I Greci in Africa
di Laura Buccino
La presenza dei Greci nell'Africa settentrionale in età arcaica, documentata dalle fonti letterarie antiche e dai rinvenimenti archeologici, ha modalità e caratteristiche differenti a seconda delle aree: sulla costa nord-occidentale colonizzata dai Fenici, in particolare a Cartagine, si delinea come una frequentazione commerciale, diretta o tramite intermediari; in Cirenaica è il risultato di una fondazione coloniale a vocazione agricola; in Egitto lo stanziamento dei mercenari greci al servizio dei faraoni della XXVI Dinastia comportò l'arrivo di mercanti e la nascita del prospero emporio di Naukratis.
M. Gras ha sostenuto in più contributi l'esistenza di una frequentazione commerciale euboica in epoca arcaica lungo le coste dell'Africa nord-occidentale, sulla base di suggestivi indizi toponomastici tramandati dalle fonti antiche. Il fenomeno è collocabile nell'VIII sec. a.C., il periodo di massima circolazione degli Euboici nel Mediterraneo, sia in Oriente sia in Occidente, quando fondarono anche le colonie nell'Italia meridionale e in Sicilia. I Greci si inserirono in una rete di rotte e traffici che condividevano con i mercanti orientali. L'esistenza di relazioni commerciali degli Euboici con il Vicino Oriente sin dall'XI sec. a.C. è messa in luce dai rinvenimenti di Lefkandì in Eubea e della costa siro-palestinese. Tra i partners mercantili si segnalavano per l'intraprendenza e l'ampiezza della rete di traffici i Fenici, che dal IX sec. a.C. sotto l'egemonia di Tiro si mossero verso Occidente dando vita a numerosi insediamenti con la funzione di scali commerciali.
Un passo del Periplo dello Pseudo-Scilace (111), descrivendo la costa della Tunisia da Utica verso ovest, menziona nomi di luoghi che ritornano nel mondo euboico: le isole Naxikài, molte Pithekousai con il loro porto e di fronte un'isola con una città di nome Euboia (νῆσοι Ναξιϰαὶ πολλαὶ Πιθηϰοῦσαι ϰαὶ λιμήν ϰαὶ ἐναντίον αὐτῶν ϰαὶ νῆσοϚ ϰαὶ πόλιϚ ἐν τῇ νῆσῳ Εὔβοια). L'esistenza in Nord Africa del toponimo Pithekoussai è documentata anche dal racconto di Diodoro Siculo (XX, 58, 2) della campagna di Agatocle, re di Siracusa, in Africa: il generale Eumaco, inoltrandosi nell'interno della Libia, dopo aver superato un'alta montagna che si estendeva per 200 stadi "raggiunse una regione che aveva una gran quantità di scimmie e tre città di nome Pithekoussai, dal nome di questi animali, tradotto in lingua greca".
Altre fonti antiche arricchiscono la documentazione della frequentazione euboica sulla costa nordafricana: un frammento di Ecateo di Mileto (FGrHist, I, F343), riportato da Stefano di Bisanzio (s.v. Kybos), riferisce di una città degli Ioni di nome Kybos che si trova nella Libia dei Fenici, vicino a Biserta, l'antica Hippou Akra (lat. Hippo Diarrhytus). L'origine del nome di questa città, che evoca quello dei celebri cavalieri euboici, gli Hippobotai, potrebbe ricollegarsi alla notizia di Solino (XXVIII), secondo la quale i due centri chiamati Hippo (Diarrhytus e Regius) sarebbero stati fondati da cavalieri greci. In un'altra glossa di Stefano di Bisanzio si trova menzione di un "golfo pithecusano" (Pithekòn kolpos), che potrebbe essere identificato con il golfo di Tabarka, opposto al Golfo di Cartagine (Libykòs kolpos). Le conoscenze acquisite dagli Euboici nel corso della loro espansione commerciale determinarono la codificazione della geografia dell'Odissea con l'ambientazione di alcune delle avventure di Ulisse in Africa (il monte del Ciclope, l'isola di Calipso presso Gibilterra, il paese dei Lotofagi sulla costa libica fra Bengasi e Cartagine), così come la trasposizione in Libia del mito degli Argonauti, secondo la versione tramandata da Esiodo (fr. 150).
Il movimento degli Euboici nel Mediterraneo dovette spingersi fino all'estremo Occidente: secondo una notizia di Aristotele riportata da Eliano (Var. hist., V, 3), confermata anche da un frammento di Parthenios (fr. 31 Meineke), le Colonne d'Ercole portavano in precedenza il nome di Briareo, che è da identificare con un gigante o un eroe oggetto di culto in area euboica, a Calcide e a Karystos. Da questa notizia è stato dedotto che gli Euboici conoscevano lo Stretto di Gibilterra, benché di questa frequentazione non rimanesse memoria in età classica, dopo che Cartagine aveva esteso la propria egemonia economica e territoriale nel Mediterraneo occidentale. Non a caso nel racconto dell'avventura di Kolaios di Samo Erodoto lo definisce "scopritore" delle rotte atlantiche, Fenici a parte: "... (I Sami)... attraversate le Colonne d'Eracle, giunsero a Tartessos come scortati da un dio. Allora questo emporio non era toccato (akeraton)..." (IV, 152, 2-3).
L'esistenza di una rotta euboica verso la Spagna meridionale è stata messa in relazione con i toponimi di origine greca che il Periplo dello Pseudo-Scilace (112) elenca sulla costa atlantica del Marocco, per chi naviga oltre le Colonne d'Ercole: "῾Εϱμαία ἄϰϱα... Ποντιὼν τόποϚ ϰαὶ πόλιϚ" (il capo di Hermes e la città di Pontion). Le rotte euboiche dirette a Occidente dovevano sovrapporsi a quelle fenicie, che si sdoppiavano all'altezza di Capo Malea nel Peloponneso in direzione della Sicilia e dell'Italia da una parte e verso Creta e la costa nordafricana dall'altra. Rinvenimenti di ceramica greca arcaica, benché piuttosto sporadici, sono documentati in alcuni siti della costa atlantica del Marocco, verosimilmente per il tramite di vettori fenici: nell'isola di Mogador, oggi Essaouira (frammenti di anfore greco-orientali, di anfore attiche SOS e à la brosse, piatti di Grey Ware eolici del VII-VI sec. a.C., rinvenuti in associazione con materiale fenicio), a Cotté (frammenti di ceramica laconica e attica a figure nere del VI-V sec. a.C.), nella regione di Tangeri (frammento di anfora attica arcaica) e a Lixus (frammenti di vasi attici a figure nere e a figure rosse, databili dal 530-520 al IV sec. a.C.).
La ceramica greca rinvenuta a Cartagine - I rinvenimenti di ceramica greca arcaica effettuati nel corso degli scavi stratigrafici e dei sondaggi condotti negli ultimi anni nei livelli più antichi dell'abitato di Cartagine dall'Istituto Archeologico Germanico di Roma, sotto la direzione di F. Rakob, e dall'Istituto di Archeologia dell'Università di Amburgo, sotto la direzione di H.G. Niemeyer, hanno contribuito al rialzamento della cronologia della fondazione della città, che si avvicina alla data tradizionale tramandata dalle fonti (814/3 a.C. secondo Timeo). Le indagini recenti hanno infatti dimostrato che la colonia fenicia era un centro urbano ben organizzato già tra il 775 e il 750 a.C. La ceramica greca più antica proveniente dall'abitato arcaico di Cartagine è costituita da frammenti di produzione euboica del tardo Geometrico. Fino a oggi è noto un unico reperto di età micenea, una brocca con imboccatura a staffa databile probabilmente al XIII sec. a.C. (Miceneo IIIB). L'esemplare, intatto, proviene da un giardino ed è conservato attualmente al Museo di Cartagine. È stato ipotizzato che questo rinvenimento isolato sia da attribuire a una deviazione sulla costa di Cartagine dalle rotte abituali che dall'Egeo conducevano verso i centri metalliferi della Sardegna o dell'Europa occidentale.
Il frammento di ceramica greca più antico finora rinvenuto a Cartagine appartiene a una coppa euboica a un'ansa ascrivibile alla classe V di Lefkandì, interpretata come una variante locale di un tipo largamente diffuso nel periodo subgeometrico (900-750 a.C.). Nella prima metà dell'VIII sec. a.C. sono databili, oltre a frammenti di anfore di provenienza iberica e coppe fenicie, anche due frammenti di una forma chiusa (anfora?) con decorazione geometrica (cerchi concentrici e bande orizzontali), di probabile produzione euboica. Tra i reperti più arcaici emersi dagli scavi dell'Università di Amburgo si segnala un frammento di parete di un bacino geometrico-cicladico. La maggior parte dei rinvenimenti di ceramica euboica risale alla seconda metà dell'VIII sec. a.C. Le importazioni documentate a Cartagine si inquadrano nel fenomeno della cospicua presenza di materiale euboico in questo periodo in tutto il Mediterraneo occidentale, fenomeno che appare legato a una notevole mobilità non solo di merci, ma anche di uomini, mercanti e artigiani greci, accolti nelle colonie e negli emporia fenici e viceversa.
Gli scavi dell'Istituto Archeologico Germanico hanno portato in luce sinora una trentina di frammenti di skyphoi tardogeometrici decorati a metope con uccelli e motivi geometrici originari dell'Eubea, ai quali vanno aggiunti quelli rinvenuti dall'Università di Amburgo sempre nell'abitato arcaico. La diffusione di questa tipologia dimostra l'ampiezza dell'espansione commerciale euboica, fino a Huelva, nel Sud della Penisola Iberica, dove è stato rinvenuto un esemplare decorato con uccelli. Tra i prodotti di origine euboica sono annoverabili anche una coppa con corto labbro svasato dell'inizio del tardo Geometrico e il frammento di un'anfora probabilmente da Lefkandì (VII sec. a.C.). È possibile che fossero i Fenici stessi, i quali intrattenevano un commercio fiorente con l'Eubea e con l'Italia meridionale, a portare gli skyphoi euboici a Cartagine, nel corso dei loro traffici sulle rotte occidentali. Come ipotesi alternativa, si può pensare che giungessero per il tramite di Pithecusa, se non direttamente dalla Grecia.
I materiali archeologici rinvenuti nell'abitato arcaico di Cartagine attestano infatti l'esistenza di intensi rapporti commerciali con l'emporio euboico di Ischia nella seconda metà dell'VIII sec. a.C. Sono stati riconosciuti di fabbrica pithecusana numerosi frammenti pertinenti a imitazioni di modelli protocorinzi (kotylai del tipo Aetòs 666 e coppe di tipo Thapsos) e di skyphoi euboici e a forme chiuse, come oinochoai di una tipologia particolare, decorata a bande orizzontali e unite a formare una S, imitante prototipi corinzi. Un frammento di orlo pertinente a uno skyphos o a una kotyle di origine pithecusana è stato rinvenuto anche a Utica negli scavi di F. Chelbi. L'insediamento euboico doveva essere caratterizzato in questo periodo da notevole vivacità commerciale e apertura a influssi esterni. Il rinvenimento di oggetti orientali in alcune tombe della necropoli di San Montano a Lacco Ameno ha fatto supporre, del resto, che un gruppo di gente di origine orientale, tra cui Fenici, fosse inserito all'interno della comunità greca stabilitasi in Italia.
Al clima di pacifica convivenza e proficua cooperazione tra Fenici e Greci dovette sostituirsi nel tempo una crescente rivalità mercantile, parallelamente all'ampliarsi del fenomeno della colonizzazione greca. Il carattere internazionale dell'emporio euboico è testimoniato tra l'altro dal rinvenimento di anfore da trasporto fenicie e fenicio-occidentali. I prodotti portati dai Fenici venivano smistati da Pithecusa verso sud, nell'area campana, e a nord, nel Lazio e in Etruria. La proiezione dell'interesse commerciale di Cartagine verso il Tirreno e l'area centrale della penisola italica tra la metà dell'VIII e la metà del VII sec. a.C. trova una conferma nel rinvenimento nella città punica di numerose anfore da trasporto provenienti dall'Italia centrale. I contatti con Pithecusa sono documentati ancora all'inizio del VII secolo, anche se con intensità non paragonabile a quelli intercorrenti nell'VIII sec. a.C.
I recenti scavi archeologici attestano la presenza a Cartagine anche di anfore da trasporto di produzione greco-orientale (samie) dalla metà dell'VIII sec. a.C. Si è ipotizzato che queste anfore contenessero olio di oliva, come quelle corinzie e le attiche del tipo SOS importate nello stesso arco di tempo (760-645 a.C. ca.). Come per i prodotti euboici coevi, si tende a ritenere che l'olio greco contenuto in queste anfore giungesse a Cartagine tramite i traffici dei Fenici. A questo proposito è stato chiamato in causa un passo del De mirabilibus auscultationibus dello Pseudo-Aristotele (135) che menziona l'olio di oliva tra le merci commerciate dai Fenici diretti a Tartessos.
I rinvenimenti dall'abitato vanno ad aggiungersi ai materiali recuperati in passato nelle necropoli arcaiche di Cartagine (come lo skyphos à chevrons da una tomba della necropoli sulla collina di Giunone, accostabile a esemplari di fabbricazione cicladica, secondo A.M. Bisi Ingrassia) e nel livello più antico del tofet, cosiddetto Tanit I, dove P. Cintas rinvenne due depositi di ceramica in anfratti della roccia (cd. Chapelle Cintas e cd. "deposito di fondazione", oggi a Cartagine, Musée National de Carthage). I vasi appartenenti a questi complessi, databili tra il 770-760 e il 690-680 a.C., sono ritenuti dalla critica recente prodotti locali, che imitano forme e motivi decorativi diffusi nel Mediterraneo dalla metà dell'VIII al primo VII sec. a.C., rielaborando elementi appartenenti alla tradizione fenicia e cipro-levantina, ma anche modelli tardogeometrici di origine greca (imitazioni locali di kotylai del tipo Aetòs 666). Ch. Briese, in una revisione recente dei complessi ceramici, vi ha riconosciuto un'influenza preponderante di elementi ciprioti, corinzi e italo-geometrici, giudicando sopravvalutato il ruolo di mediazione che gli studi precedenti hanno attribuito agli Euboici.
Le importazioni di ceramica corinzia a Cartagine, attestate sin dall'ultimo terzo dell'VIII sec. a.C. (aryballoi globulari protocorinzi dal tofet e dalla necropoli), tendono a prevalere nel VII e nel VI sec. a.C., quando si diffondono in tutto il Mediterraneo. Frammenti di vasi databili dal Protocorinzio al Corinzio tardo (kotylai, skyphoi, coppe, aryballoi, alabastra, oinochoai e anfore da trasporto di tipo A e B) sono stati rinvenuti nell'abitato e in numero maggiore nelle necropoli arcaiche, dove erano già emersi nel corso degli scavi francesi. Dal momento che la quantità di ceramica corinzia non appare molto rilevante soprattutto se confrontata con quella delle importazioni greche dell'VIII sec. a.C., si ritiene probabile che raggiungesse Cartagine attraverso la mediazione delle colonie greche in Sicilia. Lo stesso tramite è stato ipotizzato per la ceramica greco-orientale attestata dalla metà del VII sec. a.C.: anfore chiote e clazomenie, destinate al trasporto del vino, e ceramica fine rappresentata dai frammenti rinvenuti di coppe ioniche, di aryballoi e delle oinochoai di Grey Ware eolica (VII-VI sec. a.C.), che compaiono in quantità molto maggiori nelle poleis siceliote.
Le importazioni attiche prendono avvio intorno alla metà del VII sec. a.C. con le anfore del tipo SOS, che avevano un ampio raggio di diffusione, e à la brosse, ma rimangono di entità modesta sino al V sec. a.C. Alla fine del VI sec. a.C. risalgono alcuni frammenti di vasi a figure nere. I rinvenimenti divengono più numerosi alla fine del V e soprattutto nella prima metà del IV sec. a.C. L'abitato e le necropoli hanno restituito esemplari a figure rosse, alcuni di notevole qualità, e in quantità più abbondante prodotti a vernice nera, contestualmente diffusi in tutto il Mediterraneo sud-occidentale (Sicilia, Malta, Sardegna, Spagna). Le importazioni attiche si sviluppano all'inizio del IV sec. a.C., raggiungono il culmine nel corso del secondo quarto del secolo e cominciano a declinare intorno alla metà del IV sec. a.C. L'arresto delle importazioni alla fine del primo terzo del III sec. a.C. è posto in relazione con lo scoppio della prima guerra punica.
I prodotti attici venivano utilizzati prevalentemente come ceramica fine da mensa, una categoria non realizzata localmente che era importata per sé stessa, senza essere accompagnata da prodotti alimentari (mancano significative attestazioni di anfore da trasporto). Il repertorio delle forme, infatti, comprende essenzialmente coppe per bere e piatti, tra cui quelli da pesce, ma anche lekanai, olpai, oinochoai, lekythoi, pissidi e unguentari. Gli ateliers attici producevano alcuni articoli espressamente per il mercato punico, come dimostra il rinvenimento nel relitto di El Sec e a Cartagine di un tipo particolare di kernos con sette kotyliskoi all'intorno, una forma non attestata nel mondo greco che rispondeva a un uso punico, ma si trova realizzata in ceramica attica a vernice nera (rimane anche la metà di un esemplare di marmo greco). Inoltre, secondo un'ipotesi corrente, la ceramica attica doveva rientrare tra le merci di varia provenienza che i mercanti punici commerciavano nel Mediterraneo occidentale.
Cartagine, all'apice della sua potenza politica e della spinta propulsiva dei traffici mercantili, dominava una vasta rete commerciale nella quale le colonie fungevano da intermediarie ed era un centro importantissimo di raccolta e redistribuzione di prodotti di varia origine. A questo riguardo viene giudicato significativo un brano del Periplo dello Pseudo-Scilace (112), che descrive il commercio fenicio lungo la costa atlantica del Marocco: i mercanti fenici approdati a Kerne (forse l'isola di Mogador?), piantato un accampamento provvisorio, trasferivano le mercanzie dal carico delle navi su piccole imbarcazioni e le vendevano agli Etiopi (cioè alle popolazioni indigene dell'interno): olio profumato, pietra egiziana, ceramica attica e boccali (ϰέϱαμον ᾿Αττιϰὸν ϰαὶ χοῦϚ), ricevendo in cambio pelli di animali esotici e spoglie di elefanti. Il passo è stato interpretato come una testimonianza del ruolo svolto dai commercianti punici come intermediari nella diffusione in Occidente della ceramica attica, quando questa aveva raggiunto Cartagine.
La notizia trova una conferma nella presenza segnalata da J.-P. Morel di graffiti commerciali greci e punici incisi dopo la cottura sul fondo esterno di vasi attici a vernice nera del IV sec. a.C., rinvenuti a Cartagine, nel relitto di El Sec e nel Sud-Est della Penisola Iberica (per i vasi a figure rosse è possibile che esistesse un circuito commerciale alternativo), mentre i rinvenimenti archeologici sono, fino a oggi, piuttosto sporadici e non quantitativamente consistenti. Ceramica attica è stata rinvenuta a Kouass (frammenti a figure rosse) e a Lixus (frammenti di vasi a figure nere e a figure rosse, crateri a campana e a colonnette, coppe, skyphoi, piatti da pesce, databili dal 530-520 al IV sec. a.C.). Nel resto del litorale dell'Africa nord-occidentale rinvenimenti di ceramica attica di V-IV sec. a.C. sono segnalati in Algeria, nella necropoli occidentale di Tipasa (frammenti a figure rosse e a vernice nera dagli scavi di S. Lancel); in Tunisia, a Kerkouane (vasi a figure rosse, a vernice nera, lucerne), ad Hadrumetum, oggi Sousse (frammenti a figure rosse), a Thapsos (oggi Ras Dimass) e a Utica (frammenti di anfore e di ceramica attica figurata e a vernice nera dagli scavi di Cintas nelle necropoli e dagli scavi e nelle prospezioni effettuate di recente nell'area del golfo da Chelbi); in Tripolitania, nella Libia occidentale, a Sabratha e a Leptis Magna, in quantità considerevoli.
In concomitanza con lo sviluppo delle importazioni di ceramica attica e in seguito ai rapporti con le città siceliote, alla fine del V e nel corso del IV sec. a.C. si afferma a Cartagine una temperie culturale ellenizzante, nella quale si colloca anche l'introduzione del culto greco di Demetra e Kore, dopo la disfatta subita sotto il comando di Imilcone nel 396 a.C. da Dionisio di Siracusa, secondo la narrazione di Diodoro Siculo (XIV, 77, 5). I Cartaginesi vollero propiziarsi le due dee, alle quali attribuivano lo scoppio dell'epidemia nel loro esercito, in seguito al saccheggio del loro santuario di Siracusa. L'istituzione di culti greci trova una conferma nel rinvenimento negli scavi dell'abitato di Cartagine (all'incrocio tra il decumano massimo e il cardo X) di un frammento di gocciolatoio a protome leonina, vicino a esemplari siracusani, che ha fatto dedurre l'esistenza di un tempio di tipo greco tardoclassico. Lo stesso brano di Diodoro Siculo contiene una preziosa informazione sulla presenza di Greci nella città punica, dal momento che i Cartaginesi "scelsero i più eminenti dei Greci che vivevano tra di loro e li assegnarono al servizio delle dee" (XIV, 77, 5).
L'ipotesi di una precolonizzazione greca nel territorio cirenaico è stata sostenuta da S. Stucchi e C. Parisi Presicce sulla base del rinvenimento di materiali archeologici di origine minoica e micenea lungo la costa gebelo-marmarica. La frequentazione di genti dell'Egeo dell'età del Bronzo, che doveva avere finalità essenzialmente commerciali, si colloca dal secondo venticinquennio del XIV agli inizi del XII sec. a.C. (1375-1200 a.C. ca.). I principali luoghi di provenienza dei frequentatori protogreci sono stati individuati nella vicina Creta e nell'area orientale dell'Egeo. I dati archeologici trovano un riscontro nelle fonti letterarie, che conservano memoria di questi primi contatti tra il mondo egeo e l'area libica, come si desume dalla più antica data di fondazione di Cirene, 1336 a.C. (cioè nel Minoico Tardo III), riportata nella Cronaca di Eusebio. Un'eco delle frequentazioni di età protostorica è stata vista anche nella leggenda degli Argonauti che nel viaggio di ritorno dopo l'impresa del vello d'oro, una generazione prima della guerra di Troia, approdarono in Libia, come tramanda la Pitica IV di Pindaro.
Lo stesso poeta, nella Pitica V (vv. 82-88), narra un'altra tradizione mitica, secondo la quale nell'area dove sorse la Cirene di età storica sarebbero giunti dopo la guerra di Troia i figli di Antenore con Elena, che si insediarono su un colle vicino al mare, detto in seguito "collina degli Antenoridi". Qui si sarebbe rifugiata anche Anna, dopo la partenza di Enea e la morte della sorella Didone, secondo il racconto dei Punica di Silio Italico (VIII, 57-58). I frammenti di ceramica del Bronzo Tardo connessi con strutture capannicole messi in luce dalle indagini archeologiche nell'area della Casa del Propileo, nella zona ovest dell'agorà, e i resti di un edificio sacro più antico individuati nel santuario di Apollo documentano l'esistenza di un insediamento precedente all'arrivo dei coloni dorici. Nel santuario di Apollo è stato rinvenuto anche un altare di pietra del tipo "a clessidra" di tradizione minoica. L'altare era stato deposto all'interno di una fondazione di grandi blocchi squadrati di calcare del V sec. a.C. Non sappiamo se sia stato portato a Cirene dai primi coloni per la cerimonia di fondazione o fosse già sul posto al loro arrivo.
I rinvenimenti di Cirene trovano un parallelo in quelli emersi dagli scavi americani, che a Gezirat al-Giahudi, un isolotto nella laguna di Paraitonion (oggi Marsa Matruh), in Marmarica, hanno indagato uno stanziamento stagionale di mercanti di provenienza egea e cipriota, databile al XIV-XIII sec. a.C., che ha restituito manufatti egiziani, ciprioti, cananei, egei e libici. L'insediamento serviva come punto di sosta nella navigazione da Cipro e Creta verso il Delta e la costa siro-palestinese di questi commercianti dell'Egeo, che erano in rapporto di scambio con le popolazioni locali di cultura libya. La fonte principale sulla colonizzazione di età storica è costituita, oltre che dalle odi di Pindaro (Pitiche IV, V e IX) che celebrano i re di Cirene e le origini mitiche della città, dal resoconto di Erodoto (IV, 150-158), basato su due tradizioni relative alla fondazione di Cirene, una di Thera, l'altra locale, che si differenzia per le vicende riguardanti l'ecista, il cui ruolo viene enfatizzato. Alle fonti letterarie si aggiunge il testo epigrafico del cosiddetto "giuramento dei fondatori", conservato in un decreto databile al IV sec. a.C.
Gli abitanti dell'isola di Thera, nelle Cicladi meridionali, a sua volta fondata da Sparta, dovevano aver appreso dai Cretesi, come loro di stirpe dorica, o forse dai Fenici le potenzialità della regione verso la quale si diressero nell'avanzato VII sec. a.C. La costa libica, infatti, contava alcuni possibili approdi e baie riparate da dune ed era un luogo di passaggio dei naviganti fenici (ma anche dei Greci, i cui itinerari andavano a sovrapporsi a quelli fenici) nella rotta che dal Mediterraneo orientale, dopo aver toccato Cipro, Rodi e Creta, si dirigeva verso Cartagine e l'Occidente iberico e nel percorso di ritorno, più lineare, che si svolgeva lungo le coste dell'Africa settentrionale. I cittadini di Thera e il loro ecista Batto (Aristotele secondo altre fonti) intorno al 640 a.C. si mossero alla ricerca di terre da coltivare, organizzati in due penteconteri (Hdt., IV, 153; 156, 1). La spedizione navale fu decisa in seguito a un responso dell'oracolo di Delfi, che condizionò il movimento coloniale greco anche nell'Italia meridionale e in Sicilia (Hdt., IV, 150, 3-151, 2). Apollo divenne infatti il dio poliade di Cirene e nel giuramento dei fondatori porta l'epiteto di "archegheta".
La tradizione raccolta nelle fonti letterarie enfatizzava l'origine dei coloni da Thera, probabilmente al fine di mostrare la coesione e l'identità della polis, ma non mancano riferimenti alla partecipazione all'impresa di elementi di altra provenienza: un gruppo di Rodi di Lindos, Chionis di Sparta e un certo Eufemo. Del resto nelle spedizioni coloniali arcaiche era usuale che al nucleo di cittadini della madrepatria, guidati dall'ecista, si unissero gruppi o singoli individui di altre regioni della Grecia. È possibile che anche elementi cretesi abbiano partecipato alla fondazione di Cirene. La costa libica era facilmente raggiungibile da Creta, che rappresentava una tappa obbligata nei collegamenti tra l'area greca e la Libia e viceversa. La funzione fondamentale di Creta come scalo intermedio emerge anche dal racconto che Ulisse travestito da mendico fa a Eumeo del viaggio dall'Egitto verso la Libia al seguito di un Fenicio, durante il quale fu colto da una tempesta dopo aver superato Creta (Od., XIV, 295-301).
Tradizioni mitiche mettevano in evidenza l'interesse di Creta nei confronti dell'area libica e l'ecista Batto era legato a Creta per via delle origini della madre Fronime (nella versione cirenea della fondazione in Hdt., IV, 154-155). Per questi vari motivi, non è un caso che secondo il racconto di Erodoto gli abitanti di Thera, che non avevano idea di dove si trovasse la Libia, indicata loro dalla Pizia come meta della spedizione coloniale, mandarono messi a Creta "a chiedere se qualcuno dei Cretesi o dei meteci fosse arrivato in Libia". Trovarono come guida un uomo di Itanos, nella Creta orientale, di nome Korobios, che in passato aveva già raggiunto la costa nordafricana, spinto dai venti (Hdt., IV, 151-152). L'attività di Korobios come porphyreus, mercante o pescatore di porpora, una merce tipicamente fenicia, si inquadra nella condivisione delle rotte marittime e nella cooperazione commerciale tra Greci e Fenici tipica della prima età arcaica. Si rivela interessante, a questo riguardo, il passo contenuto nel celebre racconto di Ulisse, già citato in precedenza, che riferisce dell'associazione di un Fenicio con un Cretese per compiere un viaggio in Libia a scopi commerciali (Od., XIV, 290-298: "... [il Fenicio] per la Libia mi fece imbarcare su nave marina, tessendo inganni, che il carico portassi con lui; ma per vendermi là, far guadagno infinito..."). I Fenici erano utilizzati abitualmente come vettori per viaggi in mare nell'area vicino-orientale, come testimonia il racconto egiziano del viaggio di Unamon con il comandante fenicio Mengebet verso le coste siro-palestinesi, alla ricerca del legno necessario per la costruzione della barca del dio Amon.
È stato ipotizzato che anche un gruppo di Spartani abbia preso parte alla fondazione di Cirene insieme ai cittadini di Thera. Pausania (III, 14, 3), infatti, riferisce della partecipazione alla spedizione di Batto dello spartano Chionis, che "lo aiutò a fondare Cirene e a sottomettere i Libyi limitrofi". Non sappiamo se Sparta, madrepatria di Thera, inviò un co-fondatore o se alcuni cittadini lacedemoni abbiano deciso individualmente di prendere parte all'impresa; in ogni caso l'ipotesi di una precoce presenza di elementi spartani troverebbe una conferma nella notevole quantità di ceramica laconica rinvenuta a Cirene e a Tocra. Lo stretto legame esistente tra Sparta e la colonia libica, per la comunanza di stirpe e gli intensi rapporti commerciali, è illustrato, inoltre, dalle frequenti raffigurazioni di temi di argomento cireneo da parte di ceramografi laconici: l'esempio più noto è costituito dalla cosiddetta Coppa di Arcesilao, che raffigura il re di Cirene che assiste alla pesatura del silfio o della lana (560 a.C. ca.).
I coloni greci si avvicinarono al sito della colonia per tappe successive: inizialmente raggiunsero grazie a Korobios l'isola di Platea, nel Golfo di Bomba, che rappresentava un'importante stazione commerciale tra la Grecia e la costa libica antistante. Qui abbandonarono la guida cretese, che fu soccorsa dai Sami che navigavano con Kolaios (Hdt., IV, 151, 3-152, 1). Dopo due anni, in seguito a un ulteriore responso dell'oracolo delfico, si insediarono per sei anni (dal 637 al 632 a.C.) ad Aziris, sulla costa libica di fronte a Platea (Hdt., II, 157, 3), e nel settimo fondarono Cirene nell'interno, verso occidente (Hdt., II, 158). I materiali ceramici rinvenuti nel sito di Aziris, individuato dagli archeologi a Wadi el-Khalig, hanno confermato la data tradizionale di fondazione di Cirene (631 a.C., la data più bassa delle tre riportate nella Cronaca di Eusebio).
I coloni si stabilirono su un altopiano distante circa 10 km dalla costa, che era articolato in due colline (meridionale, dove sorse l'acropoli, e settentrionale) divise da una stretta lingua pianeggiante. Il sito scelto offriva requisiti favorevoli per l'impianto di una colonia a vocazione agricola: una difesa naturale garantita dai corsi di acqua che fiancheggiavano l'altopiano, che a est confluiva nel gebel (in arabo "montagna"), il plateau calcareo che separava la costa rocciosa dal deserto; una piana fertile nell'entroterra; un clima mite; l'abbondanza di precipitazioni e la disponibilità di acqua, tanto importante in una regione così arida, grazie alla presenza di una fonte (detta "di Apollo") e di corsi d'acqua periodici (widyān). La colonia era legata alla madrepatria Thera, e tramite questa a Sparta, dalla comunanza di istituzioni civili, culti e ordinamenti sociali. Il fondatore Batto divenne il primo re e capostipite della dinastia dei Battiadi (631-440 a.C. ca.). Come altri ecisti fu eroizzato e fatto oggetto di culto. Le celebrazioni annuali che si svolgevano presso la sua tomba costruita nell'agorà intorno al 600 a.C. commemoravano le tradizioni sulla fondazione di Cirene e contribuivano all'acquisizione di un'identità politica da parte dei cittadini.
Il territorio di Cirene, delimitato a est e a sud dal deserto e aperto a nord sul mare, era costituito da un vasto altopiano digradante verso la costa e distinto in tre fasce pianeggianti adatte all'agricoltura: la stretta fascia costiera detta Sahel, la pianura di mezzo e quella che si alza progressivamente fino al gebel, a sua volta articolata in terrazze minori. I primi coloni, giunti inizialmente in numero ristretto (un centinaio secondo il racconto di Erodoto), occuparono un territorio molto più vasto delle loro necessità, a fini strategici e in previsione della crescita della comunità. La dislocazione dei santuari periurbani e quella delle necropoli arcaiche, che cingono ad anello il centro urbano, indicano i limiti della chora originaria di Cirene, dove le indagini recenti hanno individuato numerosi villaggi e insediamenti rurali, santuari e percorsi stradali. L'economia della colonia era basata sulla produzione dei cereali, dell'olio e del silfio, una pianta locale sfruttata a fini alimentari e medicinali, e sull'allevamento di cavalli. La commercializzazione dei suoi prodotti rese Cirene in breve tempo una delle città più prospere del Mediterraneo.
L'istituzione dei luoghi di culto fuori dei confini della polis serviva a marcare la presa di possesso del territorio e a porlo sotto la protezione delle divinità e permetteva anche l'incontro tra la popolazione greca e quella indigena, favorendone l'ellenizzazione. I Greci, infatti, si insediarono in un territorio abitato da tempo dai Libyi. Erodoto (IV, 168-199) ci ha lasciato un'interessante e vivace descrizione etnografica delle varie tribù nomadi in cui era articolata la popolazione autoctona. Secondo quanto afferma Erodoto, i rapporti con i Libyi furono inizialmente pacifici, mentre altre fonti (Diodoro Siculo, Pausania) accennano a scontri con gli indigeni al momento dell'arrivo dei coloni. Probabilmente queste discordanze riflettono le reazioni delle diverse tribù nei confronti dei Greci. Il territorio dove fu fondata Cirene apparteneva agli Asbisti, che furono sospinti più a sud. Questa e altre tribù locali riconobbero la sovranità dei re battiadi ed entrarono in contatto con la cultura greca, anche tramite la pratica dei matrimoni misti.
I coloni dovettero accordarsi sin dai primi tempi con i Libyi per lo sfruttamento del silfio, prevedendo una distinzione delle competenze: gli indigeni si occupavano della raccolta e della lavorazione della preziosa pianta, mentre il suo commercio era gestito dai re di Cirene in regime di monopolio. Lo sviluppo della coltivazione nella prima metà del VI sec. a.C. è attestato dalla comparsa del silfio sulle più antiche coniazioni monetali di Cirene, nel 560 a.C. Tracce della presenza delle popolazioni indigene nel territorio controllato dalla città greca sono desumibili da rilievi votivi con divinità pastorali locali, da stele funerarie e iscrizioni onomastiche. Le indagini archeologiche hanno dimostrato che entro la prima generazione (625-600 a.C.) Cirene fondò subcolonie nel territorio circostante, al fine di assicurarsi uno sbocco diretto al mare e di consolidare il possesso della fertile piana costiera: Apollonia, il porto di Cirene, Tolemaide, Tocra ed Euesperides (Bengasi), situate a ovest di Cirene, con la quale costituirono la Pentapoli. La presenza di Cartagine e il suo controllo territoriale in Nord Africa furono di ostacolo per un'ulteriore espansione dei Greci stanziati in Libia.
La precocità delle fondazioni di Cirene è attestata dai rinvenimenti ceramici, che mostrano questi centri funzionanti nel primo quarto del VI sec. a.C. Lo studio dei ricchi depositi votivi di età arcaica rinvenuti nel santuario di Demetra a Cirene e a Tocra (fine VII - fine VI sec. a.C.) e in particolare l'analisi delle importazioni ceramiche hanno permesso di ottenere informazioni preziose sui rapporti commerciali intercorrenti tra le colonie libiche e le città della Grecia. I legami con Creta trovano una conferma nella presenza di ceramica di origine cretese, oltre a quella proveniente da Corinto, dalla Grecia orientale, da Atene e da Sparta. Le importazioni corinzie, inizialmente prevalenti, tendono a diminuire a favore di quelle attiche nel corso del VI sec. a.C., con la prima produzione a figure nere, secondo un modello diffuso nei traffici mediterranei, così come la presenza di ceramica chiota diminuisce parallelamente all'aumentare di quella laconica.
L'ampia attestazione di produzioni greco-orientali e cicladiche, in particolare da Milo, Chio, Samo e Rodi, riscontrabile tra il 590 e il 565 a.C. ha fatto dedurre che in questo arco di tempo giungesse a Cirene un gruppo di coloni di provenienza rodia, che secondo M. Guarducci ha influenzato anche una delle redazioni arcaiche dell'alfabeto di Cirene. L'osservazione trova un riscontro nella narrazione di Erodoto (IV, 159, 2-3): al tempo del terzo re di Cirene, Batto II (590/580-570 a.C. ca.), in seguito a un responso dell'oracolo di Delfi ci fu una seconda ondata di coloni invitati dagli abitanti di Cirene con la prospettiva di una nuova divisione del territorio coltivabile (gès anadasmòs). La Pizia si rivolgeva a tutti i Greci e l'arrivo di coloni di varia provenienza è confermata dalla riforma di Demonatte, il mediatore di Mantinea inviato dall'oracolo delfico alla metà del VI sec. a.C. per risolvere una crisi interna, che divise i cittadini di Cirene in tre gruppi: Therei e perieci, Peloponnesiaci e Cretesi, Greci delle isole.
L'acquisizione di altre terre per le assegnazioni ai nuovi arrivati portò a conflitti con le popolazioni indigene che abitavano nei dintorni della città (perioikoi). Per far fronte all'espansione greca, infatti, il re di questi Libyi, Adricane, invocò l'aiuto del faraone Apries. Cirene uscì vittoriosa dallo scontro con l'esercito egiziano (in cui militavano anche omoethnòn, compatrioti, cioè mercenari greci) e gli alleati libyi avvenuto presso Irasa, sull'altopiano orientale, che fonti egiziane datano nel 570 a.C. (Hdt., II, 161, 4; Diod. Sic., LXVIII, 2). Alla vittoria fece seguito l'alleanza matrimoniale con il nuovo faraone Amasis, che sposò Ladice, figlia del re o di un illustre cittadino di Cirene (Hdt., II, 181). La battaglia è forse raffigurata su una lastra d'oro rinvenuta da L. Pernier nel tempio di Artemide a Cirene (White 2001). Sotto Arcesilao II, invece, Cirene fu gravemente sconfitta dai Libyi nella battaglia di Leucon, nella Libia orientale. La crisi dinastica seguita alla morte di Batto II portò i fratelli del nuovo sovrano Arcesilao II alla fondazione di una subcolonia in territorio indigeno, Barce, nel fertile altopiano a ovest di Cirene, poco prima della metà del VI sec. a.C. (Hdt., IV, 160).
L'oasi di Siwa, dove si trovava il celebre oracolo di Zeus Ammon consultato tra gli altri da Alessandro Magno nel 331 a.C., è situata al limite meridionale della Marmarica. È la più settentrionale delle grandi oasi del Deserto Occidentale egiziano (Kharga, Dakhla, Farafra e Bahriya). Nell'antichità la strada principale che permetteva di raggiungerla dalla costa partiva dall'approdo di Paraitonion. L'oasi si trova in una depressione dell'altopiano desertico e si estende oggi per 750 km2. Le palme, i laghi e le numerose fonti di acqua caratterizzano il paesaggio, articolato in tre alture (Giabal al-Mawta, Agurmi e S̆ali). Sembra che l'oasi sia stata colonizzata dagli Egiziani al tempo dei re kushiti della XXV Dinastia (Hdt., II, 42, 4: "... gli Ammoni, che sono coloni di Egiziani e di Etiopi e usano una lingua che è a metà tra le due"), mentre per l'attestazione del culto i materiali archeologici rimandano alla dinastia successiva. Gli abitanti, che risiedevano in villaggi, utilizzarono l'altura denominata Giabal al-Mawta come necropoli e impiantarono il loro centro politico e religioso sull'acropoli, identificata con la collina di Agurmi.
