica, praticata da Aristotele e dalla sua scuola, che osserva e seziona gli animali più noti e conosciuti per indagarne a fondo anatomia, fisiologia e tratti comportamentali: Aristotele stesso ha dedicato agli animali numerosi scritti, dei quali alcuni sono stati tramandati fino a noi (Ricerche sugli animali, La riproduzione degli animali, Le parti degli animali, Il movimento degli animali).
Nello stesso periodo appaiono nuovi generi letterari che avranno grande successo in età successive. Anzitutto i racconti di metamorfosi, in cui un personaggio umano finisce per essere trasformato in animale. Miti di questo genere sono già tradizionali in età arcaica: il celebre episodio di Circe nell’Odissea ha per protagonista una dea-maga che trasforma i compagni di Odisseo in maiali (Odissea, X, 135 ss).
Il gusto per questo tipo di storie deve essersi però diffuso in età ellenistica, quando compaiono poemi e raccolte dedicate a tali soggetti, come gli Heteroioumena di Nicandro di Colofone di cui possediamo solo frammenti, cui seguiranno in età imperiale il poema di Ovidio e la collezione di Antonino Liberale, entrambi denominati Metamorfosi.
Un altro genere di successo in questa epoca sono gli epigrammi in morte di un animale, alcuni dei quali sono eleganti giochi di letterati colti (famosi quelli del libro VII dell’Antologia Palatina), altri veri e propri tributi d’affetto che i proprietari delle bestiole defunte fanno incidere sulle loro pietre tombali, dove sono state ritrovate dagli archeologi. Eccone un esempio di età imperiale (da Ege, Macedonia), dedicato a un maialino che ha viaggiato a lungo con il suo padrone:
“Maialino amato da tutti,
Piccolo quadrupede,
Qui io giaccio. Lasciato
Il suolo dalmata – mi donarono
A un viaggiatore (…)
Ogni terra ho attraversato,
Ero l’unico a non rimanere indietro
Nel cammino.
Ed ora ecco che, vittima
Di una ruota di carro, ho lasciato
La luce: io che desideravo
Vedere l’Emazia e il carro
Falloforico, ora qui giaccio;
Il mio debito con la morte
È saldato”.
Nella poesia bucolica, ambientata in una campagna idealizzata, in cui il canto è attività di umili pastori, gli animali sono, come è ovvio, una presenza costante.
Gli Idilli di Teocrito sono un ottimo esempio di questo genere: caprette, pecorelle, giovenche circondate da vitelli saltellanti, cicale, api e cani che abbaiano al gregge rappresentano l’orizzonte entro il quale i protagonisti umani misurano la propria esperienza del mondo.
Tale idealizzazione nasce, come è ovvio, nella fantasia di poeti straordinariamente “urbani” e raffinati, che vivono ben lontani dalle asprezze della reale esistenza contadina e pastorale e che possono dunque immaginare la natura come un’oasi di semplicità, lontana dal mondo caotico degli affari e dalle ambizioni epiche del modello eroico.
Nella finzione bucolica uomini e animali vivono in parallelo le esperienze della passione d’amore e del canto: il caprone invaghito delle capre soffre d’amore come il suo pastore per una ragazza scontrosa; cicale e grilli, usignoli e cigni si abbandonano al piacere della melodia come fanno i pastori mentre tengono d’occhio le greggi al pascolo.