I luoghi delle relazioni sociali
Fino al collasso della Repubblica veneta, la sua capitale ha sviluppato una precoce tendenza, molto pronunciata, a moltiplicare i luoghi di ritrovo e di ricreazione delle classi dirigenti e del popolo di città. Agli occhi dei ricchi, e in parte anche dei poveri — del luogo o di tanti giunti da fuori —, ancora nel XIX e XX secolo il ritmo della vita cittadina pare dettato dall’ideale edonistico di giorni e soprattutto notti da trascorrere in piacevoli divertimenti. Il mito della vita felice veneziana non si estingue nel XIX secolo, a parte un netto ma passeggero ridimensionamento negli anni difficilissimi seguiti al saccheggio napoleonico delle ricchezze pubbliche ed ecclesiastiche, alla crisi quasi irreversibile del traffico portuale e poi — per opera degli Asburgo — alla traumatica equiparazione del patriziato dell’ex Dominante alla nobiltà di provincia(1). Gratificata nella sua ostentata insularità da un flusso turistico che dopo il 1830 — quando le viene concesso il portofranco — riprende a portarle visitatori ricchi e illustri da diverse parti del mondo, la vita cittadina ama caratterizzarsi per la mescolanza di costumi moderni e antichi, per la compiaciuta ricerca del pittoresco latino o levantino e del travestimento storico, fino al mantenimento di abitudini dettate più da un orgoglioso gusto per il folklore cittadino che dalla praticità. L’affermarsi della civiltà borghese del XIX secolo ripercorre così i luoghi d’incontro della società gaudente del secolo precedente, si appropria con rispetto dei vistosi lasciti di una società paternalistica aristocratica. Si limita a introdurvi le mode continentali — austriache, francesi o inglesi che siano — cercando però di mantenervi modi peculiari, anche con qualche anacronistica riproduzione di tradizioni di una società preindustriale dove il tempo non viene scandito dall’orologio ma da numerose occasioni festive, pubbliche o private che siano. Un clima che permette — cosa fondamentale nelle intenzioni di chi la promuove — la conservazione di relazioni fortemente interclassiste e corporative, di forme di solidarietà verticale e clientelare, o di subalternità altrove obsolete. Il fatto che tutta la transizione del XIX secolo avvenga localmente all’insegna della crisi, piuttosto che dello sviluppo economico, rafforza queste tendenze. Nella sociabilità urbana — a differenza che nella vita politica — la fase di passaggio dalla civiltà aristocratica a quella borghese, già in sé particolarmente lunga, a Venezia cerca di apparire il più possibile sfumata, anche quando le cesure nette ci sono.
Se la Piazza, il Palazzo Ducale, la Basilica, la cattedrale di S. Pietro e altre chiese, le acque del bacino di S. Marco sono stati il luogo deputato per la celebrazione dei frequenti sfarzosi rituali civili della Repubblica, nei secoli precedenti è mancata una corte che concentrasse nelle sue cerimonie pubbliche la vita di società della capitale. La sontuosità dei palazzi patrizi e la loro collocazione sul Canal Grande — o in altri luoghi che valorizzassero scenograficamente l’immagine di casate con esibite tradizioni di dominatori del mare e della terra, che solo attraverso l’iscrizione al Libro d’Oro potessero accedere alle maggiori dignità dello Stato, fino alla suprema carica dogale — ha creato nella città ciò che potremmo considerare una molteplicità di piccole corti, che i palazzi di rappresentanza di altri Stati esteri e le ricorrenti visite dei loro sovrani o principi ereditari hanno ulteriormente arricchito di sfarzo e di simbologie di un potere non concentrato in una sede precisa, ma diffuso all’intera città, almeno nei suoi numerosi luoghi monumentali. Nella vita mondana della capitale è mancato un luogo unitario di rappresentanza cetuale per questa classe dirigente urbana: solo le sedi ufficiali della politica hanno potuto ambire a una rappresentanza unitaria della città e di un patriziato locale preminente nella vita pubblica dell’intero Stato, oltre che dominatore — tanto riguardo agli accessi alle carriere quanto per dignità sociale e civile — sulle nobiltà di terraferma e d’oltremare. La Restaurazione tenta per mezzo secolo di innestare a Venezia una saltuaria vita cortigiana, in occasione di cerimonie in onore dei governanti, o delle permanenze in città di qualche membro della famiglia imperiale; ma i rigidi regolamenti asburgici per misurare i quarti di nobiltà degli invitati ai balli e alle feste di Palazzo Reale penalizzano una parte consistente del patriziato locale, che preferisce così trascorrere lunghe stagioni nelle ville di campagna o viaggiando, piuttosto che subire dagli austriaci l’onta dell’esclusione dall’accesso a corte.