Erodoto (III, 26) accenna brevemente a un'altra oasi, probabilmente quella di Kharga, dove intorno al 525 a.C. si insediò un gruppo di Sami, presumibilmente ex-mercenari, che la ribattezzarono Isola dei Beati. All'origine del culto di Siwa c'era un antichissimo dio-ariete sahariano, protettore degli uomini e delle greggi, dispensatore di pioggia e di fertilità, apportatore di prosperità (e felicità ultraterrena con valenze ctonie) e simbolo del Sole, che fu assimilato al dio egiziano Amon-Ra. Le fonti tramandano numerosi miti sulla nascita del culto, considerato una fondazione di Tebe, sede del culto di Amon (Hdt., II, 54-55; Diod. Sic., III, 73 ss.), e descrivono l'aspetto del celebre santuario oracolare, del quale oggi rimangono pochi resti, obliterati da strutture medievali e moderne (Diod. Sic., XVII, 50; Curt., IV, 7, 20-21). L'acropoli era costituita da tre complessi architettonici distinti, ciascuno dei quali era circondato da un proprio muro di recinzione, che gli archeologi hanno cercato di localizzare sul plateau della collina di Agurmi: il palazzo del re, il tempio oracolare e la fonte sacra, nella parte occidentale, il quartiere per la famiglia reale e per i sorveglianti del gineceo e infine le caserme del corpo di guardia, nella metà orientale. L'ingresso si trovava presumibilmente a sud, in asse con il tempio di Umm Ubayda.
La distribuzione degli edifici e la loro articolazione interna erano condizionate dalla configurazione orografica dell'altura, percorsa da una profonda spaccatura longitudinale. Il tempio, costruito in muratura pseudoisodoma, si trovava nella parte nord dell'acropoli. Rimaneva inaccessibile alla gente comune, eccetto nei periodi in cui non era in attività. La pianta, di forma irregolare, presentava un grande cortile all'ingresso, seguito da una sala con una porta sul lato occidentale, da cui si doveva accedere alla residenza reale contigua. La fronte è costituita da un muro sporgente nella parte inferiore, delimitato in alto da una modanatura semplice e con una grossa porta al centro, sul quale poggiano due tozze colonne protodoriche. Due pilastri all'interno dovevano reggere la copertura lignea, necessaria per proteggere dal bagliore del deserto. A questa stanza ne seguiva un'altra simile, sul fondo della quale tre aperture conducevano in altrettanti ambienti. La piccola stanza rettangolare al centro era il cuore del santuario. È stato ipotizzato che sopra al tetto ligneo, sorretto dalla cornice di pietra che percorre i muri lunghi, ci fosse un'altra stanza, dalla quale i sacerdoti potevano ascoltare le domande poste all'oracolo. La camera rettangolare più grande, a ovest di quella centrale, è stata interpretata come il luogo dove veniva proclamato il responso oracolare. Al centro è stato rinvenuto un grosso blocco, che faceva da contrappeso per fronteggiare l'erosione della collina.
La terza apertura, a est, conduceva invece in uno stretto corridoio, la cosiddetta "sagrestia", con nicchie nelle pareti. Da questo passaggio si accedeva a un ulteriore corridoio a L scoperto, che terminava dietro la stanza principale con un pozzo, tramite il quale si giungeva a una camera segreta ricavata nella roccia sotto al tempio, dove è stato ipotizzato che venisse redatto il testo scritto dell'oracolo. Il tempio è datato intorno al 570 a.C. sulla base del rinvenimento di un cartiglio del faraone Amasis nella stanza principale, mentre una lettura alternativa lo pone al tempo del faraone Achoris (393-380 a.C.). La costruzione dell'edificio è attribuita sulla base dei caratteri architettonici non egizi a maestranze greche di Cirene. La consultazione più antica dell'oracolo da parte di un personaggio illustre di cui abbiamo notizia è quella di Creso re di Lidia, che inviò ambasciatori a Siwa nel 549 a.C. Sono documentate due differenti procedure oracolari: nel cosiddetto "oracolo regale" solo il sovrano poteva rivolgersi direttamente al dio, la risposta veniva scritta e proclamata dal sacerdote principale; l'"oracolo pubblico", invece, prevedeva una processione sacra, nella quale il simulacro del dio ricoperto di smeraldi e altre pietre preziose veniva portato sopra una barca sorretta da sacerdoti. I devoti ponevano in terra due fogli su cui era scritto "sì", "no" o formule alternative di responsi e il verdetto dipendeva dal lato verso il quale si piegava la barca.
Il tempio che porta oggi il nome di Umm Ubayda, sorto nelle vicinanze del santuario oracolare, è stato interpretato come la meta delle processioni sacre svolte lungo il dromos, che le recenti indagini tedesche hanno cercato di mettere in luce. I resti di questo tempio, ancora imponenti agli inizi del XIX secolo, sono oggi quasi del tutto distrutti. L'edificio è orientato a nord, verso il santuario oracolare, con cui doveva formare un complesso unitario. Il tempio, di pianta rettangolare, è diviso da muri interni in vari ambienti e preceduto da un portico con colonne decorate a fiori di loto. La forma, i materiali costruttivi, la tecnica e soprattutto la decorazione della cella e del portale di ingresso con numerosi rilievi e geroglifici che celebrano il re locale fanno propendere per un'origine egizia dell'edificio. Rimane incerto se il cartiglio di Nectanebo II (360-342 a.C.) rinvenuto nella sala di ingresso si riferisca all'edificazione dell'intero tempio o solo alla costruzione o alla decorazione di questo ambiente. Nel tempio è attestato il culto del dio Amon-Ra dalle corna di ariete e, in tempi più recenti, quello di Bes.
Gli autori antichi soffermano la loro attenzione su una delle fonti del santuario, la cosiddetta "fonte del Sole" (oggi Ain al-Giubba, a sud dell'acropoli), della quale descrivono il particolare andamento della temperatura dell'acqua: di giorno diventava sempre più fredda, da mezzogiorno iniziava a riscaldarsi per raggiungere il picco a mezzanotte e ricominciare il processo di raffreddamento (Hdt., IV, 181, 3-4; Diod. Sic., XVII, 50, 4-5; Curt., IV, 7, 22; Arr., III, 4, 2; Lucr., VI, 841 ss.; Ov., Met., XV, 309-10; Mela, I, 39; Plin., Nat. hist., II, 228; V, 7, 31). Il fenomeno non è più osservabile oggi e non sappiamo se sia effettivamente esistito, forse a causa di vapori, o se si tratti di una leggenda. La fonte doveva servire all'irrigazione dell'area del tempio, ma è possibile che avesse anche un ruolo importante nell'ambito del culto oracolare.
L'importanza del culto di Ammon nelle città greche della Cirenaica si evince dall'affermazione del matematico Teodoro nella Politica di Platone (257b), secondo cui "Ammon era il dio dei Libyi" (Zeus Ammon è una denominazione moderna). Questo dio libyo-egiziano adorato a Siwa dovette giungere presto a Cirene lungo la via carovaniera che attraversava le oasi del Deserto Occidentale. I coloni lo assimilarono allo Zeus dei Greci e crearono la specifica iconografia del dio. La testa del dio Ammon con le corna di ariete e la folta barba è raffigurata dal VI sec. a.C. sul rovescio delle monete di Cirene, che al dritto recano la raffigurazione del silfio (mentre a partire dal 375 a.C. compare la figura intera del dio con il suo animale). A Cirene il culto è testimoniato anche dalle fonti letterarie ed epigrafiche e da rilievi votivi e sculture a tutto tondo, che raffigurano il dio. In Libia il culto si diffonde da Siwa a Tocra, Barce, Antipyrgos e ad Augila, sia nelle poleis sia nella loro chora, dove era venerato anche dalle popolazioni indigene come divinità protettrice delle greggi, dispensatrice di acqua e fertilità, ma anche legata a elementi ctoni e mantici. La fama dell'oracolo contribuì al rapido successo del dio attraverso la mediazione di Cirene in tutto il mondo greco. Luoghi di culto dedicati a Zeus Ammon furono eretti dal V sec. a.C. ad Atene, a Tebe in Beozia, a Gytheion e Sparta in Laconia, a Tenos nelle Cicladi, a Lindos a Rodi e ad Aphytis in Calcidica. La popolarità del santuario di Siwa perdurò nell'età ellenistica e romana.
Le relazioni tra l'Egitto e il mondo egeo risalgono all'età del Bronzo. La Creta di età minoica, grazie alla sua posizione intermedia tra la Grecia e la costa egiziana e la regolarità dei venti che facilitavano la navigazione verso sud, intrattenne rapporti commerciali con il Nuovo Regno di Egitto a partire dal XVI sec. a.C. La presenza in Egitto di mercanti e artigiani cretesi (fabbricanti di armi, costruttori di navi, artisti) è attestata da documenti archeologici e letterari, tra l'altro dal rinvenimento di oggetti minoici nella valle del Nilo, dalla comparsa nelle fonti egiziane dei termini che designavano Creta e i suoi abitanti e da pitture parietali, nelle quali i Cretesi sono raffigurati nell'atto di portare tributi al faraone, secondo un'iconografia che simboleggia l'esistenza di scambi mercantili. La raffigurazione di un grande fiume che scorre attraverso il deserto con le rive coltivate a palmizi e popolate di animali fantastici in un affresco minoico di Santorini, secondo l'interpretazione di S. Pernigotti, sarebbe un'ulteriore testimonianza dei viaggi dei mercanti minoici che permisero loro di conoscere il Nilo.
Dal XV al XII sec. a.C. la ceramica minoica lascia il posto a quella micenea, rappresentata in particolare da anfore per il trasporto dell'olio, ascrivibili a un tipo prodotto nel Peloponneso, e da vasi per profumi. Dal XIV sec. a.C. sono note raffigurazioni di Egei prigionieri di guerra, ma non mancano attestazioni di elementi ben integrati nella corte egizia, anche con incarichi amministrativi di prestigio. È stato ipotizzato che l'abbondante oro rinvenuto nelle sepolture di Micene sia dovuto al pagamento dei mercenari da parte degli Egiziani (Banti 1963). Gli Achei compaiono a fianco delle tribù libye nel tentativo di invasione dell'Egitto del 1210 a.C. circa e la critica spesso identifica i Danuna, uno dei Popoli del Mare che giunsero in Egitto al tempo di Ramesse III nel 1178 a.C., con i Danai. Nella stessa epoca prodotti di origine egiziana circolavano nell'area greca, prevalentemente tramite gli intermediari del Vicino Oriente, ma anche in seguito a contatti diretti.
I rapporti commerciali tra il mondo greco e l'Egitto ripresero nella prima età del Ferro. Dal X sec. a.C., infatti, cominciano ad apparire nuovamente in alcuni contesti greci geometrici oggetti importati di produzione egiziana o egittizzanti, mediate probabilmente dai contatti con il Vicino Oriente. In particolare, erano i Fenici a controllare le rotte commerciali che dall'Egitto attraverso l'area siro-palestinese e microasiatica conducevano in Grecia. I rinvenimenti sono sporadici, anche se provengono da numerose aree: Creta, Sparta, Argo, Corinto, Perachora, Atene, Capo Sunio, Eleusi, Egina, Thera, Rodi e Chio. In età arcaica è documentata una più consistente importazione di oggetti di lusso dall'Egitto: bronzi (vasi, specchi, statuette, ornamenti), avori, sigilli e oggetti di faïence. Nel Mediterraneo occidentale, a Pithecusa, Tarquinia e Mozia sono stati rinvenuti uno scarabeo e due situle iscritti con il cartiglio del faraone Boccoris (717-712 a.C.), che attestano lo sviluppo dei contatti commerciali dell'Egitto verso Occidente, con il tramite dell'area siro-palestinese, dalla fine dell'VIII sec. a.C.
Cipro doveva svolgere un importante ruolo di scalo e mediazione nei rapporti commerciali tra la Grecia e l'Egitto. I contatti più intensi, spesso diretti, intercorrevano con Creta, prima tappa sulle rotte dall'Egitto verso la Grecia, e con la Grecia orientale (Samo, Rodi). Numerosi originali egiziani sono stati rinvenuti nell'Heraion di Samo e proprio da Samo proveniva il celebre mercante Kolaios che, da quanto si deduce dalla narrazione di Erodoto (IV, 152, 1-2), poco dopo la metà del VII sec. a.C. era solito dirigersi per i propri traffici in Egitto (in base alla cronologia della fondazione di Cirene, l'arrivo del mercante a Platea è databile nel 638 a.C.). A Rodi, dal tardo VIII e nel VII sec. a.C. è attestata l'attività di una bottega locale di scarabei e piccoli oggetti di faïence, imitanti modelli egiziani, i cui prodotti conobbero un'ampia diffusione nel mondo greco.
La presenza stabile di Greci in Egitto è documentata solo a partire dal tardo VII sec. a.C. ed è connessa all'impiego di mercenari da parte dei faraoni della XXVI Dinastia. Alla vigilia dell'arrivo dei Greci, l'Egitto giaceva in una grave crisi (quello che gli storici chiamano Terzo Periodo Intermedio): il regno era privo di un saldo potere centrale e indebolito dalle ingerenze straniere (i sovrani nubiani e le invasioni assire) e la zona del Delta era frammentata in una serie di principati locali, ai quali allude il racconto erodoteo dei 12 re (Hdt., II, 147, 1-4). Uno di questi principi era il futuro faraone Psammetico I (664-610 a.C.), che esercitò inizialmente la sua sovranità sulla regione di Sais, nell'area occidentale del Delta, dove conduceva vantaggiosi commerci (Diod. Sic., LXVI, 8-9). Psammetico poteva aver conosciuto il valore dei mercenari greci e carii, rimanendo impressionato dalla loro abilità ed efficienza, quando combatté come vassallo assiro nell'esercito di Assurbanipal contro il re kushita Tanwetamani nel 664 a.C. Contando su grandi ricchezze e sull'amicizia dei popoli con cui commerciava e grazie all'impiego dei soldati ionici e carii assoldati a sua volta nell'esercito, Psammetico riuscì a imporsi sugli altri principi del Delta, a liberare l'Egitto, allontanando gli Assiri e ricacciando in Nubia i sovrani kushiti, e a riunificare il Paese con mezzi diplomatici, trovando un accordo con i potentati sorti a Herakleopolis e a Tebe. Diodoro Siculo ricorda esplicitamente la partecipazione dei soldati della Caria e della Ionia alla vittoriosa battaglia presso Momemphis (Diod. Sic., LXVI, 12; la città, menzionata anche in Strab., XVII, 1, 22, non è stata localizzata).
Le fonti letterarie e la documentazione archeologica forniscono informazioni sull'attività dei mercenari greci in età arcaica. Sappiamo di soldati greci al servizio dei regni del Vicino Oriente, ad esempio fonti assire della seconda metà dell'VIII e del primo VII sec. a.C. riferiscono della presenza di Ioni e Ciprioti negli eserciti che si opponevano alla loro espansione nell'area siro-palestinese. Il rinvenimento di un frammento di skyphos euboico, databile nell'VIII sec. a.C., nella capitale assira Ninive è citato da R.A. Kearsley come prova della presenza di Euboici tra le file dei mercenari. Secondo questo studioso, mercenari dell'Eubea dettero vita all'insediamento di al-Mina attorno alla metà dell'VIII sec. a.C. Antimenidas, il fratello del poeta Alceo di Mitilene (fine del VII-VI sec. a.C.), combatté a lato dei Babilonesi, forse in una della campagne siro-palestinesi di Nabucodonosor (Alc., fr. 350, vedi anche Strab., XIII, 2, 3). Aristotele (Ath. Pol., XV, 2) riferisce della presa di potere del tiranno Pisistrato ad Atene grazie al sostegno di mercenari, "specialmente i Tebani e Lygdamis di Nasso e anche i cavalieri che controllavano il governo di Eretria".
Le nostre fonti sui Greci in Egitto nel periodo di Psammetico I sono costituite dal II libro delle Storie di Erodoto, dal racconto del falso mendico nell'Odissea e da una tradizione indipendente di Aristoboulos di Cassandrea, confluita in Strabone (XVII, 1, 6). Il resoconto più succinto contenuto in Diodoro Siculo (I, 66, 7-12; 67, 1-11) deriva probabilmente da Ecateo di Abdera. Le notizie delle fonti greche si possono integrare con le informazioni dei documenti egiziani contemporanei agli avvenimenti. In particolare Erodoto, che visitò l'Egitto intorno alla metà del V sec. a.C., fornisce molte notizie sulle modalità dell'arrivo e dello stanziamento dei Greci in Egitto, attinte in gran parte da informatori attendibili, identificabili in sacerdoti egiziani e in Greci di Egitto da tempo integrati nel Paese, come afferma egli stesso: "abitando essi in Egitto, in tal modo noi Greci, entrati in rapporto con loro, conosciamo con esattezza tutte le vicende egiziane a partire dal regno di Psammetico in poi: essi infatti furono i primi che parlando straniero vivessero in Egitto" (Hdt., II, 154, 4). In base al responso dell'oracolo di Buto, "uomini di bronzo" (χάλϰεοι ἄνδϱεϚ) sarebbero giunti dal mare per aiutare Psammetico a ottenere il potere. Il principe li identificò con i pirati della Ionia e della Caria armati di bronzo, che erano stati costretti ad approdare nel Delta a causa delle cattive condizioni atmosferiche allarmando gli abitanti del luogo (Hdt., II, 152, 3-5).
Il racconto erodoteo, che ha un tono favolistico, pare elaborato, forse in un ambiente greco-egiziano (a Menfi?), sul modello epico dell'avventura in Egitto, che Ulisse sotto le vesti del falso mendico cretese narra a Eumeo (Od., XIV, 252-289; XVII, 424-444). Il contesto nel quale si colloca l'arrivo dei primi Greci, infatti, è lo stesso descritto nell'episodio omerico. Ulisse racconta di essere partito da Creta e di aver ancorato le navi al fiume Egitto; i suoi compagni saccheggiarono i campi e si abbandonarono a violenze contro gli abitanti, ma furono sconfitti. Il Cretese, ottenuta la clemenza del re locale, rimase in Egitto sette anni, fin quando un Fenicio lo portò via, raggirandolo con le sue astuzie. Il brano dell'Odissea rispecchia la situazione di instabilità politica in cui si trovava l'area del Delta al momento dell'arrivo dei Greci a cavallo tra VIII e VII sec. a.C.: priva di unità politica e frammentata in principati locali, anche se ancora abbastanza forte da respingere le incursioni costiere.
In questa situazione di crisi, tentativi di sbarco dovevano essere frequenti, tanto da fornire lo spunto per il racconto di Ulisse, falso, ma congegnato in modo tale da apparire verosimile al suo interlocutore e al pubblico cui si rivolgeva. Le incursioni compiute da naviganti, occasionalmente dediti alla pirateria, trovano una giustificazione nel contesto della diffusa circolazione nel Mediterraneo in questo periodo di gruppi greci alla ricerca di luoghi in cui fondare colonie. Strabone (XVII, 1, 6, C 792) informa dell'esistenza di una guarnigione egizia per difendersi dai pirati greci di base a Rhakotis (gr. ῾ΡαϰῶτιϚ), nel sito del quartiere occidentale della futura Alessandria, risalente già ai tempi di Ramesse II. La decisione del re Psammetico, che eccezionalmente reclutò gli invasori pur essendo in grado di respingerli, trova un ulteriore parallelo nel racconto omerico, dove il Cretese dopo il fallimento dell'impresa piratesca ottenne dal re di potersi stabilire in Egitto, accumulando grandi ricchezze.
L'arrivo degli "uomini di bronzo", del resto, non dovette essere casuale, come appare nel racconto erodoteo. Da una fonte assira, il cosiddetto Cilindro Rassam, siamo informati che Gige re della Lidia (680-652 o 644 a.C.) aveva inviato truppe in aiuto a Psammetico per respingere le invasioni assire, in base a un'alleanza stretta con il principe saita nel 662/1 a.C.: "... a sostegno di Pischamilki, il re di Musur [Egitto], che aveva rovesciato il giogo della mia signoria, (Gugu) inviò le sue truppe...". Di questi aiuti dovevano far parte anche i mercenari della Ionia e della Caria assoldati dal faraone con grandi promesse. Tra le imprese militari compiute da Psammetico I durante il suo regno, per le quali però non abbiamo testimonianza diretta della partecipazione dei mercenari, si annoverano una spedizione contro i Libyi, commemorata in molte stele, come quella dell'XI anno di regno rinvenuta a Saqqara (655/4 a.C.), la presa della città siriana di Asoto (Ashdod) dopo molti anni di assedio (Hdt., II, 157) e l'aiuto prestato agli Assiri in occasione dell'attacco dei Medi, che distrussero Ninive nel 612 a.C. Diodoro Siculo (LXVII, 3-8) afferma esplicitamente che in occasione di una spedizione in Siria il faraone concesse il posto più onorevole nello schieramento ai mercenari, provocando la defezione degli Egiziani, che offesi si diressero in Etiopia.
Conosciamo anche il nome di un importante generale di Psammetico I, Djedptahiufanekh, che dedicò una statua-cubo nel tempio di Amon-Ra a Karnak, dopo aver combattuto nel Sud contro i Nubiani. Tra i vari titoli che lo qualificano, compare quello di "comandante degli stranieri" e più specificamente "del reparto degli Asiatici", ma è verosimile che nel contingente che guidava ci fossero anche i Greci e i Carii assoldati da Psammetico I. Il faraone adempì le promesse fatte ai mercenari per ottenere il loro aiuto e "oltre alla paga... distribuì loro doni degni di nota, offrì per installarvisi un luogo che si chiama Stratopeda (accampamenti) e lottizzò a loro vantaggio un'ampia distesa di terra poco al di sopra della bocca Pelusia" (Diod. Sic., LXVII, 1). Già Erodoto (II, 154) ricorda che "agli Ioni e ai Carii che avevano prestato il loro aiuto, il faraone diede da abitare luoghi uno di fronte all'altro, con il Nilo in mezzo, e pose a essi il nome di Stratopeda... si trovano verso il mare, al di sotto della città di Bubastis, sulla bocca del Nilo chiamata pelousia" e anzi afferma di averli visitati nel corso del suo viaggio, quando erano ormai abbandonati, e di aver visto ancora "le apparecchiature per il traino delle navi e le rovine delle case". Queste postazioni, quindi, raggiungibili con navi, dovevano trovarsi sul mare, su rami del Delta o su canali a essi collegati o sul Nilo stesso.
Il provvedimento del faraone che formò una scuola di interpreti per facilitare la comunicazione con i nuovi venuti, affidando loro fanciulli egiziani perché imparassero la lingua greca, dimostra che lo stanziamento dei mercenari rientrava nei piani politici di Psammetico. I discendenti di questi interpreti erano ancora attivi ai tempi di Erodoto (II, 154, 2). Il faraone si servì del prezioso aiuto dei mercenari non solo per prendere il potere, ma anche per mantenerlo, governando il Paese di nuovo unificato (Diod. Sic., LXVII, 2). Diodoro si sofferma sull'oculata amministrazione di Psammetico, che fece rientrare le imposte, e sulla sua benevolenza nei confronti degli stranieri che soggiornavano in Egitto e soprattutto dei Greci, al punto da far dare ai suoi figli un'educazione ellenica, in contrasto con la tradizionale politica degli Egiziani (xenelasia, di cui si parla in Thuc., I, 8, 1; Strab., XVII, 1, 6). Psammetico strinse un'alleanza con gli Ateniesi e con altri popoli greci e continuò la politica avviata quando aveva il principato nel Delta incoraggiando i commerci con l'esterno: "... Fu il primo dei re di Egitto ad aprire ad altre nazioni degli emporia nel resto del Paese e a garantire una grande sicurezza agli stranieri che arrivavano per mare" (Diod. Sic., LXVII, 8-9).
Le fonti letterarie e i rinvenimenti archeologici, infatti, documentano la costruzione di fortezze sulla costa e sul confine orientale del Delta del Nilo, dove vennero impiantate anche forze straniere al fine di salvaguardare la sicurezza del Paese e di coloro che vi entravano per finalità commerciali. Sappiamo da Strabone (XVII, 1, 18, C 801) della fondazione di un Μιλησίων τεῖχοϚ ("muro dei Milesi"), una postazione fortificata innalzata dai Milesi, dopo che erano approdati con trenta navi alla bocca del ramo bolbitino del Nilo, presso Rosetta. È possibile che Milesi stabilitisi in precedenza nella zona fossero stati incaricati dal faraone di fortificare il sito e presiederlo. Lo stesso passo riferisce di una vittoriosa azione di navi da guerra milesie, condotta dopo la costruzione del muro contro un certo Inaros, prima della fondazione di Naukratis, probabilmente nel contesto delle operazioni militari volte a unificare il paese sotto Psammetico. La notizia getta luce sul ruolo importante di "battistrada" che dovette rivestire Mileto, anche attraverso gli stretti rapporti con la Lidia, per l'arrivo dei Greci in Egitto.
Tra le fortezze fondate durante il regno di Psammetico, oltre al muro dei Milesi, si annoverano quelle individuate a Tahpahnes, in greco Daphne (oggi Tell Defenneh); a Tell el-Heir, a ovest del Canale di Suez, che in base alle nostre conoscenze doveva essere la postazione più importante, per la quale è stata proposta l'identificazione con Migdol/Magdolon; Tebe ovest (Gurna, nell'area del tempio funerario di Sethi I) ed Elefantina, al confine meridionale del regno egiziano. Erodoto (II, 30, 2-3) precisa che sotto Psammetico furono dislocate guarnigioni a Marea contro i Libyi, a Daphne Pelusica contro gli Arabi e i Siri e a Elefantina in difesa degli Etiopi, le ultime due ancora presidiate dai Persiani ai suoi tempi. Psammetico dovette stanziare soldati greci anche a Rhakotis, dove da tempo esisteva un forte egiziano, come si desume dal testo del Papiro Gießen, nel quale i Greci affermano di servire fedelmente il faraone da molti anni. Alcune di queste fortezze devono essere comprese nella complessiva definizione di Stratopeda che fornisce Erodoto.
I rinvenimenti di ceramica greca importata, di anfore da vino, di elementi di armature di ferro e di armi di tipo non egizio, anche con riparazioni antiche, testimoniano archeologicamente la presenza nelle fortezze di Daphne e di Migdol dal 620 a.C. circa di soldati ionici e carii e di fabbri specializzati, che nella lavorazione del ferro non avevano concorrenza in Egitto. Al seguito dei mercenari dovettero ben presto giungere anche i mercanti, in conformità alla politica d'incoraggiamento dei commerci internazionali perseguita dal faraone. Al regno di Psammetico risale, infatti, l'avventura narrata da Erodoto (IV, 152, 1-3) del mercante Kolaios di Samo, che era diretto per traffici in Egitto, ma fu spinto da una tempesta fuori dalla rotta originaria sull'isola di Platea, di fronte alla costa libica, e da lì oltre lo Stretto di Gibilterra fino a Tartessos. Mercanti e artigiani furono autorizzati non solo a entrare in Egitto, ma anche a stabilirvisi, all'interno o nei pressi delle postazioni militari e in empori.
Il materiale archeologico rinvenuto attesta che l'insediamento di Naukratis, nella parte occidentale del Delta (che Erodoto attribuisce al faraone Amasis) dovette sorgere intorno al 625-620 a.C., negli ultimi anni del regno di Psammetico I (Strab., XVII, 1, 18, lo dice fondato dai Milesi che avevano costruito il muro). A giudicare dalle più antiche iscrizioni votive rinvenute, alla fondazione parteciparono inizialmente elementi greco-orientali provenienti da Mileto, Chio e Samo. I Greci dovevano importare dall'Egitto prevalentemente grano, ma anche papiro, lino, profumi e oggetti di lusso, soprattutto di avorio, faïence e pietre dure, e vi portavano argento, anche sotto forma di monete, vino e olio, come indicano le anfore da trasporto (ateniesi, samie, chiote, lesbie) rinvenute nei centri egiziani dove stazionavano i mercenari o dove erano attivi mercanti greci (nell'emporio di Naukratis, nelle fortezze di Daphne, Migdol, Tebe ovest, nelle città di Sais, Mendes, Heliopolis, Menfi).
Sappiamo che durante il regno del successore di Psammetico, Nekao II (610-595 a.C.), il mercante samio Xanthes vendette in Egitto, oltre a vino e olio, anche etere greche, tra cui quella Doricha (o Rhodopis) della quale si invaghì a Naukratis il fratello della poetessa Saffo, Charaxos, attivo in Egitto come mercante del vino di Lesbo (Sapph., frr. 5; 15b, vv. 9-12; Hdt., II, 134-135; Strab., XVII, 1, 33, C 808). Anche il faraone Nekao dovette continuare a servirsi di mercenari greci. È stato ipotizzato che appartenesse a uno dei suoi soldati il grande scudo greco di bronzo ornato da fregi concentrici di animali e da un gorgoneion al centro, rinvenuto, insieme a elementi di una corazza e al sigillo del faraone, nel corso degli scavi di C.L. Wolley tra le rovine di Karkemish, dove Nekao fu vinto dai Babilonesi nel 608 a.C. Una significativa partecipazione dei soldati ionici e carii, e dei Milesi in particolare, alle azioni militari è attestata dalla dedica nel santuario di Apollo a Didyma della corazza del faraone, che nel dicembre del 601 a.C. nella battaglia presso Migdol aveva avuto successo nel respingere l'attacco del re Nabucodonosor II.
In conseguenza delle difficoltà incontrate a causa dei Babilonesi nell'area siro-palestinese, Nekao portò avanti una politica alternativa, incentrata sul Mar Rosso e il Sud dell'Egitto. Al fine di sviluppare i commerci, il faraone ordinò a navigatori fenici di compiere il periplo dell'Africa e tentò anche di scavare un canale per mettere in comunicazione il Mar Rosso con il Mediterraneo, senza riuscire nell'impresa (Hdt., II, 158). Volgendosi a campagne militari, Nekao fece costruire delle triremi che dislocò nel Mar Rosso e nel Mediterraneo, delle quali ai tempi di Erodoto erano ancora visibili le apparecchiature per il traino (Hdt., II, 159). Se il termine impiegato dallo storico va inteso in senso letterale, se ne deduce che nei cantieri del faraone lavoravano anche dei Greci, esperti nella tecnica navale. Da fonti egiziane sappiamo che Nekao nominò ammiraglio della flotta Hor, che tra i titoli portava anche quello di "comandante degli stranieri e dei Greci".
Documenti epigrafici attestano la partecipazione di mercenari greci alla spedizione militare che Psammetico II (595-589 a.C.) nel 3° anno di regno (592/1 a.C.) condusse contro la Nubia, alla quale Erodoto (II, 161, 1) accenna brevemente: "Psammi regnò sull'Egitto solo sei anni, combatté contro l'Etiopia e subito dopo morì". Non conosciamo esattamente le motivazioni che spinsero il faraone a organizzare la campagna militare, forse per prevenire un attacco kushita contro il Basso Egitto o per andare incontro alle aspettative del suo esercito, procurandogli l'occasione di conquistare un ricco bottino. Le varie fasi della spedizione sono ricostruibili grazie a fonti egiziane ufficiali (stele commemorative in geroglifico di cui una completa da Shellal, località poco a sud di Assuan, e altre frammentarie da Karnak e Tanis) e alle iscrizioni lasciate dai mercenari greci, carii e semiti ad Abu Simbel. Psammetico diede avvio alla guerra nel settembre del 592 a.C. Sfruttando l'acqua alta del Nilo l'esercito con l'aiuto della flotta si mosse velocemente verso sud.
Il faraone si fermò a sud di Assuan, mentre l'armata raggiunse la III Cateratta e il confine con il regno di Kush. L'8 ottobre 592 a.C. Psammetico arrivò sul luogo della battaglia decisiva, presso Tombos, che si concluse con una vittoria dell'Egitto e la cattura di 4200 prigionieri. Mentre il faraone tornava indietro, una parte dell'esercito si spinse ancora più a sud nel cuore del regno nubiano e conquistò la città di residenza reale, Napata, risalendo il Nilo "fin dove il fiume lo permetteva", come si legge in una delle epigrafi greche. La spedizione si fermò alla IV Cateratta, poiché nonostante l'acqua alta non era più possibile superare la barriera di rocce e i soldati rientrarono in Egitto nel dicembre 592 o nel gennaio 591 a.C. Nel viaggio di ritorno, l'armata si accampò nelle vicinanze del grande tempio rupestre del faraone Ramesse II ad Abu Simbel. Mercenari greci, carii e di ambito linguistico semitico, probabilmente Fenici, a ricordo del loro passaggio lasciarono iscrizioni, incise sulle gambe delle due statue colossali più meridionali poste davanti alla fronte del tempio.
Le iscrizioni greche databili alla campagna del 592/1 a.C. sono sette (le altre sono di età tolemaica). Cinque di queste sono brevi graffiti, in alfabeto ionico arcaico, con il nome del soldato, accompagnato a volte dal patronimico o dall'etnico: "Python figlio di Amoibichos"; "Pabis di Colofone con Psammatas"; "Elesibios di Teos"; "[...] e Krithis mi hanno scritto"; "Telephos di Ialysos mi scrisse" (le ultime due sono epigrafi parlanti). Due iscrizioni si segnalano per una maggiore estensione. La prima, di cinque righe in alfabeto ionico arcaico e in un dialetto dorico, recita: "Essendo giunto il re Psammetico a Elefantina, queste cose scrissero coloro che navigarono con Psammetico figlio di Theokles e che giunsero a monte di Kerkis, fin dove il fiume lo permetteva: Potasimto guidava quelli di lingua straniera e Amasis gli Egiziani. Mi scrissero Archon figlio di Amoibichos e Pelekos figlio di Oudamos". I Greci che incisero materialmente questa iscrizione, Archon (probabilmente fratello del Python che lasciò uno dei graffiti, poiché ha lo stesso patronimico) e Pelekos, facevano parte dell'armata che affrontando una navigazione rischiosa si era spinta il più a sud possibile. A giudicare dal dialetto in cui è scritto il testo, erano di origine dorica, forse di Rodi.
È stato convincentemente ipotizzato che i nomi privi dell'etnico (Krithis, Python, Archon, Pelekos e i due Psammetico) appartengano a Greci d'Egitto di seconda o terza generazione discendenti dai mercenari di Psammetico I. L'ipotesi trova una conferma nel fatto che due di loro portano il nome del faraone, che evidentemente i loro padri avevano servito e al quale erano legati da vincoli di lealtà e gratitudine. Gli altri, per i quali è specificata la provenienza da Ialysos, Teos e Colofone, dovettero essere assoldati espressamente per questa spedizione. Gli stranieri militanti nell'esercito, secondo un punto di vista egiziano, sono definiti alloglossoi, cioè parlanti altre lingue rispetto a quella locale; lo stesso termine, che traduce in greco l'originaria espressione egiziana, è utilizzato anche da Erodoto (II, 154, 4: "essi [scil. i Greci residenti in Egitto] infatti furono i primi che parlando straniero vivessero in Egitto"). L'esercito egiziano, sotto il comando supremo del faraone, risulta diviso in due reparti, guidati rispettivamente da Amasis e Potasimto.
Entrambi i comandanti sono noti grazie a documenti egiziani, che confermano i dati desumibili dalle iscrizioni greche e forniscono ulteriori informazioni sulla loro genealogia e provenienza. Di Potasimto, figlio di Raemmaakheru, sono stati identificati elementi appartenenti al corredo funerario: il sarcofago di pietra trovato a Kom Abu Yassin, un vaso di pietra per libagioni (entrambi al Museo Egizio del Cairo), tre statuette funerarie (oggi a Limoges, ad Annecy e a Bologna), forse un frammento di una scultura raffigurante una vacca, oltre a una statua e una stele appartenenti al padre e al fratello. Le scritte in caratteri geroglifici sugli oggetti lo qualificano come "comandante delle truppe", "comandante degli stranieri" e "comandante dei Greci". La tomba doveva trovarsi nella località odierna di Kom Abu Yassin, nel Delta orientale, dov'era la necropoli della città di Shedenu, in greco Pharbaithos, città natale di Potasimto, come confermano le iscrizioni sui monumenti a lui pertinenti. Il comandante degli Egiziani, Amasis, continuò la sua carriera sotto il faraone Apries, come attesta una statuetta iscritta, dove viene qualificato come "comandante delle truppe".
La seconda iscrizione lunga è la sola di epoca arcaica a essere incisa sul colosso più meridionale della fronte del tempio di Ramesse II. Le lettere grandi incise su due lunghe righe con andamento bustrofedico le conferiscono notevole evidenza: "Anaxanor di Ialysos [partì? scrisse?] quando il re Psammetico spinse in avanti il suo esercito per la prima volta…". Per l'ultima parte lacunosa dell'epigrafe sono state proposte varie integrazioni: "insieme ad Amasis" (Masson - Bernard 1957) o "con Potasimto". La lettura "da Elefantina (Elephantinathen)" è stata accolta da P.W. Haider, secondo il quale questa iscrizione, distinta dalle altre per la posizione, andrebbe riferita a un gruppo di Greci che non avevano proseguito verso la Nubia, ma erano rimasti insieme al faraone. In base a questa interpretazione, Anaxanor di Ialysos doveva essere il comandante di questo contingente greco, appartenente alla riserva o con più probabilità alla guardia reale.
Mettendo insieme i dati desumibili dalle fonti egiziane e dalle iscrizioni greche, Haider ha ricostruito una struttura dell'esercito egiziano, nella quale sotto il comando supremo del faraone erano tre generali: Hor, l'ammiraglio della flotta reale nominato da Nekao, Potasimto, a capo degli stranieri e dei Greci, e Amasis, a capo dei soldati egiziani (in base alla lettura proposta da Bernard e Masson per l'iscrizione di Anaxanor, invece, Amasis risulterebbe essere il generale dell'intera armata, che aveva sotto di sé il comandante dei mercenari). Sotto Potasimto operavano gli ufficiali a guida dei singoli contingenti stranieri: un comandante degli Asiatici (di cui ignoriamo il nome), il comandante dei Carii Psamtekewineith (un cario di seconda generazione che portava un nome egiziano accanto a quello originario) e l'"ufficiale delle truppe dei Greci", l'egiziano Bakenrenef, sotto il quale era Psammetico figlio di Theokles. Quest'ultimo è stato interpretato, in alternativa, come il responsabile della navigazione sul Nilo (secondo l'ipotesi di S. Pernigotti, che però non esclude che potesse essere un semplice soldato o il comandante di una nave).
I Greci che lasciarono queste iscrizioni ad Abu Simbel, capaci evidentemente di leggere e scrivere, dovevano appartenere all'élite sociale delle città di origine ed erano verosimilmente a capo dei singoli reparti del contingente greco impegnato nella spedizione nubiana. Conosciamo altri casi di Greci che, appresa la lingua e inseritisi in breve tempo nella vita dell'Egitto della XXVI Dinastia, compirono un'ascesa sociale nei ranghi dell'esercito e nell'apparato amministrativo dello Stato, grazie al loro valore militare e alle capacità di adattarsi al modo di vivere egiziano. La comunità dei Greci di seconda e terza generazione discendenti dagli "uomini di bronzo", costituitasi in Egitto dalla fine del VII sec. a.C., dovette avere un ruolo fondamentale nel reclutamento di altri mercenari greci e nello sviluppo dei commerci. Un caso evidente di integrazione di un Greco nella società egiziana è rappresentato da Uahibraemakhet. Le iscrizioni sul suo sarcofago (che però non è riferibile con certezza alla XXVI Din.) attestano che i genitori Alexikles e Zenodote erano Greci, ma dettero al figlio il nome egiziano dell'intronizzazione di Psammetico I, Uahibra, al cui servizio probabilmente era stato il padre.
