Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
I fratelli Pietro e Ambrogio Lorenzetti sono i protagonisti, assieme a Simone Martini, della pittura senese del XIV secolo. Al centro dell’esperienza artistica di Pietro sono il racconto drammatico, di forte impatto emotivo, e l’attenta riproduzione del dato quotidiano. Nelle opere di Ambrogio, segnate dai soggiorni fiorentini, dominano un’inedita rappresentazione del paesaggio urbano e campestre, una complessa ricerca prospettica e una profonda ammirazione per l’arte classica.
La più importante caratteristica della produzione artistica del XIV secolo è la riscoperta, per merito soprattutto di Giotto, del naturalismo in pittura. Questo termine è da intendersi sia come rappresentazione verosimile dei fenomeni naturali sia nella più ampia accezione di imitazione della realtà. Secondo numerosi storici tali esiti stilistici sono stimolati dal pensiero dell’università di Oxford, che vede diversi suoi membri (Ruggero Bacone, Ockham, Duns Scoto) impegnati nella scrittura di trattati sulla visione. Lo specifico contributo del pittore senese Pietro Lorenzetti consiste nella meticolosa riproduzione degli oggetti, in una personale elaborazione prospettica, ma soprattutto nella raffigurazione dei sentimenti, specie drammatici, narrati senza forzature.
La maturazione stilistica di Pietro Lorenzetti, formatosi nella bottega di Duccio di Buoninsegna, si può cogliere negli affreschi della Basilica inferiore di San Francesco ad Assisi. Il ciclo nel transetto sinistro è composto di due trittici devozionali, le Storie della Passione e le Storie post mortem di Cristo. Viene iniziato attorno al 1310 e concluso tra il 1319 e il 1322, anno in cui il ghibellino Muzio di Francesco caccia definitivamente i guelfi da Assisi.
Il trittico con Madonna col Bambino tra san Giovanni Battista e san Francesco (1310-1315), affrescato per la famiglia Orsini nella cappella di San Giovanni Battista, evidenzia già le componenti dello stile di Pietro. La Vergine ha le anatomie stereotipate e la mestizia d’espressione tipiche delle tavole di Duccio, mentre i santi laterali lasciano intravedere l’influenza del chiaroscuro di Giotto, la concitazione delle sculture di Giovanni Pisano e il colorire vivo e smagliante delle oreficerie senesi.
Le successive Storie della Passione e post mortem (1315 - 1322 ca.) sono caratterizzate da una vocazione realistica. Pietro è il primo pittore medievale che riesce a dipingere il trascorrere delle ore del giorno e della notte variando la posizione degli astri. Nell’Ultima Cena la luna appena sorta è alta, mentre, nella Cattura di Cristo, digrada al tramonto attorniata da numerose stelle cadenti e costellazioni riconoscibili; il tempo si ferma invece nella tragedia della Crocifissione, immaginata sullo sfondo di un cielo blu privo di stelle e scandito da un volo straziato d’angeli, dove il pittore mette in luce qualità di narratore drammatico e di brillante colorista.
L’Ultima Cena si svolge all’interno di un padiglione esagonale simile a una conchiglia, conseguenza di una meditazione sulle novità prospettiche di Giotto. Ma ciò che più sorprende è la meticolosa descrizione delle masserizie da cucina e lo spaccato di vita quotidiana: i servi puliscono i piatti, il cane lecca gli avanzi e il gatto riposa. Qui fanno la loro prima comparsa in pittura le ombre portate. Il fuoco del camino illumina la cucina permettendo agli oggetti e agli animali di gettare tenui ombre sui muri e sul pavimento.
Pietro realizza anche dei trompe-l’oeil: sulla parete di fondo del transetto è dipinta una panca di legno coperta da un drappo foderato di pelliccia, e di fronte, sotto il secondo trittico con Madonna col Bambino tra i santi Francesco e Giovanni Evangelista, si trova una nicchia con ampolle e un libro, immaginari arredi d’altare. Gli studiosi non hanno mancato di accostare questi oggetti a “nature morte”, considerandoli un precedente per la pittura illusionistica fiamminga del XV secolo.