L’estrema policentricità della vita sociale e culturale della classe dirigente nei due secoli precedenti è stata percepibile anche nell’abnorme quantità di teatri e saloni per le danze e l’ascolto di musica, gestiti come luogo di rappresentanza, ma talvolta anche come impresa condotta con criteri commerciali, da gruppi di famiglie nobili. Non si è avuto un teatro civico, appendice monumentale del palazzo, ma un moltiplicarsi di luoghi sfarzosi deputati agli spettacoli, tra loro rivali nel rappresentare le tendenze più in voga dei diversi generi teatrali, come nell’attrarre gli autori e le compagnie più rinomati. Un sistema di messa in circolazione di spettacoli capace — ancora per molti anni dopo la caduta della Repubblica, fino almeno a quando il teatro all’italiana e il melodramma hanno brillato per vitalità — di lanciare tendenze culturali e mode sociali in Italia e fuori d’Italia, come di amplificare o incrinare la fama di autori, cantanti, attori. I palchettisti veneziani che intendano avere una presenza appariscente nella vita della città, devono godere dell’accesso ai palchi di vari teatri, tanto per la stagione lirica, quanto per quella di prosa, così come presenziando alle diverse sale o chiese dove si tengano rinomati concerti(2). Fino al 1804, ben otto teatri attraggono regolarmente un folto pubblico, nonostante l’eccezionale lunghezza della stagione teatrale veneziana rispetto a quella delle altre città. Qualcosa di simile a un teatro pubblico ufficiale la città comincia ad averlo in età napoleonica, con la costruzione della Fenice, che pure viene promossa e gestita da un’associazione di nobili, solo più ampia e rappresentativa di quelle prima abituali in questo genere d’imprese. Una tradizione che le autorità austriache finiscono per mantenere, nonostante l’insistenza della censura e qualche iniziale tentativo di mettere al bando gli spettacoli teatrali, che a Vienna non godono particolare favore. Solo lo spopolamento della città e la minor presenza di nobili portano alla sensibile diminuzione del flusso di pubblico e alla chiusura, o alla trasformazione di qualche teatro in locali per il gioco alternato alle danze(3). Le stagioni teatrali veneziane continuano a essere un importante richiamo pure per la mondanità forestiera, anche da fuori dei confini dell’Impero. Se ne hanno perfino piccole ma significative ricadute culturali tra il popolino, a cui sono accessibili nel XIX secolo gli spettacoli vari — dal costo ridotto — del teatro S. Giovanni Grisostomo (poi Malibran), mentre nel 1878 la costruzione del loggione apre un consistente spazio — per quanto scomodo — alla Fenice. Ma nel XVIII secolo a contribuire maggiormente alla proliferazione di luoghi d’incontro alla moda sono i ridotti privati, detti casini, e i caffè. Per il popolo, alle numerose malvasie dove si sorseggia vino greco e alle osterie si aggiungono vari tipi di minute rivendite di vino e di prodotti alimentari pronti al consumo: tutti luoghi che anche i ceti superiori non disdegnano di frequentare occasionalmente. La sovrabbondanza di questi ritrovi è dovuta anche al grande transito di forestieri di condizione agiata, ma non solo, soprattutto durante la lunga stagione carnevalesca e teatrale, o in occasione di altre feste, quando i veneziani mettono a frutto la propria fama di «nazione facile a comunicarsi e distinta per cortesia e urbanità»(4). La maggior parte dei teatri, casini e caffè si trova comunque concentrata nel sestiere di S. Marco, dove si addensano la vita di società e la ricchezza della città. I caffè e casini più importanti si affacciano dalle Procuratie, o si trovano nelle adiacenze della Piazza. Tuttavia, in una città dove gli spostamenti sono disagevoli e richiedono percorsi tortuosi con imbarcazioni lente o a piedi, la tendenza alla diffusione dei luoghi d’incontro decentrati e pur sempre nobilitati fa sì che casini e un po’ di caffè non manchino neppure in altri sestieri, sebbene più rarefatti e meno rinomati. Perfino a Murano, e soprattutto alla Giudecca, vi sono numerosi e lussuosi casini per gli incontri dei nobili, appendici di giardini e palazzi, equivalente di quelli che in altre città sarebbero casini di campagna.