Dai dintorni di Priene proviene una statua-cubo frammentaria di fabbrica egiziana, che reca una dedica iscritta in greco: "Pedon mi ha dedicato figlio di Amphinneos, avendomi portato dall'Egitto; a lui il re egiziano Psammetico ha dato come premio della sua eccellenza (aristeia) un bracciale d'oro e una città a causa del suo valore (areté)". La statua, conservata in collezione privata, è stata attribuita a un atelier del Delta e risale ai primi anni del regno di Psammetico I (prima metà del VII sec. a.C.), mentre l'iscrizione greca, più recente, è stata datata alla prima metà del VI sec. a.C. Pedon aveva combattuto come mercenario al servizio di Psammetico I o più probabilmente di Psammetico II e come ricompensa aveva ottenuto dal faraone l'amministrazione di una città (un centro egiziano o uno degli insediamenti abitati dai Greci?). L'alto riconoscimento farebbe pensare che Pedon avesse già avuto modo di dimostrare la propria capacità di guida e di organizzazione in ambito militare, per cui Haider ha ipotizzato che avesse svolto l'incarico di comandante dei soldati ionici e carii. Non è da escludere, dato il successo conseguito nella carriera da Pedon, che già suo padre fosse stato al servizio di Psammetico. Tornando nella città di origine in Asia Minore, Pedon portò con sé la statua su cui fece incidere la dedica.
Dall'Egitto proviene anche la piccola statua frammentaria di basalto rinvenuta a Camiro di Rodi e databile intorno alla metà del VI sec. a.C., sulla quale un Greco di nome Smyrdes incise il proprio nome. È suggestiva l'ipotesi che si tratti di uno dei mercenari rodi che parteciparono alla spedizione nubiana di Psammetico II, ma non ci sono prove esplicite a riguardo. Durante il regno di Apries (589-570 a.C.) la presenza greca in Egitto dovette raggiungere il culmine, come riflette la nascita di fazioni politiche anti- e filoelleniche. Erodoto parla di 30.000 uomini della Ionia e della Caria che combattevano nell'esercito del faraone (Hdt., II, 163, 1; Diod. Sic., LXVIII, 4). Al 15° anno del regno di Apries risale un papiro (Pap. Mellawi 480) scritto in demotico arcaico, rinvenuto nella necropoli di Tuna el-Gebel, che contiene una lettera indirizzata a un Greco di nome Ariston, cui i sacerdoti di Thot di Hermopolis chiedono di favorire il trasferimento dal Fayyum di un ibis per seppellirlo a Hermopolis. Dall'importante documento si deduce che Ariston era in grado di leggere il demotico e che ricopriva un ruolo ufficiale (forse era un funzionario dello Stato egiziano), tanto da poter intervenire in una delicata questione religiosa.
Apries impiegò i suoi mercenari greci nell'attacco fallito contro i coloni di Cirene, che furono costretti a combattere contro i loro compatrioti (Hdt., II, 161, 4; Diod. Sic., LXVIII, 2), e contro Amasis, dal quale venne sconfitto gravemente a Momemphis nel 570 a.C., come narra Erodoto (II, 163) e confermano le fonti coeve egiziane (stele di Amasis) e babilonesi (resoconto cuneiforme di Nabucodonosor). Amasis divenne il nuovo faraone (570-526 a.C.); Apries tentò di ritornare con una flotta e un'armata babilonese nel 567, ma venne sconfitto e ucciso. Amasis, ottenuto il potere grazie al sostegno della colonia greca, sposò una principessa di Cirene (Hdt., II, 181) e impiegò come il suo predecessore mercenari greci contro il re babilonese Nabucodonosor. Il faraone fece trasferire i soldati della Ionia e della Caria stanziati negli Stratopeda a Menfi, affinché questi costituissero la sua guardia del corpo in difesa degli Egiziani (Hdt., II, 154, 3; Diod. Sic., LXVIII, 1). Amasis fece dediche a Cirene, a Lindos di Rodi e a Samo e donò a Sparta una corazza o una cintura di lino decorata.
I rapporti particolari con Sparta, anche per il tramite dell'alleanza con Cirene, sono confermati dall'importazione di ceramica laconica in Egitto e giustificano la ripresa di numerosi motivi egizi nell'arte laconica del VI sec. a.C. (figurine femminili a sostegno degli specchi, anse configurate a forma di leoni di tipo egizio, troni di tipo egizio raffigurati in rilievi votivi, come in quello celebre con la rappresentazione di una coppia seduta da Chrysaphà, conservato a Berlino). Secondo il racconto di Erodoto, Amasis, divenuto un filelleno, concesse favori ad alcuni Greci: in particolare, a quelli che giungevano in Egitto dette la città di Naukratis da abitare, mentre a quelli che venivano per mare senza intenzione di stabilirsi concesse terre per erigere altari e temene per gli dei, che sono stati messi in luce negli scavi archeologici (Hdt., II, 178). La notizia è interpretabile nel senso di un riconoscimento da parte del potere centrale e di una regolarizzazione giuridica dell'insediamento di Naukratis, già esistente da tempo (dal 625-620 a.C. in base ai dati archeologici).
Secondo una pratica di regolamentazione dei traffici internazionali che aveva una lunga tradizione in Egitto, Amasis impose regole precise per il commercio nel Delta, concedendo il monopolio a Naukratis, l'unico emporio riconosciuto: tutte le navi che approdavano nel Delta erano obbligate a percorrere il ramo canopico del Nilo e a portare il loro carico a Naukratis (Hdt., II, 178-179). Tramite queste restrizioni l'autorità egiziana facilitava i rapporti commerciali con la Grecia, le operazioni di controllo e la riscossione delle imposte, manteneva sotto stretta osservazione il movimento dei mercanti stranieri e concentrava i Greci in un insediamento, dov'era permesso loro di stabilirsi. Le misure di Amasis dovevano essere state rimosse ai tempi di Erodoto, senza dubbio per volere dei Persiani, che nel 525 a.C. avevano assoggettato l'Egitto. Il termine polis utilizzato da Erodoto non significa che Naukratis fosse una colonia vera e propria: una città che godesse di indipendenza politica non era pensabile nella struttura dello Stato egiziano.
L'emporion, come lo definisce Erodoto (II, 179, 1), era comunque dotato di santuari greci, funzionari amministrativi (i prostatai, i sovrintendenti responsabili del porto, che rendevano conto al faraone egiziano) e botteghe artigianali, tra cui una di scarabei e piccoli oggetti di faïence (attiva dal tardo VII alla seconda metà del VI sec. a.C.), i cui prodotti erano molto diffusi nel mondo greco. Probabilmente altre officine artigianali producevano vasi di alabastro, statuette di stile misto (con influssi greci, egizi e ciprioti) e vasi di destinazione essenzialmente votiva. La produzione locale di ceramica parrebbe indicata dal rinvenimento di tipologie vascolari di stile chiota finora non attestate negli scavi di Chio e dalla presenza di dediche dipinte sui vasi prima della cottura (piccoli kantharoi di tipo chiota, calici e coppe samie a una sola ansa, per le quali però non si può escludere che fossero prodotte in officine di Samo appositamente per il mercato di Naukratis).
Greci di varia provenienza, uniti da comuni interessi commerciali, parteciparono alla vita dell'emporio, punto strategico di collegamento tra i circuiti mercantili del Mediterraneo orientale e occidentale. Erodoto menziona le città della Grecia microasiatica e insulare che insieme istituirono il santuario principale di Naukratis, l'Hellenion, un luogo di culto congiunto: Chio, Teos, Focea e Clazomene tra le ioniche, Rodi, Cnido, Alicarnasso e Phaselis tra le doriche e Mitilene tra le eoliche (Hdt., II, 178, 2). Erodoto ricorda inoltre che alcune città, forse quelle più influenti nella comunità e presenti da più tempo, avevano istituito santuari propri: gli Egineti un temenos di Zeus, i Sami uno in onore di Hera e i Milesi un altro in onore di Apollo (Hdt., II, 178, 3). La Grecia continentale è rappresentata da un solo centro, Egina (che non aveva produzioni proprie, ma commerciava materiali corinzi e attici e riforniva di prodotti egizi e orientali la Grecia centrale). Il coinvolgimento di queste differenti poleis trova una conferma archeologica nei centri di produzione della ceramica rinvenuta, che ha reso celebre l'emporio egiziano, e negli alfabeti con i quali furono scritte le dediche sui vasi offerti nei santuari.
I Greci avevano una posizione preminente a Naukratis, come testimoniano gli edifici di culto e la nomina dei rappresentanti amministrativi, scelti tra le città che avevano istituito l'Hellenion, ma l'ambiente del prospero emporio doveva essere vivace e aperto a influenze di varia provenienza. È molto probabile, ad esempio, che vi fossero anche Ciprioti, come attesterebbero le sculture votive di tipo cipriota rinvenute, prodotte probabilmente in loco. La città, celebre per le sue affascinanti prostitute (Ath., 596c-d), fu visitata da uomini di cultura, politici e artisti: vi giunsero Solone di Atene, Alceo di Mitilene (fr. 432), Talete di Mileto. Pare suggestivo identificare quel Rhoikos, che dedicò nel santuario di Afrodite una tripla coppa a occhioni, con l'architetto dell'Heraion di Samo. Da segnalare anche la coppa attica dedicata da un Erodoto proprio nel periodo del viaggio dello storico in Egitto. Naukratis dovrebbe aver conosciuto un periodo di declino in seguito all'invasione persiana nel 525 a.C., ma la ripresa è documentata dal V sec. a.C. L'emporion sopravvisse per tutta l'età tolemaica e romana (qui in media età imperiale nacque Ateneo, autore dei Deipnosophistài).
La presenza di Greci è documentata in altri siti egiziani, che hanno restituito frammenti di anfore da trasporto e di ceramica greca arcaica, per lo più di provenienza greco-orientale e attica. Da Rhakotis, dove dai tempi di Psammetico I era di stanza una guarnigione greca, proviene ceramica corinzia e attica a figure nere e rosse. A Sais, la capitale della XXVI Dinastia, sono stati rinvenuti ceramica greca, un bronzetto egizio con la dedica di un Cario e un kouros di alabastro del VI sec. a.C. Mendes (oggi Tell Ruba), nella parte orientale del Delta, ha restituito ceramica attica e greco-orientale dal tardo VII - inizi del VI sec. a.C., benché qui la presenza dei Greci non sia attestata dalle fonti. La maggior parte della ceramica greca arcaica è stata rinvenuta in un impianto commerciale nella parte meridionale del sito, che potrebbe essere contemporaneo alla ristrutturazione della città e alla creazione del santuario avvenute sotto Amasis. Ceramica greca proviene, inoltre, da Heliopolis e da Tell el-Maskuta, un insediamento fortificato fondato da Nekao II intorno al 608 a.C. in connessione con la costruzione del canale. I due luoghi del Delta che hanno restituito i maggiori rinvenimenti sono Daphne e Migdol.
La posizione di Daphne, oggi Tell Defenneh, sul ramo pelusio del Nilo, nella zona orientale del Delta, ha fatto ipotizzare che si tratti di uno degli Stratopeda dove si stanziarono i mercenari di Psammetico I, menzionati nelle fonti (Hdt., II, 154, 1; Diod. Sic., LXVII, 1). Erodoto (II, 30, 2-3) precisa che nel regno di Psammetico vi fu dislocata una guarnigione contro gli Arabi e i Siri, ancora presidiata dai Persiani ai suoi tempi. Il più importante dei resti architettonici scoperti da W.F. Petrie nel 1886 consiste in una costruzione quadrata, databile nel regno di Psammetico I. Lo scavatore la identificò con un forte militare, mentre altri studiosi l'hanno interpretata come un complesso di magazzini. L'importanza strategica dell'insediamento e l'esistenza di un impianto militare sono comunque attestate dalle fonti e dal rinvenimento di armi e armature di piastre di ferro di tipo non egizio. Le riparazioni antiche sulle armi accertano anche la presenza di fabbri specializzati, che lavoravano in loco. L'insediamento doveva ospitare una comunità multietnica che comprendeva Greci, Carii, Ebrei, Fenici e Arabi, come si desume dalle testimonianze archeologiche ed epigrafiche. Il libro di Geremia della Bibbia riferisce che durante il regno di Apries giunsero qui gli Ebrei, fuggiti dopo la conquista babilonese (Ger., 43, 7; 44, 1, che attesta la presenza di Ebrei in Egitto anche a Migdol, Menfi e nella regione di Patròs). Nonostante la notizia del trasferimento dei Greci a Menfi per volere di Amasis, le attestazioni archeologiche della presenza greca durante il regno di questo faraone sono ancora numerose. Una cesura è riscontrabile, invece, in concomitanza dell'invasione di Cambise nel 525 a.C.
Da Daphne proviene una notevole quantità di ceramica greca, rinvenuta nelle singole stanze del complesso quadrangolare, in particolare in quelle dell'angolo sud-orientale, e nei dintorni. La ceramica greca più antica risale alla fine del VII sec. a.C. Abbondano gli esemplari di produzione greco-orientale e i vasi attici a figure nere. Rispetto a Naukratis mancano le coppe a uccelli e a rosette e le iscrizioni votive e la quantità di ceramica chiota è minore. Daphne è il principale luogo di rinvenimento della ceramica cosiddetta "clazomenia" (560-525 a.C.) e si caratterizza per la presenza di forme non attestate nell'emporio: le imitazioni di forme egizie e in particolare le cosiddette "situle", di origine rodia. Sono numerose anche le anfore da trasporto per vino, di varia forma e provenienza (samie, eoliche, attiche). La ceramica non era dedicata nei santuari, ma era utilizzata essenzialmente per la vita dell'insediamento e nella sfera funeraria. Non è ancora chiaro se ci fossero produzioni locali con argilla importata (l'argilla delle situle in base alle analisi è risultata rodia). Daphne ha restituito, inoltre, statuette di pietra e un frammento di tridacna decorata di origine orientale. Nelle vicinanze dell'insediamento sono state messe in luce sepolture greche in urne.
L'imponente fortezza individuata a 20 km da Daphne, a Tell el-Heir, è stata identificata dagli archeologi israeliani con quella di Migdol/Magdolon, citata nelle fonti (Hdt., II, 159; Ger., 44, 1). Il sito doveva ospitare un acquartieramento di truppe greche, ma anche artigiani e mercanti al seguito, al pari di Daphne, come testimoniano i rinvenimenti di armi e armature di ferro e l'abbondante ceramica greca del VI sec. a.C., in particolare anfore. Nei dintorni sono state rinvenute le più antiche deposizioni greche di incinerati note in Egitto. Il materiale greco proveniente da Menfi si accorda con la notizia tramandata dalle fonti del trasferimento dei Greci e dei Carii degli Stratopeda in questa città per ordine di Amasis. Nell'area del palazzo di Merenptah e del tempio di Ptah e nelle necropoli di Abu Sir e Saqqara è stata rinvenuta ceramica greca di varia provenienza, corinzia, greco-orientale e attica, databile dal tardo VII e per tutto il VI-V sec. a.C. Dalla fine del VI sec. a.C. conosce un grande sviluppo l'importazione di ceramica attica, tra la quale si segnala l'eccezionale vaso plastico raffigurante un cammello guidato da un Persiano e da un nero, oggi al Louvre, prodotto nell'officina di Sotades intorno al 460 a.C.
La presenza a Menfi di una comunità di Greci e Carii è attestata da altri materiali archeologici, come una protome di grifo di bronzo, della metà del VII sec. a.C., una tavola di legno dipinta in stile ionico con una scena di processione sacrificale e monete greche del VI sec. a.C. Molti degli oggetti rinvenuti sono interpretabili come opere realizzate per Greci che vivevano in Egitto e spesso per mano di artisti di origine greca attivi in loco, che avevano assimilato motivi egiziani: stele funerarie con raffigurazioni di tipo greco, ma eseguite nel tipico rilievo egizio e con iscrizioni in cario, alle quali si è aggiunto di recente il ritrovamento di una stele iscritta eseguita per un Greco, con una scena di prothesis (compianto del defunto) realizzata sopra un precedente rilievo egiziano; un ushabti di faïence con volto di tipo greco arcaico, forse destinato alla sepoltura di un Greco; una kore di calcare di iconografia greca, ma con elementi di ascendenza egizia; statuette arcaiche di alabastro; una base bronzea con iscrizione bilingue greco-geroglifica rivolta allo Zeus tebano, il dio egizio Amon, e altri bronzetti dedicati da Greci; un'impronta di sigillo con il motivo greco del Tritone e il cartiglio del faraone Amasis.
Durante il suo viaggio in Egitto, intorno alla metà del V sec. a.C., Erodoto ebbe occasione di parlare e raccogliere informazioni dai Greci che vivevano a Menfi da generazioni (Hdt., II, 154, 4). I discendenti dei mercenari della Ionia e della Caria saranno quegli Ellenomenfiti e Caromenfiti, profondamente integrati nella civiltà egizia, che Alessandro Magno trovò al suo arrivo nella città nel 332 a.C. Alla presenza di Greci allude anche un Libro dei morti da Herakleopolis Magna, sotto Menfi, conservato a Colonia (Pap. Colon. Aeg. 10207) e databile intorno al 600 a.C., nel quale si trova scritto "… è un vero segreto, non devono conoscerlo in qualche luogo i Greci (Hau-nebu)". Anche il Sud dell'Egitto ha restituito materiali greci di età arcaica. A Tebe ovest, durante il regno di Psammetico I, si installò una guarnigione greca che riutilizzò i magazzini del tempio di Sethi, non più in attività. Anche a Elefantina il primo faraone della XXVI Dinastia impiantò una postazione militare di frontiera in difesa dal regno kushita (Hdt., II, 30, 2-3), al di fuori della quale sorse un centro di scambio di varie merci, frequentato da Greci, Ebrei, Fenici, Siriani, Nubiani e Libyi.
I frammenti di ceramica greco-orientale e attica del VI-V sec. a.C. segnalati nel Fayyum, a Luxor, a Karnak, a Edfu e sino in Nubia testimoniano la continuità dei rapporti commerciali tra il mondo greco e l'Egitto e trovano il loro corrispettivo negli oggetti di provenienza egiziana rinvenuti in Grecia. Anche la spedizione nubiana di Psammetico II potrebbe aver costituito un veicolo per l'arrivo di ceramica greca nell'Egitto meridionale. Da Edfu, infatti, proviene un blocco di calcare con iscrizione geroglifica che fa riferimento alla spedizione di Psammetico "verso Wawat" (termine egizio per la Bassa Nubia). È detto provenire da Luxor il frammento di un cratere a volute attico a figure nere attribuito a Kleitias, anche se più piccolo del Vaso François, con la raffigurazione di Polifemo accecato e Odisseo (il nome è iscritto) che fugge dall'antro sotto l'ariete (oggi a Basilea, collezione Cahn). Allo stesso vaso doveva appartenere anche il frammento conservato al Museo Pushkin di Mosca, con la raffigurazione di Perseo in corsa, seguito da una figura femminile (Atena).
Dal santuario di Luxor proviene un altro interessante vaso frammentario ionico a figure nere, vicino allo stile della ceramica clazomenia, che raffigura su un lato la processione della nave sacra di Dioniso e sull'altro un episodio di vita quotidiana con figure miniaturistiche in un vigneto. Sulla base della corrispondenza della scena religiosa con le celebrazioni che si svolgevano a Luxor, J. Boardman ha ipotizzato per quest'anfora un'esecuzione in Egitto a opera di un Greco per un'esplicita commissione. È possibile che come questo altri manufatti ceramici siano stati fabbricati sul posto da artisti ionici, fuggiti a causa dell'espansione persiana in Asia Minore intorno al 540 a.C.: i vasi a destinazione votiva di Naukratis, le situle di Daphne, un vaso greco-orientale frammentario che reca il cartiglio del faraone Apries dipinto sul collo e sul corpo lottatori e donne ammantate (oggi in collezione privata a Basilea). Dalla Nubia provengono due interessanti esemplari di vasi plastici: da Kawa, un unguentario di faïence conformato a testa di Acheloo del tardo VI sec. a.C., di probabile fabbrica greco-orientale (oggi all'Ashmolean Museum di Oxford); da Meroe, un rhytòn a forma di Amazzone eseguito dal ceramista attico Sotades, poco prima della metà del V sec. a.C.
L'invasione di Cambise nel 525 a.C., nel corso della quale si trovarono a combattere tra loro mercenari greci e carii militanti in ambedue gli schieramenti (Hdt., III, 1, 4, 11, 13, 25-26), e l'avvio della dominazione persiana determinarono una cesura nelle importazioni greche in Egitto, anche se i dati archeologici testimoniano una ripresa alla fine del VI sec. a.C. Nella prima metà del V sec. a.C. l'arrivo di monete e di ceramica di provenienza attica, tra cui gli esotici prodotti dell'atelier di Sotades, si inquadra nel periodo degli interventi ateniesi in Egitto in funzione antipersiana, prima che la pace di Antalcida del 386 a.C. sancisse il riconoscimento del dominio persiano sul Paese.
La millenaria civiltà egizia fu molto ammirata dai Greci e influenzò aspetti importanti della cultura e dell'arte elleniche. Le fonti tramandano la notizia dei viaggi in Egitto di personaggi illustri, non da ultimo lo storico Erodoto, che una volta tornati in patria fecero confluire le conoscenze apprese in Egitto in narrazioni, opere letterarie e tradizioni mitiche. La nascita della scultura e dell'architettura monumentali in Grecia presuppone la visione e l'imitazione dei modelli egiziani, che furono rielaborati in maniera creativa. Le suggestioni della pittura parietale egiziana sembrano all'origine della ripresa nella ceramica greca di scene paesaggistiche di ampio respiro, temi narrativi (lotta dei Pigmei con le gru), schemi compositivi (abbattimento dei nemici, battaglie sul carro), soggetti (figure di neri, cammelli, scimmie e mummie) e motivi decorativi.
Ad Atene fu attivo nel VI sec. a.C. un ceramista di nome Amasis (forma ellenizzata di un nome egizio diffuso, Ahmosis), per il quale è stata ipotizzata un'origine egiziana e un soggiorno di formazione a Naukratis e che introdusse ad Atene la versione fittile del vaso da profumi egiziano, l'alabastron. È possibile che avesse la pelle scura, dal momento che Exekias chiama Amasis o Amasos i neri che raffigura. Dagli edifici egizi costruiti interamente di pietra, sorretti da colonne con capitelli e basi scolpite, i Greci appresero l'articolazione architettonica in modanature e colonne, giungendo all'elaborazione dell'ordine dorico. Nella seconda metà del VII sec. a.C. gli artisti greco-orientali cominciarono a imitare anche la statuaria di dimensioni colossali e i suoi canoni proporzionali nei primi kouroi di marmo, come conferma il rinvenimento dei monumentali esemplari di Samo e Nasso. La maniera di ornare i viali processionali con leoni monumentali sui lati, a Delo e a Mileto, è di ascendenza egizia, come i modelli degli stessi leoni eretti sulla strada processionale del santuario di Apollo a Didyma intorno al 570-560 a.C.
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di Astrid Möller
L'antica N. si trova 83 km a sud-est di Alessandria, nella parte occidentale del Delta del Nilo. Scoperta da Sir William Flinders Petrie nel 1884, divenne presto famosa per la ricchezza dei suoi stili ceramici fino a quel momento sconosciuti. Gli abbondanti rinvenimenti di ceramiche, statuette e faïence ottennero maggiore attenzione dell'architettura, i cui resti erano piuttosto poveri. I primi scavi infatti portarono alla luce molto poco dei templi menzionati in Erodoto (II, 178). I ritrovamenti sono dispersi nei musei di Europa e Nord America, poco è rimasto ad Alessandria e a Il Cairo e la vecchia area di scavo, di circa 950 × 580 m, è oggi in gran parte coperta da un lago. La fama di N., tuttavia, non diminuisce, dal momento che questo emporion greco rappresenta un luogo unico di contatto culturale tra i mondi egiziano e greco.
Stimolato dalla scoperta di una statuetta del cosiddetto "stile misto" (oggi a Londra, British Museum), Petrie riuscì nel 1884 a identificare l'antica N. vicino al villaggio arabo di Kom Geif per mezzo di un'iscrizione. Durante la prima campagna di scavo nel 1884-85, Petrie scoprì il temenos di Apollo, la cosiddetta palaistra, il temenos dei Dioscuri, la Bottega degli Scarabei e il Grande Temenos che egli identificava con l'Hellenion. Sfortunatamente, i sebbakhin (contadini in cerca di fertilizzante) avevano già distrutto approssimativamente un terzo dell'area occupata dall'antica N. In queste circostanze, i tentativi di Petrie e di studiosi successivi di stabilire una stratigrafia per questo sito non hanno mai avuto successo. La seconda campagna ebbe luogo dal dicembre 1885 al marzo 1886, sotto la direzione di E.A. Gardner, che al momento del suo arrivo si trovò di fronte un panorama di ulteriore distruzione. Egli stabilì che la palaistra era in effetti il temenos di Hera, scavò inoltre nel santuario dei Dioscuri e scoprì il santuario di Afrodite.
Nel corso di una visita al sito alla fine del 1898, D.G. Hogarth rilevò che la distruzione era proseguita a causa di attività agricole e che l'acqua aveva già raggiunto un livello abbastanza alto. Il 19 febbraio 1899, ricevuti i fondi necessari, egli cominciò la terza campagna di scavo, in collaborazione con C.C. Edgar e C.D. Edmonds. Vennero allora investigate aree a nord-est e a sud dell'antico luogo di scavo, dal momento che il lavoro al centro della città era completo. Già a quel tempo fu impossibile per Hogarth accertare l'esatta posizione dei santuari scavati da Petrie e Gardner. Egli scoprì l'Hellenion a nord-est e indagò anche il Grande Temenos di Petrie. Nel 1903 Hogarth condusse una quarta e ultima campagna, continuando lo scavo dell'Hellenion e tentando di localizzare l'angolo nord-occidentale del Grande Temenos. Nell'aprile 1921, E.M. Smith visitò la vecchia area di scavo, descrivendo il luogo come "privo di ogni bellezza, un cumulo di mucchi di rifiuti,... umido e malsano". Trovò anche un deposito di acqua, che aveva già inondato parti dell'area di scavo a est.
Dal 15 dicembre 1977 al 15 gennaio 1978, W.D.E. Coulson e A. Leonard jr. condussero una ricognizione iniziale nell'area dell'antica N., al fine di accertare lo stato attuale dell'emporion e di altri antichi siti in questa regione. Questa indagine preliminare segnò il preludio della rinnovata esplorazione di N. e dei suoi dintorni, con particolare riguardo alla sua storia più tarda fino al VII sec. d.C. Una sistematica raccolta di frammenti lungo la sponda del lago produsse ceramica ellenistica e romana, fornendo la testimonianza di uno sviluppo continuato dell'antica N. La prima stagione di scavo fu condotta nel 1980. A parte un braciere di argilla, che potrebbe risalire al tardo VI sec. a.C., i rinvenimenti riguardavano soltanto l'insediamento dei periodi ellenistico e romano. Nel corso di ulteriori indagini attorno al lago nel 1980 e nel 1981, venne scoperta ceramica del periodo tardoclassico e più tarda. L'obiettivo principale di queste campagne, comunque, era il cosiddetto Cumulo Sud (South Mound) che si riteneva facesse parte del Grande Temenos di Petrie. Nel 1982, furono condotti carotaggi in vari punti allo scopo di indagare le dimensioni dell'Hellenion e gli strati più profondi del Cumulo Sud. La campagna finale ebbe luogo nel 1983 con lo scavo in qualche modo conclusivo del Cumulo Sud. Inoltre, fu portata a termine una valutazione dei carotaggi, al fine di chiarire il corso del ramo canopico del Nilo.
La storia di N. cominciò con il primo faraone saita Psammetico I (664-610 a.C.), che aveva ottenuto il potere in Egitto con l'aiuto di mercenari greci. Erodoto (II, 154) ci narra che i mercenari furono ricompensati con della terra, un pezzo della quale probabilmente divenne più tardi N. Sebbene non abbiamo notizia dalle fonti scritte di tale precoce esistenza, essa è attestata dal materiale archeologico, che inizia intorno al 625-620 a.C. con frammenti corinzi di stile Transizionale e coppe a uccelli. Una maggiore quantità di ceramica compare con il Corinzio Antico, i primi vasi attici a figure nere, i calici di tipo chiota del VII sec. a.C. e lo stile delle Capre Selvatiche medio (Wild Goat Style II), che indicano una presenza greca a N. ben entro il VII sec. a.C. La prima attestazione letteraria, comunque, è il racconto di Erodoto (II, 178-179). Egli ci informa che il faraone Amasis, dopo esser divenuto un filelleno, concesse ad alcuni Greci certi diritti e in particolare dette a quelli che giungevano in Egitto la polis di N. da abitare.
Erodoto è incline a riconoscere ad Amasis la concessione di numerosi favori nei confronti dei Greci, uno dei quali era il dono di N. Di conseguenza, la sua versione della storia non fornisce una data affidabile. È piuttosto interessante che Erodoto non parli di una fondazione per mezzo della quale sarebbe stata istituita una colonia greca. Invece, dice che il faraone ha "dato" N. da abitare ai Greci. Sebbene Erodoto indichi N. qui come una polis, una definizione che ha causato molte discussioni tra gli studiosi, è chiaro che lo storico utilizza il termine polis nel II libro delle sue Storie per descrivere insediamenti egiziani che non possono, comunque, essere comparati alle poleis greche. Questa osservazione pone la questione se Erodoto intendesse dire che Amasis assegnò ai Greci un precedente insediamento egiziano, la cui esistenza è stata sempre molto dibattuta tra gli studiosi. Da quando Hogarth sottolineò il carattere interamente egiziano dei rinvenimenti da lui effettuati nella parte meridionale di N., quest'area è stata vista come un quartiere egiziano attorno al Grande Temenos, che è stato spesso considerato un forte egiziano.
La supposizione di Hogarth che non sia stata rinvenuta ceramica greca nello "strato di bruciato" che si estende a est del tempio di Afrodite, in direzione sud-est verso l'area del Grande Temenos, è errata. Petrie, infatti, menziona ceramica greca scoperta in questo strato: anfore chiote, forse del tardo VII sec. a.C., e un cratere o anfora a vernice nera, in ogni caso di fattura greca. Lo strato sovrastante ha restituito un aryballos globulare corinzio (del Corinzio Antico o Medio), coppe a uccelli o simili, coppe ioniche, vasi dello stile delle Capre Selvatiche, vasi di Fikellura e ceramica chiota del primo periodo, che si presentavano insieme a oggetti di faïence. Anche se lo strato sopra a quello di bruciato può essere datato solo molto approssimativamente intorno al 600 a.C. e dopo, è evidente che lo strato di bruciato rappresenta il più antico di N., poiché sovrasta il suolo vergine. Quest'area pare costituire il cuore dell'emporion. Quelli che Hogarth riteneva fossero materiali ceramici egiziani erano probabilmente prodotti locali dell'età tolemaica. Il Grande Temenos attualmente è datato nel periodo ellenistico e rimangono scarse testimonianze dell'esistenza di un fortilizio o quartiere egiziano.
In base al materiale archeologico, che attesta l'impianto di N. durante il regno di Psammetico I, c'era già un insediamento greco prima di Amasis (570-526 a.C.), ma non era una polis greca, né le misure di Amasis la costituirono come tale. Una polis greca avrebbe mantenuto una sovranità politica, che era impossibile da attendersi nell'Egitto faraonico. L'amministrazione egiziana teneva sotto stretta osservazione i movimenti degli stranieri. Le misure di Amasis implicarono la riconferma dello status di N. e alcune riforme, attraverso le quali la posizione dei Greci a N. fu consolidata. Durante il regno di questo faraone, fu istituito l'Hellenion e con esso la nomina dei "capi dell'emporion", una forma di rappresentanza per l'amministrazione faraonica. Erodoto non solo menziona i Greci che volevano stabilirsi a N., ma anche quelli che erano marinai e non intendevano vivere a N. stabilmente. A questi ultimi, Amasis diede terre per erigere altari e temene per gli dei. Erodoto conosce alcuni di questi santuari: il temenos più grande, più rinomato e più frequentato era il cosiddetto Hellenion.
Secondo Erodoto, l'Hellenion fu istituito grazie agli sforzi congiunti di queste poleis: Chio, Teos, Focea e Clazomene tra le ioniche, Rodi, Cnido, Alicarnasso e Phaselis tra le doriche e la sola Mitilene fra le eoliche. Le poleis cui apparteneva il temenos nominavano i "capi dell'emporion". Erodoto sembra essere stato informato su conflitti tra queste poleis che nominavano i rappresentanti e altre poleis che rivendicavano una partecipazione. Egli riferisce che gli Egineti istituirono separatamente un temenos di Zeus di loro propria iniziativa, i Sami uno in onore di Hera e i Milesi un altro in onore di Apollo. Il tempio della Hera samia e dell'Apollo milesio sono stati scavati, mentre il tempio dello Zeus egineta rimane ignoto. Gli stili della ceramica rinvenuta e le iscrizioni confermano più o meno la presenza a N. di Greci provenienti da queste varie poleis. La distinzione tra due gruppi a N. ‒ i residenti e i mercanti ‒ non è confermata topograficamente. Gli scavi non hanno rivelato una distinzione tra un emporion e una città: l'intera N. con i suoi santuari, le botteghe di faïence e forse di ceramica era un emporion secondo Erodoto (II, 179). Lo storico descrive il suo particolare status: "In tempi antichi N. era il solo emporion ‒ e non ce n'era nessun altro ‒ in Egitto. Chiunque portasse una nave in qualunque altro ramo del Nilo era obbligato a formulare un giuramento che vi era approdato di necessità e poi avrebbe dovuto proseguire fino al ramo canopico; nel caso che venti contrari gli impedissero di agire così, egli doveva portare il suo carico a N. su battelli tutto intorno al Delta. In tali onori era tenuta N.".
Le restrizioni alle quali dovevano sottostare i mercanti greci nel commerciare con l'Egitto erano interpretate da Erodoto come onorevoli per N. Invece, queste restrizioni servivano all'amministrazione egiziana per controllare il movimento dei mercanti greci, che furono concentrati in un solo luogo nel Delta. Questo provvedimento facilitò la riscossione di tasse e imposte e servì come punto di incontro tra i sistemi sociali ed economici egiziano e greco. Così N. presenta le caratteristiche che una volta K. Polanyi definì per il suo modello di port of trade ("porto di commercio"). N. potrebbe aver conosciuto un periodo di declino in seguito all'invasione persiana nel 525 a.C., fino a un certo momento del secolo seguente. Il successivo rifiorire delle fortune dell'emporion diventa evidente nella ripresa dell'attività costruttiva non solo nell'Hellenion (nuovi edifici con un allineamento leggermente alterato), ma anche nel tempio di Apollo (seconda fase edilizia nel primo quarto del V sec. a.C.) e nel santuario dei Dioscuri (costruzione del tempio). Durante il periodo tolemaico, N. prosperò come indicato dalla nuova fase edilizia dell'Hellenion e dalla fondazione del tempio di Amon, dai ricchi rinvenimenti di ceramica e dalla sua propria monetazione. L'insediamento continuò a esistere ben entro l'età bizantina.
Gli scavi hanno rivelato un'area settentrionale, comprendente i santuari dei Dioscuri, di Apollo e di Hera insieme all'Hellenion, e un'area meridionale, con il temenos di Afrodite, la bottega di faïence e il Grande Temenos tolemaico. Che N. si trovasse a est del ramo canopico del Nilo è confermato dai risultati dei carotaggi condotti nell'area del Grande Temenos.
Il temenos di Apollo - Il primo temenos a essere scoperto a N. fu il santuario di Apollo. Esso sorge nella parte settentrionale dell'area scavata e fu identificato per mezzo di iscrizioni votive su cerami-
ca. Quando Petrie arrivò, trovò solo pochi resti del muro di mattoni di fango del temenos, insieme a quelli del basamento di un tempio. Egli valutò per il temenos una superficie di circa 43 × 79 m, con il tempio posto approssimativamente al centro, la fronte orientata a ovest. Non rimangono indicazioni della pianta di uno o più edifici sacri, ma Petrie ipotizzò due templi all'incirca delle stesse dimensioni (7,6 × 11 m al massimo). I resti architettonici, un tempo attribuiti a entrambi i templi di Apollo, ma che ora si ritiene possano appartenere ad altri templi, in particolare a quello di Hera, sono scarsi: 14 pezzi erano attribuiti al Tempio I e 30 pezzi al Tempio II; tutti questi resti sono soltanto minuscoli frammenti, che sfuggirono alle calcare più tarde.
Il Tempio I sembra essere stato un tempio ionico, a giudicare da una base di colonna, della quale esiste solo una fotografia, e da una voluta appartenente a un capitello, andato distrutto però prima che Petrie potesse fotografarlo. Le ricostruzioni tentate da Petrie indicano una data per il primo tempio di Apollo dal 570 al 555 a.C., che si accorderebbe bene con la riforma di Amasis, che forse condusse alla decisione di costruire un tempio. Comunque, la presenza di offerte votive fin negli strati più antichi fa ipotizzare che un sacello temporaneo si ergesse qui anteriormente alla edificazione del primo tempio di pietra. Il Tempio II fu costruito prevalentemente in mattoni di fango con un rivestimento di stucco, mentre le colonne e l'ornamentazione erano di marmo. Sfortunatamente, i resti sono ancora più frammentari di quelli del Tempio I: neppure un frammento di colonna è sopravvissuto. È stata avanzata una datazione del Tempio II intorno al 500 a.C. o nel primo quarto del V sec. a.C.
Il temenos dei Dioscuri - A nord del temenos di Apollo fu scoperto un santuario che, sebbene non menzionato da alcun autore classico, può essere identificato come il santuario dei Dioscuri per mezzo di iscrizioni votive vascolari. Petrie indagò i muri del temenos, già altamente incompleti al tempo dello scavo, ma non dice niente riguardo al tempio stesso. Fu Gardner a trovarlo, con la fronte orientata a ovest; egli lo descrive come un templum in antis. I muri e i pilastri erano di mattoni di fango crudi cosicché fu difficile per gli archeologi che vi scavarono distinguerli dal circostante fango del Nilo. La muratura fu rivestita con stucco, almeno nella fase edilizia finale, in magnifici colori, probabilmente con un motivo a meandro con stelle incorniciate da quadrati.
Il temenos di Hera - Petrie aveva già trovato indicazioni, sotto forma di iscrizioni votive, del temenos di Hera menzionato da Erodoto (II, 178) e aveva supposto che fosse situato tra il santuario di Apollo e quello dei Dioscuri, un po' a ovest di questi. Gardner, comunque, scavando i pochi punti rimasti non disturbati tra i muri del temenos, che secondo Petrie costituivano i limiti di una palestra, trovò ulteriori testimonianze, sotto forma di iscrizioni votive, dell'esistenza di un culto di Hera in questo luogo. Egli individuò tracce di un edificio con dimensioni interne di 17 m nord-sud e 6 m est-ovest. Esso era circondato da un muro di mattoni di fango spesso 66 cm circa ‒ uno spessore di gran lunga troppo esiguo per un muro di mattoni di fango destinato a sostenere un edificio di queste dimensioni. Lo spazio entro questi muri era stato accuratamente livellato e coperto con sabbia. Gardner interpretò questi resti come le fondazioni di un edificio circondato da un muro di mattoni di fango. L'orientamento di questo tempio devia dal modello est-ovest, che è altrimenti usuale a N. Ogni tentativo di datazione è impossibile, la sola ceramica che può essere connessa con certezza con l'Heraion comprende le cosiddette "coppe di Hera", che sono state prodotte dal 625 circa alla seconda metà del VI sec. a.C.