Nella produzione artistica del Medioevo la rappresentazione di alcuni soggetti, come Madonne col Bambino e Crocifissioni, è vincolata a una consuetudine iconografica che raramente ammette novità sostanziali: la creatività di un pittore può rivelarsi nel rinnovare uno schema precostituito.
Pietro ne dà prova nella sua prima opera firmata, il polittico della chiesa di Santa Maria della Pieve ad Arezzo (1320). Non ha precedenti la concezione del Battista che indica col pollice il piccolo Gesù mentre questi è impegnato in un tenero colloquio di sguardi con la madre. Nell’Annunciazione sovrastante, la carpenteria della cornice è usata come parte integrante della rappresentazione della casa di Maria, e la Vergine è collocata in una stanza di diversa profondità rispetto all’Angelo annunciante.
Queste due caratteristiche, peculiari della produzione su tavola di Pietro, tornano in forma più elaborata nel trittico con Natività di Maria per il Duomo di Siena (oggi conservato nel Museo dell’Opera del Duomo), commissionato nel 1335 e terminato nel 1342. La cornice è parte fondamentale dell’edificio illusivo costituito da due ambienti. Le parti centrale e destra del trittico rappresentano la stanza di sant’Anna con le levatrici e la neonata, mentre la parte sinistra, dove Gioacchino tende l’orecchio al fanciullo per avere notizia del lieto evento, si rivela più profonda grazie al cortile loggiato che si apre sullo sfondo. Accurata è la descrizione della suppellettile: le mattonelle intarsiate del pavimento, il vaso con motivi floreali, la brocca retta dalle levatrici, gli asciugamani a losanghe e la coperta scozzese su cui siede sant’Anna, in posa come una scultura di un sarcofago antico.
Pietro deve aver guardato con interesse all’arte antica, come farà, con più scrupolo, suo fratello Ambrogio. Per esempio il Cristo risorto, frammento del perduto ciclo d’affreschi realizzato per la chiesa di San Francesco a Siena (1336 - 1337 ca.), è raffigurato in piedi, davanti al sarcofago, col sudario panneggiato come un antico romano.
Dopo il 1348 non si hanno più notizie del pittore, probabilmente morto nella peste nera che in quell’anno decimò la popolazione senese.
La vicenda artistica di Ambrogio Lorenzetti si incrocia tardi a quella di Pietro. La parentela si deduce dalla firma apposta dai due fratelli nei distrutti affreschi dell’Ospedale di Santa Maria della Scala a Siena, del 1335 (la firma è ricordata nel libro Le pompe sanesi di Isidoro Ugurgieri Azzolini, 1649). Si ipotizza che a partire da quel momento i due abbiano gestito una bottega comune per assolvere a piccoli incarichi, ma, nonostante il sodalizio professionale, le due personalità artistiche rimangono dissimili.
La formazione di Ambrogio è diversa da quella, maggiormente segnata da Duccio, di Pietro Lorenzetti e Simone Martini (1284 ca. - 1344). Dopo aver appreso le basi del mestiere nella cerchia di Duccio, Ambrogio soggiorna più volte a Firenze. Lo stile di Ambrogio deriva infatti dalla personale elaborazione dei caratteri artistici delle due scuole. Viene da Giotto l’interesse per le ricerche spaziali ma, a differenza del pittore fiorentino, Ambrogio non sfrutta il chiaroscuro per dare rilievo alle figure, prediligendo una linea di contorno dura che definisce compatte zone di colore. L’effetto ottenuto è di figure dilatate ed espanse, animate da colori fulgidi e vivaci come nella tradizione senese.
Le peculiarità di questo stile si possono apprezzare fin dalla sua prima opera datata, la Madonna col Bambino di Vico l’Abate del 1319 (Firenze, Museo Arcivescovile del Castello) e nelle tavole prodotte tra il 1330 e il 1340, per lo più Madonne col Bambino, molte delle quali si trovano alla Pinacoteca Nazionale di Siena, caratterizzate dall’intensità affettiva tra madre e figlio.