Come in alcune delle principali città portuali europee, nella seconda metà del XVII secolo si diffonde la moda del consumo del caffè, e nel XVIII secolo si ha una enorme proliferazione di comodi locali dove la clientela si sofferma in conversazione a sorseggiare caffè o cioccolata, oppure bevande fresche. Antica porta sull’Oriente e sul Sud mediterraneo — da cui è importata l’abitudine del caffè mauro — frequentata da non pochi commercianti e marinai levantini, Venezia aggiunge a questo costume un fascino esotico particolare, che dà un gusto supplementare alle ripetute soste nelle attività del giorno, per sorbire in compagnia una bevanda stimolante e corroborante(5). Presto, molte attività del giorno e della notte — dalla mondanità ai crocchi di sfaccendati, dalla socialità del gioco alle soste del lavoro — prendono a gravitare attorno agli spacci del caffè, che vengono progressivamente a sostituire le rivendite di vino greco. Dalla seconda metà del XVIII secolo, facilitate dal consueto uso della maschera, anche le donne prendono a frequentare, in determinati orari, alcuni caffè. Sui tavolini si trovano differenti giornali — di solito oggetti impazientemente contesi tra gli avventori — utili non solo come mezzo d’informazione, ma soprattutto come stimolo alla conversazione, data l’abitudine della lettura collettiva e del commento ad alta voce dei fatti del giorno. La maggiore concentrazione di caffè si ha nella Piazza e nei paraggi, ma una discreta diffusione si ha pure nel resto della città, nei punti di maggiore passaggio. Divenuti il luogo d’incontro più frequentato e capace di formare e divulgare modi di pensare borghesi, integrando al proprio interno ambienti sociali che vanno dalla nobiltà al popolo, nel XIX secolo — anziché decadere come i casini — continuano a svilupparsi e ad arricchire il proprio decoro. Trovando «nella copia brillante de’ suoi caffè che favoriscono le sue tendenze alla sociabilità, un sì opportuno mezzo per far conta pubblicamente l’innata sua gentilezza»(6), la città può così coltivare la sua fama mondana internazionale grazie al rinnovo degli arredi in questi locali, che — soprattutto dopo il 1849 — fanno a gara nell’abbellire con gusto sofisticato i loro interni. Nella bella stagione, moltiplicando la propria clientela, con sedie e panche invadono le Procuratie, la Piazza e diversi campi, trasformandoli in salotti all’aperto che deviano i consueti percorsi del passeggio, soprattutto negli orari serali e notturni. Alcuni caffè centrali, frequentati dall’élite cittadina e dai forestieri più illustri, continuano a essere tra i più rinomati locali alla moda d’Europa e dopo la metà del XIX secolo rafforzano anzi la loro fama. Ritrovi aperti, anche i più lussuosi sono effettivamente frequentati dai più diversi ceti, che però vi accedono in abitudinarie fasce orarie differenti, o ciascuno con modalità proprie — determinate dalle ordinarie occupazioni, produttive o tipicamente parassitarie che siano — o in omogenei gruppi di conversazione distinti, per evitarsi reciprocamente l’imbarazzo di una vistosa socialità spuria. Le osterie, anche le più minute rivendite di vino o di altri generi alcolici, tendono — pur con mezzi e spazi molto più limitati — a proiettarsi al proprio esterno con pergolati o qualche panca, invitanti per avventori abituali o occasionali. L’assenza di traffico veicolare in campi, calli e fondamenta agevola il soffermarsi della gente anche nei locali o nelle adiacenze di altri esercizi aperti al pubblico. Sono diverse le tipologie di bottega — a cominciare da forni, rivendite alimentari e farmacie, oltre ai numerosi laboratori artigiani, fino a qualche studio di professionista — dove la gente comune, dei più diversi ceti sociali, si incontra e trascorre un tempo notevolmente più lungo di quello necessario per gli acquisti o per fruire di determinati servizi. Intrattenendosi lì a parlare animatamente, larga parte della popolazione intesse relazioni quotidiane e si forma opinioni sui più diversi meccanismi che regolano la vita sociale, a cominciare da problemi come il carovita, fino a quelli dei rapporti tra le generazioni o i sessi, tra professioni d’acqua e di terra, tra servitù e padroni, o tra cittadini e forestieri della terraferma.