Il temenos di Afrodite - I rinvenimenti provenienti dal santuario di Afrodite, che fu scoperto da Gardner, lo rendono il più importante e il più ricco temenos di N. Qui furono scoperti strati non disturbati, con riconoscibili fondazioni di mattoni di fango e un ricchissimo quantitativo di ceramica ‒ circa 5000 frammenti emersi in pochi giorni ‒ per recuperare la quale furono necessari tre mesi. Mentre Erodoto non fa menzione di un temenos di Afrodite, iscrizioni votive e statuette confermano il culto della dea in questa area. La maggior parte delle statuette cipriote di Afrodite, che datano dalla fine del VII al VI sec. a.C., fu trovata qui. Gardner distinse tre fasi costruttive per il tempio, del quale non sono stati trovati né resti di muratura stabile né frammenti architettonici. Il più antico, il Tempio I, fu costruito sul suolo vergine, insieme con un altare a gradini davanti alla sua fronte orientale. La sua pianta ha una cella e un opisthodomos di dimensioni 14 × 8 m, il secondo accessibile dal centro del muro di fondo della cella.
La pianta fu accertata, più che con l'identificazione dei muri di mattoni di fango, grazie ai segni praticati con un coltello per marcare il pavimento di stucco. Non solo il pavimento, ma anche i muri erano ricoperti di stucco, sebbene non siano state trovate tracce di decorazione. Qualche tempo dopo la costruzione del Tempio I, il pavimento all'interno e il livello del suolo tra il tempio e l'altare furono innalzati di circa 30 cm e rivestiti di stucco. Frammenti ceramici furono trovati a est dell'altare sia sopra che sotto questo secondo pavimento. L'altare a gradini era costituito da un sottile muro di mattoni di fango stuccati, riempito di ceneri. Una rampa di tre gradini ‒ quattro dopo che il secondo pavimento fu aggiunto al Tempio I ‒ conduceva alla piattaforma. Piccole ali sporgevano su ciascun lato, che a causa della somiglianza con le rampe degli altari a gradini egiziani come quelli di Tell el-Amarna e Saqqara forse costituiscono un legame tra questi ultimi e gli esemplari ionici.
Le ali furono costruite in tempi differenti. Quella sud si trova sullo stesso livello dell'altare stesso; la preparazione del secondo pavimento e la conseguente alterazione nel numero dei gradini portarono presto al seppellimento del gradino di fondo, di conseguenza l'ala meridionale fu rinnovata e venne eretta quella settentrionale. In questo momento anche l'altare fu rivestito con un fresco strato di stucco. Varie altre costruzioni di mattoni di fango furono aggiunte più tardi. Tutte queste osservazioni indicano un progressivo aumento nell'altezza del terreno, sebbene la sequenza degli strati appaia problematica. Il Tempio II fu costruito sui resti livellati del Tempio I, quantunque leggermente alterato per orientamento e dimensioni rispetto al suo predecessore. L'ingresso all'opisthodomos sembrerebbe essere stato spostato verso il muro nord. I muri furono rivestiti sia dentro che fuori con stucco, come pure il pavimento. L'angolo sud-occidentale della cella ha restituito frammenti di bronzo, un disco d'oro e strumenti di ferro, così come tracce di colore blu, che deve essere caduto dai muri.
Non c'è traccia di un altare nella seconda fase. Tuttavia, dal momento che un tempio greco ha sempre un altare, quello della seconda fase verosimilmente non è stato trovato. Una struttura, comunque, fu individuata presso il muro del temenos nell'area di ingresso; questa termina in un pilastro quadrato che va a sovrapporsi all'ala settentrionale dell'altare di prima fase. Forse apparteneva a una porta di qualche genere. Il Tempio III, un po' più piccolo dei suoi predecessori, consisteva di un solo ambiente. Il rinvenimento di frammenti di un pavimento di stucco trovati nel temenos, in parte della seconda fase, in parte della terza, ha fatto dedurre un graduale aumento nell'altezza del pavimento accompagnato da un processo di rinnovamento, come è usuale per gli edifici costruiti con mattoni di fango.
Il temenos di Zeus - Non è stata trovata nessuna testimonianza dell'esistenza di un santuario di Zeus egineta, menzionato da Erodoto (II, 178). C'è poca speranza di scoprire in avvenire questo temenos, poiché, se si fosse trovato nell'area degli altri santuari arcaici, sarebbe stato rinvenuto già dai vecchi scavatori che lavorarono in maniera molto approfondita. Oggi sarebbe impossibile individuarlo qui, dal momento che l'area è sommersa dall'acqua. Se si trovasse al di fuori di questa vecchia area di scavo che è attualmente un lago, sembra strano che le ricognizioni americane non abbiano riferito dell'esistenza di tracce di un temenos arcaico.
L'Hellenion - Erodoto (II, 178) descrive l'Hellenion come il più noto e il più visitato santuario di N. Mentre Petrie identificava il Grande Temenos con l'Hellenion, nel 1899 Hogarth scoprì edifici provvisti di numerose camere a nord-est dell'antica area di scavo e frammenti recanti iscrizioni a singole divinità, ma anche a divinità collettive dei Greci. Gli edifici erano circondati dal muro di mattoni di fango del temenos, con uno spessore di 7,60-9 m. Questa area si estendeva per una lunghezza di 107 m, con orientamento nord-sud, fin dove il livello della falda acquifera impedì il lavoro e rese impossibile individuare il muro di limite settentrionale. È difficile ricostruire lo sviluppo architettonico del complesso di edifici, dal momento che molto era già stato distrutto prima che incominciassero le indagini e l'alto livello dell'acqua stagnante ostacolava lo scavo degli strati inferiori. A quanto si può affermare dalla pianta risultante, l'Hellenion non è un tipico tempio greco. Piuttosto, il sistema delle camere richiama alla mente templi greco-egiziani del Fayyum.
Le ricognizioni intraprese da Coulson e Leonard nel 1980-81 lungo la sponda del lago che oggi copre N. misero in luce una massa di frammenti tardoclassici ed ellenistici dall'area dell'Hellenion. Sfortunatamente, l'alto livello dell'acqua ha reso impossibile lo scavo, ma carotaggi condotti nel 1982 suggeriscono che l'Hellenion si estendesse in direzione est ‒ non verso nord ‒, indicando che il tempio aveva un orientamento canonico est-ovest. Lo sviluppo dell'Hellenion può dunque essere descritto come segue: possono essere identificate tre fasi edilizie, in ciascun caso di pietra e mattoni di fango. Gli edifici del periodo tolemaico (fase III) possono essere analizzati meglio, in quanto al tempo degli scavi i loro muri sopravvivevano in parte fino a un'altezza di 1 m. I frammenti ceramici risalgono a un periodo che si estendeva dal III sec. a.C. all'età romana. Gli edifici furono costruiti su uno strato di sabbia probabilmente depositato in epoca tolemaica allo scopo di ricostruirvi sopra l'Hellenion, dal momento che questo strato di sabbia si trova sopra a strutture del V sec. a.C. (fase II). La fase più antica di costruzione (fase I) potrebbe essere inquadrata presumibilmente nel contesto della riforma di Amasis nel 570 a.C.
Il Grande Temenos - La principale struttura edilizia scoperta da Petrie nel 1884-85 consisteva in un massiccio edificio di mattoni di fango circondato da un muro di temenos, il cosiddetto Grande Temenos. Petrie descrisse un temenos con un'estensione approssimativamente di 260 × 230 m. Egli stabilì un'altezza di 8,80 m nei punti meglio conservati, valutando che l'altezza originaria fosse stata intorno ai 12 m. Comunque, accertò che l'intero muro ‒ a parte una piccola sezione nel lato meridionale vicino all'angolo sud-ovest ‒ era stato smantellato da attività agricole fino al livello attuale, che rimane in molte parti solo di 1,5 fino a 3 m di altezza. Nel 1898, il Grande Temenos era divenuto un campo di grano. La ricerca da parte di Hogarth dell'angolo nord-occidentale del Grande Temenos di Petrie andò incontro a un fallimento: egli non riuscì a trovare alcuna traccia dei muri descritti di forma così massiccia. Ciò lo spinse a bandire definitivamente l'idea del Grande Temenos.
Petrie scoprì un edificio tolemaico sul lato ovest dei muri del temenos da lui ricostruiti, dove trovò tracce di un pylon, o meglio un portico, sul lato lungo esterno ‒ un elemento tipico dei templi egiziani ‒ costruito interamente di pietra. L'edificio stesso era di mattoni di argilla, resti di malta indicavano che era coperto con lastre di pietra e serviva come edificio di ingresso al Grande Temenos. Egli individuò quattro depositi di fondazione negli angoli dell'edificio, datati in base a un cartiglio di Tolemeo II Filadelfo (282-246 a.C.). Questa struttura doveva costituire l'ingresso al tempio egiziano dedicato ad Amon, iniziato sotto Tolemeo I Soter (323/2-282 a.C.) come conferma un'iscrizione geroglifica. L'esistenza a N. di un culto di Amon con l'epiteto di Batet o sotto il titolo di Signore di Batet è stata dimostrata da J. Yoyotte.
Il più importante edificio entro il Grande Temenos è rappresentato da una immensa costruzione di mattoni di fango con una pianta approssimativamente quadrata, denominata Grande Cumulo (Great Mound). Petrie ricostruì le misure esterne di 55 × 54 m e l'altezza di almeno 15 m, di cui 10 m buoni sono ancora conservati. Ventisei camere erano raggruppate su ciascun lato di un corridoio centrale, alcune delle celle erano riempite interamente con mattoni di fango o detriti che contenevano una moneta bronzea di Alessandro e altri reperti di età tolemaica. Costruzioni simili sono state rinvenute in altri luoghi nel Delta. E. Oren vede finalità di ingegneria dietro la costruzione di camere del genere al di sotto di un piano elevato, in quanto il sistema di pozzi e corridoi avrebbe contrastato l'umidità provvedendo di conseguenza a un appropriato drenaggio della massa di mattoni e sollevando la tremenda pressione creata da questa.
Non senza immediate obiezioni, B. Muhs sostenne l'identificazione del Grande Cumulo di N. con un tempio egiziano "alto" o "periptero" costruito nei secoli IV e III a.C. Sono state rinvenute piattaforme, usuali all'interno delle recinzioni di templi egiziani, al di fuori del principale asse del tempio e disposte ad angolo retto con questo, con la fronte verso il tempio. Ai piani elevati delle piattaforme si accedeva solitamente per mezzo di rampe esterne o di gradinate di pietra o di mattoni di fango, che conducevano alle corti colonnate nella parte frontale della piattaforma. Il Grande Temenos sarebbe quindi il candidato ideale per essere identificato con la recinzione di un tempio egiziano del periodo tolemaico in onore di Amon di Batet. Il mancato rinvenimento del tempio principale può essere spiegato facilmente con il fatto che gli edifici di pietra furono reimpiegati come cave di materiale con il risultato dell'assenza completa di tracce di monumenti del genere.
Nel 1977-78, Coulson e Leonard rilevarono un cumulo largo 60 × 90 m e alto 5 m, che chiamarono il Cumulo Sud (South Mound), al centro del villaggio arabo di Kom Geif, sulla sponda meridionale del lago che oggi ricopre N. Nel 1980 e 1981 furono intrapresi scavi nell'area del Cumulo Sud, che hanno portato alla luce solo materiali tolemaici, per la maggior parte di origine locale, del III-II sec. a.C. I dubbi espressi da Hogarth riguardo alla precisione delle descrizioni di Petrie si rafforzarono in seguito alla campagna del 1981. Carotaggi furono condotti nel 1982, con l'intenzione di ottenere campioni sotto il livello dell'acqua. Il campione prelevato nel sito C conteneva frammenti e microframmenti dello stesso tipo di ceramica tolemaica di quella rinvenuta nel resto del Grande Temenos. Le inclusioni di ceramica svanivano a livello del mare, dove fu trovato fango di deposito grigiastro, che diventava più sabbioso e ruvido sotto il livello del mare. Questa ruvida sabbia fangosa è interpretata come un'indicazione della presenza di una gran quantità di acqua corrente, che fa ipotizzare che il ramo canopico o qualche altro importante ramo del Nilo scorresse qui in età pretolemaica, dato che è stato successivamente confermato dai carotaggi effettuati in questa zona. Tutte le indicazioni conducono alla conclusione che il Grande Cumulo o "tempio alto", come l'edificio di ingresso, sia stato costruito in epoca tolemaica, poiché è venuta alla luce solamente ceramica dell'età tolemaica e più tarda.
La bottega di faïence - Di fronte al temenos di Afrodite, Petrie rinvenne i resti di una officina di faïence egiziana costituiti da uno strato di terra giallastro, il cui colore Petrie attribuì alla decomposizione di materiale di scarto, insieme a innumerevoli scarabei di faïence e relative matrici. Furono anche scoperti materiali grezzi, nella forma di pezzi di fritta blu, verdastro-blu, verde e giallognolo-verde, chimicamente connessa alla faïence, una pietra per affilare e una scoria di rame. Le matrici trovate da Petrie a N. differiscono da quelle altrimenti rinvenute in Egitto in quanto non hanno canali sul lato per il deflusso del materiale in eccedenza. Petrie ne dedusse che gli scarabei di faïence di N. non erano prodotti utilizzando matrici su ciascun lato, ma che la massa veniva pressata in una mezzaforma e il residuo che sporgeva era eliminato con un coltello. Dopo che la massa si era indurita, i motivi decorativi venivano incisi nel lato inferiore, prima che il tutto fosse cotto e smaltato.
Petrie contò 678 matrici differenti per la produzione di scarabei: teste, busti, dischi, coni, leoni accucciati e teste di leone, decorati sul lato inferiore con motivi egittizzanti. I rinvenimenti comprendevano anche le matrici di amuleti di tipo puramente egiziano come gli occhi di Horo e le figure di Bes. In aggiunta ai vari tipi di sigilli, è fatta menzione anche dei resti delle cosiddette "fiasche da pellegrino", di piccoli pannelli intarsiati di smalto e piccole ciotole di fritta blu, per cui è stato ipotizzato che anche vasellame e oggetti simili fossero fabbricati a N. I motivi trovati sono in parte egiziani, sebbene talmente alterati che si deve supporre che siano stati artigiani greci a lavorare questo materiale. D'altro lato, dal momento che anche motivi greci sono stati fraintesi, ci si domanda se anche personale non greco possa aver lavorato nella bottega. Riguardo alla cronologia di questa officina, la ceramica che è stata trovata, confermata dalla datazione degli scarabei e degli oggetti di faïence, indica un arco di tempo per la produzione di faïence egiziana a N. che si estende dal tardo VII alla seconda metà del VI sec. a.C.
Ceramica - Le prime campagne di scavo a N. attirarono un grande interesse verso la fine del XIX secolo, non da ultimo a causa della scoperta di numerose migliaia di frammenti di ceramica arcaica. L'attenzione si concentrò interamente sulla ceramica finemente dipinta, ignorando quasi anfore e vasellame da cucina. La ceramica fine (conservata principalmente a Londra, British Museum) comprendeva numerosi stili sconosciuti fino ad allora, come una ceramica a ingubbiatura bianca da Chio, denominata "naukratica" per la sua origine precedentemente ignota, e le coppe a uccelli con i loro derivati. La provenienza di molti degli stili ceramici rinvenuti a N. creò un grande problema al tempo, che ancora oggi non è stato completamente risolto. Non è stata trovata ceramica protocorinzia a N. e il Transizionale e il Corinzio Antico sono scarsamente rappresentati. La maggior parte della ceramica corinzia restituita da N. è del Corinzio Medio e Tardo; la forma più comune è il cratere a colonnette.
Esempi di vasi attici nel primo stile a figure nere a N. includono un frammento del Pittore di Nesso e alcuni esemplari delle cosiddette Early Olpai datati negli ultimi due decenni del VII sec. a.C. Pezzi del Pittore della Gorgone, del suo allievo Sophilos, del Pittore del Ceramico e del Pittore del Polos furono portati a N. all'inizio del VI sec. a.C. Un considerevole numero di frammenti può essere ascritto ai pittori del Gruppo dei Comasti. Alla seconda metà del VI sec. a.C. risalgono esemplari del Pittore di Amasis, come pure del Pittore Affettato e del Pittore dei Gomiti in Fuori. Sono state rinvenute anche coppe attiche a vernice nera decorate con iscrizioni, specialmente nell'Hellenion. I primi vasi ateniesi a figure rosse presenti a N. possono essere datati nell'ultimo quarto del VI sec. a.C. Sussistono complessivamente solamente pochi pezzi di ceramica fine dalla Laconia, 31 frammenti dei quali provengono da N. Più della metà può essere attribuita al Pittore dei Boreadi; di questi frammenti, quelli databili con più precisione furono eseguiti tra il 570 e il 565 a.C.
Sono stati rinvenuti a N. alcuni esempi dello stile delle Capre Selvatiche medio I e II (MWG I-II), prodotti a Mileto. Nella fase tarda dello stile (LWG), la più importante scuola locale era situata nella Ionia settentrionale, presumibilmente a Clazomene e Teos; da qui provengono tutti i pezzi canonici della fase tarda scoperti a N. È stato trovato a N. un certo numero di dinoi e altre forme dello stile tardo, che in un primo momento erano stati ascritti a produzione eolica, ma attualmente sono ritenuti della Caria. Rodi, alla quale erano inizialmente attribuiti tutti i vasi nello stile delle Capre Selvatiche, produceva solamente semplici piatti e coppe della fase tarda, alcuni dei quali raggiunsero N. Il luogo di fabbricazione della ceramica dello stile di Fikellura era sulla costa meridionale dell'Asia Minore, sotto la guida di Mileto. Qui questo stile si sviluppò tramite esemplari bilingui dallo stile delle Capre Selvatiche di fase media I. Vasi cosiddetti di Fikellura sono stati trovati a N. e a Tell Defenneh in grandi quantità.
Un tempo furono trovati a N. così tanti frammenti di ceramica chiota, che fu inizialmente denominata "naukratica". L'incremento della produzione non si verificò fino alla fase media II dello stile delle Capre Selvatiche (620-600 a.C. ca.), il periodo maturo, come mostrano anche i rinvenimenti a N. L'esemplare più noto di questa fase è la cosiddetta Coppa di Afrodite, datata intorno al 600 a.C. Intorno all'inizio del VII sec. a.C. prese avvio lo "stile a calice con animali" (Animal Chalice Style, 600-575 a.C. ca.), che ebbe un'ampia diffusione, ad esempio a Berezan, Delo, Tocra e N. Il cosiddetto "stile grandioso" (Grand Style, 575-550 a.C. ca.), che fino a ora non è stato scoperto a Chio, si ipotizza che fosse prodotto a N., da dove proviene quasi esclusivamente. Lo stile a figure nere cosiddetto "della Sfinge e del Leone" (ca. 600 - metà del VI sec. a.C.) è provinciale, essendo distribuito solo in pochi esemplari fuori di Chio, alcuni, ad esempio, a N. Un gruppo veramente esiguo di vasi in stile chiota a figure nere, che mostra una notevole influenza laconica, è stato definito "stile grandioso a figure nere" (570-560 a.C. ca.). I frammenti, tutti attribuiti a una singola mano, sono stati rinvenuti quasi esclusivamente a N. e non un singolo frammento a Chio stessa; né è stata rinvenuta a Chio ceramica laconica, che potrebbe aiutare a spiegare la manifesta influenza laconica sul pittore in questione. Conseguentemente, si è tentati di pensare a una officina di N. Kantharoi ingubbiati a figure nere del terzo quarto del VI sec. a.C., kantharoi privi di decorazione figurata e kantharoi a fasce risparmiate della seconda metà del VI secolo, che recano iscrizioni dedicatorie dipinte, sono stati trovati a Chio e a Egina, come pure a N.
La cosiddetta "ceramica clazomenia" è quella conosciuta meglio all'interno di uno stile indipendente a figure nere della Ionia settentrionale; è possibile che gruppi connessi fossero prodotti a Erythrai, Teos o Focea. La ceramica di Clazomene include solamente una piccola quantità di esemplari di questo stile. La produzione sembra coprire il periodo che va dal 560 al 525 a.C. dal momento che nel terzo quarto del VI sec. a.C. si ha il picco dell'attività di esportazione a N. Comunque, il principale luogo di rinvenimento è Tell Defenneh. Singoli esemplari sono noti anche da altri luoghi dell'Egitto. Intorno al 600 a.C. le coppe a uccelli furono soppiantate dalle coppe a rosette che continuarono il modello delle precedenti, sostituendo semplicemente la decorazione a uccelli con le rosette. Questa variante rimase in uso nella seconda metà del VI sec. a.C. Entrambi i tipi sono noti a N., dove trovarono un'evoluzione nelle particolari coppe a occhioni, la cui caratteristica decorazione consiste in un paio di grandi occhi con forme a spirale disposte a delineare un naso. La tendenza era di porre tre di queste coppe l'una sopra l'altra, formando una tripla coppa a occhioni, come nella più famosa rappresentante di questo tipo, la coppa di Rhoikos, datata nel primo quarto del VI sec. a.C.
Le coppe di Vroulià, probabilmente eseguite a Rodi, erano esportate raramente, eccetto a N. Le cosiddette "coppe ioniche" sono state trovate in tutte le aree di scavo a N., specialmente nei livelli arcaici del temenos di Apollo e di quello di Afrodite. I materiali rinvenuti recano dediche ad Apollo, ad Afrodite e ai Dioscuri. La maggior parte di queste coppe fu probabilmente prodotta a Mileto e a Samo, ma una variante sembra provenire da Cnido, con iscrizioni in alfabeto cnidio. A Mileto e Samo è ugualmente attribuita la produzione di un ulteriore sviluppo di queste coppe: le "coppe ioniche dei Piccoli Maestri", che possono essere documentate solo dal 550 al 525 a.C. circa. A N. sono stati rinvenuti alcuni esemplari di cosiddetto "bucchero ionico", alcuni di "eolico" e alcuni di bucchero etrusco.
Durante il VII e il VI sec. a.C. piccoli vasi a forma di figure furono particolarmente popolari come contenitori di oli profumati. Diversi tipi di questi vasi plastici (oggi conservati a Londra, British Museum) sono stati trovati a N.: da officine rodie provengono una testa di Acheloo, una testa di cavallo e un porcospino, tutti datati alla metà del VI sec. a.C., e una melagrana del primo VI sec. a.C. Approssimativamente nello stesso periodo, una figura maschile accosciata fu eseguita a Corinto. Pochi pezzi della seconda metà del VI sec. a.C. trovati a N. appartengono alla classe cosiddetta "a vernice opaca" (matt-painted), il cui centro di produzione presumibilmente era a Rodi: una testa di Eracle, un gorgoneion, due teste da statuette femminili, una donna seduta su un trono, un frammento di una testa di Satiro e una colomba. Sebbene il materiale disponibile sia scarso, anfore da Chio, Samo, Lesbo, Atene, ma anche di origine fenicia e cipriota possono essere identificate tra i rinvenimenti di N.
Terrecotte - Le terrecotte provenienti da N. (conservate anch'esse a Londra, British Museum) sono scarsamente pubblicate. Nondimeno, è possibile affermare che alcune terrecotte votive sono di produzione locale e imitano tipi egiziani, ciprioti e del cosiddetto "stile misto". Il più antico esemplare scoperto è un pannello a rilievo che reca la rappresentazione di un'Afrodite nuda (fine del VII sec. a.C.) in un contesto architettonico suggerito da due colonne, una composizione tipicamente egiziana. Sono stati rinvenuti anche esemplari analoghi eseguiti in pietra, i quali seguono il tipo di Astarte che, reinterpretato come Afrodite, simboleggiava la prostituzione prosperante a N. Modelli egiziani possono essere visti in una testa femminile e in due figurine di Bes accosciate, che riflettono gli amuleti egiziani di faïence e fritta blu anch'essi trovati a N. e possibilmente prodotti in loco. Un gruppo di terrecotte da N. comprende tipi ciprioti, sebbene non si possa dire se siano importazioni o modeste imitazioni. Esse includono tra i tipi un guerriero con elmo nel primo stile neocipriota, teste di statuette femminili neocipriote, statuette virili panneggiate e piatte statuette di Afrodite del tipo Achna.
Statuette - Tra i rinvenimenti si possono annoverare statuette di arenaria, calcare, alabastro, argilla o faïence. Tipi simili spesso ritornano in materiali differenti, che implicano semplicemente un adattamento della rifinitura al materiale in questione. Molte di queste statuette, e specialmente quelle di argilla, faïence e alabastro, furono presumibilmente realizzate a N. Tali oggetti di produzione locale rivelano le differenti influenze culturali di arte egiziana, siro-fenicia, cipriota e ionica. È estremamente difficile distinguere tra articoli locali e importati, dal momento che le stesse supposte importazioni mostrano spesso uno stile misto e il loro disegno non rivela necessariamente una qualità superiore.
Il cacciatore di calcare (oggi a Londra, British Museum) dal temenos di Afrodite può essere visto come un esempio tipico di stile misto, né egiziano né cipriota. Un'iscrizione greca ci dice che fu un Greco a dedicare questa statuetta. Esemplari di stile misto con pronunciati caratteri ciprioti includono uomini ammantati (oggi a Londra, University College London), un suonatore di lira e statuette del tipo di Iside e Horo (a Londra, British Museum). Esemplari di stile misto con caratteri egiziani pronunciati possono essere individuati in alcune teste di statuette, un suonatore di tamburo e un uomo seduto con una scatola sulle ginocchia e una tavola con quattro pesci di fronte a lui (a Londra, British Museum). Le statuette di kouroi, trovate nei santuari di Apollo e di Afrodite, e la maggior parte di quelle di alabastro locale si ritiene che siano state prodotte a N. Una forma particolare del kouros può essere vista nel tipo cosiddetto del Signore degli Animali (esemplari conservati a Londra, British Museum, e a Cambridge, Fitzwilliam Museum), un giovane nudo che afferra le zampe posteriori e la coda di un leone che pende davanti alle sue gambe. Sebbene il modello del Signore degli Animali sia di origine vicino-orientale, i suoi caratteri stilistici sono greco-orientali.
Conchiglie Tridacna - Esemplari lavorati di Tridacna squamosa sono stati rinvenuti in molti siti in Oriente e in Grecia, come pure a N. (un esemplare non lavorato e sei o sette decorati). Da un punto di vista stilistico, motivi egiziani e assiri appaiono mescolati, risolvendosi in un modello comune nel Vicino Oriente, le origini del quale sono probabilmente da trovare lungo la costa siro-fenicia. Questi lavori furono prodotti tra il 675 circa e il 600 a.C., raggiungendo il picco poco dopo il 650 a.C. In questo caso, le conchiglie sarebbero tra i più antichi rinvenimenti di N., ma è verosimile che esse abbiano inizialmente circolato come oggetti esotici e siano state utilizzate a fini cosmetici ‒ come evidenziato dalle tracce di colore ‒ prima di finire nei luoghi di rinvenimento.
Riferimenti dettagliati si trovano in A. Möller, Naukratis. Trade in Archaic Greece, Oxford 2000.
In generale si veda:
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di Nicola Bonacasa
Città (gr. ᾿Αλεξάνδϱεια; lat. Alexandria) fondata da Alessandro Magno nell'inverno del 332/1 a.C., durante il suo viaggio all'oasi di Siwa per ascoltare l'oracolo di Zeus Ammon, all'estremità nord-ovest del Delta del Nilo, sulla stretta lingua di terra compresa tra il Mediterraneo a nord e la Palude Mareotide a sud e fronteggiata, a poco più di un miglio dalla costa, dall'omerica isola di Pharos (Od., IV, 351-355).
Due nuclei antichissimi di abitazioni, l'avamposto faraonico di Rhakotis e Pharos, un approdo forse di tradizione micenea, occupavano il sito dove sarebbe sorta A. Regnando Tolemeo II, sull'isola di Pharos sorse la gigantesca torre luminosa di Sostratos di Cnido (il cd. Faro di A.), una delle meraviglie del mondo antico, le cui fondazioni restarono sepolte sotto il forte del sultano Qait Bay (1477). Urbanista fu l'architetto Deinokrates di Rodi, sovrintendente Kleomenes di Naukratis. A. venne distrutta nel 642 d.C., dopo 14 mesi di assedio, dalle armate di Amr ibn al-As. Scomparso Alessandro nel 323 a.C., l'Egitto passò a Tolemeo, figlio di Lago, alla cui opera e alla cui discendenza si deve la trasformazione di A. in grande metropoli cosmopolita e in città portuale largamente attrezzata. La costruzione dell'Eptastadio, un molo ad arcate lungo 1500 m circa, che collegava l'isola di Pharos alla costa, originò la nascita di due porti, il Grande Porto orientale, più aperto, e quello occidentale, l'Eunostos, ben protetto, e influì sull'urbanistica di A. La pianta regolare e definitiva, l'accorta zonizzazione della città, la creazione di edifici nuovi e originali (come la Biblioteca e il Museo) sono di un architetto più giovane di Deinokrates, sensibile interprete delle necessarie varianti al piano originario e del programma politico dinastico; esse furono attuate dopo l'incoronazione di Tolemeo I Sotèr (305 a.C.) e sotto il regno di Tolemeo II, forse dall'architetto Deinochares.
Le misure fornite da Strabone (XVII, 1, 8) per la lunghezza e la larghezza di A. (30 × 7-8 stadi) sembrano attendibili; il circuito delle mura, a un certo momento, sarebbe stato di 15 km circa. Nonostante sia andata quasi interamente distrutta, quanto ci tramandano le fonti scritte (benché siano perdute le più antiche come il Πεϱὶ ᾿ΑλεξανδϱείαϚ di Callisseno di Rodi) è sufficiente per avere un'idea generale abbastanza precisa della città tolemaica e del suo tenore di vita. Ricorderemo le due celeberrime descrizioni di Callisseno, raccolte da Ateneo nei Deipnosophistài (V, 196 ss.): l'una sulle grandi feste quinquennali, Ptolemaia, istituite da Tolemeo II per onorare il Sotèr, sul lusso della tenda d'onore (la famosa skenè) e sulla celebre processione; l'altra sulla splendida nave fatta costruire da Tolemeo IV sul Nilo (la Thalamegòs), strutturata su due piani e ricca di ambienti, tra cui la famosa "sala egizia". Due conferme indirette ci vengono sia dall'idillio XV di Teocrito (Le Siracusane), che è un quadro vivacissimo della vita di A. sotto Tolemeo II in occasione dell'annuale festa di Adone, sia dal noto mimiambo di Eroda (La mezzana), in cui l'Egitto è presentato come il paese delle meraviglie. Lo spaccato significativo della società alessandrina e della corte tolemaica, come quello schizzato da Callisseno, da Teocrito e da Eroda, è riconfermato dai papiri dell'archivio di Zenone, segretario di Apollonio e ministro delle finanze di Tolemeo II, residente a Philadelphia.
Lucano (X, 111 ss., 527 ss.) celebra il fasto della reggia alessandrina; Vitruvio (VI, 3, 8) segnala l'originalità dell'oecus Aegyptius, ben diverso dagli altri tipi noti. Il XVII libro della Geographia di Strabone, che soggiornò in Egitto negli anni 25/4 a.C., è di fondamentale importanza per i dati relativi alla posizione e alla forma di A. e, soprattutto, per l'itinerario che il geografo segue, dal promontorio Lochiàs fino al porto occidentale. Strabone ricorda: il palazzo reale del Lochiàs, i palazzi reali "interni" (non dislocati sulla costa), il porto privato della reggia, l'elegante isoletta di Antirrodos, il teatro, un tempio di Poseidone, il Timonium (un molo fatto costruire da Antonio), il Cesareo, l'Emporium, le Apostaseis (grandi magazzini del porto), i Neoria (cantieri navali), il Grande Porto, a est, l'Eptastadio e l'isola di Pharos, il Porto Eunostos, a ovest e, in questo, il piccolo porto detto Kibotòs ("la scatola"), nel quale versava le sue acque il canale del Nilo; quindi il sobborgo di Nekropolis ubicato all'estremo limite occidentale (Strab., XVII, 1, 10), oltre la città e il vecchio quartiere di Rhakotis. Strabone continua, senza regolarità, segnalando la grande strada longitudinale est-ovest che incrocia l'arteria trasversale e menzionando il ginnasio, il Dikasterion, il belvedere del Paneion e, oltre la Porta Est o Canopica, l'ippodromo, il sobborgo di Eleusi e la cittadina di Nikopolis (fondata da Ottaviano dopo la vittoria su Antonio).
Diodoro (XVII, 52, 5) presenta A. fitta di edifici sacri, pubblici e privati e ne esalta la bellezza e la grandezza, chiamandola la prima città del mondo. Cesare, secondo Appiano (Bell. civ., II, 89), sbarca ad A. ed è subito colpito dalla sua straordinaria bellezza. Ottaviano, vinti Antonio e Cleopatra, parla agli Alessandrini riuniti nel ginnasio (Plut., Ant., 80) e assicura che risparmierà la città perché rispettoso della sua grandezza. Filone Ebreo (Leg. ad Gaium, 151) ci ha trasmesso una descrizione ammirata del famoso Cesareo; il Serapeo nei tardi scrittori (Amm. Marc., XXII, 16, 12-13) è magnificato come il più bel santuario del mondo. Testimonianze indirette sul fasto dell'architettura templare alessandrina ci vengono sia dalle riproduzioni della piccola arte industriale sia soprattutto dalle rovine imponenti di un grande santuario di stile greco eretto a Tolemeo III e alla regina Berenice a Hermopolis Magna, in Alto Egitto. Per quanto riguarda le case, possiamo trarre notizie dai papiri, in particolare da quelli di Zenone, circa gli ambienti delle abitazioni di Philadelphia, una ricca cittadina di provincia della prima metà del III sec. a.C., con la loro decorazione parietale e musiva.
La magnificenza di A. è celebrata anche dai tardi romanzi dello Pseudo-Callistene e di Achille Tazio, da Malalas e da Teofilo di A. e la città è sinceramente rimpianta nelle cronache di Ibn Battuta, al-Maqrizi, Ciriaco di Ancona, Filippo Pigafetta e di molti altri descrittori. Alcuni di essi ci dicono come A. sia stata spogliata e distrutta, fino a ridursi nei secoli XVII-XVIII a piccolo borgo. La rinascita della città, nel corso del XIX secolo, fu opera di Muhammad Ali Pasha, il secondo fondatore di A., il quale la trasformò in moderna città cosmopolita, e del figlio, il Khedive Ismail, che completò il grandioso progetto paterno e incaricò Mahmud Bay, detto al-Falaki, di eseguire numerosi scavi (1866) e di tracciare una pianta della città antica (1872). La pianta di al-Falaki era quella di A. romana, ma essa divenne la pianta-tipo della città ellenistica ippodamea e su di essa operarono, con poche varianti, H. Kiepert (1882), D.T. Neroutzsos (1888), W. Sieglin (1893), O. Puchstein (1895), D.G. Hogarth (1895), G. Botti (1898), E. Breccia (1914-22 e 1929) e altri studiosi, fino al saggio metodologicamente corretto proposto da A. Adriani (1934), il quale si giovava delle scoperte più recenti e dei risultati degli scavi di F. Noack (1898-99) nel quartiere dei Basileia; infine, nel 1963-66, Adriani avanzò una sua definitiva proposta di pianta comparativa della città antica e della città moderna.
Questi tentativi risultano di eccezionale importanza non tanto per l'identificazione del sito degli antichi monumenti, quanto invece per il riconoscimento del centro cittadino, prima ellenistico e poi romano, per il tracciato viario, per l'estensione dell'abitato ellenistico, per la cronologia e il rinnovamento edilizio della città romana (fra Adriano e Antonino Pio), per la dislocazione delle necropoli. La pianta di al-Falaki e quelle successive confermano il sistema planimetrico generale della città e il tracciato ortogonale di tradizione ippodamea, noto dalle fonti, dominato da due grandi strade incrociantisi ad angolo retto (larghe 1 plettro = 30 m ca.). La lunga arteria est-ovest, la via Canopica, caratterizzava la città per imponenza e per numero di edifici e in età romana era stata arricchita di due porte, quella del Sole a est e della Luna a ovest. È possibile la lettura topografica che segue: la reggia, forse opera di Deinochares, occupava un terzo o un quarto dell'intera città; a detta di Strabone, era dislocata nel settore nord-est di A. ellenistica e, oltre ai palazzi del re e della corte, comprendeva il Museo, la Biblioteca, il teatro, il complesso delle tombe reali, insieme a quella di Alessandro, un grande peristilio e i giardini. Numerosi erano i templi e i santuari: di Iside, di Dioniso, di Afrodite Urania, dei Theòi Soteres, dei Theòi Adelphòi, dei Theòi Euerghetai; ubicati con sicurezza sono il Serapeo di Rhakotis e il Cesareo, nonché un tempio di Iside e di Serapide.
Altri edifici alessandrini, menzionati dalle fonti, sono: un Tychaion, voluto dal Sotèr, al centro della città; un Homereion (Ael., Var. hist., XIII, 22) e il già ricordato tempio di Iside e Serapide sulla via Canopica, eretti da Tolemeo IV; il Nemesion, dove Cesare fece seppellire la testa di Pompeo; l'Arsinoeion, dell'architetto Timochares, costruito da Tolemeo II presso i Neoria, per la sorella e sposa Arsinoe; l'agorà, forse doppia, una sul porto e una al centro; un grande ginnasio, che sorprese Strabone per via dei portici lunghi più di uno stadio; un belvedere al sommo della collinetta artificiale del Paneion; lo stadio; un ippodromo a est, fuori la Porta Canopica, e uno nel quartiere di Rhakotis, a ovest. Avanzi consistenti ci sono pervenuti di due costruzioni: il grande Serapeo e il famoso Cesareo. Di quest'ultimo è nota la coppia di obelischi di granito che decoravano l'ingresso, ricordati da Plinio (Nat. hist., XXXVI, 69), dei quali l'uno è oggi sulle rive del Tamigi, l'altro nel Central Park di New York. Del Serapeo di Rhakotis, identificato già nel 1810 (che va distinto dal Serapeo opera dell'architetto Parmeniskos), sede della cosiddetta "biblioteca figlia", le cui rovine sono dominate dall'immensa colonna dioclezianea (detta di Pompeo), gli scavi di A. Rowe (1943-45) ci hanno reso le ricche placchette di fondazione del tempo di Tolemeo III e, insieme, nuovi dati sulla complessa planimetria dell'edificio.
Nel resto della città abbiamo alcuni avanzi di costruzioni ellenistiche scoperte nell'ambito dei palazzi reali. I ruderi più imponenti dell'antica A. sono concentrati oggi a Kom el-Dik, una collinetta dove si posizionava erroneamente il sepolcro di Alessandro (a volte arbitrariamente collocato nei pressi della moschea Nebi Daniel). A Kom el-Dik, la Missione Archeologica Polacca, che vi opera dal 1960, ha riportato in luce diverse costruzioni: un grande edificio termale in uso dal II al VI sec. d.C., interamente realizzato di mattoni, che presenta estesi rifacimenti; il cosiddetto "teatro romano", databile nella configurazione attuale al IV-V sec. d.C., con 12 file di sedili di marmo; un gruppo molto consistente di abitazioni private, del V-VI sec. d.C., che occupa un'estesa area di case risalenti al II sec. d.C.; infine 3 edifici costruiti a ferro di cavallo (cd. "scuole"), ciascuno con 3 file di sedili rivolti verso la cattedra, che sono le uniche costruzioni romano-bizantine di A.