Il giudizio sull’attività di Ambrogio è però condizionato dalla perdita di molte opere, per le quali riceve il plauso dello scultore Lorenzo Ghiberti, che lo descrive come “ “perfectissimo maestro, huomo di grande ingegno ””, “ “molto migliore ”” di Simone Martini (Lorenzo Ghiberti, I commentarii, 1447-1455). Gran parte di quegli apprezzamenti si riferiscono agli affreschi per il chiostro e la chiesa di San Francesco (1336-1337), di cui sopravvivono due episodi. Nel Martirio dei sette francescani a Ceuta, i personaggi sono individui diversi nelle fisionomie, variati nella gestualità, indagati negli stati d’animo. Al centro il sultano dallo sguardo severo siede sul trono con la spada sulle ginocchia; più in basso troviamo i dignitari vestiti all’orientale; in primo piano, nel martirio vero e proprio, si agitano i sentimenti più disparati, dall’ansia dei frati torturati, allo sgomento delle donne tartare, al gesto terribile dell’efferato soldato dai capelli scompigliati che ha reciso la testa di alcuni francescani. Una di queste teste è posta in mirabile scorcio con la bocca schiusa, una posa forse suggerita da qualche antica scultura. Del resto il tempio culmina con le statuette dei sette Vizi capitali, documento visivo dell’attenzione che il pittore dedica alla statuaria classica.
Tra il 1338 e il 1339 Ambrogio Lorenzetti riceve una serie di pagamenti per affrescare Le Allegorie e Gli Effetti del Buono e Cattivo Governo nella sala dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena, adiacente alla sala con la Maestà e il Guidoriccio di Simone Martini.
Il ciclo poggia su un complicato impianto dottrinale che attinge a svariate fonti: storiche, astrologiche, classiche (Aristotele) e medievali (san Tommaso). Le allegorie dei due tipi di governo si basano sulle figure contrapposte, di dimensioni più grandi rispetto alle altre, della Giustizia e del Comune per il retto governo e della demoniaca Tirannia per il cattivo governo, rispettivamente circondate dalle personificazioni di Virtù e Vizi.
Sebbene i significati simbolici siano imposti dalla committenza, spettano al pittore le soluzioni compositive. Gli Effetti del Buon Governo in città e in campagna sono affrescati su una delle pareti lunghe della stanza per sfruttare la luce naturale proveniente dall’attigua finestra. Nella città si riconoscono la cupola del Duomo di Siena, le case-torri dei ceti agiati, le botteghe operose, i bambini a scuola, i muratori al lavoro, un clima di generale concordia simbolicamente riassunto nel girotondo danzato delle fanciulle in primo piano. Fuori dalle porte dalla città è rappresentata l’alata Securitas a garantire la sicurezza nel contado. Si vedono giovani intenti alla caccia al falcone, contadini dediti alla semina, animali in corsa, una scena bucolica che testimonia l’alto grado della poesia di Ambrogio. Non manca qualche correttivo ideale: i lavori appartengono a stagioni diverse e la campagna è attraversata da numerosi corsi d’acqua e addirittura da uno sbocco al mare, tanto anelato eppure mai posseduto dalla Siena medievale.
Il ciclo ci pone di fronte alla prima opera di soggetto profano dell’arte occidentale, alla prima rappresentazione di un paesaggio urbano e rurale.
Negli anni Quaranta le ricerche spaziali diventano centrali nell’opera di Ambrogio. Il pittore si specializza nell’evocare interni di illusoria profondità, più rigorosi rispetto ai tentativi del fratello Pietro. La Presentazione al Tempio (1342) per il duomo di Siena (oggi Firenze, Uffizi) è arditamente ambientata in un interno di chiesa caratterizzato dalla fuga prospettica di colonne verso l’abside. Queste ricerche raggiungono il punto più alto nell’Annunciazione (Siena, Pinacoteca Nazionale) del 1344. Le mattonelle del pavimento, per la prima volta, sono orientate secondo un unico punto di fuga, sebbene si perdano nell’irreale fondo dorato. Si tratta di un preludio alla prospettiva rinascimentale, quando i pittori riusciranno a organizzare in funzione di un solo punto di vista l’intero spazio pittorico.
Come il fratello Pietro, Ambrogio muore nella peste del 1348. Resta il suo struggente testamento, redatto in volgare su carta di pecora, senza ricorrere a un notaio per paura di non riuscire, data l’imminenza della morte, a lasciare i propri beni a moglie e figlie.