In altre capitali o città italiane del XVIII secolo l’alta nobiltà, seguendo una moda europea, tende a costituire nel «casino dei nobili» una vera e propria istituzione, che serva da spazio di chiusa rappresentanza del proprio corpo sociale e contemporaneamente dove si possano tenere divertimenti e feste senza tutta la pompa e i rigidi e costosi cerimoniali che ciò comporterebbe a corte. In diversi casi vi costituisce pure qualche «casino particolare» per circuiti più intimi di amicizie, sempre tra famiglie nobili. In genere queste istituzioni iniziano un sofferto travaglio con la fine dell’antico regime, ma tendono a ricostituirsi, mettendosi in competizione con rari altri circoli d’élite socialmente più aperti, durante la Restaurazione. Venezia tende più di altre città italiane a conservare le divisioni cetuali e le relative simbologie e pratiche sociali. Se a Milano il casino dei nobili va irrimediabilmente in crisi con l’età napoleonica, in altre città come Firenze e Napoli analoghe istituzioni a base rigidamente ascrittiva si estinguono solo con l’unificazione nazionale e la conseguente perdita dello status di capitale, quando ormai ovunque si sono affermati circoli d’élite in cui si premia, seppure con molte restrizioni, l’ascesa sociale di un nuovo notabilato(7). I casini veneziani vantano invece una tradizione antica di diversi secoli e sono in genere ridotti privati, appartamenti estremamente accoglienti e finemente arredati, dove compagnie di maschi nobili, e in qualche caso nobildonne, si danno ai più diversi svaghi, allentando l’osservanza scrupolosa dell’etichetta, lontano dai controlli della famiglia e dalla servitù indiscreta, o senza dover parare a festa con esagerato dispendio i loro grandi e freddi palazzi. Nel XVIII secolo esistono anche i cosiddetti «casini di società», o «di compagnia», come quello dei Filarmonici o uno denominato appunto Casin dei nobili e rari altri, che non hanno conduzione strettamente privata e per l’ampio novero dei loro associati aspirano al riconoscimento di spazi ricreativi privilegiati della nobiltà locale, destinati anche ad accogliere pubblicamente il fior fiore della nobiltà straniera ospite, quella che la città intende onorare. Ma le stesse persone hanno poi altri locali meno paludati, in cui — senza avere addosso gli occhi di tutti i propri pari e dei parenti — vanno a dedicarsi agli svaghi preferiti, o a continuare gli intrattenimenti in compagnia, dopo le serate a teatro. Nel 1744 un’inchiesta degli inquisitori ne censisce centodiciotto(8). In qualche caso si tratta anche di luoghi destinati alla lettura, all’ascolto di musica e alla danza, a salotto letterario, o al riposo e alla conversazione in uno spazio intimo; ma in prevalenza accolgono riunioni conviviali attorno a tavole abbondantemente imbandite, gioco, incontri galanti e relazioni segrete. Dopo la metà del XVIII secolo e fin oltre il XIX i patrizi veneziani e i loro eredi portano pure nelle ville di campagna — dove si recano nella stagione calda e in momenti d’evasione dalla città, costruendovi appositi ridotti attigui ai giardini — la moda del casino e dei suoi passatempi piacevoli, in cui trascorrere larga parte della notte. Assieme alle convenzioni dell’ospitalità, vi dominano la tavolata di commensali, il gioco a carte e la conversazione intellettuale, in uno spazio questa volta delimitato nell’ambito delle relazioni familiari allargate, o delle amicizie e clientele coltivate in provincia(9). Dalla villa patrizia, inevitabilmente, il costume veneziano trova timide e insistenti imitazioni nella nobiltà e borghesia di provincia. In città, pure caffè e osterie hanno abitualmente stanze adibite a uso di ridotto, appositamente riservate a gruppi particolari e non accessibili ad altre persone, oppure dove si gioca d’azzardo, e in qualche caso dove si possono avere occasionali incontri con prostitute. I nobili sono in genere associati nel contribuire all’affitto o alla comproprietà di più casini, in ciascuno dei quali si trovano in compagnie differenti. Vi sono anche casini di nobildonne, con funzioni analoghe a quelli maschili, e dove quindi si manifestano con maggiore libertà le tendenze emancipatrici femminili, che pure sono sollecitate dalla libertà — da diverse parti biasimata — con cui le donne frequentano caffè, teatri, passeggi e casini senza i loro mariti(10). Di regola, il gruppo dei frequentatori è socialmente omogeneo. Secondo qualche annotatore dei costumi, alla fine del XVIII secolo l’alta nobiltà appare condiscendente a occasionali incontri con la borghesia colta, piuttosto che con gli altri ceti nobiliari, rigidamente chiusi al contatto con gli strati sociali inferiori(11). Va notato però che dalla seconda metà del XVIII secolo anche tra la borghesia e il popolino si va costituendo, in luoghi generalmente periferici e sordidi, qualche ridotto dove, pur con mezzi limitati, si imitano alcune forme del costume aristocratico. I ridotti popolari raccolgono essenzialmente gruppi già strettamente legati dalla cultura di mestiere, in particolare artigiani, bottegai e professionisti; ce n’è pure uno di serve. Sebbene gli inquisitori di Stato adottino insistenti provvedimenti restrittivi e pene severe contro i gestori e frequentatori