Se della città quasi nulla si è conservato, molto possediamo delle necropoli alessandrine che comprendevano larghi settori di tombe a fossa e molte altre zone di ipogei più o meno estesi. In tutte e due le tipologie, sono soprattutto i loculi a caratterizzare le necropoli di A., sia che venisse usato il rito dell'inumazione sia quello della cremazione. Per quest'ultimo, le ceneri venivano raccolte entro vasi della nota categoria detta "di Hadra", le fosse erano coperte da terra o da semplici monumentini in muratura, che spesso recavano infisse stele dipinte. Alle necropoli che si estendevano a est (Antoniadis, Cleopatra les Bains, Ibrahimiyya, Hadra, Mustafa Pasha, Shatbi, Sidi Gaber, Sporting, el-Montaza, Tigrane Pasha, cd. Tomba di Alabastro) e a ovest della città (Gabbari, Mafrusa, Kom esh-Shogafa, Wardiyan, Suq el-Wardiyan, Forte Saleh, ipogei Thiersch nn. 1-2, tomba di Dionysarion, necropoli di Miniet el-Basal, catacomba Wescher) vanno aggiunte quelle dell'isola di Pharos (Anfushi e Ras el-Tin). In tutti i settori delle necropoli alessandrine sono stati rinvenuti ipogei monumentali, più numerosi quelli ellenistici a est, mentre a ovest lo sono quelli romani.
L'ipogeo ellenistico-alessandrino monumentale nasce come tomba di famiglia: ha una concezione architettonica organica e concentrata attorno alla corte scoperta, servita da una scala di accesso, comprende una o più camere funerarie con letti funebri (klinai), spesso finemente decorati, vestibolo con banconi per i servizi, altari per sacrifici, bacini, pozzi per l'acqua lustrale, pareti spesso finemente dipinte. La tipologia romana presenta maggiore estensione, sepolture intensive a filari di loculi sovrapposti, scarsa decorazione e, quando presente, di limitata qualità, fatta eccezione per i due grandi ipogei occidentali a el-Wardiyan (già noto nel XVIII sec.) e a Kom esh-Shogafa, presso il Serapeo. La casa contemporanea ha influito di certo sulla planimetria e sulla decorazione architettonica di codesti ipogei monumentali, che sono di due tipi: il primo con corte centrale a peristilio o pseudoperistilio, intorno alla quale sono distribuiti i vari ambienti (ipogeo n. 1 di Mustafa Pasha); il secondo, cosiddetto "a oikos", con ambienti dislocati lungo un asse principale all'estremità del quale è l'alcova con il letto funebre (ipogei di Sidi Gaber e nn. 2-3 di Mustafa Pasha).
Molte le varianti inventive sui due schemi fondamentali: i due ipogei di Shatbi e il n. 1 di Mustafa Pasha, entrambi a peristilio, ma con differenze assai significative; gli ipogei di Sidi Gaber e quelli nn. 2-3 di Mustafa Pasha, del tipo monoassiale, ma tanto profondamente diversi che il n. 3 di Mustafa Pasha presenta un prospetto scenografico di tipo teatrale (un logeion sollevato sul piano della corte, con facciata a cinque porte). A parte va considerato l'ipogeo di el-Wardiyan, che riunisce il tipo di pianta ad asse unico con l'uso del peristilio. Tra i motivi architettonici ricorrenti negli ipogei alessandrini è la grande facciata con semicolonne addossate alla parete e con porte, pseudoporte o pseudofinestre fra gli intercolumni (ipogei di Shatbi e nn. 1 e 3 di Mustafa Pasha). Una facciata architettonica a tre porte ricorre due volte nel grandioso ipogeo di el-Wardiyan. Si riscontra un gusto più generale per le visioni scenografiche (frons scaenae nell'ipogeo n. 3 di Mustafa Pasha), a volte limitato al principale punto di attrazione nella parte più interna dell'ipogeo (cameretta con letto funebre negli ipogei nn. 2 e 3 di Mustafa Pasha e sala circolare con celle tricore a el-Wardiyan). Dalle medesime tendenze si sviluppano la facciata a finte finestre e a battenti socchiusi dell'ipogeo di Shatbi e, molto più tardi, il nucleo centrale del grande ipogeo di Kom esh-Shogafa, col sistema di scale che discendono dall'ambiente circolare alla cameretta funeraria tricora.
Il ricorso all'elemento curvilineo, presente nell'ipogeo n. 3 di Mustafa Pasha e nelle due rotonde di el-Wardiyan e di Kom esh-Shogafa, ritorna in altri ipogei di età ellenistica: in quello a corpo rettangolare absidato della necropoli di el-Montaza, a est di A., e in due tombe circolari con loculi a raggiera della necropoli di Hadra. A partire dal I sec. a.C. nella camera funeraria un vero e proprio sarcofago sostituisce il sarcofago-letto e la cameretta non è più un'alcova, ma una grande nicchia per il sarcofago. In seguito, le nicchie per i sarcofagi diventano tre e l'ambiente quadrangolare si trasforma in cella tricora. A volte queste celle tricore si ripetono su tre lati (ipogei di via Tigrane Pasha e di el-Wardiyan) o su tutti e quattro i lati dell'ambiente (ipogeo al Forte Saleh, oggi distrutto), sì da creare una disposizione a croce greca. Almeno una parte degli ipogei aveva costruzioni sopraroccia: semplici episemata, ingressi più o meno ricchi, ambienti funzionali per cerimonie funebri (come quelli eretti sul corpo centrale dell'ipogeo di el-Wardiyan).
Ben diversa da tutti gli ipogei noti era la grande e lussuosa tomba del Cimitero Latino, non scavata, ma interamente costruita con giganteschi blocchi monolitici di alabastro rosato, grezzi all'esterno e splendidamente politi all'interno. Dell'ipotetico complesso sotterraneo di tre stanze, disposte in asse, oggi si conserverebbe quella centrale, con una struttura che ricorda le tombe a tumulo macedoni. Da tempo Adriani ha avanzato l'ipotesi che possa trattarsi di un elemento superstite del Soma, cioè del complesso di tombe regali che contornavano il sepolcro di Alessandro Magno. Strabone (XVII, 1, 8) definisce il Soma come un peribolo che faceva parte della reggia con "le tombe di Alessandro e dei re" e aggiunge che le spoglie del Macedone erano in un sarcofago di alabastro, quello voluto da Tolemeo XI, che avrebbe sostituito l'originaria cassa d'oro. Diodoro (XVIII, 28, 4) sostiene che detto sepolcro era per grandezza e per aspetto degno della gloria di Alessandro. Zenobio (III, 94) ci assicura che il Soma fu costruito (o rifatto) da Tolemeo IV, il quale vi avrebbe riunito le spoglie della madre Berenice e quelle del Macedone e dei suoi successori; ma non abbiamo notizie certe sulle tombe dei Tolemei, dopo il IV Lagide, fino a Cleopatra.
La pittura parietale decorativa è ben rappresentata negli ipogei della città, inizialmente con lo stile cosiddetto "a zone" parallele e policrome, che riproduce la struttura di una parete reale a lastre e a blocchi di marmi colorati e variegati (molto diffusa è l'imitazione dell'alabastro: ipogei di Sidi Gaber, n. 1 di Mustafa Pasha, Anfushi). In seguito, le parti superiori della parete ripeteranno l'imitazione di un'opera isodoma e si avrà il cosiddetto "I stile" (ipogeo di Mafrusa), che in Egitto ebbe vita assai lunga. A volte, all'imitazione di lastre e di blocchi si sostituisce quella di piastrelle quadrate policrome, forse di faïence (necropoli di Anfushi). Oltre ai precedenti del I stile, esistono ad A. chiare testimonianze della parete illusionisticamente aperta: nell'architettura (Shatbi), nelle decorazioni parietali (Sidi Gaber), nelle porte di loculo dipinte, spesso con ricerca prospettica (nelle necropoli di A., Hadra, Plinthine) oppure con visione attraverso una porta immaginaria, verso spazi liberi (Shatbi).
Un cenno a parte spetta al problema dell'arte alessandrina. Superate le posizioni antitetiche del "panalessandrinismo" definite da Th. Schreiber (seguito da A. Michaelis, J. Overbeck, W. Amelung, M. Collignon, E. Diehl, S. e A.J. Reinach, Ch. Picard e altri) e dell'antagonismo dei numerosi oppositori (tra cui F. Wickhoff, A. Riegl, H. Dragendorff, A.J.B. Wace, W. Klein, C. Cultrera, B. Ashmole, D. Levi), tra le due opposte e inconciliabili tendenze non sono mancati atteggiamenti e giudizi di maggiore equilibrio autorevolmente rappresentati da E. Breccia, I. Noshy, F. Poulsen, G. Lippold, R. Bianchi Bandinelli, A. Adriani, K. Parlasca, G. Grimm, N. Himmelmann, H. Lauter e altri, le cui positive linee di sviluppo si colgono nella vasta letteratura archeologica del dopoguerra e, più di recente, nei tre documentati volumi dedicati ad Adriani (1983-84) e negli esiti lusinghieri dei due Congressi Internazionali Italo-Egiziani (I, 1989 e II, 1992). In merito al problema generale, la critica ha accertato alcune verità. Del mondo ellenistico A. fu certo, politicamente e culturalmente, uno dei principali centri; in ogni caso fu quello che resistette più a lungo all'espansione politica romana. I Tolemei, come eredi dei faraoni, dovettero favorire il prosperare dell'arte indigena in Egitto e sarebbero sufficienti, come esempi, i due grandi templi di Edfu e di Dendera, ma in quanto monarchi ellenistici fecero di A. una delle più grandi capitali del mondo antico.
A. fu e rimase, dunque, come un'entità artistico-culturale a sé, mentre notevolmente diversa, in Egitto, fu la generale situazione dell'immenso retroterra tolemaico e romano. Un'arte alessandrina c'è stata e ha attraversato tutto il periodo greco-romano fino all'età cristiana, quando è diventata arte copta. A. è stata un centro produttore di numerose opere d'arte (malgrado la quasi totale e irreparabile loro perdita), non foss'altro per non contraddire le fonti scritte, e di una ricchissima serie di manufatti artigianali, spesso di alto livello qualitativo. La sua fondazione ha determinato un valido e duraturo fenomeno di trapianto dell'arte greca nell'Egitto millenario e, durante il suo sviluppo, quest'arte ha originato uno stile misto, greco-egizio e poi tardoalessandrino, che è il prodotto più genuino delle forme di contatto e di trasformazione delle due culture. Il mutamento della politica interna della corte tolemaica, dopo la vittoriosa battaglia di Raphia del 217 a.C., è uno dei moventi, non il solo, ma certo uno dei più importanti, che ha originato il radicale mutamento dell'indirizzo artistico, affermatosi in Egitto agli inizi del II sec. a.C., con l'incentivazione di un'arte ufficiale e privata di stile misto e di una produzione artigianale greco-egizia.
Nel quadro composito dell'arte ellenistico-romana, la produzione alessandrina e dell'Egitto tolemaico ha assunto una sua propria fisionomia rispetto agli altri grandi centri ellenistici del Mediterraneo e ha certamente esercitato il suo influsso anche fuori dell'Egitto, senza dubbio e con continuità sul mondo romano.
Per la principale letteratura archeologica su A. e sull'arte alessandrina, compresa tra l'edizione di M. al-Falaki, Mémoire sur l'antique Alexandrie, Copenhague 1872 e il 1970, si veda A. Adriani, s.v. Alessandria, in EAA, I, 1958, pp. 204-15; Id., s.v. Alessandrina, arte, ibid., pp. 218-32; Id., s.v. Alessandria, in EAA, Suppl. 1970, pp. 27-29; Id., s.v. Alessandrina, arte, ibid., pp. 29-32 (con bibl. prec.). Più di recente: Koptische Kunst. Christentum am Nil (Catalogo della mostra), Essen 1963; R. Bianchi Bandinelli, Naissance et dissociation de la koiné hellénistico-romaine, in Le rayonnement des civilisations grecque et romaine sur les cultures périphériques. Huitième Congrès International d'Archéologie Classique (Paris, 1963), Paris 1965, pp. 441-63; K. Parlasca, Ritratti di mummie, I, Palermo 1969; A. Adriani, Ritratti dell'Egitto greco-romano, in RM, 77 (1970), pp. 72-109; Id., Fra barocco antico e moderno, in Studi di storia dell'arte in onore di Valerio Mariani, Napoli 1972, pp. 25-36; Id., Lezioni sull'arte alessandrina, Napoli 1972; P.M. Fraser, Ptolemaic Alexandria, I-III, Oxford 1972; D.B. Thompson, Ptolemaic Oinochoai and Portraits in Faience. Aspects of the Ruler-Cult, Oxford 1973; G. Grimm, Die römischen Mumienmasken aus Aegypten, Wiesbaden 1974; G. Grimm - D. Johannes, Kunst der Ptolemäer- und Römerzeit im Ägyptischen Museum Kairo, Mainz a.Rh. 1975; H. Kyrieleis, Bildnisse der Ptolemäer, Berlin 1975; M. Rodziewicz, La céramique romaine tardive d'Alexandrie, Varsovie 1975; S. Shenuda, s.v. Alexandria, in PECS, pp. 36-38; E. Brunelle, Die Bildnisse der Ptolemäerinnen (Diss.), Frankfurt a.M. 1976; K. Parlasca, Ritratti di mummie, II-III, Roma 1977-80; H. Maehler - V.M. Strocka (edd.), Das ptolemäische Ägypten. Akten des Internationalen Symposions (Berlin, 27.-29. September 1976), Mainz a.Rh. 1978; D. Wildung - G. Grimm (edd.), Götter und Pharaonen (Catalogo della mostra), Mainz a.Rh. 1979; N. Himmelmann, Ober Hirten-Genre in der antiken Kunst, Opladen 1980; N. Hinske (ed.), Alexandrien. Kulturbegegnungen dreier Jahrtausende im Schmelztiegel einer mediterranen Großstadt, Mainz a.Rh. 1981; H. Jucker, Römische Herrscherbildnisse aus Aegypten, in ANRW, II, 12, 2 (1981), pp. 667-725; N. Bonacasa, L'Egitto romano. Il contributo delle officine di età imperiale, in WissZBerl, 31, 2-3 (1982), pp. 155-57; H.P. Laubscher, Fischer und Landleute, Mainz a.Rh. 1982; E. Bayer, Fischerbilder in der hellenistischen Plastik, Bonn 1983; G. Grimm (ed.), Das römisch-byzantinisch Ägypten. Akten des Internationalen Symposions (Trier, 26.-30. September 1978), Mainz a.Rh. 1983; N. Himmelmann, Alexandria und der Realismus in der griechischen Kunst, Tübingen 1983; N. Bonacasa (ed.), Alessandria e il mondo ellenistico-romano. Studi in onore di Achille Adriani, I-III, Roma 1983-84; Z. Kiss, Études sur le portrait impérial romain en Égypte, Varsovie 1984; M. Rodziewicz, Alexandrie, III. Les habitations romaines tardives d'Alexandrie à la lumière des fouilles polonaises à Kom el-Dikka, Varsovie 1984; W.A. Daszewski, Corpus of Ancient Mosaics from Egypt, I. Hellenistic and Early Roman Period, Mainz a.Rh. 1985; N. Bonacasa, Realismo, naturalismo e verismo nella scultura alessandrina. Una revisione, in Akten des 13. Internationalen Kongresses für Klassische Archäologie (Berlin, 1988), Mainz a.Rh. 1990, pp. 137-43; P. Pensabene, Elementi architettonici di Alessandria e di altri siti egiziani, Roma 1992; G. Pugliese Carratelli et al. (edd.), Roma e l'Egitto nell'antichità classica. Atti del I Congresso Internazionale Italo-Egiziano (Cairo, 6-9 febbraio 1989), Roma 1992.
di Giuseppina Alessandra Cellini
Gli scavi polacchi a Kom el-Dik hanno significativamente ampliato la conoscenza della topografia di A. Sono venuti alla luce edifici pubblici (religiosi e civili) e quartieri residenziali, che sembrerebbero pertinenti alla città tardoantica e altomedievale. In alcuni sondaggi sono stati rilevati strati tardotolemaici e romani: tali scoperte hanno fornito informazioni importanti sulla città tolemaica, in precedenza principalmente nota attraverso la testimonianza di Strabone. Proficue ricerche subacquee sono state condotte a partire dal 1992 grazie agli sforzi congiunti di studiosi francesi ed egiziani. Sono stati, inoltre, parallelamente avviati scavi sulla terraferma, prevalentemente interventi di salvataggio. Nell'isola di Pharos, presso l'attuale forte Qait Bay, sono venuti alla luce frammenti di sculture e decorazioni architettoniche. Alcuni immensi blocchi, presumibilmente caduti da una notevole altura, sono stati messi in collegamento con il famoso Faro di A. Sulla base di analisi geofisiche è stato ipotizzato un nuovo tracciato dell'Eptastadio (Hesse 2002).
A partire dal 1992, ma soprattutto negli anni 1996-97, la missione francese ha intrapreso delle ricerche sottomarine nel porto orientale e nel vicino Capo Silsileh, l'antico Lochiàs. Nell'area, probabilmente sommersa nel 365 d.C., sorgevano i quartieri reali; si segnala il rinvenimento di alcuni pregevoli esemplari di granito grigio, tra cui una sfinge, un sacerdote con Osiris-Canopus, la rappresentazione del serpente Agathodaimon. Nel 1993 sono venuti alla luce, nel corso di lavori finalizzati alla costruzione della nuova biblioteca alessandrina, nell'area del palazzo reale dei Tolemei, dei mosaici finissimi; sono particolarmente pregevoli quelli rappresentanti un cane e un gruppo di lottatori. Per la finezza dell'opus tessellatum et vermiculatum sono stati datati intorno alla metà del II sec. a.C. (Guimier-Sorbets 1998, 2002). L'importanza degli scavi condotti a partire dal 1997 nel quartiere di Gabbari risiede nel numero delle tombe indagate, circa 50, e nella varietà delle loro piante. Molte vennero utilizzate dal III sec. a.C. al VII sec. d.C. Se alcune tombe familiari richiamano tipologie già attestate in città nella prima età ellenistica, la tomba B 1 con i suoi 251 loculi e 5 nicchie rappresenta un unicum, il più grande ipogeo di questa fase storica.
Scavi di emergenza hanno portato alla luce un sistema di canalizzazione sotterraneo che, sin dall'età tolemaica, dotava le case di acqua corrente. Dopo il 365 d.C. il sistema cadde in disuso e si fece ricorso a delle cisterne che, moltiplicandosi, costituirono una nuova rete idrica. Rimane problematica la localizzazione dell'antica Biblioteca di A., il cui modello organizzativo sarebbe stato esportato da Atene tramite Demetrio Falereo, noto esponente della scuola aristotelica, al tempo di Tolemeo Filadelfo. È particolarmente significativa la descrizione di Strabone (XVII, 1, 8): "Della reggia fa parte anche il Museo. Esso comprende il peripato, l'esedra e una grande sala, nella quale i dotti che sono membri del Museo consumano insieme i pasti... parte della reggia è anche il cosiddetto Soma: è un recinto circolare nel quale si trovano le tombe dei re e quella di Alessandro". Secondo L. Canfora, Strabone non menziona la Biblioteca perché non era un edificio o una sala distinta dal Museo. Lo studioso spiega tale omissione confrontando la descrizione di Strabone con il resoconto della visita di Ecateo di Abdera al mausoleo di Ramesse II, conservato in un passo di Diodoro Siculo.
L'edificio comprendeva analogamente peripato, sala per i pasti comuni e soma di Ramesse. Il termine bibliotheke indica in tale contesto gli scaffali sui cui ripiani si deponevano i rotoli e quindi anche l'insieme dei libri. Del resto, nulla esclude che il Museo fosse strutturato come un edificio polifunzionale, comprendente anche la Biblioteca. Per quanto riguarda invece la leggenda dell'incendio della Biblioteca di A., è probabile che la propaganda anticesariana abbia amplificato gli effetti devastanti del fuoco appiccato alle navi tolemaiche nel porto, che si sarebbe esteso ai magazzini-deposito "del grano e dei libri". L'interazione tra la cultura formale egizia e la civiltà ellenistico-romana è stata oggetto di recenti convegni. L'allestimento di grandi mostre, soprattutto dedicate all'artigianato artistico, ha offerto spunti per presentare rinvenimenti editi e inediti dalla città e dalla chora, per puntualizzare aspetti tipologici e proporre inquadramenti cronologici. Elementi di continuità tra tradizione egizia e civiltà ellenistico-romana si ravvisano anche nella produzione di ritratti eseguiti in materiali duri. In particolare, l'impiego della grovacca appare strettamente collegato con l'ideologia dinastica, dai faraoni, ai Tolemei a Cesare fino ai principi della dinastia giulio-claudia.
Allo stato attuale della ricerca non sembra possibile definire compiutamente lo "stile alessandrino". Alcuni contributi recenti ampliano però la prospettiva degli studi sulla scultura. La cosiddetta "ara dei dodici dei" del Museo Greco-Romano di Alessandria, una delle opere di maggior respiro della produzione alessandrina di marmo, riflette gli orientamenti ufficiali, in ambito religioso e artistico, della corte tolemaica. L'ara attesta la persistenza nel tardo III sec. a.C. di un culto di antica tradizione greca e di connotazione panellenica e stilisticamente s'inserisce nel solco della tradizione del rilievo tardoclassico; anche gli schemi iconografici appaiono desunti dal repertorio attico. L'influsso della cultura attica non si esaurisce nel trattamento coloristico delle superfici, tradizionalmente ascritto a Prassitele e alla sua scuola. Da Atene, che nel IV sec. a.C. rappresentava un crogiolo di molteplici esperienze formali, erano infatti emigrati ad A. maestri di svariata formazione dopo il decreto contro il lusso nelle tombe emanato da Demetrio Falereo nel 317 a.C. (Ghisellini 1999).
È stato approfonditamente ripreso in esame in studi recenti l'insieme costituito da 45 frammenti scultorei di marmo di piccole dimensioni, rinvenuto a Tell Timai, l'antica Thmuis sul Delta del Nilo. Nei volti, presumibilmente completati in stucco, sfumati come "attraverso un velo d'acqua", sono stati riconosciuti i ritratti di dinasti tolemaici. Il gruppo appare costituito da rappresentazioni femminili (Arsinoe II, Berenice II, Arsinoe III), maschili (Alessandro, Tolemeo III, Tolemeo IV) e divinità (Iside, Afrodite, Dioniso). Si è ipotizzata la provenienza di siffatta "galleria" di divinità e dinasti tolemaici, il cui terminus post quem è rappresentato dal 196 a.C. e quello ante quem dal 180 a.C., da un santuario dedicato a Iside e Afrodite e alle regine tolemaiche a loro assimilate (Lembke 2000).
L. Canfora, La biblioteca scomparsa, Palermo 1986; W. Kolataj, Alexandrie, VI. Imperial Baths at Kom el-Dikka, Warsaw 1992; B. Tkaczow, The Topography of Ancient Alexandria. An Archaeological Map, Warsaw 1993; Alessandria e il mondo ellenistico-romano. I centenario del Museo Greco-Romano. Atti del II Congresso Internazionale Italo-Egiziano (Alessandria, 23-27 novembre 1992), Roma 1995; R. Belli Pasqua, Sculture di età romana in basalto, Roma 1995; Alexandria and Alexandrianism. Papers Delivered at a Symposium Organized by the J. Paul Getty Museum (Malibu, April 22-25, 1993), Malibu 1996; C. Haas, Alexandria in Late Antiquity. Topography and Social Conflict, Baltimore - London 1997; La gloire d'Alexandrie (Catalogo della mostra), Paris 1998; J.-Y. Empereur, Alexandrie redécouverte, Paris 1998; J.-Y. Empereur (ed.), Commerce et artisanat dans l'Alexandrie hellénistique et romaine. Actes du Colloque (Athènes, 11-12 décembre 1988), Athènes 1998; Id., La nécropole de Gabbari à Alexandrie, in CRAI, 1998, pp. 155-62; J.-Y. Empereur et al., Alexandrie: fouilles récentes et études nouvelles, in RA, 1998, pp. 176-220; F. Goddio et al., Alexandria. The Submerged Royal Quarters, London 1998; G. Grimm, Alexandria. Die erste Königsstadt der hellenistischen Welt, Mainz a.Rh. 1998; A.-M. Guimier-Sorbets, Alexandrie. Les mosaïques hellénistiques découvertes sur le terrain de la nouvelle Bibliotheca Alexandrina, in RA, 1998, pp. 263-90; L. Canfora, Aristotele fondatore della biblioteca di Alessandria, in QuadStor, 50 (1999), pp. 11-21; E. Ghisellini, Atene e la corte tolemaica. L'ara con dodekatheon nel Museo greco-romano di Alessandria, Roma 1999; W. Hoepfner, Zur Topographie von Alexandria, in Alexander the Great. From Macedonia to the Oikoumene. International Congress (Veria, 27-31.5.1998), Beroia 1999, pp. 155-60; M. Pfrommer, Alexandria. Im Schatten der Pyramiden, Mainz a.Rh. 1999; A. Adriani, La tomba di Alessandro. Realtà, ipotesi e fantasie (N. Bonacasa - P. Minà edd.), Roma 2000; Z. Kiss et al., Alexandrie, VII. Fouilles polonaises à Kôm El-Dikka (1986-87), Varsovie 2000; K. Lembke, Eine Ptolemäergalerie aus Thmuis/Tell Timai, in JdI, 115 (2000), pp. 113-46; S. Walker - P. Higgs (edd.), Cleopatra. Regina d'Egitto (Catalogo della mostra), Milano 2000; J.-Y. Empereur - M.-D. Nenna (edd.), Necropolis, I, Le Caire 2001; B. Tkaczow, Topographie et architecture de l'ancienne Alexandrie. Nouvelles recherches et découvertes, in EtTrav, 19 (2001), pp. 329-36; A.-M. Guimier-Sorbets, Nouvelles recherches sur les mosaïques d'Alexandrie, in J.A. Todd - D. Komini-Dialeth - D. Hatzivassiliou (edd.), Greek Archaeology without Frontiers, Athens 2002, pp. 21-28; J.-Y. Empereur, Découvertes récentes à Alexandrie, ibid., pp. 13-20; Id., Du nouveau sur la topographie d'Alexandrie, in CRAI, 2002, pp. 921-33; A. Hesse, L'Heptastade d'Alexandrie, in J.-Y. Empereur (ed.), Alexandrina 2, Le Caire 2002, pp. 191-273; M.S. Venit, Monumental Tombs of Ancient Alexandria. The Theater of the Dead, Cambridge 2002; N. Bonacasa et al. (edd.), Faraoni come dei, Tolomei come faraoni. Atti del V Congresso Internazionale Italo-Egiziano (Torino, 8-12 dicembre 2001), Torino - Palermo 2003; J.-Y. Empereur - M.-D. Nenna (edd.), Nécropolis, II, Le Caire 2003; K. Lembke - C. Fluck - G. Vittmann, Ägyptens späte Blüte. Die Römer am Nil, Mainz a.Rh. 2004; A.-M. Guimier-Sorbets, La mosaïque aux lutteurs de la nouvelle Bibliotheca Alexandrina. Techniques picturales et mosaïstiques dans le palais d'Alexandrie, in Musiva & sectilia, 1 (2004), in c.s.
di Nicola Bonacasa
Sito della necropoli ellenistica scoperta nei sobborghi a est di Alessandria d'Egitto (villaggio e collina di Kom Khadra), al limite presunto della città tolemaica.
Fu esplorata saltuariamente in tempi diversi: nel 1913-14 da Sinadino e Salvago; nel 1916 da S.H. Tubby e C.B. James; nel 1925-26 e nel 1931-32 da E. Breccia; nel 1933-39 e nel 1940 da A. Adriani. L'espansione edilizia di Alessandria non ha risparmiato questa eccezionale testimonianza storica. La maggior parte della necropoli era a cielo aperto e presentava un numero considerevole di sepolture: entro fosse scavate nella roccia, a volte sormontate da piccoli monumenti funebri costruiti sopra suolo; in loculo unico preceduto da vestibolo, con o senza gradinata di accesso; in cameretta sotterranea con loculi a parete; in corridoio sotterraneo, stretto e lungo, con file plurime di loculi aperti sulle pareti. Dal nucleo più antico di sepolture (III-II sec. a.C.) provengono porte e pseudoporte dipinte, alcune sormontate da frontoncini con decorazione architettonica, che per l'accattivante repertorio funerario, per la qualità dell'esecuzione e per l'audacia delle vedute prospettiche contano tra le più rappresentative espressioni della pittura ellenistica. Diverse stele riportano il nome della defunta: Philotekne, Helixo, Xenarche, Tephane, Nikanor.
Dei rinvenimenti in necropoli, Hadra ha reso i corredi funerari più ricchi e più importanti (ceramiche varie, lucerne, terrecotte, utensili, ecc.) per la comprensione dello stile alessandrino. I cinerari dipinti di Hadra ‒ meglio noti come "vasi di Hadra" (la forma costantemente adoperata è quella della hydria-kalpis) ‒ hanno dato il nome a una rinomata produzione, la cui vasta area di diffusione comprende anche Attica, Cipro, Creta e Russia meridionale, dalla fine del IV secolo al 200 circa a.C. La massima concentrazione delle fabbriche va localizzata ad Alessandria, ma le ultime ricerche hanno individuato anche botteghe autonome operanti a Creta. Sono state tentate diverse classificazioni tipologiche e cronologiche di questa singolare produzione che va distinta in due classi. La prima, detta dello "stile di Hadra", è costituita da diverse centinaia di vasi, con decorazione dipinta di colore nero-bruno sul fondo naturale dell'argilla; la sintassi decorativa è ripetitiva e consiste in punti, macchie, fettucce e pendagli, rametti di ulivo (numerose urne recano iscrizioni, alcune datanti). La seconda classe, comunemente detta "ceramica di Hadra", comprende non molti esemplari che presentano una decorazione policroma a tempera data su un'ingubbiatura bianca; il repertorio decorativo predilige raffigurazioni di armi o di oggetti cari al defunto e non ricorrono iscrizioni. Tra gli esemplari di eccezionale qualità stilistica e di alta cronologia si distingue l'hydria con Centauri scoperta ad Hadra nel 1952.
S.H. Tubby - C.B. James - (E. Breccia), An Account of Excavations at Chatby, Ibrahimieh, and Hadra, in BArchAlex, 16 (1918-19), pp. 79-90; E. Breccia, Nuovi scavi nelle Necropoli di Hadra, ibid., 25 (1930), pp. 99-132; Id., Le Musée Gréco-Romain 1925-1931, Bergamo 1932, pp. 23-31; A. Adriani, Scoperte di tombe, in Annuario del Museo Greco-Romano, 1 (1932-33), pp. 28-34; E. Breccia, Le Musée Gréco-Romain 1931-32, Bergamo 1933, pp. 9-21; A. Adriani, Nécropoles, A. Fouilles dans la Nécropole Orientale, in Annuaire du Musée Gréco-Romain, 2 (1935-39), pp. 65-130; Id., Nouvelles découvertes dans la nécropole de Hadra, ibid., 3 (1940-50), pp. 1-27; A. Di Vita, Un nuovo vaso dalla necropoli alessandrina di Hadra, in BdA, 41 (1956), pp. 97-103; B.R. Brown, Ptolemaic Paintings and Mosaics and the Alexandrian Style, Cambridge (Mass.) 1957, pp. 9-26, 37, 40, 60-67, 77, 93-95; R.M. Cook, Greek Painted Pottery, London 1960, pp. 207-208, 247, 267-68, 352-53, 356; A. Di Vita, s.v. Hadra, ceramica di, in EAA, III, 1960, pp. 1082-1084; A. Adriani, Repertorio d'arte dell'Egitto greco-romano, Serie C, I-II, Palermo 1963-66, pp. 110-24, nn. 60-78; L. Guerrini, Vasi di Hadra. Tentativo di sistemazione archeologica di una classe ceramica, Roma 1964, pp. 10-26; B.F. Cook, Inscribed Hadra Vases in the Metropolitan Museum of Art, New York 1966; K. Michalowski, L'art de l'ancienne Egypte, Paris 1968, pp. 318, 503-504; P.M. Fraser, Ptolemaic Alexandria, I, Oxford 1972, pp. 33, 138-39; P. Callaghan, Knossian Artists and Ptolemaic Alexandria, in N. Bonacasa (ed.), Alessandria e il mondo ellenistico-romano. Studi in onore di Achille Adriani, III, Roma 1984, pp. 789-94; B.F. Cook, Some Group of Hadra Vases, ibid., pp. 795-803; L. Forti, Appunti sulla ceramica di Hadra, ibid., II, Roma 1984, pp. 222-41; V. La Rosa, Ceramiche del tipo Hadra da Festòs, ibid., III, Roma 1984, pp. 804-18; P.J. Callaghan - R.E. Jones, Hadra Hydriae and Central Crete. A Fabric Analysis, in BSA, 80 (1985), pp. 1-17; W.A. Daszewski, Corpus of Mosaics from Egypt, I. Hellenistic and Early Roman Period, Mainz a.Rh. 1985, pp. 99, 106, 108, 110, 112.
di Giuseppina Alessandra Cellini
A. Enklaar ha cercato di ricostruire lo sviluppo della decorazione e delle forme delle hydriai di Hadra, proponendone una classificazione tipologica, sulla base dell'elemento ornamentale essenziale. Le hydriai semplici (S) sono decorate da bande orizzontali sul collo e sul corpo del vaso. Nella tipologia L un ramo d'alloro è dipinto sul collo del vaso e spesso viene ripetuto all'interno di una metopa, inquadrata da elementi geometrici, nello spazio compreso tra le anse. Il ramo può essere reso senza rametti, accostando le foglie (LsB). Più complesse sono le decorazioni con delfini (D) o altri animali. È stata concordemente indicata in Creta la zona di produzione della maggior parte dei vasi, realizzati in un'argilla piuttosto chiara. Solo quelli che presentano una tonalità più scura andrebbero perciò ascritti alla produzione alessandrina. Sembra che a Creta abbia avuto luogo, intorno al 270-260 a.C., la transizione dalle hydriai semplici a quelle decorate con ramo di alloro. Dal 260 a.C. vasi della tipologia L sarebbero stati ampiamente esportati nel mercato alessandrino. A partire dal 240 a.C. alcuni ateliers alessandrini avrebbero avviato una produzione di vasi ispirata a tale tipologia (LsB).
S. Ovidi ha proposto di non restringere il problema dell'origine dei vasi di Hadra agli scambi culturali tra Alessandria e l'isola di Creta e ha indicato punti di contatto con la ceramica dell'Italia meridionale, ricordando, in particolare, le trozzelle apule. La medesima studiosa ha raccolto in un corpus non solo gli esemplari conservati nel Museo di Alessandria o al Cairo, ma molti altri finiti in collezioni private, talvolta in seguito ad acquisti illegali, o entrati in diversi musei, spesso per donazioni.
A. Enklaar, Chronologie et peintres des hydries de Hadra, in BABesch, 60 (1985), pp. 106-51; Id., Les hydries de Hadra II: formes et ateliers, ibid., 61 (1986), pp. 41-65; Id., The Hadra Vases, s.l. 1992; S. Ovidi, Un contributo al corpus delle hydriae di Hadra, in BdA, 79, 83, 84-85 (1994), pp. 1-36; N. Tayia, Some Roman-Period Lamps from the Hadra Necropolis, Alexandria, in H. Meyza - H. Młynarczyk (edd.), Hellenistic and Roman Pottery in the Eastern Mediterranean. Advances in Scientific Studies. Acts of the II Nieborów Pottery Workshop (Nieborów, 18-20 December 1993), Warsaw 1995, pp. 449-52; A. Enklaar, Preliminary Report on the Pottery Found at Hadra Station in 1987, in J.-Y. Empereur (ed.), Commerce et artisanat dans l'Alexandrie hellénistique et romaine. Actes du Colloque (Athènes, 11-12 décembre 1988), Athènes 1998, pp. 15-24; D. Saïd, Recent Discoveries in the Hadra Necropolis, ibid., pp. 5-13; P. Kranz, Bemerkungen zu zwei neuerworbenen Hadria-Hydrien in den Antikensammlungen Erlangen, in BABesch, 74 (1999), pp. 147-59.
di Giuseppina Alessandra Cellini
Secondo la tradizione, la colonizzazione di Cirene sarebbe avvenuta nel 631/30 a.C., articolandosi in più fasi. La testimonianza di Erodoto (IV, 150-158) trova conferme e si integra con il cosiddetto "giuramento dei fondatori" (SEG, IX, 3). L'iscrizione, nota attraverso la ristesura risalente al IV sec. a.C., contiene le disposizioni emanate all'atto del giuramento solenne che precedette l'invio dei coloni. Gli abitanti di Thera decretarono di inviare in Libia Batto come ecista designato dalla divinità e come re; stabilirono i criteri di selezione dei cittadini partecipanti alla spedizione e i loro diritti una volta giunti in loco; previdero le modalità del rientro in patria in caso di fallimento della colonizzazione. Stando alle fonti, la decisione di inviare coloni in Libia fu presa dalla ekklesia di Thera e non fu determinata da motivazioni economiche, bensì religiose. Secondo la versione tramandata dagli abitanti di Thera (Hdt., IV, 150 ss.), al loro re Grinos, recatosi a consultare l'oracolo di Delfi per altri motivi, la Pizia avrebbe risposto di fondare una città in Libia. Non essendo stato tenuto nella giusta considerazione il responso, per sette anni a Thera non piovve più. Interrogata a tale proposito, la Pizia rinfacciò ai cittadini di non aver fondato la colonia da lei indicata.
Gli abitanti di Thera inviarono quindi messi a Creta con l'incarico di cercare qualcuno in grado di guidarli in Libia, paese per loro sconosciuto. Il cretese Korobios li fece sbarcare sulla parte orientale della Cirenaica, nell'isoletta di Platea, che fu popolata con giovani estratti a sorte, non più di uno per famiglia, a cui si aggiungevano uomini provenienti dai sette villaggi di Thera. Stabilirono che Batto dovesse esserne comandante e re (Hdt., IV, 153). La versione tramandata dagli abitanti di Cirene dà maggiore risalto al fondatore: sarebbe stato Batto stesso, figlio di Polimnesto di Thera e della cretese Fronime, a recarsi a Delfi per consultare la Pizia riguardo alla propria balbuzie. Egli avrebbe avuto il responso di fondare una colonia nella Libia "nutrice d'armenti". I membri della spedizione, dopo un primo contatto deludente, sarebbero tornati indietro e avrebbero tentato invano di sbarcare di nuovo a Thera. Sarebbero quindi stati costretti a colonizzare l'isola di Platea, dove avrebbero abitato per due anni (Hdt., IV, 155-156).
Dopo aver nuovamente consultato l'oracolo di Delfi, i Greci si sarebbero trasferiti sulla terraferma, ad Aziris (Hdt., IV, 157). Dopo sei anni, i Libyi li condussero verso occidente, sull'altopiano di Cirene, presso la sorgente detta "di Apollo". La regione era particolarmente favorevole all'insediamento coloniale per la fertilità del suolo, garantita dalle abbondanti precipitazioni, secondo quanto si evince dall'espressione "qui il cielo è bucato" (Hdt., IV, 158). Il medesimo Batto ne sarebbe divenuto re, dando origine alla dinastia dei Battiadi. Sotto Batto II, detto il Felice, in seguito a un vaticinio della Pizia giunsero a Cirene molte genti di origine greca, invogliate da una ridistribuzione di terre. Ciò provocò la reazione dei Libyi, che si videro privati delle proprie terre e mandarono messi in Egitto, per consegnarsi al re Apries. Costui venne però sconfitto a Irasa e l'esito dello scontro sancì il possesso del territorio da parte dei Cirenei (Hdt., IV, 159).
Iniziò però ben presto a emergere una fazione aristocratica, costituita da proprietari terrieri, mirante a ridurre a proprio vantaggio i poteri del re. Arcesilao II entrò in conflitto con i propri fratelli, che abbandonarono Cirene e fondarono Barce sull'altopiano occidentale. Contemporaneamente i Libyi si ribellarono. Il re fu pesantemente sconfitto a Leucon e ben 7000 Cirenei caddero in battaglia. Arcesilao venne quindi ucciso dal fratello Learco (Hdt., IV, 160) e gli successe nel regno il figlio Batto III, detto lo Zoppo. Probabilmente gli abitanti di Cirene avevano deposto nella sostanza, ma non nella forma, il re. Non riuscendo ad accordarsi riguardo all'ordinamento della città, ricorsero all'oracolo di Delfi, che consigliò di avviare una riforma costituzionale. Fu quindi richiesta l'opera di Demonatte di Mantinea, che ridusse i poteri regali a favore del demos, suddividendo la popolazione in tre tribù (Therei e perieci; Peloponnesiaci e Cretesi; abitanti delle isole, cfr. Hdt., IV, 161).
Arcesilao III non accettò la riforma costituzionale e avocò a sé i poteri trasmessigli dagli antenati. Scoppiata una rivolta, riparò presso il tiranno Policrate di Samo. Grazie agli aiuti raccolti e al contributo dei fuoriusciti, Arcesilao III riuscì a reinsediarsi sul trono, ma non seguì le indicazioni della Pizia e si vendicò dei suoi nemici. Temendo per la sua vita, si trasferì presso Alazir, re di Barce, di cui aveva sposato la figlia, ma venne assassinato (Hdt., IV, 162-164). La madre di Arcesilao III, Feretime, fuggì in Egitto per chiedere l'aiuto dei Persiani, dei quali i Battiadi erano divenuti tributari nel 525 a.C. Il satrapo Ariande mandò un esercito a Barce che assediò la città chiedendo invano che fossero consegnati gli uccisori di Arcesilao. Dopo un assedio durato più di nove mesi, nel 514 a.C. la città fu presa con l'inganno. Seguì la spietata vendetta di Feretime e la deportazione della popolazione (Hdt., IV, 165-167, 200-205).
Appare particolarmente significativo il passo di Erodoto in cui è descritta la marcia dei Persiani attraverso Cirene nel 515 a.C.: "Quando giunsero (scil. i Persiani) alla città di Cirene, soddisfacendo a un qualche oracolo, gli abitanti di Cirene li lasciarono passare attraverso la città. Mentre l'esercito passava, Badre, il comandante dell'armata navale, ordinò di prendere Cirene, ma Amasis, il comandante dell'esercito di terra, non lo permise: Barce era la sola città greca contro cui erano stati inviati. Finché, dopo aver attraversato la città ed essersi accampati sulla collina di Zeus Liceo, non si pentirono di non essersi impossessati di Cirene. Tentarono di entrarvi una seconda volta, ma gli abitanti di Cirene non lo permisero. Sebbene non ci fosse alcuna battaglia, i Persiani furono colti da panico, fuggirono a una distanza di circa 60 stadi e presero posizione. Mentre l'esercito era accampato in quel luogo, giunse un messo da parte di Ariande che li richiamava indietro. I Persiani chiesero agli abitanti di Cirene di dare loro provvigioni, le ottennero, le presero e partirono per l'Egitto" (Hdt., IV, 204,1-3).
Il passo di Erodoto è stato preso in considerazione soprattutto dopo il ritrovamento fortuito nel 1966 di alcune sculture arcaiche, datate intorno alla metà del VI sec. a.C., in una cava in disuso che non conteneva materiali posteriori. Si è ipotizzato che il deposito arcaico si fosse costituito in circostanze analoghe a quelle che si verificarono in Atene dopo il sacco persiano dell'Acropoli del 480/79 a.C. Batto IV ebbe alla sua corte il poeta Pindaro, che nel 474 a.C. celebrò Telesicrate di Cirene, vincitore nella corsa oplitica o in armi. Nella Pitica IX il poeta narra la ierogamia di Apollo e della ninfa Cirene, destinata a essere trasportata su un carro dorato in terra di Libia, futura regina di una città felice che da lei avrebbe preso il nome. Frutto di tale unione sarebbe stato Aristeo, dio benefattore degli uomini. Nel 462 a.C. Arcesilao IV vinse a Delfi nella corsa con i carri e l'avvenimento costituì l'ispirazione per due odi pindariche.
La Pitica V fu probabilmente eseguita in pubblico da un coro di giovani, durante le feste in onore del dorico Apollo Carneo, accanto al cosiddetto "giardino di Afrodite", nell'area sacra ad Apollo. La vittoria del committente è celebrata nelle forme dell'epinicio. È narrata la vicenda degli Antenoridi esuli da Ilio approdati sul suolo libico; nella profezia di Apollo a Batto-Aristotele, il capostipite della dinastia dei Battiadi è caratterizzato come eroe fondatore, venerato con un culto. La Pitica IV, ove il mito degli Argonauti si fonde con la leggenda della fondazione di Cirene, fu probabilmente eseguita alla corte del sovrano da un singolo cantore. Batto-Aristotele, partito da Thera, avrebbe fondato Cirene "dai bei carri / sopra una candida mammella" dando compimento, alla diciassettesima generazione, alle parole pronunciate da Medea. Gli Argonauti, di ritorno dalla Colchide, in procinto di ripartire dal Lago Tritonio, avrebbero ricevuto la visita del dio del luogo, Tritone. Costui avrebbe donato loro una zolla, raccolta da Eufemo, simbolo della futura colonizzazione del suolo libico. Poiché la zolla, mal custodita, era caduta in mare nei pressi di Thera, la colonizzazione di Cirene avrebbe avuto origine proprio da tale isola.
Il poeta rivolge quindi un appello in favore dell'esule Damofilo ad Arcesilao IV, che aveva appena domato una rivolta in parte uccidendo e in parte esiliando i ribelli. Tale interessamento non giunse forse gradito, dal momento che la vittoria col carro riportata dal re due anni dopo non comportò alcun incarico per Pindaro. Indebolendosi il suo potere, Arcesilao IV fu costretto alla fuga e morì nella città di Euesperides (Bengasi) intorno al 440 a.C. Con lui si estinse la dinastia dei Battiadi. Alla fase monarchica succedette quella repubblicana, che comportò alcuni episodi di tensione politica: ad esempio, nel 401 a.C. prevalse la componente popolare e si fece ricorso contro i nemici alla pratica dell'ostracismo. Il potere esecutivo e militare era riservato a cinque strateghi e grande importanza aveva il sacerdozio di Apollo. Le istituzioni ginnasiali garantivano la formazione dei cittadini. È un momento di grande splendore per Cirene e le altre città, reciprocamente indipendenti, della Cirenaica (Barce, Tolemaide, Euesperides), impegnate a rivaleggiare tra di loro. Splendidi edifici abbelliscono l'agorà di Cirene; viene edificato a Delfi il tesoro dei Cirenei e vengono celebrate le vittorie di Cirenei ai concorsi di Olimpia, Delfi e Nemea.
L'agricoltura garantiva il benessere economico alla regione, mediante la coltivazione di grano, orzo e legumi e la raccolta del silfio, una pianta medicinale oggetto di intenso commercio. La regione era famosa anche per l'allevamento di cavalli. Nel IV sec. a.C. l'economia di Cirene continuò a essere florida: ciò è attestato anche dalla cosiddetta "stele dei donatori", dalla quale risulta che Cirene inviò alle città della Grecia comprese nell'elenco, afflitte da una grave carestia, un grandissimo quantitativo di cereali (SEG, IX, 2). Quando Alessandro Magno si recò a visitare l'oasi di Zeus Ammon a Siwa, gli abitanti di Cirene fecero atto di sottomissione, non perdendo però l'indipendenza. Diodoro narra che lo spartano Tibrone, dopo aver ucciso a tradimento Arpalo, uno dei compagni di Alessandro, custode del tesoro di Babilonia, ed essersi impadronito del denaro, delle navi e dei mercenari che costui aveva raccolto, si diresse verso le coste cirenaiche (Diod. Sic., XVIII, 19, 1-5). Si assicurò quindi l'appoggio di banditi di Cirene che, liberi di compiere razzie, lo guidassero in un territorio a lui sconosciuto.
Vinti gli abitanti di Cirene in battaglia, Tibrone dettò condizioni di pace particolarmente onerose: "li costrinse a fare un accordo secondo il quale avrebbero dovuto pagare 500 talenti d'argento e dare metà dei loro carri da guerra per la spedizione che aveva progettato. Inviò messi anche alle altre città perché si alleassero con lui e lo aiutassero a sottomettere il territorio limitrofo di Libia". Ma il cretese Mnasicle, uno dei suoi ufficiali, defezionò a causa della spartizione del bottino e si rifugiò presso i Cirenei, che esortò a ribellarsi. La lotta ebbe fasi alterne. Cirene, stremata dalla fame, fu agitata da lotte politiche. I democratici si impadronirono del potere e cacciarono i "proprietari" che ripararono in parte presso Tibrone e in parte in Egitto. Costoro chiamarono in aiuto Tolemeo, satrapo dell'Egitto, che inviò Ofella. Questi, al comando di forze terrestri e marittime rilevanti, sconfisse Tibrone, lo fece imprigionare e conquistò Cirene e la Cirenaica nel 322 a.C. per conto di Tolemeo (Diod. Sic., XVIII, 21, 5-7).
Probabilmente risale al 321 a.C. la riforma costituzionale attestata da un'iscrizione nota come "diagramma tolemaico" (SEG, IX, 1). Il corpo civico era costituito da 10.000 cittadini: tale numero appare molto contenuto non solo in relazione al koinòn (lega) delle città della Cirenaica, ma anche alla sola Cirene. Il consiglio cittadino o boulè si componeva di 500 membri in carica per un biennio; l'anno seguente veniva rinnovato per sorteggio tra gli almeno cinquantenni (in caso di carenza di candidati si potevano prendere in considerazione anche i quarantenni). I 101 geronti costituivano un organo di anziani con compiti limitati, ma importanti. Era loro interdetta ogni magistratura, eccezion fatta per la strategia in caso di guerra, e tra loro venivano scelti i sacerdoti di Apollo. Nel Diagramma erano inoltre menzionati gli strateghi: oltre a Tolemeo stesso, che si riservava tale incarico a vita, altri cinque strateghi che non avessero mai rivestito tale ufficio e avessero meno di cinquant'anni.
Erano inoltre previsti nove nomofilaci ("custodi della legislazione") che non avessero ricoperto tale carica e cinque efori pure cinquantenni: "E la boulè sia di 500 uomini tratti a sorte, in età non minore di cinquant'anni; e siano buleuti per due anni; e ne sia eliminata per sorteggio nel terzo anno la metà. E lascino passare due anni (prima di essere di nuovo sorteggiati). E se non si raggiunga il numero necessario, sorteggino quelli di quarant'anni. Geronti siano 101, designati da Tolemeo; e al posto del defunto o rimosso, i Diecimila scelgano un altro in età non inferiore ai cinquant'anni. E non sia permesso eleggere i geronti ad altra magistratura tranne (quella di) strateghi in guerra". Tolemeo lasciò il governo della regione a Ofella, che riuscì a sedare la rivolta scoppiata tra il 313 e il 312 a.C. Ofella ambiva a un regno più grande e le sue aspirazioni parvero concretizzarsi quando Agatocle re di Siracusa (317-289 a.C.) portò in Africa la guerra contro i Cartaginesi. Un accordo stipulato nel 309 a.C. prevedeva l'attribuzione, in caso di vittoria, dei domini cartaginesi in Sicilia ad Agatocle, di quelli libici a Ofella, che, però, nell'autunno del medesimo anno fu ucciso a tradimento dal Siracusano (Diod. Sic., XX, 41 ss.).
Cirene si ribellò di nuovo al dominio tolemaico nel 305 a.C.: il sovrano cercò di ristabilire l'autorità della dinastia lagide nel 300 a.C., inviando nella regione il proprio figliastro Magas. Il desiderio di autonomia di quest'ultimo causò la rottura con Tolemeo Filadelfo. I rapporti furono ristabiliti solo verso il 260 a.C. e suggellati dal fidanzamento della figlia di Magas, Berenice, con il figlio del Filadelfo, il futuro Tolemeo III Evergete. Nel 250 a.C. sopraggiunse la morte di Magas: la sua vedova, Apamea, rifiutò l'accordo concluso con il Filadelfo e fece fidanzare la figlia con il macedone Demetrio il Bello, che doveva garantire un governo indipendente dall'Egitto, ma fu assassinato poco dopo. Cirene fu agitata da conflitti sociali, a comporre i quali furono chiamati due filosofi arcadi, Ecdelo e Demofane. Nel 246 a.C., mediante il matrimonio tra Berenice e l'erede al trono d'Egitto, Tolemeo III, si compì la riunificazione della Cirenaica all'Egitto.
Cogliamo gli echi letterari di tali avvenimenti nella Chioma di Berenice, composta da Callimaco di Cirene nel 246/5 a.C. e presumibilmente inserita nel IV libro degli Aitia. Berenice, sposa di Tolemeo III (246-221 a.C.) e concittadina del poeta, avrebbe offerto in voto un ricciolo della sua chioma affinché il marito, impegnato nelle campagne di guerra in Siria, facesse felice ritorno a casa. Il poeta fa raccontare al ricciolo stesso come esso sia stato in un primo tempo trasportato da Zefiro nel santuario di Arsinoe-Afrodite: l'elogio per la regina vivente si fonde così con quello della defunta Arsinoe II. Il ricciolo sarebbe però scomparso dal tempio e Conone, l'astronomo di corte, l'avrebbe scoperto in cielo, trasformato in costellazione. Nel II Inno ad Apollo, scritto da Callimaco in età avanzata, è raccontata l'origine di Cirene, ove il dio era onorato nel corso delle feste Carnee. Il re che il poeta accosta ad Apollo è Tolemeo III Evergete.
Nel 155 a.C. Tolemeo VIII Evergete II, a seguito di un attentato subito, rendeva noto il testo del testamento redatto a favore dei Romani, che assumeva il valore di un'assicurazione sulla vita del sovrano (SEG, IX, 7): "L'anno quindicesimo, il mese Loio. Con buona Fortuna. Così dispose il re Tolemeo del re Tolemeo e della regina Cleopatra, dei epifani, il minore [figlio], e la copia è stata già anche spedita a Roma. Sia dato a me, con l'aiuto degli dei, colpire, come si meritano, quelli che hanno tramato contro la mia persona il sacrilego attentato, decisi a privarmi non solo del regno, ma anche della stessa vita. Se mai qualche accidente mi capiti di quelli cui l'uomo è soggetto, prima di aver lasciato dietro di me successori del mio regno, lascio il regno, che a me spetta, ai Romani, verso i quali fin da principio l'amicizia e l'alleanza ho fedelmente rispettata. E alla loro fede io confido la custodia delle mie cose facendo fervidi voti che, per tutti gli dei e per la loro propria gloria, se mai altri assalga sia le città sia il territorio, prestino aiuto in base all'amicizia e all'alleanza reciproca che esiste tra di noi, e soprattutto al diritto, con tutta la forza. Testimoni di queste disposizioni io invoco Giove Capitolino e i grandi dei e il Sole e l'archegheta Apollo, presso il quale anche questa stele, che le contiene, è (stata) consacrata. Alla buona Fortuna!".
Tale atto non interruppe però il potere lagide sulla Cirenaica esercitato dal 116 a.C. da Tolemeo IX Sotèr e da Cleopatra III. Tra il 103 e il 101 a.C. si stabilì in Libia Tolemeo Apione, figlio illegittimo di Tolemeo VIII, che nel 96 a.C., morendo, lasciò in eredità il regno al popolo romano (Liv., Per., LXX); soltanto nel 74 a.C., però, i Romani procedettero all'annessione della regione che nel 67 a.C. contribuiva a formare la provincia di Creta et Cyrenaica.
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di Lidiano Bacchielli
Città antica (gr. ᾿Απολλωνία; lat. Apollonia) della Cirenaica, sul luogo dell'attuale Marsa Susa.
A. nasce in un'ampia baia come porto di Cirene e la denominazione con la quale verrà indicata per quasi tutto il periodo greco (ho limèn ho Kyrenes) evidenzia la funzione e il legame con la metropoli. Da questa la separano una quindicina di chilometri e, soprattutto, le erte pareti dei gradini del gebel, ma una strada venne subito tracciata ad agevolare i collegamenti. Alla fine del II sec. a.C. raggiunse il rango di città, con il nome di A., che discende da quello della divinità protettrice di Cirene. La sua importanza crebbe progressivamente nel Basso Impero. Prima del 359 d.C. il suo nome venne cambiato in quello di Sozousa ("città del Salvatore"), donde il nome moderno. Alla metà circa del V sec. d.C. assurse al ruolo di capitale della Lybia Superior, che conservò fino alla vigilia della conquista araba del 642 d.C.
L'attività di scavo ebbe inizio nel 1921 con E. Ghislanzoni, che scoprì e restaurò la basilica orientale, e venne continuata dopo la seconda guerra mondiale dal Dipartimento delle Antichità della Cirenaica sotto la guida di R.G. Goodchild, da P. Montet fra il 1953 e il 1955 e da una missione dell'Università del Michigan negli anni 1965-67. Dal 1976 opera ad A. una missione archeologica francese, che compie esplorazioni soprattutto nel bacino portuale, nelle Grandi Terme e lungo la cinta muraria. L'attività di scavo ha consentito di recuperare in parte il quadro urbanistico e monumentale greco-romano, sul quale si sovrappone, ricco e dominante, quello bizantino.
Il periodo arcaico è documentato da frammenti di ceramica greco-orientale e attica a figure nere; quello classico è testimoniato anche dalla produzione scultorea, da un frammento di altare con dedica ad Atena e Ares e dal rinvenimento di diverse centinaia di statuette fittili, in una cavità rocciosa sotto le fondazioni di una postierla della cinta. Le statuette (prima metà del IV sec. a.C.) sono state prodotte in un atelier che doveva trovarsi nei dintorni e raffigurano probabilmente delle divinità locali, con il silfio in mano e la gazzella accostata al fianco. Al periodo ellenistico risalgono alcuni interventi edilizi che si addensano nella parte finale. Negli ultimi decenni del II sec. a.C. la serie di alture parallele alla costa, sulle quali sorge la città, venne circondata da una cortina muraria. Questa, nella parte meridionale, si adegua alla conformazione del terreno, disponendosi in un percorso a cremagliera; in corrispondenza degli stacchi sono state innalzate torri rettangolari e aperte postierle per le sortite.
La cinta muraria esclude una parte del complesso urbano, come quella che sorge su una collinetta posta a occidente, dove si trovano lo stadio e il tempio dorico, e sembra piuttosto finalizzata a proteggere le installazioni portuali. Essa si protende infatti anche sul molo che divide il porto in due bacini collegati da un canale: quello occidentale, racchiuso dall'antica linea di costa e protetto dalla cinta fortificata, aveva funzione militare e conserva i resti delle banchine con i ricoveri per le navi; quello orientale, preceduto dall'isolotto del faro e ampiamente aperto sul mare, aveva destinazione mercantile ed era circondato da banchine con silos e magazzini; al suo interno è stato individuato il relitto di una nave abbandonata nella seconda metà del II sec. a.C. Negli isolotti che ora affiorano dall'antica linea di costa sono anche ricavate alcune tombe a camera, mentre altre, più numerose, si dispongono nei fianchi rocciosi che si ergono nei dintorni della città. L'area all'interno delle mura è suddivisa da scansioni regolari, con alcune plateiai che si sviluppano in senso est-ovest e altre vie minori in direzione nord-sud.
Tracce di un edificio ellenistico sono visibili entro la basilica orientale e un santuario si conserva sulla cima più elevata dell'acropoli. Esso consiste in un recinto rettangolare, costruito sopra un ambiente sotterraneo, ed è dedicato alla ninfa Kallikrateia. Un tempio eretto in onore di Apollo viene ricordato da un'iscrizione. Addossato all'esterno delle mura, nella parte orientale della città, si trova il teatro, che è appoggiato al pendio della collina e ha la cavea rivolta verso il mare. In una modesta altura posta 1 km a ovest di A., lungo la riva del mare, sono stati rinvenuti un piccolo stadio e i resti di un probabile ginnasio; lo stadio, scavato in parte in una piccola collina rocciosa, è orientato in senso est-ovest ed è dotato di una pista lunga 13,35 m. Nella stessa area si trova il tempio dorico, un esastilo con 11 colonne sui lati, che registra un sensibile accorciamento della lunghezza e una ricercata frontalità mediante la soppressione dell'opistodomo e l'accresciuta profondità del portico anteriore. Il tempio, databile attorno al 300 a.C., è stato identificato con quello di Afrodite ricordato da Plauto (Rud., 128 ss.).
Nell'area in seguito occupata dalle Grandi Terme sono stati riconosciuti interventi edilizi che vanno dal IV sec. a.C. (deposito votivo) al VI sec. d.C. Aggiunte e rimaneggiamenti profondi sui resti di un peristilio con bacino e muro perimetrale, identificabile forse con una palestra (I sec. d.C.), dettero origine fra il 75 e il 125 d.C. alle cosiddette Grandi Terme. In questo periodo, che segna un momento di prosperità nella vita della città, si registra anche il rifacimento della scena del teatro. Verso la fine del IV sec. d.C. cessò la vita delle Grandi Terme, che vennero soppiantate da due grandi cisterne. La funzione termale fu poi ereditata da un piccolo complesso di età giustinianea, costruito lungo il fianco occidentale dell'edificio originario. Alla metà del V sec. d.C., in conseguenza del trasferimento della capitale da Tolemaide a Sozousa, l'attività edilizia subì una potente accelerazione. Un intervento di restauro venne dedicato alla cinta muraria, per farle recuperare la piena funzionalità; una basilica, quella orientale, venne innalzata e decorata con colonne di cipollino, capitelli di riutilizzo e mosaici nell'abside e nel transetto.
Al periodo di Giustiniano appartengono il battistero a pianta trilobata e il rifacimento del mosaico nella zona del transetto. Ma il VI sec. d.C. vide anche la costruzione della basilica extramurale, nell'area cimiteriale; della basilica centrale, che ha tutti gli elementi marmorei provenienti dal Proconneso; della basilica occidentale, con abside e zona dell'altare pavimentate in opus sectile. Agli inizi del VI sec. d.C. venne inoltre costruita sulla sommità della collinetta centrale una residenza ufficiale, che è stata denominata Palazzo del Dux a seguito del rinvenimento nella stessa area di una copia di marmo del decreto di Anastasio del 500 d.C., relativo all'organizzazione militare della provincia. L'edificio ha il suo centro in un cortile porticato su tre lati e presenta una serie di ambienti ufficiali, tra cui una piccola basilica. Nel Museo di A. si trovano due stele funerarie attiche della fine del V sec. a.C., sculture di divinità funerarie nella caratteristica struttura abbreviata, una replica dell'Atena Parthenos, alcuni busti-ritratto di destinazione funeraria, statue iconiche, un sarcofago attico con il mito di Ippolito, ceramiche di varia produzione, anfore e coroplastica. Nella struttura museale hanno trovato posto anche elementi delle basiliche di Marsa al-Hilal e Latrun.
E. Ghislanzoni, Notizie archeologiche della Cirenaica, in NotAMinColonie, 1 (1915), pp. 155-69; P. Montet, Égypte et Cyrénaïque. Une campagne de fouilles à Apollonia, in CRAI, 1954, pp. 255-67; Id., Mission en Égypte et en Cyrénaïque, ibid., 1955, pp. 327-31; P. Romanelli, s.v. Apollonia di Cirenaica, in EAA, I, 1958, pp. 482-83; R.G. Goodchild, A Byzantine Palace at Apollonia, in Antiquity, 34 (1960), pp. 246-58; W.M. Widrig - R.G. Goodchild, The West Church at Apollonia in Cyrenaica, in BSR, 28 (1960), pp. 70-90; S. Stucchi, s.v. Apollonia di Cirenaica, in EAA, Suppl. 1970, pp. 63-64; R.G. Goodchild, Kyrene und Apollonia, Zürich 1971, pp. 177-91; S. Stucchi, Architettura cirenaica, Roma 1975, passim; R.G. Goodchild - J.G. Pedley - D. White, Apollonia, the Port of Cyrene. Excavations by the University of Michigan 1965-1967, Tripoli 1976; F. Chamoux, Rapport sur l'activité de la mission archéologique française d'Apollonia-Souza (avril - mai 1976), in LibyaAnt, 13-14 (1976-77), pp. 377-84; J.Ph. McAleer, A Catalogue of Sculpture from Apollonia, Tripoli 1978; A. Davesne, Le stade d'Apollonia de Cyrénaïque, in LibyaAnt, 15-16 (1978-79), pp. 245-54; A. Davesne - Y. Garlan, Découverte d'un lot de figurines grecques en terre cuite à Apollonia de Cyrenaïque, ibid., pp. 199-226; R. Rebuffat et al., Note préliminaire sur les grands thermes d'Apollonia, ibid., pp. 263-77; S. Ellis, The "Palace of the Dux" at Apollonia and Related Houses, in G. Barker - J. Lloyd - J. Reynolds (edd.), Cyrenaica in Antiquity. Colloquium on Society and Economy in Cyrenaica (Cambridge, March 29th - April 3rd 1983), Oxford 1985, pp. 15-26; J.-Y. Garlan, L'enceinte fortifiée d'Apollonia de Cyrénaïque, in CRAI, 1985, pp. 362-76; A. Laronde, Apollonia de Cyrénaïque et son histoire. Neuf ans de recherche de la mission archéologique française en Libye, ibid., pp. 93-116; Id., Recherches sous-marines dans le port d'Apollonia de Cyrenaïque. Aperçu préliminaire, in Giornata Lincea sulla Archeologia Cirenaica (Roma, 3 novembre 1987), Roma 1990, pp. 75-81.
di Anna Santucci
Le esplorazioni subacquee condotte nel porto dalla missione archeologica francese, sotto la direzione di A. Laronde, hanno definito il livello antico del mare (4 m ca. al di sotto dell'attuale) e appurato che il canale di collegamento tra i due bacini, protetto da due torri poste ai lati dell'imbocco del bacino occidentale, venne ostruito a scopo difensivo tra il VI e il VII sec. d.C., scaricandovi materiale edilizio e ceramico, in particolare anfore di epoca tarda, che sostengono la cronologia del contesto. Nel bacino orientale sono state rilevate in modo compiuto le strutture di un impianto di epoca romana destinato all'itticoltura; tra i numerosi reperti recuperati (ceramica dall'età ellenistica a epoca bizantina; elementi architettonici; un trapezoforo raffigurante Dioniso ebbro di epoca romana) è un colossale ritratto di Tolemeo III Evergete I. Realizzata in marmo e completata in stucco da una bottega locale tra il 240 e il 222/1 a.C., la testa è riferibile a una statua acrolitica, verosimilmente votata in un edificio sacro ubicato nella sovrastante acropoli.
A breve distanza dal tratto occidentale della cinta muraria ellenistica è stata individuata un'area di necropoli, con sepolture a cassa che hanno restituito ricchi corredi, connotati da un'alta percentuale di ceramiche attiche di IV sec. a.C. (anfore panatenaiche, produzioni a figure rosse e a vernice nera), a cui si affiancano vasi in ceramica comune di produzione locale e oggetti di alabastro. Circa 7 km a ovest di A., i resti di un'imponente piccionaia (II sec. a.C.), costruita nei pressi di una fattoria, danno ulteriore testimonianza dell'occupazione e dello sfruttamento agricolo della chora, già noti da vari affioramenti superficiali (ceramica, soprattutto a vernice nera; blocchi destinati alla messa in opera; presse per la lavorazione dell'olio) e da ambienti scavati nella roccia, riferibili al ricovero di prodotti e bestiame.
Bibliografia
In generale:
L. Bacchielli, s.v. Apollonia di Cirenaica, in EAA, II Suppl. 1971-1994, I, 1994, pp. 281-82; A. Laronde, Apollonia de Cyrénaïque, archéologie et histoire, in JSav, 1996, pp. 3-49.
Attività archeologica:
A. Laronde - C. Sintès, Recherches récentes dans le port d'Apollonia, in E. Catani - S.M. Marengo (edd.), La Cirenaica in età antica. Atti del Convegno Internazionale di studi (Macerata, 18-20 maggio 1995), Macerata - Pisa 1998, pp. 301-10; F. Chamoux, Cinquante ans de recherches archéologique françaises sur la Libye grecque, in CRAI, 2001, pp. 1081-111. Architettura: G.R.H. Wrigth, The Martyrion by the City Wall at Apollonia, in LibSt, 24 (1993), pp. 37-55; F. Chamoux, Callicrateia, divinité protectrice du port de Cyrène, in E. Catani - S.M. Marengo (edd.), La Cirenaica in età antica. Atti del Convegno Internazionale di studi (Macerata, 18-20 maggio 1995), Macerata - Pisa 1998, pp. 137-43; S. Walker - K.J. Matthews - A. Middleton, L'analyse isotopique des marbres de Cyrène et d'Apollonia. Résultats récents, in A. Laronde- J.-J. Maffre (edd.), Cités, ports et campagnes de la Cyrénaïque gréco-romaine. Actes de la journée d'étude sur la Cyrénaïque (Paris, 21 novembre 1992), in Karthago, 24 (1999), pp. 147-61; J.B. Ward Perkins - R.G. Goodchild, Christian Monuments of Cyrenaica, London 2003, pp. 35-114.
Mosaici:
E. Alföldi Rosenbaum - J.B. Ward Perkins, Justinianic Mosaic Pavements in Cyrenaican Churches, Rome 1980, passim. Scultura: A. Laronde - F. Queyrel, Un nouveau portrait de Ptolémée III à Apollonia de Cyrénaïque, in CRAI, 2001, pp. 737-82; C. Dobias-Lalou, Sur le Dioscure de Apollonia, in E. Fabbricotti (ed.), Cirenaica. Nuovi dati archeologici da città e territorio. Convegno Internazionale di studi (Chieti, 24-26 novembre 2003), in c.s.
Ceramica:
J.A. Riley, Amphoras in the Apollonia Museum Store, in LibSt, 12 (1980-81), pp. 75-78; J.-J. Maffre, Céramique attique du IVe siècle av. J.-C. en Cyrénaïque. Amphores panathénaïques de Cyrène et vases à vernis noir d'Apollonia, in B. Sabattini (ed.), La céramique attique du IVe siècle en Méditerranée occidentale. Actes du Colloque International (Arles, 7-9 décembre 1995), Naples 2000, pp. 265-69; Id., Céramique attique récemment découverte à Apollonia de Cyrénaïque, in CRAI, 2001, pp. 1065-1079; Id., Céramique grecque des Ve et IVe s. av. J.-C. récemment découverte à Apollonia de Cyrénaïque, in M. Luni (ed.), Archeologia cirenaica. Convegno Internazionale di studi (Urbino, 4-5 luglio 1988), in QuadALibia, 16 (2002), pp. 55-58.
Territorio:
A. Laronde, Première reconnaissance de la route grecque entre Cyréne et son port, Apollonia, in LibyaAnt, 15-16 (1978-79), pp. 187-98; F. Chamoux - G. Hallier, Le colombier d'Apollonia, in L. Bacchielli - M. Bonanno Aravantinos (edd.), Scritti di antichità in memoria di Sandro Stucchi, I, Roma 1996, pp. 51-60; D. White - G.R.H. Wrigth, Apollonia's East Fort and the Strategic Deployment of Cut-Down Bedrock for Defensive Walls, in LibSt, 29 (1998), pp. 3-33; D. Roques, Ports et campagnes de Cyrène: d'Apollonia à Phycous, in A. Laronde - J.-J. Maffre (edd.), Cités, ports et campagnes de la Cyrénaïque gréco-romaine. Actes de la journée d'étude sur la Cyrénaïque (Paris, 21 novembre 1992), in Karthago, 24 (1999), pp. 187-95.
di Lidiano Bacchielli
Città (gr. Βάϱχη; lat. Barce) che sorgeva sull'altopiano cirenaico, in un'ampia e fertile conca, dalla quale deriva il nome moderno di el-Merg ("la prateria").
B. è fondata, attorno al 560 a.C., da un gruppo di dissidenti cirenei, guidati dai fratelli del re Arcesilao II. La rivalità con Cirene riemerge costante nella storia della città. L'uccisione nella piazza di B. del re di Cirene, Arcesilao III, determina l'intervento dei Persiani, che la conquistano e la saccheggiano. Riacquistata l'autonomia dopo le guerre persiane, gode per tutto il V sec. a.C. di prosperità e spinge il suo controllo fino a Tocra. Agli inizi del IV sec. a.C., B. entra in guerra con Cartagine per il controllo della Grande Sirte, ma dal secondo quarto del secolo ha inizio il suo declino, che comporta un'assenza politica dalla vita della regione e che si traduce nell'arresto della monetazione. L'eclissi diventa totale poco più di un centinaio di anni dopo, quando B. verrà declassata a favore del suo porto, che si trasforma nella città di Tolemaide (Tolmeta). Un parziale recupero si registra nella Tarda Antichità, con l'installazione della sede vescovile, e soprattutto dopo la conquista araba del 642 d.C., quando B. diventa la capitale della regione e dà il nome (Barqa) a tutto l'altopiano.
Le sovrapposizioni successive, fino all'età moderna, hanno obliterato il tessuto urbanistico-monumentale della città antica. Viaggiatori del XIX secolo ricordano frammenti di antichi edifici, colonne e capitelli di marmo, iscrizioni greche, ma le testimonianze più significative fino ad alcuni anni fa erano dislocate nella chora. A circa 5 km si apre nella parete rocciosa del gebel la cosiddetta Tomba di Menecrate, con la facciata a due piani colonnati, che può essere collocata agli inizi del V sec. a.C. Della fine del V sec. a.C. è, invece, la Tomba di Aslaia, che ha restituito, fra l'altro, un sarcofago ligneo, un'anfora panatenaica, uno strigile e una corona argentata. Sempre dai dintorni di B. provengono lastre marmoree di transenna, pertinenti a basiliche paleocristiane. Gli scavi intrapresi nel sito dell'antica città da una missione archeologica inglese permettono di ricucire le smagliature cronologiche della documentazione con una stratigrafia completa, che assicura anche nel versante archeologico una continuità di occupazione, che dal periodo greco giunge fino ai tempi moderni.
Bibliografia
F. Chamoux, Cyrène sous la monarchie des Battiades, Paris 1953, passim; A. Abdussaid, Barqa. Modern El-Merj, in LibyaAnt, 8 (1971), pp. 121-28; M.G. Pierini, La tomba "di Menecrate" a Barce in Cirenaica, in QuadALibia, 6 (1971), pp. 23-34; M. Vickers - A. Bazama, A Fifth Century B.C. Tomb in Cyrenaica, in LibyaAnt, 8 (1971), pp. 69-84; S. Stucchi, Architettura cirenaica, Roma 1975, passim; A. Laronde, Cyrène et la Libye hellénistique. 'Libykai Historiai' de l'époque republicaine au principat d'Auguste, Paris 1987, passim; D. Roques, Synésius de Cyrène et la Cyrénaïque du Bas-Empire, Paris 1987, passim; J.N. Dore, Excavations at El Merj (Ancient Barca). A First Report on the 1990 Season, in LibSt, 22 (1991), pp. 91-105; Id., Excavations at El Merj (Ancient Barca). A First Report on the 1991 Season, ibid., 23 (1992), pp. 101-105; J.N. Dore - J.S. Rowan - J.P. Davison, Fieldwork at El Merj (Ancient Barca). A First Report on the 1992 Season, ibid., 24 (1993), pp. 111-20.
di Anna Santucci
Sculture provenienti dal territorio e raffiguranti una mezza figura femminile in abbigliamento locale individuano una scuola di scultura barcea. Pur inquadrandosi nella più ampia categoria delle divinità funerarie cirenaiche, le sculture mostrano peculiari tratti stilistico-formali con forti accenti indigeni; la maggiore antichità di alcuni esemplari rispetto a quelli cirenei di simile concezione apre l'ipotesi di iconografie greco-libye elaborate in autonomia da Cirene. Questa documentazione, ulteriore indizio della centralità di B. nelle dinamiche di integrazione culturale tra Greci e indigeni, pone in nuove prospettive l'analisi delle trasmissioni iconografiche nella cultura figurativa regionale. Una vasta tomba ipogeica, articolata in più camere, rinvenuta in un quartiere periferico di el-Merg, costituisce una delle rare evidenze monumentali del sito; tra i materiali di corredo è un'anfora panatenaica (fine V - inizi IV sec. a.C.).
Le fonti epigrafiche delineano per la fase romana, se non anche per quella ellenistica, una continuità di occupazione di B. e del territorio mediante villaggi a vocazione rurale e di diversa estensione, taluni con forme proprie di amministrazione. Ma già nel III sec. d.C. sembra essere avviato il processo di recupero di B. come centro urbano, che è compiuto nella Tarda Antichità. Dal territorio vengono chiare evidenze della continuità della cultura classica ancora in epoca tardoantica. La tomba ipogeica di Asgafa el-Abiar, un probabile villaggio (kome) circa 40 km a sud di B., conserva un ciclo pittorico, che affianca ai motivi ornamentali scene di banchetto e vari episodi dell'epos (Achille e Troilo, Achille che trascina il corpo di Ettore, il sacrificio di Polissena, Ulisse e le Sirene, l'attacco di Scilla alla nave di Ulisse, Bellerofonte e la Chimera).
J.-J. Maffre - F.A. Mohamed, Une nouvelle amphore panathénaïque découverte à Barca, en Cyrénaïque, in RA, 1 (1993), pp. 91-100; J.N. Dore, Is El Merj the Site of Ancient Barqa? Current Excavations in Context, in LibSt, 25 (1994), pp. 265-74; L. Bacchielli - M.R. Falivene, Il canto delle Sirene nella Tomba di Asgafa el Abiar, in QuadALibia, 17 (1995), pp. 93-107; G. Alvino, Il mito di Achille a Sciro. Un sarcofago inedito da Uadi Khanbish (El Merg), in L. Bacchielli - M. Bonanno Aravantinos (edd.), Scritti di antichità in memoria di Sandro Stucchi, I, Roma 1996, pp. 7-14; L. Bacchielli, Ulisse nelle pitture della Tomba di Asgafa el Abiar in Cirenaica, in B. Andreae - C. Parisi Presicce (edd.), Ulisse. Il mito e la memoria (Catalogo della mostra), Roma 1996, pp. 230-36; E. Fabbricotti, Divinità funerarie cirenaiche da Barce a Tolemaide, in L. Bacchielli - M. Bonanno Aravantinos (edd.), Scritti di antichità in memoria di Sandro Stucchi, I, Roma 1996, pp. 117-26; J. Reynolds, Inscriptions of El-Merg and its Neighbourhood, in A. Laronde - J.-J. Maffre (edd.), Cités, ports et campagnes de la Cyrénaïque gréco-romaine. Actes de la journée d'étude sur la Cyrénaïque (Paris, 21 novembre 1992), in Karthago, 24 (1999), pp. 135-40; J.B. Ward Perkins - R.G. Goodchild, Christian Monuments of Cyrenaica, London 2003, pp. 257-65.
di Lidiano Bacchielli
Città antica (gr. Κυϱήνη, Κυϱάνα; lat. Cyrene, Cyrenae) della parte orientale della Libia, cui dà il nome di Cirenaica.