di simili ritrovi, nel 1800 la polizia austriaca ne conta addirittura centotrentasei: in larga prevalenza di nobili e in pochi anni tutti destinati a una rapida trasformazione o alla spontanea chiusura(12). I ben 5.171 soci di questi casini, pur tenendo conto di numerose doppie e triple iscrizioni, costituiscono per l’epoca una base sociale decisamente notevole per un fenomeno associativo ricreativo. In una città dove in età moderna la tendenza ad associarsi per scopi ricreativi ha una storia così precoce, partecipata, intensa e atomizzata, ci si potrebbe attendere che — perduto lo status di capitale — la brusca decadenza del patriziato e dei suoi casini porti rapidamente all’affermarsi di costumi in qualche modo democratizzati. Non è così: la vita di società continua a mantenersi incanalata da solide barriere cetuali, come se la città continuasse a riprodurre antichi meccanismi di potere, nonostante la scomparsa del corpo sociale che era protagonista privilegiato della precedente scena pubblica come di quella privata. Nel XIX secolo, alcuni casini, definiti da Antonio Lamberti «aperte società»(13), si trasformano in circoli destinati all’incontro di compagnie sensibilmente meno vincolate a una rigida affinità sociale; altri, di dimensioni ridotte, diventano salottini per il «ricevimento» di alcune dame; molti altri, venduti gli arredi lussuosi, divengono abitazioni. I rari che rimangono vuoti restano a muta ed eloquente memoria di un passato tramontato, guardato da molti — anche non nobili — con nostalgica ammirazione(14). La decadenza dell’uso della maschera nell’abbigliamento aristocratico — nel secolo precedente richiesta per legge ai «signori» e portata per tutta la stagione fredda e oltre — nel XIX secolo rende più imbarazzanti quelle commistioni tra i diversi ceti sociali e tra i sessi a cui il poter celare la propria identità aveva abituato.
I costi inverosimili di un simile apparato lussuoso per trascorrere momenti piacevoli assieme ai propri affini sono una delle cause non secondarie della rapida e generale rovina delle famiglie patrizie. Il fatto poi che nella maggior parte dei numerosissimi ridotti — rinomati o malfamati che siano — il gioco d’azzardo non sia solo una passione che attrae gente d’ogni età, sesso e ceto, ma che, come status symbol di condizione o animo nobili, vi sia d’obbligo l’esibizione di noncuranza nel perdere e qualche volta vincere consistenti fortune, ha effetti devastanti sul tessuto sociale cittadino, e in particolare rende debole la capacità del patriziato cittadino di sopravvivere alla crisi dell’antico regime e alla brusca sospensione dei privilegi che ne facevano il ceto di governo dell’intero Stato. La rapida riduzione di numero e importanza dei casini, o il loro definitivo trasformarsi in circoli a base sociale più ampia, segna il passaggio tra l’epoca napoleonica e le prime dominazioni austriache, con le vistose trasformazioni che l’eclisse del patriziato veneziano produce nei ritrovi dell’élite. Dove Venezia insiste nel XIX secolo a ripresentare una propria immagine aristocratica, cercando di esibire un’apparente continuità coi secoli precedenti, è nei residui e piuttosto appannati allestimenti festivi, ora solo in parte a carico delle rimanenti famiglie aristocratiche. Sono il Municipio, talvolta le chiese parrocchiali o emergenti aristocrazie finanziarie alla ricerca di popolarità con proprie elargizioni, a impegnare parte consistente delle proprie risorse in allestimenti di coreografie festive religiose e civili(15). Le feste che guardano nostalgicamente al passato, quando non mantengono parte delle proprie funzioni civili nei nuovi regimi che governano questa ex capitale ridotta a provincia, in parte servono da stimolo al turismo e solo a fine secolo — agendo da richiamo per le grandi esposizioni artistiche — ritrovano una propria animazione, in una specie di invenzione della tradizione. Pur con alti e bassi, secondo i periodi, restano comunque sempre amate dalla popolazione di ogni ceto sociale, che continua ad attingervi identità collettive e un senso di cittadinanza che si vuole immaginare privilegiata rispetto a quello delle città di terraferma. Anche quando si interroga con apprensione sulla crisi delle strutture urbane, sulla scarsa vitalità della produzione e dei traffici, e auspica una ripresa delle industrie locali e dell’economia portuale, larga parte della cultura locale — stimolata da molti intellettuali romantico-decadenti, illustri ospiti di Venezia, da De Maistre a Barrès, da Wagner a D’Annunzio — continua a idealizzare una città rimasta orgogliosamente estranea alla civiltà borghese e industriale che sta cambiando drasticamente il mondo(16). A ciò si deve se in nessun’altra città del XIX secolo la riflessione globale sulla sociabilità urbana e sulle sue tradizioni, in particolare festive, giunge a una simile intensità. Una riflessione di eruditi, in primo luogo, frequentemente protesa a miti passatisti, in qualche caso a elaborare il lutto per la perdita di glorie e privilegi. Ma prima di questa, e ancora più abbondante — seppure oggi poco nota — anche una cronaca giornalistica attenta a cogliere le dinamiche animatrici, o più spesso le permanenze stanche, nella sociabilità del presente.
Con la fine dell’antico regime aristocratico, la messa in crisi e dispersione della capillare rete di ridotti porta a una concentrazione delle attività colte in istituti nati col sostegno delle pubbliche autorità napoleoniche e asburgiche, specificamente destinati alla messa in circolazione di erudizione scientifico-letteraria. Tali consessi intellettuali, pur annoverando pochi esponenti della vecchia nobiltà e non in posizioni di privilegio, si offrono come largamente accessibili ai nuovi notabili e in genere ai maschi non giovani di una borghesia benestante e istruita, alle nuove élites del XIX secolo, compresi diversi ebrei usciti dal Ghetto, che pure non vi assumono ruoli tali da orientarne in modo originale la produzione culturale. Diverse accademie letterarie nascono nei primi anni del secolo, per iniziativa privata, specialmente raccogliendo esponenti del clero o delle professioni liberali. Nel 1805 iniziano a confluire in un unico organismo, da cui nel 1810 prende vita l’Ateneo Veneto, che assorbe — almeno come spazio per le adunanze — diverse delle precedenti accademie esistenti in città, quali la Società Veneta di Medicina, l’Accademia dei Patrologi, i Sofronomi, la Nuova Accademia Veneta Letteraria, l’Accademia dei Filareti, l’Accademia Veneta di Belle Lettere(17). Diviene un titolo onorifico, di cui in particolare si può fregiare utilmente una parte di cittadinanza in ascesa sociale attraverso le professioni liberali, il partecipare alle adunanze del giovedì, dove i cinquanta soci ordinari dell’Ateneo, o i soci onorari e corrispondenti in numero illimitato, leggono le proprie relazioni agli altri soci. Raggiungere un ruolo di spicco nell’Ateneo Veneto diventa per molti intellettuali, anche ebrei, un buon passaporto per legittimare, culturalmente, l’assunzione di responsabilità nel ceto politico municipale. Come per gli altri circoli dell’élite, l’accesso tra i soci dell’accademia, e ancor di più a ruoli di responsabilità al suo interno, risulta però tutt’altro che agevole, tendendo a chiudersi nella rappresentanza ufficiale di un certo notabilato intellettuale geloso del proprio ruolo. Ancora più prestigioso, ma più autonomo dagli equilibri politico-intellettuali cittadini, è l’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti. Non si configura come associazione privata, ma come istituzione pubblica, fornita di consistenti dotazioni finanziarie dallo Stato e da lasciti privati, che seleziona in poche decine di membri effettivi, a numero fisso, la crema dell’intellettualità di tutta la regione. Per la sua autorevolezza, questa istituzione culturale è considerata una palestra intellettuale del ceto notabiliare veneto che aspira ad assumere un ruolo nazionale; nell’Italia unita, l’assumervi delle cariche diventa l’implicita legittimazione di brillanti carriere, favorendo anche la possibile nomina a senatori del Regno. Proprio per tali ragioni, un cruccio di Filippo Grimani, il sindaco aristocratico la cui giunta clerico-moderata amministra la città dal 1895 al 1920, è quello di non esservi stato ammesso, nemmeno come patrono della Biennale. Se per la direzione dell’Istituto l’ovvia ragione per non annoverare il nobiluomo tra i propri soci è la sua sostanziale estraneità agli studi scientifici, l’entourage di Grimani — mettendo allo scoperto i propri pregiudizi sociali e culturali — recrimina che il consesso accademico sarebbe troppo distaccato dagli interessi della città, perché influenzato da molti professori non veneti dell’Università di Padova; e insinua inoltre che tale disposizione possa essere suggerita da presenze massoniche — ovvero da prevenzioni antiaristocratiche — al suo interno(18). Nella produzione erudita istituzionalizzata di queste associazioni, nel corso del XIX secolo viene ad assumere una particolare rilevanza la riflessione sulla storia patria: attività che non piccola parte ha nell’elaborazione di un orgoglio cittadino e insulare, fondato sul culto di un passato di cui interessano le ricche attività mercantili, le spettacolari celebrazioni artistiche del potere e anche un sistema oligarchico paternalistico capace di ottenere la devozione dei ceti subalterni e di estendere la propria dominanza su terraferma e mare.