La fondazione di C. si colloca attorno al 630 a.C. ed è dovuta a coloni dell'isola di Thera, guidati da Batto. Gli studi hanno dimostrato, però, che il luogo era conosciuto e frequentato, per fini commerciali, da popolazioni egee fin dal XIV sec. a.C. La città si sviluppa su due colline e in una piccola vallata intermedia, in un territorio in grado di soddisfare la sua vocazione agricola. I 15 km che la separano dal mare sono attraversati da una strada che supera le erte pareti dei gradini dell'altopiano e raggiunge la costa. Lì è costruito il porto, che soltanto nella tarda età ellenistica diventa città autonoma con il nome di Apollonia. Il territorio era già abitato da tribù libye e l'incontro fra le due popolazioni determina processi di acculturazione e forme di collaborazione che culmineranno nella concessione del diritto di cittadinanza ai figli nati da padre cireneo e da donne libye. Con le tribù del predeserto, quelle cioè costrette ad arretrare verso l'interno sotto la spinta dei coloni, i rapporti saranno invece generalmente tesi e gli scontri continueranno fino all'arrivo degli Arabi.
La dinastia fondata da Batto dura per circa due secoli e la stabilità e la continuità del regime consentono alla colonia di consolidarsi e ingrandirsi. Alla metà circa del V sec. a.C. l'uccisione di Arcesilao IV pone fine alla monarchia, che è sostituita da un regime democratico che si ispira ad Atene, derivandone modelli culturali e soprattutto istituzionali e politici. Nella seconda metà del IV sec. a.C. la città è attirata nell'orbita di Alessandro Magno e alla sua morte segue le sorti del vicino Egitto ed è attribuita ai Tolemei. La dipendenza è scossa da sussulti di autonomia, ma resiste fino agli inizi del I sec. a.C., quando Tolemeo Apione cede C. in testamento al popolo romano. La romanizzazione è graduale e inizialmente lascia ampi margini di sopravvivenza alle istituzioni e alla cultura del passato. L'occasione per un più radicale intervento romano è offerta dalla rivolta giudaica (115-117 d.C.), che determina lacerazioni politiche e vaste distruzioni monumentali. Dopo la dura repressione voluta da Traiano, Adriano provvede a iniziare il processo di ricostruzione e, di fronte alle rivendicazioni autonomistiche delle altre città della regione, riconferma a C. il suo ruolo preminente come sede del governatore.
Alla metà del III sec. d.C. la città risente di quella crisi politico-economica che investe tutto l'Impero: le iscrizioni relative alla vita pubblica diventano estremamente rare, gli edifici soffrono dell'usura del tempo. Claudio il Gotico la ribattezza Claudiopolis e, dopo quella di Adriano, ne sogna una nuova ricostruzione; il tentativo, però, non ha successo. Con la riforma di Diocleziano, che divide la regione in due unità amministrative, C. perde il ruolo di capitale; poi, nel 365 d.C., è scossa da un violento terremoto. L'attività edilizia è soprattutto finalizzata al settore privato, perché i monumenti pubblici, i "luoghi del potere", erano ormai concentrati a Tolemaide, la nuova capitale provinciale. Nel 642 d.C. la Cirenaica è conquistata dalle armate di Ibn el-As, ma il dominio arabo non impedisce nella città una continuità di vita, che è documentata, ad esempio, nelle terme del santuario di Apollo dai restauri e dalle iscrizioni. Nell'XI secolo prende avvio la vera e propria arabizzazione del paese, con l'immigrazione dall'Egitto delle tribù dei Beni Hilal e dei Beni Soleim. L'antico centro greco-romano viene chiamato Grennah.
Nel XVIII secolo, dopo un millennio di silenzio, iniziano i viaggi di esplorazione: tra i primi è quello del console francese C. Lemaire. Agli inizi del secolo successivo si svolge quello del medico italiano P. Della Cella e poi quelli molto più importanti dei fratelli F.W. e H.W. Beechey, di J.R. Pacho e degli inglesi R. Murdoch Smith ed E.A. Porcher, che compiono a C. anche alcuni scavi, per recuperare oggetti e opere d'arte. L'esplorazione scientifica della città inizia ai primi del Novecento, con le imprese dell'americano R. Norton e dell'italiano F. Halbherr. Vengono in seguito organizzati un servizio archeologico e una Sovrintendenza alle Antichità della Cirenaica, che sono diretti da E. Ghislanzoni, poi da G. Oliverio e infine da G. Caputo. Gli archeologi italiani progettano ed eseguono gli scavi dei grandi assi viari e dei complessi monumentali più importanti: l'agorà, il ginnasio ellenistico, il santuario di Apollo, il tempio di Zeus.
Ai momenti di scavo succedono fasi di studio e di sistemazione: i ruderi sono ricuciti in lunghi e pazienti restauri, che fanno riemergere il quadro urbanistico-architettonico di C. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, l'attività archeologica è diretta da R.G. Goodchild, che riorganizza il servizio di antichità e intraprende nuovi scavi. L'attività di scavo e di restauro è continuata dal Department of Antiquities, con cui collaborano alcune missioni archeologiche straniere. Una prima missione, dell'Università di Manchester, ha dedicato tre brevi campagne alla necropoli settentrionale; un'altra, delle Università di Michigan e della Pennsylvania, ha operato dal 1969 al 1978 nel santuario extraurbano di Demetra. Una terza missione, quella italiana fondata da S. Stucchi nel 1957 e aperta alla partecipazione di studiosi di varie università e istituzioni scientifiche italiane, svolge attività di ricerca, scavo e restauro nelle principali aree della città e del territorio.
Il tracciato urbanistico di C., che in parte è stato messo in luce dalle grandi operazioni di scavo eseguite nella prima metà del Novecento e che può essere integrato dalle riprese aerofotografiche, non è calato in maniera uniforme nel terreno, ma si adegua a esso proponendosi in forme regolari area per area. L'operazione è agevolata da un'urbanizzazione graduale di cui si possono riconoscere alcune fasi fondamentali. Il primo insediamento è da individuare nella zona dell'acropoli ed era circondato da un circuito di mura a forma poligonale, che assecondava la conformazione della spianata superiore e delimitava un'area di circa 300 × 250 m. Gli scavi e le riprese aerofotografiche hanno fatto emergere una serie di piccoli isolati rettangolari, che per le loro dimensioni ridotte trovano confronti puntuali nei più antichi esempi di pianificazione urbana. Batto il Fondatore, come ricorda Pindaro nella V Pitica, mediante la via Skyrotà che si distende in parte sul crinale della collina meridionale, collegò questo nucleo con il santuario di Apollo, per farvi svolgere le processioni in onore del dio.
I monumenti che sorgono lungo il percorso della via mostrano la forza di aggregazione dei culti e delle cerimonie religiose, secondo quei principi di organizzazione urbana caratteristici delle vecchie città della Grecia. Ma accanto a essi ne affiorano altri che fanno la loro prima apparizione nel mondo coloniale: una predeterminazione delle aree pubbliche, destinate alle attività civili e comunitarie, e la ripartizione delle terre coltivabili attorno al nucleo abitativo. La seconda fase di urbanizzazione interessa i vecchi lotti agrari della zona dell'agorà e avviene alla metà del VI sec. a.C., in coincidenza con l'arrivo dalla Grecia di una seconda ondata di coloni. All'ampliamento della città corrispose probabilmente quello del circuito murario, che potrebbe coincidere con la cinta ricordata da Erodoto in relazione alla spedizione dei Persiani nel 515 a.C. contro Barce.
Nel II sec. a.C. la città registra una notevole estensione verso est, che è il risultato di una pianificazione omogenea. L'organizzazione dello spazio urbano si affida a una quadrettatura di isolati rettangolari che si attestano ortogonalmente sul grande asse di crinale. All'interno di questo reticolato si dispongono alcuni complessi architettonici della metà del II sec. a.C., come il ginnasio, dotato di una pista coperta con facciata decorata da immagini di Eracle ed Hermes, che per la sua monumentalità, la funzione pubblica e la committenza regale è elemento centrale della nuova fase urbanistica. Allo stesso momento progettuale è da attribuire la definizione della nuova cinta difensiva, che abbraccia tutta la città conosciuta e si sviluppa per più di 5,5 km. Essa corre sul ciglio delle scarpate, sale sui rialzi del terreno e si rafforza di torri quadrangolari soprattutto nella zona pianeggiante.
I quartieri della collina settentrionale e del fondovalle non sembra fossero completamente inurbati. Quello della collina si organizza attorno al tempio di Zeus; nel secondo il tracciato urbanistico si articola attorno a un asse mediano est-ovest che non è perfettamente rettilineo, ma si compone di diversi segmenti per adeguarsi alla conformazione del terreno. Gli ampliamenti della città verso est e nord determinano un progressivo decentramento dell'agorà e in età romana si registra una nuova distribuzione dei complessi pubblici. L'agorà conserverà ancora per lungo tempo le sue funzioni, ma nella seconda metà del I sec. d.C. a essa viene affiancato il foro, che è il risultato di modifiche apportate al ginnasio ellenistico: le principali comportano la costruzione di un tempietto su podio al centro della corte a peristilio e l'insediamento di una basilica giudiziaria lungo il lato nord, occupato in precedenza dagli ambienti funzionali all'attività sportiva; le funzioni del ginnasio furono probabilmente trasferite nella cosiddetta Casa di Giasone Magno, nota per i pavimenti a mosaico e marmorei. A est del ginnasio viene affiancato un odeion.
Nel corso del II sec. d.C. la via che attraversa il Quartiere Centrale diventa l'asse principale della città. Questa, secondo un modello urbanistico particolarmente diffuso nelle città d'Oriente, è porticata nel settore mediano e un altro troncone coperto supera il pendio che conduce al santuario di Apollo. Ai bordi sono innalzati templi e lungo il percorso si collocano monumenti celebrativi propri della civiltà romana: un arco a tre fornici dell'età di Marco Aurelio; un propileo monumentale che nel fregio figurato celebra le vittorie di Settimio Severo contro i Parti. La forza di aggregazione dell'asse di fondovalle continua con maggiore intensità anche nei secoli successivi, quando l'occupazione del suolo dell'agorà e del foro da parte di povere abitazioni (tardo III-IV sec. d.C.) sancisce la fine della loro funzione politica. Dopo il terremoto del 365 d.C. lungo questa via è eretto il nuovo teatro e pochi decenni dopo vi saranno innalzate anche le due basiliche paleocristiane, poli di aggregazione della nuova società.
Agorà - L'agorà è un rettangolo irregolare di 105 m in senso nord-sud e 125 m in direzione est-ovest, ritagliato per l'estensione di tre isolati nel reticolato urbanistico della parte centrale della collina meridionale. La sua identificazione è assicurata da due iscrizioni della prima metà del III sec. a.C. con dediche "agli dei che si trovano nell'agorà". Il complesso inizia a prendere forma subito dopo la colonizzazione di Thera. I primi edifici si dispongono nel settore meridionale: un santuario di Apollo Archegheta, sostituito nel IV sec. a.C. da un tempietto a oikos con uno splendido portale marmoreo; un temenos di Opheles, divinità benefattrice e guaritrice, destinato a trasformarsi nel tempio di Asclepio; un più tardo pritaneo. Lungo il bordo orientale della piazza, addossata al lato nord del santuario di Opheles, è stata rinvenuta da Stucchi una tomba a tumulo degli inizi del VI sec. a.C. Alcuni versi della Pitica V di Pindaro hanno permesso di riconoscervi il luogo di sepoltura di Batto il Fondatore; le vicende del monumento confermano l'identificazione. La tomba è stata distrutta alla metà del V sec. a.C., in occasione della rivolta mossa contro l'ultimo sovrano battiade, ed è stata ricostruita nella forma arcaicizzante del tumulo alla fine del secolo, al momento del rientro degli aristocratici dall'esilio.
Agli anni del governo democratico risalgono anche, nel lato ovest, l'edificio per riunioni pubbliche e l'edificio a parasceni, eretto sul modello della Stoà di Zeus Eleutherios ad Atene. La ripresa del modello architettonico sembra rinviare anche a quella di modelli politici, come attestano i cocci di ostracismo rinvenuti nell'area antistante l'edificio a parasceni, durante gli scavi di un piccolo santuario con altare interno e dediche votive ad Anax. Dalla metà del IV sec. a.C. nell'agorà si accelera il processo di regolarizzazione e monumentalizzazione e i piccoli portici del lato nord e gli edifici eterogenei della parte settentrionale di quello ovest vengono sostituiti da due grandi stoài, che dovevano svolgere funzioni commerciali e civili, potendo ospitare anche assemblee cittadine. Nel lato est la tomba di Batto è ricostruita ancora una volta e appare ‒ nella forma del tumulo sormontato da una colonnina che sostiene un'urna ‒ come emblema in alcune monete emesse a C. alla fine del secolo, durante i periodi di rivolta e di autonomia dal governo tolemaico, quale simbolo dell'aspirazione e del diritto all'indipendenza. Nella spianata sorge un altare monumentale di marmo, affiancato in seguito da un altro della stessa tipologia.
La dominazione tolemaica lascia segni chiaramente leggibili nel tessuto architettonico della piazza, continuando le tendenze alla monumentalizzazione e regolarizzazione. Nell'ambito di un programma religioso-politico organizzato dalla corte alessandrina di Tolemeo III e Berenice II, le cui nozze attuano la riunificazione della Cirenaica all'Egitto, viene eretto un monumento navale, a ricordo dei successi della flotta egiziana nella terza guerra siriaca; un santuario circolare di Demetra e Kore viene innalzato nella parte centrale della piazza e un piccolo altare con dedica a Eunomia, posto nei pressi, conserva l'eco delle vicende politiche legate all'intervento dei legislatori arcadi Ecdelo e Demofane e all'equo ordine sociale ristabilito poco prima del matrimonio dei due sovrani. Fra questo santuario e un altro dedicato ugualmente alle due dee, ma posto fuori le mura lungo la costa meridionale del Wadi Bel Gadir, si svolgevano riti e processioni di carattere tesmoforico che sembrano aver ispirato l'Inno a Demetra di Callimaco.
Nel secolo successivo sono innalzate lungo il lato sud della platea alcuni monumenti onorari; a nord una base degli dei patri. In età augustea la copertura del pozzo nell'angolo nord-ovest è trasformata in un luogo sacro alla divinità augusta dell'imperatore e lungo il lato sud si erige una colonna di acanto, che materializza il ricordo di un evento celebrato con i simboli caratteristici dell'ideologia augustea. La ricostruzione dopo i danni della rivolta giudaica (115-117 d.C.) diventa l'occasione per adeguare il quadro monumentale a principi architettonici e urbanistici più vicini alla cultura romana. Il tempio di Asclepio, eretto nell'angolo sud-est, si staglia su un podio modanato; i capitelli corinzi fanno la loro prima apparizione. Dopo il sisma del 365 d.C., l'agorà perde qualsiasi carattere monumentale: povere abitazioni invadono la piazza, con una disposizione caotica e irregolare.
Santuario di Apollo - Il santuario si sviluppa sulla terrazza che si distende immediatamente sotto l'acropoli, articolata in due gradoni sostenuti da potenti muraglioni, che consentono di ampliarne l'estensione e di regolarizzarne il livello. Su quello superiore si aprono profonde grotte, nelle quali sgorgano le fonti Kyra e di Apollo. L'acqua è portata, mediante condotte e canalette, ad alimentare due fontane con portico dorico (cd. Fontana Dorica e Fontana di Philothales), alcune vasche utilizzate per le cerimonie religiose e una fonte con la raffigurazione scolpita dei buoi di Euripilo, allusione ai tempi mitici. L'ingresso principale al santuario è collocato a est, dove scendeva la via Skyrotà, che prendeva avvio dall'acropoli. Il dispositivo d'ingresso subirà nei secoli lievi spostamenti e risulterà improntato a una sempre maggiore monumentalità, fino ad assumere la forma di un propileo dorico, tetrastilo e timpanato (seconda metà del III sec. a.C.), dedicato da Praxiades, sacerdote di Apollo.
L'elemento di centralizzazione è rappresentato dal tempio di Apollo, che viene eretto nei primi anni della colonia. La fase più antica è costituita da un sekòs e un adyton, costruiti con mattoni crudi su uno zoccolo di calcare. Alla fine del VI sec. a.C. una peristasi di 6 × 11 colonne viene a circondare l'edificio, che riceve anche una decorazione frontonale. Altre modifiche e rifacimenti si registrano nel IV sec. a.C., in età augustea e dopo il tumulto giudaico, quando il tempio verrà ricostruito con colonne doriche lisce nella peristasi, un naòs ad ambiente unico e un adyton sopraelevato. Davanti al tempio è un lungo altare di calcare che nel IV sec. a.C. è rivestito di marmo. Nel santuario sono innalzati anche templi ad altre divinità: ad Artemide, Latona, Iside, Ecate e ad altre che rimangono ancora sconosciute. Nella Tarda Antichità un Mitreo segna una frattura con il passato che penetra fin nel campo religioso.
Fra i donari che affollano l'area del santuario di particolare interesse è lo strategheion, un oikos fatto erigere dagli strateghi verso la fine del IV sec. a.C. per celebrare una vittoria sulle tribù libye dei Macae e Nasamones. Un altro, innalzato da Pratomedes nella prima metà del III sec. a.C., ha la forma di un'esedra sulla quale spicca una colonna marmorea appuntita, che è l'immagine di Apollo Agyeus. A ovest del santuario, sullo stesso gradone, è costruito il più antico teatro della città. La cavea è appoggiata sul pendio che sale verso l'acropoli, l'edificio scenico è eretto sul bordo della terrazza. Il monumento è interessato da numerose modifiche, finché alla fine del II sec. d.C. è trasformato in anfiteatro e la parte nuova della cavea viene sostenuta a valle da potenti opere di sostruzione. Le funzioni del vecchio teatro vengono ereditate da uno nuovo, che è costruito a sud del ginnasio ellenistico sui resti di un monumentale altare di epoca classica e che nella Tarda Antichità verrà a sua volta sostituito da un teatro edificato lungo la via di fondovalle. A est del santuario si trova, infine, un grande complesso termale di età traianea, che subirà un consistente rimaneggiamento in periodo bizantino.
Collina dell'acropoli - A ovest del santuario di Apollo e del teatro greco, sulle pendici occidentali dell'acropoli e fuori dalle mura, è situato un santuario rupestre, con nicchie e altari scavati nella roccia, consacrato alle Nymphai Chtoniai. L'identificazione è affidata a un ricco deposito votivo di statuette fittili; esse raffigurano le ninfe indigene, abbigliate "alla libya" con attributi regionali (silfio, gazzella), e il dio Aristeo, che dalle ninfe locali avrebbe appreso i modi per conservare il succo del silfio, pianta delle zone predesertiche. Le stesse divinità costituiscono il nucleo di alcuni rilievi ellenistici rinvenuti nel territorio di C., dove numerosi santuari rupestri occupano i pendii delle colline.
Santuario di Zeus - L'area sacra a Zeus si trova sulla collina nord-orientale. Ora è dominata dalla massa gigantesca del tempio, distrutto dalla rivolta giudaica, dal terremoto del 365 d.C. e dai cristiani, ma ricostruito in gran parte da Stucchi in una lunga impresa di anastilosi iniziata nel 1967. Attorno al tempio si distribuiscono donari, sale per banchetti e monumenti, che delineano l'importanza e l'intensità della frequentazione del santuario. Da Erodoto si può dedurre che un tempio di Zeus esisteva su questa collina prima del 515 a.C., ma di questa fase edilizia non si conservano tracce sicure. Il tempio attualmente visibile risale al 500-480 a.C.: una peristasi di 46 colonne doriche, 8 in facciata e 17 nei lati lunghi, circonda la cella e il naòs. La costruzione ha subito restauri in epoca ellenistica, durante il regno di Augusto o di Tiberio e dopo la rivolta giudaica. Il restauro di epoca antonina, molto più impegnativo, tende a ripristinare il monumento rimodellandone l'interno con un rivestimento di marmo proconnesio e con colonne di cipollino in sostituzione del vecchio colonnato di calcare. In fondo alla cella viene collocato il gigantesco simulacro del dio, realizzato con la tecnica dell'acrolito sul modello della statua di Zeus a Olimpia. A est del santuario di Zeus si trova l'ippodromo, che è stato ottenuto ribassando il livello del suolo e applicando le gradinate per gli spettatori sulle scarpate laterali.
Necropoli - La necropoli si dispone tutta attorno alla città ed è in massima parte costituita da tombe scavate nella roccia. In età greca esse possono presentare ricche facciate architettoniche, con portici reali o illusori; in periodo romano la fronte esterna dei monumenti funerari è nuda e disadorna e i valori architettonici sono racchiusi completamente all'interno. I catini degli arcosoli possono essere decorati da conchiglie a rilievo, la fronte dei cassoni per le deposizioni può accogliere rilievi propri della classe dei sarcofagi, i pavimenti possono essere ricoperti da mosaici. I modi della commemorazione del defunto si realizzano in espressioni artistiche originali. Per tutto il periodo greco mezze figure femminili sono poste sulla facciata o all'interno dei monumenti. Esse hanno il capo velato e in diversi esemplari non sono indicati i tratti del volto: tale assenza non è dovuta a una lavorazione incompleta, né poteva essere compensata da una definizione a pittura, ma rappresenta una scelta che si addice alla raffigurazione della divinità della morte, probabilmente Persefone.
L'arrivo dei Romani in Cirenaica pone fine a questo costume imponendo la raffigurazione del defunto. Nicchie sono scavate nelle facciate e all'interno delle tombe, senza tenere conto della originaria modulazione architettonica, per ospitare ritratti di piccole dimensioni e ravvivati da policromia. Essi appartengono a un ceto medio e ci fanno riconoscere personaggi greci, romani, ma anche indigeni, libyi e perfino un nero. Alcune tombe hanno conservato al loro interno cospicue tracce di decorazione pittorica. Nelle metope della Tomba dell'Altalena (inizi del II sec. a.C.), oggi al Museo del Louvre, viene rievocata la vita di una giovane donna; nella Tomba di Thanatos, di epoca tardoellenistica, le immagini di Hypnos e Thanatos affiancano l'ingresso della camera funeraria. Nella Tomba dei Ludi (II sec. d.C.) sono raffigurate cacce, combattimenti gladiatori, corse di carri, gare di pugilato e lotta, spettacoli musicali e teatrali. Dello stesso periodo è la tomba del veterano Ammonio che, accanto alla rappresentazione di giochi funerari, propone una serie di immagini e morti mitiche (Leda, Atteone, Psyche, Parche, Ganimede, Adone). Nel IV sec. d.C. si collocano la Tomba di Demetria, con la raffigurazione di un paradeisos, e la Tomba del Buon Pastore, con due scene di ispirazione cristiana: la figura del Buon Pastore e un pavone circondato da 12 pesci, immagine di Cristo e del collegio degli Apostoli.
Accurate rassegne bibliografiche di archeologia cirenaica sono pubblicate a opera di L. Gasperini e G. Paci nei QuadALibia; una guida ai monumenti più importanti è R.G. Goodchild, Kyrene und Apollonia, Zürich 1971.
Vicende storiche:
G. Oliverio, Documenti antichi dell'Africa Italiana, I-II, Bergamo 1932-36; P. Romanelli, La Cirenaica romana, Verbania 1943; F. Chamoux, Cyrène sous la monarchie des Battiades, Paris 1953; Da Batto Aristotele a Ibn el-'As (Catalogo della mostra), Roma 1987; A. Laronde, Cyrène et la Libye hellénistique. 'Libykai Historiai' de l'époque républicaine au principat d'Auguste, Paris 1987; D. Roques, Synésius de Cyrène et la Cyrénaïque du Bas-Empire, Paris 1987; A. Laronde, La Cyrénaïque romaine, des origines à la fin des Sévères (96 av. J.C. - 235 ap. J.C), in ANRW, II, 10, 1, Berlin 1988, pp. 1006-1064. Attività archeologica: G. Oliverio, Scavi di Cirene, Bergamo 1931; A. Rowe - D. Buttle - J. Gray, Cyrenaican Expedition of the University of Manchester 1952, Manchester 1956; A. Rowe- J.F. Healy, Cyrenaican Expeditions of the University of Manchester 1955-1957, I-II, Manchester 1956-59; G. Pesce - G. Sgatti - E. Paribeni, s.v. Cirene, in EAA, II, 1959, pp. 655-92; S. Stucchi, Cirene 1957-1966. Un decennio di attività della Missione Archeologica Italiana a Cirene, Tripoli 1967; Id., s.v. Cirene, in EAA, Suppl. 1970, pp. 221-27 (con bibl. prec.); Id., Gli anni di Carlo Anti a Cirene, in Carlo Anti. Giornate di studio nel centenario della sua nascita (Verona - Padova - Venezia, 6-8 marzo 1990), Trieste 1992, pp. 49-128.
Urbanistica e architettura:
S. Stucchi, Cirene 1957-1966. Un decennio di attività della Missione Archeologica Italiana a Cirene, Tripoli 1967; Id., Architettura cirenaica, Roma 1975, passim; L. Bacchielli, Un architetto del III sec. a.C. e l'affermazione a Cirene di una nuova architettura dorica: rapporti e differenze con Alessandria, in RendLinc, 35 (1980), pp. 1-26; Id., I "luoghi" della celebrazione politica e religiosa a Cirene nella poesia di Pindaro e Callimaco, in B. Gentili (ed.), Cirene. Storia, mito, letteratura. Atti del Convegno della Società Italiana per lo Studio dell'Antichità Classica (Urbino, 3 luglio 1988), Urbino 1990, pp. 5-33; M. Luni, Il Ginnasio - "Caesaerum" di Cirene nel contesto del rinnovamento urbanistico della media età ellenistica e della prima età imperiale, in Giornata Lincea sulla Archeologia Cirenaica (Roma, 3 novembre 1987), Roma 1990, pp. 87-120; L. Bacchielli, Urbanistica della Cirenaica antica, in G. Pugliese Carratelli (ed.), I Greci in Occidente (Catalogo della mostra), Milano 1996, pp. 309-14; - agorà e area limitrofa: S. Stucchi, L'agorà di Cirene, I. I lati nord ed est della platea inferiore, Roma 1965; P. Mingazzini, L'Insula di Giasone Magno a Cirene, Roma 1966; L. Bacchielli, L'agorà di Cirene, II, 1. L'area settentrionale del lato ovest della platea inferiore, Roma 1981; A.L. Ermeti, L'agorà di Cirene, III, 1. Il monumento navale, Roma 1981; S. Stucchi - L. Bacchielli, L'agorà di Cirene, II, 4. Il lato sud della platea inferiore e il lato nord della terrazza superiore, Roma 1983; S. Stucchi, Gli altari marmorei nell'agorà di Cirene, in R. Étienne - M.T. Le Dinahet (edd.), L'espace sacrificiel dans les civilisations méditerranéennes de l'antiquité. Actes du Colloque (Lyon, 4-7 juin 1988), Paris 1991, pp. 175-78; - santuario extraurbano di Demetra: D. White, The Extramural Sanctuary of Demeter and Persephone at Cyrene, Libya. Final Reports, I. Background and Introduction to the Excavations, Philadelphia 1984; - santuario di Apollo: L. Pernier, Il tempio di Artemide, in Africa Italiana, 4 (1931), pp. 173-228; Id., Il tempio e l'altare di Apollo a Cirene, Bergamo 1935; C. Parisi Presicce, Nuovi altari nel Santuario di Apollo a Cirene, in Giornata Lincea sulla Archeologia Cirenaica (Roma, 3 novembre 1987), Roma 1990, pp. 121-55; Id., Cirene. Gli altari del Santuario di Apollo a Cirene, in R. Étienne - M.T. Le Dinahet (edd.), L'espace sacrificiel dans les civilisations méditerranéennes de l'antiquité. Actes du Colloque (Lyon, 4-7 juin 1988), Paris 1991, pp. 159-65; S. Ensoli, Indagini sul culto di Iside a Cirene, in Africa Romana IX, pp. 167-250; - santuario di Zeus: G. Pesce, Il "Gran Tempio" in Cirene, in BCH, 71-72 (1947-48), pp. 307-58; R.G. Goodchild - J.M. Reynolds - C.J. Herington, The Temple of Zeus at Cyrene, in BSR, 26 (1958), pp. 30-62; S. Stucchi, Il progetto del Parthenon ed il progetto dell'Olympieion di Cirene, in E. Berger (ed.), Parthenon-Kongress (Basel, 4.-8. April 1982), Mainz a.Rh. 1984, pp. 80-92; - necropoli: J. Cassels, The Cemeteries of Cyrene, in BSR, 23 (1955), pp. 2-43; L. Bacchielli, Pittura funeraria antica in Cirenaica, in LibSt, 24 (1993), pp. 77-116. Scultura: C. Anti (ed.), Sculture greche e romane di Cirene, Padova 1959; E. Paribeni, Catalogo della scultura di Cirene. Statue e rilievi di carattere religioso, Roma 1959; E. Rosenbaum, A Catalogue of Cyrenaican Portrait Sculpture, London 1960; G. Traversari, Statue iconiche femminili cirenaiche, Roma 1960; L. Beschi, Divinità funerarie cirenaiche, in ASAtene, 47-48 (1969-70), pp. 133-341; J. Huskinson, Roman Sculpture from Cyrenaica in the British Museum, London 1975; E. Fabbricotti, Divinità greche e divinità libie in rilievi di età ellenistica, in QuadALibia, 12 (1987), pp. 221-44; L. Bacchielli, Il ritratto funerario in Cirenaica: produzione urbana e produzione della chora a confronto, in Giornata Lincea sulla Archeologia Cirenaica (Roma, 3 novembre 1987), Roma 1990, pp. 55-64. Saggi dedicati alla storia, alla cultura figurativa, ai monumenti sono raccolti nelle riviste specializzate Notiziario Archeologico delle Colonie; Africa Italiana; Quaderni di Archeologia della Libia; Libya Antiqua; Annual Reports of the Society for Libyan Studies, poi Libyan Studies.
di Anna Santucci
Le indagini archeologiche più recenti, estese anche a nuove aree della città e della chora, hanno ampliato il quadro delle conoscenze, recuperando nuove evidenze monumentali ‒ in corso di studio ‒ e precisando le fasi evolutive di altre già note. Sono proseguiti gli interventi di restauro, in primis nel grande cantiere del tempio di Zeus, che è giunto ormai al termine, e sono stati avviati nuovi, importanti rilevamenti di singole strutture e dell'intera area archeologica (GIS, telerilevamento ad alta risoluzione spaziale, GPS differenziale, fotogrammetria digitale terrestre, ecc.). Un allestimento museale, sebbene provvisorio, rende accessibili le sculture già nel magazzino; elemento di pregio dell'esposizione è la colonna ionica sormontata da sfinge (metà del VI sec. a.C. ca.), restituita da un recente restauro.
Emerge con chiarezza il processo evolutivo dell'area dell'agorà, distinta da un leggero dislivello in due terrazze. Dagli ultimi decenni del IV sec. a.C. nella cosiddetta "terrazza superiore" è avviata un'intensa attività edilizia, civile e religiosa, che si compie con l'erezione del tempio di Zeus verso la metà del II sec. a.C. Dopo parziali interventi riservati ai singoli monumenti, la ricostruzione avviata in seguito alla rivolta giudaica unisce in modo definitivo le due terrazze: il tempio di Zeus, rivestito di marmo, diviene il Capitolium della città; un arco, presso l'angolo sud-ovest del tempio dell'Archegheta, a pendant di quello presso l'angolo sud-est del ginnasio ellenistico, monumentalizza l'accesso occidentale all'area dell'agorà, uniformata da un lastricato di calcare; nuove costruzioni vengono sovrapposte al muretto che precedentemente aveva distinto le due platee.
A ovest dell'agorà un quartiere abitativo con piccoli edifici della fine del VII sec. a.C. conferma l'originaria importanza dell'area, forse in rapporto al percorso diretto al santuario di Apollo. Diverse e numerose sono le sistemazioni successive (strutture di età classica; abitazioni altoellenistiche con pavimenti mosaicati; due altari e un edificio con cortile selciato e apprestamenti industriali della seconda metà del II sec. a.C.) fino all'impianto della cosiddetta Casa del Propileo (fine II - prima metà I sec. a.C.). La planimetria di questo grande edificio, articolato in pochi ambienti e due vasti peristili, con propileo monumentale affiancato da banconi nella facciata meridionale, è consona a una funzione pubblica, che immagini di navi a vele spiegate, incise o graffite su alcuni rocchi di colonna del peristilio, qualificano in senso commerciale.
Anche nell'area del ginnasio ellenistico si delinea una fase di epoca arcaica, con resti di strutture murarie (fine VII - inizi VI sec. a.C.). Questo settore della città è interessato da sostanziali interventi di epoca imperiale, che ne determinano l'assetto. Nel periodo flavio il complesso ginnasiale è rifunzionalizzato per l'attività forense, attraverso la costruzione di una basilica, arricchita in età adrianea da un'abside con nicchie e un ciclo statuario, e la trasformazione dello xystòs, bipartito da un colonnato dorico longitudinale, in una doppia via coperta di collegamento tra il foro e l'agorà. Tra gli interventi edilizi successivi alla rivolta giudaica si segnalano due templi: uno, eretto a sud del complesso forense oltre la cavea del teatro 3, è riferibile al culto di Cibele, stante le diverse statuette in esso recuperate insieme a un cospicuo nucleo di altre sculture; l'altro, a ovest dello xystòs, è un tetrastilo corinzio a frontone siriaco, con cella pavimentata da un mosaico policromo raffigurante le Muse e con due statue di età severiana rinvenute nella nicchia della parete di fondo.
Nella terrazza inferiore del santuario, oltre ai naòi nei quali è tributato il culto a singole divinità, si segnala di particolare interesse un'area sacra riservata a ovest dello strategheion. L'area, in uso fin dagli inizi del VI sec. a.C. e sconvolta dalla sovrapposizione di un'abitazione tardoromana, accoglie dalla fine del IV sec. a.C. numerosi piccoli altari di calcare, dedicati a una o più divinità, che ne configurano la natura di "agorà degli dei". Il programma di regolarizzazione e monumentalizzazione del santuario, promosso dalla seconda metà del IV sec. a.C. dai membri dell'aristocrazia cittadina, spesso in connessione con l'esercizio del sacerdozio di Apollo, è ribadito dall'edizione di alcuni monumenti. Negli ultimi decenni del IV sec. a.C., a sud del tempio di Apollo, una fontana monumentale, in forma di loggia dorica, è dedicata da Philothales al dio; poco più a ovest è sistemato il tempio di Iside, con apprestamento idrico interno in funzione delle competenze salutari della dea; vicino a esso un membro della famiglia dei Carneadi dedica un grande naiskos, con le effigi di alcuni famigliari.
Di epoca tolemaica (metà del III sec. a.C.) è una loggia dorica ipetrale, con una fronte colonnata e pilastri addossati alle pareti interne, sita a nord del tempio apollineo. La peculiare architettura ne sostiene l'identificazione con il recinto del boschetto di mirto, ricordato dalle fonti come luogo della hierogamia di Apollo e Kyrana; le nozze di Tolemeo III e Berenice II possono aver costituito l'occasione della dedica, con un calibrato intento celebrativo.
Sulle pendici nord-orientali della collina dell'acropoli, al di fuori del circuito murario, dagli inizi del VI sec. a.C. prende forma un temenos consacrato a una divinità epicoria libyo-egizia, assimilata ad Afrodite. Dalla fine del V sec. a.C. il culto è volto a Iside, poi nel II sec. a.C. ‒ forse su intervento diretto di Tolemeo VIII ‒ il santuario è consacrato alle divinità alessandrine Iside e Serapide e vive la fase di maggiore monumentalità. Diversi rifacimenti si hanno ancora in epoca imperiale fino all'età tardoantica, quando al culto, di valenza misterica, sono associate anche altre divinità.
Nell'area esterna al circuito murario, a poca distanza dalla porta sud, lungo la strada per Balagrae, sono i resti di un notevole complesso santuariale, riferito al culto demetriaco. L'area è pluristratificata e l'estensione del santuario non ancora definita. Di epoca tardoarcaica sono il tempio dorico esastilo, coronato da sfingi negli acroteri laterali, e l'altare monumentale, ma le strutture finora emerse (un propileo monumentale, resti del muro di recinto, una stoà, un teatro ricavato nel pendio roccioso), i depositi votivi ‒ taluni ricchi di lucerne ‒ e l'apparato scultoreo, tra cui le tre statue di culto, ne dichiarano la lunga vita e la rilevanza per la polis. Ad Ayn Hofra, località pochi chilometri a nord-est di C., nota soprattutto per un santuario rupestre di culto ctonio, dedicato a Zeus Meilichios e alle Eumenidi, riemergono notevoli testimonianze di epoca ellenistica e romana. Nella grotta che aveva già restituito tracce di frequentazione del Paleolitico medio sono documentati interventi antropici con riadattamento dello spazio in funzione santuariale; cospicuo è il nucleo di oggetti votivi di epoca ellenistica, in prevalenza vasi miniaturistici, lucerne e terrecotte figurate. Nella vallata sono distribuite sepolture, di carattere monumentale o in sarcofagi litici raggruppati, il cui significato è strettamente relato all'attività cultuale dell'area. A esse si aggiungono due tombe a camera di II sec. d.C., con sarcofagi attici e statuaria iconica, che rappresentano un'importante acquisizione per la conoscenza dell'architettura funeraria di epoca romana a C.
Fondamentale: N. Bonacasa - S. Ensoli (edd.), Cirene, Milano 2000 (con dettagliato repertorio bibliografico).
In generale:
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Fonti epigrafiche (repertori, lessici, lingua):
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Religione:
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Attività archeologica:
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Urbanistica e architettura:
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Materiali da costruzione:
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Altri materiali:
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di Ida Leggio
Città (gr. Ταύχειϱα, Τεύχειϱα; lat. Teuchira, Tauchira) della Pentapoli libica insieme con Cirene, Apollonia, Tolemaide e Berenice. L'antica T. sorgeva nei pressi della costa, alle propaggini dell'altopiano cirenaico, 67 km a nord-est di Bengasi.
La città doveva essere dotata di un porto artificiale, con due banchine e un molo, i resti del quale sono visibili oggi sotto il livello del mare. L'inospitabilità e la pericolosità della rada, dovuta alle forti brezze marine, dovevano essere in parte mitigate dalle dune, che costeggiavano questa parte del litorale libico, probabilmente da identificare con le αὶ τε Ταυχείϱων πέλαϚ μύϱμηϰεϚ, di cui parla Licofrone (877 f). Presso gli scrittori più antichi la città è ricordata anche con il nome di Taucheira o Teucheira. Secondo Stefano di Bisanzio, questo nome derivava da quello della figlia di Autandros, non altrimenti noto.
A partire dall'età ellenistica, in conseguenza della riforma amministrativa di Tolemeo Filadelfo (285-246 a.C.), la città cambiò, per un breve periodo, il suo nome in quello di Arsinoe, in onore di Arsinoe, moglie e sorella del sovrano. Sembra che tale nome sia rimasto in uso almeno fino all'età augustea, come si potrebbe ipotizzare sulla base di un'iscrizione pubblicata da G. Oliverio. L'epigrafe, una dedica a Liber Pater, ricorda una civitas T[e(-a)uchirensium?]. La sua datazione non può risalire oltre la metà del I sec. d.C. Non si hanno invece indizi per stabilire quando la città divenne colonia, titolo con il quale viene ricordata sia nell'iscrizione appena citata, che nella Tabula Peutingeriana. Ormai sicura, invece, la data di fondazione della città. Secondo le fonti antiche, in particolare lo scoliaste di Pindaro (Pyth., IV, 26), T. era stata, insieme con Apollonia, una delle colonie di Cirene. La sua fondazione deve essere, quindi, posteriore al 631 a.C., anno in cui fu dedotta la stessa Cirene.