Accanto al mondo prettamente maschile delle accademie, coi loro regolatissimi cerimoniali di ufficializzazione della cultura dotta, nei salotti letterari i fermenti culturali di inizio secolo trovano attorno a figure femminili uno spazio informale dove la conversazione intellettuale, vissuta come un gioco di seduzione, si esprime con estrema vivacità, esercitando attrattive anche su letterati forestieri affascinati dall’aura romantica di Venezia. Tanto in ridotti distinti dalla propria residenza, come in saloni dei propri palazzi, le dame colte veneziane continuano nel XIX secolo — e ancora nei primi decenni del XX — l’abitudine di ospitare riunioni a sfondo culturale(19). Tra la fine del XVIII secolo e il primo trentennio del XIX, quelli celebri di Isabella Teotochi Albrizzi e Giustina Renier Michiel sono tra i salotti letterari più vivaci e alla moda d’Europa. Frequentati da uomini e da qualche donna — nobili e borghesi insieme, ma tutti di spicco per la loro cultura —, gravitano attorno alle figure carismatiche e affascinanti delle dame ospitanti(20). Se l’osservanza dell’etichetta è contenuta, il linguaggio forbito che vi si usa passa dal veneziano all’italiano, dal francese al latino, mentre gli argomenti di conversazione vanno dalle discussioni sugli spettacoli del giorno alla disputa letteraria o filosofica, dal pettegolezzo alla satira, fino ai commenti sui giochi, prevalentemente di carte e di cabala, con cui ci si intrattiene nel corso della notte. L’ultimo degli importanti salotti letterari è quello di Adriana Renier, nipote di Giustina, sposatasi non ai nobili partiti con cui la famiglia avrebbe voluto imparentarsi, ma a un celebre medico che l’aveva affascinata come uomo di scienza e di lettere. Nella sua casa si riunisce un circolo, prevalentemente borghese, che declama propri e altrui componimenti, o produce direttamente versi, poi talvolta raccolti e pubblicati, alternando quest’attività alla proposta e risoluzione di sciarade e indovinelli, che appassionano gli astanti e accentuano l’aspetto ludico della veglia. L’ispirazione intellettuale di quest’ultimo salotto — pur risentendo di influssi neoclassici o romantici — si pone più in continuità con la tradizione arcadica che con quella illuministica. Rimasto chiuso a una cerchia limitata di persone, dominate dalla figura di Luigi Carrer, ed estraneo alle discussioni politiche e al movimento patriottico, viene messo in crisi dalle lacerazioni prodotte dalla rivoluzione nazionale. Dopo il 1849 solo un intimo gruppo residuo di amici della Renier continua ancora per una ventina d’anni a trovarsi a sere fisse nella sua casa per conversazioni letterarie. Fuori da questi ritrovi intellettuali, dal XIX secolo la moda ‘salottiera’ assume anche a Venezia tutt’altro carattere, contraddistinto — secondo un osservatore del tempo — dal «vezzo delle serate senza sugo, pettegole, artificiate, a solo scopo di lusso, dove si cerca di ingannar l’ozio fra gli sbadigli, gli inchini, i baciamani, le parole melate, gl’insipidi scherzi, [che] durerà sempre, finché vi saranno uomini fannulloni e donne ciarliere ed amanti d’esser vagheggiate e di figurare»(21). Fino a metà del XX secolo le dame — pure meno distinte sul piano intellettuale di quelle dell’età romantica — in occasioni speciali, col formale scopo di raccogliere fondi a fini caritativi o filantropici, tengono nei propri saloni, o giardini, periodici «the», in cui con gli ospiti si dedicano a conversazioni mondane, danze e talvolta giochi; abitudine poi rilanciata a fine XIX secolo dall’esigenza della Biennale di avere nel proprio comitato d’onore «patronesse» che ricevano convenientemente le adunanze mondane di artisti e altri ospiti illustri della città. Il tono nostalgico per le antiche glorie veneziane che si respira in questi salotti mondani, dalla fine del XIX secolo viene rinfocolato e ammodernato dai bagni di notorietà e dai nuovi flussi di intellettuali, celebrità internazionali e milionari che l’esposizione d’arte e poi la spiaggia del Lido portano in città. Fino alla seconda guerra mondiale si mantiene poi per le signore dell’alta società veneziana l’abitudine di recarsi a giorni fissi ai consueti ricevimenti settimanali in palazzi o ridotti privati, dove incontrare anche ospiti forestieri e artisti alla ricerca di protezione o di committenze per le proprie opere(22). Ma in un’epoca dove i momenti di commistione tra alta società e uomini di cultura non sono più eccezionali ed innovativi nelle regole sociali — come lo potevano essere nel XVIII secolo — le riunioni si svolgono in un’atmosfera dove ormai la chiacchiera mondana prevale su ogni accenno di dibattito intellettuale.