Questa data sarebbe confermata, del resto, dai materiali del deposito votivo, rinvenuto durante gli scavi condotti tra il 1963 e il 1965 dalla British School di Atene in una piccola area della città nei pressi della costa. Si tratterebbe di una stipe votiva sicuramente associata, come confermano i graffiti incisi sulla ceramica, con il santuario arcaico di Demetra e Kore, che doveva sorgere non lontano dall'area di rinvenimento. La ceramica, che comprende soprattutto manufatti di importazione corinzia, laconica, rodia, cicladica e, in misura minore, esemplari di produzione locale, generalmente ceramica votiva liscia e figurine di terracotta, è databile per la maggior parte all'età arcaica, anche se non mancano pezzi attribuibili al V-IV sec. a.C. e all'età ellenistica. Proprio la datazione dei materiali più antichi, risalendo a non oltre il 620 a.C., ben si accorderebbe, confermandola, con la data di fondazione della città tramandata dallo scoliaste.
Non accettabile, proprio in virtù di tali osservazioni, è, invece, la notizia di Erodoto (IV, 171) che voleva T. una colonia di Barce. Quest'ultima, infatti, non sarebbe stata fondata prima del regno di Arcesilao II e, quindi, prima del 570 a.C. È molto probabile che lo storico si riferisse a una tradizione sulla fondazione della città più recente e a lui contemporanea, che doveva essersi sviluppata verosimilmente in seguito al controllo politico che Barce esercitava su T. proprio in quel periodo. A un'alleanza tra le due città, del resto, farebbe riferimento anche una moneta, databile nella seconda metà del V sec. a.C. e ritenuta un'emissione comune ai due centri, con, al rovescio, la testa di Zeus Ammon e, al dritto, il silfio e la legenda sinistrorsa TE. Si sa che, nel tardo IV sec. a.C., T. fu assediata da Tibrone (323 a.C.) che, sconfitto e catturato, fu portato in giudizio davanti al comandante militare della città (Diod. Sic., XVII, 20, 6). Nel 322 a.C., T. cadde sotto il dominio tolemaico, sotto il quale rimase fino al 96 a.C, quando per volontà testamentaria di Tolemeo Apione la Cirenaica fu data ai Romani.
Della colonia arcaica non rimane oggi alcuna testimonianza archeologica, se non la stipe su menzionata. L'antica città doveva sorgere, comunque, nell'area prossima alla costa, tra le cave che si trovavano presso il forte moderno, a est, e quelle incorporate più tardi nella cinta muraria ellenistica, a ovest. È molto probabile che il luogo prescelto per la colonia greca fosse precedentemente occupato da un insediamento indigeno, come confermerebbero lo stesso nome, Taucheira, ma anche un frammento di anfora fenicia, databile nella prima metà del VII sec. a.C., rinvenuto tra i materiali di una fornace scavata nel 1974. Lo stanziamento doveva essere una delle tappe sulle rotte fenicie verso l'Occidente. Migliori sono le nostre conoscenze su T. in età ellenistica, durante la quale la città potrebbe aver raggiunto il suo massimo grado di espansione, divenendo un'importante stazione lungo la via costiera che collegava la regione della Sirte, Barce e Tolemaide, e una fortezza. In età ellenistica, tra il 322 e il 296 a.C., è databile la prima cinta muraria, che difendeva la città su tre lati, lasciando libero il versante del mare. Alcuni tratti di questo primo sistema difensivo sono ancora visibili in quello del VI sec. d.C.
Anche se Procopio (Aed., VI, 2, 3) ricorda che, nella Pentapoli, Giustiniano circondò di mura molto potenti la città di Taucheira, in realtà gli interventi tardi si limitarono semplicemente al restauro della cortina, delle porte est e ovest, con la modifica delle rispettive torri, e alla costruzione di un proteichisma (un muro esterno) nel tratto sud. Le mura giustinianee ricalcherebbero quindi il tracciato della più antica cinta ellenistica. Questa fortificazione racchiudeva un'area irregolarmente quadrata, che includeva non solo l'abitato, ma anche le necropoli. Queste sono state individuate nel settore settentrionale della città, all'interno delle antiche cave. Si tratta di tombe a camera, ricavate nelle pareti delle cave ormai in disuso. Le iscrizioni funerarie rinvenute si riferiscono soprattutto a Ebrei, oltre che a Egiziani. Una necropoli a inumazione doveva trovarsi, come apprendiamo dal resoconto dei fratelli F.W. e H.W. Beechey all'inizio dell'Ottocento, anche al di fuori delle mura orientali.
All'interno del circuito, l'impianto urbano sembra essere stato impostato sin dall'inizio secondo uno schema regolare, originato dall'incrocio di assi viari che attraversavano la città nelle due direzioni nord-sud ed est-ovest. Soprattutto alle strade che correvano in direzione est-ovest, i decumani, fu data particolare enfasi. Di questi ne sono stati identificati ben quattro, uno dei quali è quello massimo, tutti nel settore nord della città. Il decumanus maximus era fiancheggiato su entrambi i lati da marciapiedi, ampi 2 m e alti 0,25 m, ed era dotato, al centro e al di sotto del piano stradale, di un canale di scolo, realizzato con blocchi pesanti alti 0,6 e larghi 0,9 m, che facilitava lo smaltimento delle acque di superficie. La sede stradale, larga circa 7,2 m, era pavimentata con lastre spesse e ben tagliate. Inferiore (ca. 5,5 m) è invece l'ampiezza degli altri decumani, tutti rintracciati a nord di quello massimo, esattamente tra questo e il decumano nord (largo ca. 6,8 m). Queste strade erano incrociate, a loro volta, da altre che attraversavano la città con orientamento nord-sud. Una di queste, larga 6,3 m e ad andamento leggermente diagonale, è stata individuata all'estremità orientale dei due decumani principali precedentemente ricordati. È ipotizzabile, anche se non è stato ancora rintracciato, l'esistenza di un cardine massimo, che doveva incrociare il decumano nel punto dove sorgeva un arco quadrifronte, documentato dal primo quarto del IV sec. d.C., come conferma l'iscrizione di dedica che ricorda gli imperatori Costantino e Licinio. La larghezza dei cardini, generalmente minore di quella dei decumani, si spiega tenendo conto delle caratteristiche geografiche del sito, esposto senza alcuna protezione alle brezze marine. Gli effetti dell'esposizione potevano essere mitigati mediante l'ampiezza minore delle strade nord-sud. Le stesse considerazioni funzionali spiegherebbero anche la disposizione irregolare delle insulae.
In questa rigida maglia, gli edifici sembrano essere stati inseriti con un certo rigore, almeno fino all'età romana, quando si cominciano a osservare i primi sconfinamenti dal limite dell'insula. Resti di insulae e dei rispettivi edifici sono stati riportati in luce a nord del decumano massimo. Le strutture rinvenute testimoniano un periodo di occupazione ininterrotto almeno dal V sec. a.C. fino all'età islamica. Alla fase più antica si riferiscono alcune fornaci rinvenute al di sotto delle strutture romane più tarde. Sembra si tratti di un quartiere artigianale e commerciale, come conferma la presenza di una fornace per ceramica, di forni, di tinozze e altre strutture associabili ad attività produttive. La città doveva avere anche un'agorà, della quale purtroppo non rimane traccia, ma la cui presenza sembrerebbe certa sulla base di quanto riportato in un decreto civico, databile tra il II e l'inizio del I sec. a.C. e inscritto su un blocco successivamente reimpiegato come architrave nella Basilica Est, che ricorda una "ἐν τᾶι τῶν θεῶν ῝γοϱᾶιʹ. Gli scavi, condotti tra il 1973 e il 1984 dall'Università di Garyunis (Bengasi), hanno consentito di ipotizzare la sua ubicazione nell'area centrale della città.
Nota con esattezza, invece, è la localizzazione del ginnasio, una struttura rettangolare con ampia corte, che si affacciava con il suo lato nord sul decumano massimo, in prossimità della cinta muraria, esattamente a ovest della porta orientale. L'identificazione è stata resa possibile grazie a una serie di iscrizioni, inserite proprio sulla faccia esterna del muro nord ricordato. Il testo delle epigrafi, inscritte all'interno di una corona o di una tabula ansata e decorate talvolta con il motivo del caduceo o del ramo di palma, è generalmente molto semplice. Riporta, infatti, solamente una data, un nome (sono presenti nomi sia greci, sia latini, questi ultimi anche con la formula dei tria nomina) e, in alcuni casi, un termine che indica il grado di ephebeia. Epigrafi erano presenti anche sulla faccia interna dello stesso muro, ma con un testo leggermente diverso. Queste, infatti, riportano solo una data e uno o più nomi, nel caso di quelli latini mai nella forma di tria nomina. Tra questi solo uno è al nominativo, mentre gli altri sono al dativo, raramente al genitivo e sono relazionati al primo mediante formule che esprimono legami di tipo erotico, di amicizia o, anche, di appartenenza a uno specifico grado di ephebeia.
I testi i più antichi sono databili al II sec. a.C., ma è possibile che l'edificio sia stato costruito un po' prima. Problematica è invece la data di defunzionalizzazione dello stesso. Oggi un'importante indicazione cronologica a riguardo è data dall'iscrizione funeraria di Myrtilos, ricordato nell'epitaffio come "servo delle Muse e compagno di Herakles", che ebbe a che fare con le regole del pentathlon e su cui probabilmente scrisse un trattato. L'iscrizione, databile nel tardo II sec. d.C., invaliderebbe la precedente ipotesi, che vedeva nella rivolta giudaica del 115-117 la data di defunzionalizzazione del ginnasio. Non è da escludere, tuttavia, che dediche più tarde possano essere state scritte su materiale deperibile (intonaco, legno) e quindi possano essere andate perse. Purtroppo non abbiamo notizie della città, sicuramente divenuta colonia, durante l'alto Impero. L'iscrizione di dedica a Liber Pater, precedentemente menzionata, oltre a illuminarci sullo status giuridico della città, informa dell'esistenza di un edificio di culto costruito in onore di questa divinità ex pecunia publica, al quale potrebbero appartenere alcuni capitelli rinvenuti, decorati con foglie di vite e grappoli pendenti.
Sicura almeno per l'età adrianea è l'esistenza a T. di una basilica civile, come conferma un'iscrizione reimpiegata nella Basilica Est, che ricorda la costruzione di questo edificio per volontà di Adriano. Le numerose iscrizioni in onore di questo imperatore fanno pensare che T. godette di benefici durante il suo regno. Sempre epigraficamente è documentato un tempio di Apollo, grazie a un'iscrizione databile nella seconda metà del II - inizio del III sec. d.C., che ricorda un sacerdote eponimo di questa divinità. A prescindere da queste scarse, ma preziose testimonianze, non si hanno altri indizi relativi a questo periodo sulla vita della città, le cui vicende si fondono e si perdono, da questo momento in poi, nel più ampio quadro della storia della Cirenaica, caratterizzata, in questi secoli, dalla rivolta giudaica del 115 d.C., da incursioni delle tribù interne, come gli Asturiani, e da eventi catastrofici naturali, quali il terremoto del 360.
All'inizio del IV sec. d.C., T. fu elevata al rango di diocesi. Le liste conciliari rendono noto il nome di tre vescovi: Secundus, ariano, firmatario al concilio di Nicea del 325, Zenon a quello di Efeso del 431 e Photeinos al concilio che si tenne nuovamente in questa città nel 449. A partire da quest'epoca anche T. deve essere stata coinvolta nel processo di cristianizzazione, che ne modificò l'aspetto architettonico e urbano, anche se Sinesio ricorda, ancora ai suoi tempi (fine IV - inizio V sec.), la persistenza di culti pagani, a riguardo di una processione in onore di Cibele, che attraversava tutta la città. Di questa tarda attività costruttiva purtroppo non si hanno testimonianze, se non un'epigrafe che attesta l'esistenza di interventi edilizi a T. durante il regno di Valentiniano e Valente (363-367 d.C.). La maggior parte delle evidenze archeologiche è di età bizantina, per la quale un contributo conoscitivo viene dato anche dal De aedificiis di Procopio, e di epoca islamica.
A ogni modo sembra che il periodo compreso tra il V e il VII secolo fu caratterizzato da un'accentuazione del ruolo militare della città, come conferma non solo il rinvenimento di un frammento della copia del decreto di Anastasio (491-518), il De rebus Libycis, relativo alla riorganizzazione militare della provincia di Cirenaica, ma anche il restauro delle mura commissionato dallo stesso Giustiniano e la scelta della città come ultima roccaforte del dominio bizantino in Cirenaica prima della conquista araba. Se il decreto di Anastasio fa pensare alla permanenza, o allo stanziamento, di un presidio militare in città, non del tutto chiare sono le motivazioni che spinsero Giustiniano a fortificarla nuovamente. Gli interventi imperiali si limitarono essenzialmente al restauro di alcuni tratti della cortina dell'antica cinta urbica e delle torri, in particolare di quelle che affiancavano le porte est e ovest, che da questo momento, dotate di una fronte triangolare, assunsero in pianta una forma pentagonale, e alla creazione del proteichisma. Questo, partendo dalle porte est e ovest, dopo averne seguito i rispettivi tratti murari, correva parallelamente al muro sud, al quale doveva essere collegato da passerelle.
All'interno di questa nuova città dovevano sorgere due chiese, le cosiddette basiliche Est e Ovest, mentre altre due si trovavano fuori della cinta muraria, una a ovest, vicino alla porta e lungo la strada per Berenice, l'altra a sud. Quest'ultima, nota solo dalla pianta dei fratelli Becheey, nella quale è indicata come "fortezza", è oggi coperta parzialmente da una moschea. La stessa pianta riportava, sempre come "fortezza", anche un altro edificio, ubicato fuori le mura a est, che oggi si è più propensi a riconoscere come una seconda chiesa cimiteriale. Le chiese, caratterizzate da un impianto basilicale e dalla presenza di edifici annessi ai lati delle navate minori, furono realizzate con materiale di spoglio. Le basiliche Est e Ovest dovevano essere entrambe provviste di uno stretto nartece, sicuro nella prima, forse preceduto da un atrio, e probabile nella seconda. All'interno, le navate erano divise da colonne, nella Basilica Est, e da pilastri, che chiaramente sorreggevano arcate, nelle due chiese a ovest.
Di particolare interesse è soprattutto la Basilica Ovest interna, sia per la presenza di un recesso semicircolare al centro della chiesa, quasi una doppia abside, sia per la possibile relazione tra questo edificio e il tratto di mura vicino al quale sorgeva. Infatti, tra i resti della torre n. 6, sono stati trovati quattro pilastri divisori pertinenti a bifore. Questi, ricavati in un unico blocco, sono composti da una base, da due semicolonne con pilastro centrale e dall'imposta, decorata con una croce greca inscritta in un cerchio. I pilastri appartenevano, probabilmente, a una loggia ad arcate mediante la quale la camera voltata, che si trova alla sommità della torre, si apriva verso l'esterno, almeno sul lato ovest. Non è da escludere che questa torre facesse parte del complesso ecclesiastico, più che della cinta urbana, ed è possibile ipotizzare, sulla base di altri esempi, che la stessa diocesi fosse responsabile del suo mantenimento. Il rapporto topografico tra basilica e mura è utile anche ai fini della datazione dell'edificio che deve essere considerato precedente all'età giustinianea, in cui si data con sicurezza il sistema difensivo in questo tratto.
Circa 200 m al di fuori della porta ovest sorgeva un'altra basilica, della quale sono visibili, ancora oggi, notevoli resti. La particolarità di questo edificio, che sorgeva forse in un'area cimiteriale (probabilmente si tratta di una memoria), è quella di essere composto da due diverse unità, parallele e con abside opposta, comprese in un unico perimetro murario esterno. Alcune anomalie nella costruzione permettono di ipotizzare che la lunga sala, che si trovava sul lato sud della basilica, costituisca un'aggiunta posteriore, non è da escludere in sostituzione di una struttura più antica. È difficile dire come fossero decorate originariamente queste basiliche. Resti di un pavimento in mosaico, databile al VI secolo, sono presenti, infatti, solo nella navata meridionale della Basilica Est, la cui costruzione può essere assegnata al V secolo.
Ma a testimonianza della bellezza e dello splendore delle costruzioni della T. tarda rimane ancora oggi un edificio, la cui lettura resta enigmatica. Il complesso, in precedenza interpretato come palazzo bizantino, sorgeva in prossimità della Basilica Est. Occupava lo spazio di un'insula (38,5 × 72 m) ed era formato da un corridoio, una sala principale con abside a sud, fiancheggiata da due ambienti laterali, un ambiente sotterraneo voltato, due piscine, una navata con abside, sempre a sud, e un grande bacino. Dell'intero complesso l'ambiente più interessante è sicuramente la navata absidata, interpretata un tempo, in virtù del soggetto del mosaico, come cappella palatina, che sorgeva nell'angolo sud-ovest della costruzione. Al di sotto di due strati, uno di cocciopesto e l'altro di gesso, che attestano una frequentazione dell'edificio in epoca islamica, sono stati rinvenuti due pavimenti a mosaico di diversa epoca: quello più antico, databile con qualche dubbio al IV secolo (ma potrebbe essere anche più tardo), era composto da pannelli geometrici, decorati con animali (pesci, uccelli, tra cui anche un pavone) e panieri pieni di frutta, incorniciati da un motivo a corda.
All'estremità nord, in corrispondenza della soglia, correva un'iscrizione, inquadrata da due croci. Il testo, evidentemente cristiano, associa più parole, che si ritrovano nella traduzione letterale greca della Bibbia o in autori cristiani, che scrivono in greco. Si tratta di una formula di benvenuto "Tu apporti la pace, grande prete chiaroveggente", che equivale nello stesso tempo a un modo di benedire Gesù. Diverso il soggetto del mosaico pavimentale superiore (oggi non più in situ, ma conservato nel museo della città) nei cui angoli erano le figurazioni dei quattro fiumi paradisiaci. Le figure di Ktisis, Kosmesis e Ananeosis erano poste di fronte all'abside, ciascuna in corrispondenza di una delle arcate della triplice apertura che dava accesso alla stessa, mentre scene nilotiche, bordate da altre di vita agreste, decoravano lo spazio antistante la porta. Il mosaico è databile all'età giustinianea o poco dopo.
Restano ancora poco chiare le funzioni dell'edificio. Benché non ci sia motivo per dubitare sulla relazione tra navata e bacino, sembra da escludere l'interpretazione di quest'ultimo come piscina battesimale collettiva, a causa delle sue notevoli dimensioni e della morfologia che, estranea del tutto ai battisteri dell'Africa settentrionale, ricorda quella di alcune cisterne, ad esempio nei bagni di Apollonia (fase tarda). L'ipotesi più plausibile è che si tratti, invece, di un complesso termale adattato successivamente per altri scopi, che, come testimonia il mosaico, possono anche aver avuto qualche relazione con lo svolgimento di attività cristiane, pur non essendo l'edificio necessariamente una chiesa, nello specifico, martiriale, come F. el-Fakharani aveva ipotizzato sulla base del rinvenimento di numerose giare piene di ossa (probabilmente di epoca islamica).
Sicuramente un complesso termale di epoca bizantina è, invece, quello inserito nell'antico ginnasio ellenistico. Gli ambienti si susseguivano in asse secondo la consueta sequenza di apodyterium, tepidarium e calidarium, per una lunghezza di 17,85 m e una larghezza di 10,2 m, ed erano preceduti da un atrio lungo 10,5 m. L'edificio fu oggetto di ben tre fasi costruttive, che portarono all'inserimento di ambienti destinati al bagno freddo, del tutto assenti nella prima redazione. Anche se Procopio non ne parla esplicitamente, non è da escludere che la costruzione dei bagni, nella loro forma originaria, possa essere legata all'imperatore Giustiniano. L'ipotesi potrebbe essere confermata non solo dal confronto con quelli di età giustinianea ad Apollonia e Tolemaide, ma anche dalla notizia, riportata dallo stesso autore, di una committenza giustinianea per i bagni di Berenice. Gli interventi che portarono all'inserimento dei frigidaria ai due lati dell'atrio, ancora in epoca bizantina, e successivamente alla soppressione di quello dei due che si trovava nell'antica anticamera di accesso all'apodyterium, in epoca islamica, determinarono parallelamente delle modifiche soprattutto nella zona dell'atrio.
Sia nella seconda sia nella terza fase, l'ingresso all'apodyterium, poi trasformato in frigidarium, era possibile direttamente dall'atrio, mentre nella prima fase era necessario passare dall'atrio per un'anticamera a destra dell'apodyterium, per accedere allo stesso. Nell'ultima fase di utilizzo anche l'atrio sembra essere stato trasformato in apodyterium, forse per compensare le modifiche funzionali apportate a quello originario. Ultima espressione della T. bizantina è da considerare la fortezza, che si affacciava sul lato meridionale del decumano massimo con una pianta a forma di L. Il complesso, realizzato con materiale di spoglio, era costituito da un recinto dotato di torri angolari, rettangolari sul lato sud e circolari su quello nord, all'interno del quale le strutture erano organizzate intorno a due corti, una minore situata nell'angolo nord-est e l'altra, maggiore, ubicata in quello nord-ovest. Quasi al centro del complesso si trovava la residenza del comandante, fornita anche di un complesso termale privato, provvisto di bagno caldo e freddo.
Quanto alla data di costruzione della fortezza un termine post quem è dato dal reimpiego di un'epigrafe, che riporta i nomi degli imperatori Valentiniano e Valente (363-367 d.C.). Le monete rinvenute sono databili per la maggior parte al regno di Eraclio (610-641). In passato la costruzione della fortezza veniva messa in relazione con le invasioni arabe della metà del VII secolo e, in particolare, sulla base delle indicazioni offerte dal Chronicon di Giovanni vescovo di Nikiu, con l'invasione della Pentapoli, probabilmente nell'estate del 642, sotto il comando di Amr Ibn al-As. In questa occasione, stando all'autore del Chronicon, il governatore Aboulyanos (Apollonios) avrebbe abbandonato Apollonia, insieme con i suoi soldati e i ricchi della provincia, trasferendo la capitale nella città di T., dove si era rifugiato. Giovanni di Nikiu ricorda ancora che la città fu energicamente fortificata. Uno sforzo che però non avrebbe salvato T., che nel 644 o 645 cadeva nelle mani degli infedeli.
Oggi gli studiosi sono propensi a mettere in relazione la costruzione della fortezza con eventi bellici e disordini, che possono essersi verificati tra il tardo VI e l'inizio del VII secolo, riconoscendovi, comunque, l'espressione di una politica imperiale, che mirava a fare di T. una città degna dello status di metropoli o anche la nuova capitale della Pentapoli. La presa da parte degli Arabi, due anni dopo l'arrivo di Aboulyanos, non segnò la fine della città. A questa fase di vita più tarda è da riferire, come si è già segnalato, la terza fase costruttiva dei bagni, come conferma l'iscrizione in onore di Allah incisa grossolanamente sul gradino della porta principale d'ingresso. Islamici sarebbero anche i resti di edifici, modeste abitazioni, botteghe e/o negozi, riportati in luce a nord del decumano massimo. Qui, infatti, sono state rinvenute monete islamiche, una delle quali riporta il principio religioso: "Non c'è Dio, ma un solo Dio" (al dritto), "Muhammad è il messaggero di Dio" (al rovescio).
La stessa fortezza bizantina sembra essere stata oggetto di interventi edilizi, che interessarono principalmente la corte occidentale e l'area in prossimità delle torri meridionali, dove sono visibili muri tardi che si appoggiano alla cinta o alle stesse torri. Il rinvenimento di ceramica invetriata verde, che è databile sulla base dei confronti con quella di Medina Sultan, permette di porre questi interventi nel X secolo, confermando che la città sopravvisse ben oltre l'invasione di Amr Ibn al-As e continuò a fiorire ancora al tempo di Banu Hilal. Al-Idrisi, geografo dell'XI/XII secolo, ricorda che Qasr Toukara, la T. araba, era di dimensioni notevoli e ben popolata da abitanti berberi e che i campi circostanti erano coltivati e innaffiati artificialmente. La città è riportata ancora sulle carte medievali con il nome di: Tauchara, Trocea, Trocaira, Docra, Trochira, Tocora, Tochera o Tanacrati. Il Portolano del 1669 continuava a sottolineare, però, l'inospitalità e la pericolosità della sua rada, esattamente come l'autore dello Stadiasmo poco più di 14 secoli prima.
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di Lidiano Bacchielli
Città antica (gr. ΠτολεμαΐϚ; lat. Ptolemais) della Cirenaica, le cui rovine si estendono a sud del villaggio moderno di Tolmeta.
Il rinvenimento di alcuni frammenti ceramici del VII e VI sec. a.C. (uno di essi appartiene a un'anfora attica del tipo SOS) è venuto a confermare la frequentazione della rada di T. fin dall'età arcaica e ha anche suggerito l'ipotesi dell'esistenza di una città precedente alla fondazione tolemaica. La documentazione archeologica nota rende, però, più realistica la teoria che limita il ruolo di questo centro, fino alla metà del III sec. a.C., a quello di scalo marittimo di Barce. La fondazione della città di T. è messa in relazione con la restaurazione del potere lagide in Cirenaica, favorita dal matrimonio di Tolemeo III e Berenice II. Un impianto urbanistico perfettamente regolare viene allora tracciato tra le ultime pendici del Gebel Akhdar e il mare, all'interno di un'area delimitata a est e a ovest dal Wadi Ziwana e dal Wadi Khambish. Una possente cinta muraria circonda la città, fino a inglobare i primi contrafforti dell'altopiano. In alcuni punti essa si conserva, in altezza, per una decina di metri. Nel settore ovest domina ancora la Porta Teucheira, racchiusa tra due torri.
Il pendio che digrada verso il mare viene completamente terrazzato, per consentire l'applicazione di un tracciato regolare. Questo tradisce la funzione marittima di T., avendo come palese punto di riferimento il porto, recentemente riconosciuto a est del promontorio, al quale conducono i due immensi assi viari orientati nord-sud, che tagliano le plateiai tracciate da est a ovest. Le insulae sono dimensionate con il piede tolemaico di 0,365 m e misurano 36,5 × 182,5 m, ossia 100 × 500 piedi. Alla fase ellenistica della città risalgono il teatro superiore, ricavato nelle pendici del gebel, e il ginnasio. Questo è stato riconosciuto nel cosiddetto Piazzale delle Cisterne, che deve il suo nome al complesso di gallerie (13 in senso est-ovest e 8 in quello nord-sud) costruite nelle sostruzioni del piazzale. La struttura aveva forma di quadriportico, con ambienti chiusi che si affacciavano sui lati nord, est e sud. Nella parte settentrionale dell'area scoperta si conservano ancora, seppure inseriti in costruzioni posteriori, i resti di un grande basamento per statue onorarie. Coerente con la grandiosità di questa fase urbanistica e architettonica è il mausoleo della necropoli occidentale, databile al tardo ellenismo. Esso sorge su un nucleo di roccia mascherato da una gradinata; ha il lato di 11 m e si innalza ancora per una quindicina di metri. Sopra la gradinata si eleva il primo ordine, a parete piena e coronato da un fregio dorico. Il secondo ordine presentava, invece, le pareti modulate da semicolonne. Dell'architettura privata di questo periodo si sono riconosciute poche tracce, individuate sotto le fasi edilizie più recenti. Gli scavi eseguiti da una missione archeologica inglese nel settore a nord della via cosiddetta Monumentale hanno portato dati sicuri alla conoscenza delle abitazioni di età romana. Esse sono costituite da ambienti distribuiti attorno a un peristilio e sono dotate di cisterne per l'approvvigionamento idrico. Nei secoli successivi verranno, a volte, unificate con altre contigue, per dar luogo ad abitazioni di maggior prestigio.
Al periodo imperiale risalgono anche l'ippodromo, costruito al limite meridionale della città, un arco quadrifronte, innalzato sulla via Monumentale, e l'anfiteatro. Nella parete interna dell'ambulacro posto intorno al podio dell'anfiteatro, su un intonaco in calce e ghiaia, sono conservate due rappresentazioni pittoriche, contemporanee alla costruzione del monumento: in una è un venator, seguito dalla figura del Kairòs; dell'altra, che doveva avere per soggetto un altro cacciatore, restano soltanto alcune foglie della corona. Il rinvenimento vicino al cosiddetto odeion (in realtà un bouleuterion) di un'iscrizione in cui viene menzionato il foro ha suggerito l'ipotesi di riconoscere il luogo dell'agorà nella vasta spianata posta immediatamente a nord di questo edificio e disseminata di basi di colonne del II sec. d.C. L'interpretazione del monumento a pianta interna semicircolare come un bouleuterion, anziché come un odeion, che è sostenuta dalla mancanza dell'edificio scenico, accredita ulteriormente questa proposta. All'interno dell'edificio per riunioni pubbliche è stata ritrovata una scultura che si propone nello stesso tipo iconografico di due statue rinvenute a Palestrina, conservate al Vaticano, nel Museo Gregoriano Profano: essa è stata interpretata come una raffigurazione di Nike, divinità particolarmente idonea a figurare nel programma decorativo di una curia.
Con Diocleziano, T. diviene la capitale della Libya Superior o Pentapolis, al posto di Cirene, che si vede sottrarre il ruolo a causa della posizione eccentrica rispetto alla nuova unità amministrativa. T. conserverà il rango di capitale fino alla metà circa del V sec. d.C. Al tempo dell'episcopato di Sinesio diventerà il centro della vita religiosa ed ecclesiastica della provincia. Il quadro urbanistico-architettonico si adegua al nuovo ruolo politico e si apprestano i luoghi della celebrazione del potere. La seconda plateia da nord, alla fine del IV sec. d.C., viene bordata da nuovi portici nel settore compreso fra i due stenopòi di maggiore ampiezza, per l'estensione di sei isolati: i portici sono realizzati in granito grigio, in marmo blu e cipollino. A ovest la plateia era inquadrata da un arco onorario a tre fornici, databile al 311/2 d.C.; a est terminava in un tetrastylon, un monumento che prende il posto dell'arco quadrifronte e che si presentava nella forma di quattro colonne impostate su basamenti a gradoni. Sui capitelli corinzi dovevano trovarsi statue onorarie.
All'interno dell'antico quadriportico del ginnasio, sul luogo della base onoraria, vengono costruiti i rostri. Il terreno circostante è sistemato a terrazze; al tribunal si pone il suggestivo fondale di sei alte colonne ioniche disposte a Π. Ai lati del piazzale si elevano due edicole monumentali che chiudono lateralmente la composizione architettonica. Altri interventi pubblici si registrano nel vecchio bouleuterion, che è trasformato in un teatro marittimo con l'abbassamento del piano dell'orchestra e la costruzione di un proscenio. Un teatro viene inoltre costruito nel settore sud-ovest della città. L'inurbamento conseguente al trasferimento a T. della sede politico-amministrativa richiede interventi per porre rimedio alla cronica insufficienza di acqua di questa città, che si concretizzano nella costruzione di due giganteschi bacini idrici immediatamente a est del Piazzale delle Cisterne. Prospicienti sulla via Monumentale, vengono erette delle terme pubbliche, con un grande atrio colonnato sul quale si aprono gli ambienti funzionali. Alla fase originaria di periodo costantiniano ne segue una seconda degli inizi del V secolo, che comporta l'aggiunta di alcuni ambienti e di una piscina al centro dell'atrio.
Sempre sulla via Monumentale venne eretta una grande fontana nella quale furono riutilizzati i famosi bassorilievi con otto Menadi danzanti. La casa a peristilio che si affaccia sul lato nord della stessa via, alla sua estremità occidentale, subisce una radicale trasformazione a opera del consolare Paolo, che fece incidere il suo nome su una lastra della pavimentazione dell'aula di udienza. Nell'edificio potrebbe probabilmente localizzarsi la residenza del governatore della provincia, mentre nella Casa della Trikonchos ‒ anch'essa profondamente ristrutturata ‒ andrebbe riconosciuta l'abitazione di un personaggio della classe senatoria provinciale. Vicino al mare sono stati infine rinvenuti i resti di una casa degli inizi del V sec. d.C., che ha restituito un mosaico policromo con la raffigurazione di Orfeo. Il trasferimento della capitale ad Apollonia, attorno alla metà del V secolo, comporta una riduzione dell'attività edilizia. A questo periodo va comunque attribuita la basilica occidentale, cui possono aggiungersi due edifici cristiani non ancora scavati.
A Giustiniano si deve un intervento volto a ripristinare l'efficienza dell'acquedotto (Procop., Aed., VII, 2, 9). Ma l'edificio più significativo è il cosiddetto Quartier Generale del Dux, una costruzione vasta e possente che sorge verso il bordo meridionale della via Monumentale, nella parte orientale, con la probabile funzione di fortezza, come suggerisce il rinvenimento di una copia del decreto di Anastasio I relativo all'ordinamento delle truppe della regione (501 d.C.). L'arrivo degli Arabi nel 643 d.C. non determina una immediata cessazione della vita di T. Un'iscrizione cufica è infatti riutilizzata nella trikonchos che sorge immediatamente a nord-est del tetrastylon e un'attività industriale del primo periodo arabo risulta attestata in un'abitazione posta leggermente a nord della via Monumentale (Casa G o del Peristilio Ionico).
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di Anna Santucci
Nota fin dall'Ottocento, quando le sue rovine furono descritte dai grandi esploratori della Cirenaica, in particolare dai fratelli F.W. e H.W. Beechey che disegnarono la prima pianta della città e da R. Pacho, T. fu oggetto di un'intensa attività di scavo e restauro nel 1935-1942, con le indagini italiane nel cosiddetto Palazzo delle Colonne. L'edificio, che si sviluppa su più livelli adeguandosi al pendio del terreno che digrada verso nord, occupa un'intera insula nel settore centro-orientale della città. Lo sviluppo in pianta e in alzato è complesso. Si distinguono vari nuclei: un grande peristilio, a sud, con vasca al centro e intorno ambienti di rappresentanza con pavimenti in mosaico e opus sectile, pitture parietali e vari arredi scultorei, mentre lungo il lato nord è un'ampia sala con colonnato; su un piano rialzato sono ambienti domestici e cortili, un complesso termale e tabernae con annessi, che si aprono lungo la strada delimitante il lato settentrionale dell'insula. Nel grande peristilio sono concentrati gli elementi architettonici di chiara impronta alessandrina, sulla base dei quali parte della critica ha assegnato il palazzo al tardo ellenismo, ma il progetto dell'edificio sembra inquadrarsi meglio in epoca imperiale, con possibile inglobamento di case ellenistiche.
La problematica esegesi dell'edificio, di certo residenza di un personaggio eminente di T., interessa anche un corposo gruppo di statue egizie ed egittizzanti di varia cronologia, recuperate in un contesto di scarico nel riempimento della piscina del grande peristilio. Nuovi elementi per l'esegesi dell'edificio potrebbero giungere dall'indagine avviata nel 2001 dalla Missione Archeologica dell'Università di Varsavia, sotto la direzione di T. Mikocki. Lo scavo, condotto nell'insula a est del palazzo, sta riportando alla luce i resti di una villa urbana del cosiddetto "tipo ellenistico-romano a peristilio". L'edificio, pluristratificato, attesta fasi dal tardo ellenismo al VII sec. d.C., che hanno comportato varie ristrutturazioni e rifunzionalizzazioni degli spazi. La villa, organizzata attorno a un cortile porticato su cui si aprono vari cubicula, mostra un importante rifacimento del III sec. d.C., periodo cui possono riferirsi le pitture parietali e i numerosi mosaici, tra cui uno con episodi del mito di Achille e uno con la visita di Dioniso a Nasso e lo scoprimento di Arianna. Iscrizioni musive identificano in Lucius Actius il proprietario del complesso. Dopo i danni prodotti da un sisma e un temporaneo abbandono, si registra una rioccupazione di epoca bizantina, che comportò sia la parcellizzazione dello spazio interno (ridistribuito in diversi nuclei abitativi autonomi e con pochi ambienti), sia la sovrapposizione di piccole strutture fortificate. Numerosi sono i reperti, in specie ceramici, associati alle diverse fasi di vita dell'edificio; tra le sculture una raffigura l'ariete, secondo una tipologia prettamente regionale di tradizione libya, connessa a forme di culto di Zeus Ammon.
Bibliografia
Fonti epigrafiche:
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Attività archeologica recente:
T. Mikocki, Polskie wykopaliska archeologiczne w Libii. Wykopaliska Instytutu archeologii Uniwersytetu warszawskiego w Ptolemais (Tolmeita) [Scavi polacchi in Libia. Scavi dell'Istituto di Archeologia dell'Università di Varsavia a Ptolemais (Tolmeta)], in Swiatowit, 3, 1 (2001), pp. 101-20; Id., Scavi polacchi a Ptolemais (Cirenaica), in E. Fabbricotti (ed.), Cirenaica. Nuovi dati archeologici da città e territorio. Atti del Convegno Internazionale di studi (Chieti, 24-26 novembre 2003), in c.s. Vedi inoltre i dettagliati reports delle campagne 2002-2003 pubblicati nel sito ufficiale della missione: http://www.archeo.uw.edu.pl/ptolemais/html/report.htm.
Pittura:
L. Bacchielli, Pittura funeraria antica in Cirenaica, in LibStud, 24 (1993), pp. 77-116.
Architettura:
J.B. Ward Perkins - R.G. Goodchild, Christian Monuments of Cyrenaica, London 2003, pp. 178-200.
Mosaici:
J. Kubinska, Deux inscriptions en mosaïque dans la demeure de Lucius Actius de Ptolémaïs (Cyrénaïque), in Ch. Dobias-Lalou (ed.), La religion dans la Cyrénaïque antique. Colloque International (Dijon, 21-23 mars 2002), in c.s.
Scultura:
E. Fabbricotti, Ricerche su monumenti funerari con rappresentazioni di Menadi. Scavi e ricerche archeologiche degli anni 1972-1979, Roma 1985, pp. 447-57; C. Vorster, Vatikanische Museen. Museo Gregoriano Profano ex Lateranense. Katalog der Skulpturen. Römische Skulpturen des späten Hellenismus und der Kaiserzeit, I. Werke nach Vorlagen und Bildformeln des 5. und 4. Jahrhunderts v. Chr., Mainz a.Rh. 1993, nn. 7-8; E. Fabbricotti, Divinità funerarie cirenaiche da Barce a Tolemaide, in L. Bacchielli - M. Bonanno Aravantinos (edd.), Scritti di antichità in memoria di Sandro Stucchi, I, Roma 1996, pp. 117-26; M.G. Lauro, Due ritratti di regine tolemaiche al Museo di Tolemaide, ibid., pp. 169-74; M. D'Este, Catalogo del materiale egizio ed egittizzante dal "Palazzo delle Colonne" in Tolemaide di Cirenaica, in LibAnt, n.s. 3 (1997), pp. 83-111; S. Ensoli, Agias, Eros e Eracle. Repliche e rielaborazioni di modelli lisippei in Cirenaica, in E. Catani - S.M. Marengo (edd.), La Cirenaica in età antica. Atti del Convegno Internazionale di studi (Macerata, 18-20 maggio 1995), Macerata - Pisa 1998, pp. 219-42.
Altri materiali:
E. Fabbricotti, Catalogo delle lucerne di Tolemaide (Cirenaica), Oxford 2001; F.M. Elrashedy, Imports of Post-Archaic Greek Pottery into Cyrenaica, Oxford 2002, passim.