Da alcuni casini, negli ultimi decenni del XVIII secolo, prende vita a Venezia il sistema di relazioni già proprio del club all’inglese o del circolo alla francese(23), che rende un po’ meno intima l’associazione tra persone che si uniscono nella frequentazione e gestione dei locali, pur curando il mantenimento della loro affinità sociale e di stabilire poi tra loro strette relazioni personali. Esemplificativo delle regole che vi si vanno affermando quello della Società degli Amici, posta al piano superiore delle Procuratie Nuove, sopra al Caffè Florian, che prevede una cerchia allargata di soci, paganti quote d’ingresso di 28 lire e poi una fissa di 6 lire mensili. Per aderirvi non è necessario essere compari di vecchia data di tutti i frequentatori, ma essere presentati da qualcuno di loro, poi frequentarlo provvisoriamente come ospite, per due mesi, prima di esservi accolto definitivamente(24). I locali all’inizio del XIX secolo vengono poi inglobati dal Caffè Florian, ma fino al XX secolo il loro uso tende a restare di fatto selettivo, seppure formalmente libero, destinato ad alcuni assidui del cosiddetto «senato»: la stanza più importante del Caffè, dove si ritrova una congrega di amici notabili che a tarda notte ama appartarsi fino al mattino al piano superiore, per dedicarsi al gioco delle carte tra pochi intimi; congrega simile a un’altra analoga, che per imitazione si autodefinisce «senato», tra giornalisti e altri autorevoli avventori del Caffè Martini, nelle ore diurne e serali(25).
Dopo il degrado e le spoliazioni subiti negli anni del continuo avvicendarsi di regimi napoleonici e asburgici, nei primi decenni del secolo la vita pubblica di Venezia è spenta; la cittadinanza è traumatizzata, insicura nei propri assetti sociali, schiacciata dalla depressione economica. La Piazza e i sestieri sono in parte spopolati, e lo sono ancora di più i loro centri di ritrovo, prima famosi per l’intensa vita sociale che li animava(26). Lo spirito di società dei veneziani impiega parecchi anni a riprendersi e a ridefinire i propri assetti, e con essi anche i flussi di forestieri in visita hanno un lungo periodo di stasi. Quando la vitalità ritorna, negli anni Trenta, lo si può constatare essenzialmente nei caffè e teatri, nei riti religiosi e nei festeggiamenti profani che spesso li accompagnano, nell’animazione per strada, soprattutto nel tempo di Carnevale, e nel fiorire dei circoli dell’élite(27). Scarso contributo a questa ripresa può dare il movimento associativo che si va manifestando nei paesi europei più avanzati, negli Stati italiani lungamente impedito a svilupparsi da ossessivi divieti della polizia al diritto associativo, soprattutto per quanto riguarda i ceti medi e popolari. Dai circoli ricreativi alle società di lettura, dai sodalizi filantropici a quelli professionali, le autorità respingono le domande di formare nuovi consessi, se non sono promossi, diretti e strumentalmente pilotati dal loro apparato, interessato a comprimere il più possibile il formarsi di una dinamica società civile. Anche la sociabilità informale viene sottoposta a insistenti controlli, palesi e occulti, in un clima di diffuso sospetto verso le aggregazioni sociali, che si teme possano essere veicolo di politicizzazione. Nel Regno lombardo-veneto perfino le aggregazioni religiose e il clero sono scrupolosamente sorvegliati e tenuti a rendere conto del proprio operato alle autorità. Inutilmente alcuni filantropi e intellettuali insistono in sedi accademiche e istituzionali a far notare che «uno dei caratteri più eminenti della nostra epoca è certamente il bisogno d’associazione, il bisogno di neutralizzare un individualismo che tenderebbe a invadere le leggi sociali»(28). Per trovare propri spazi d’intervento o di riflessione in questa direzione — nel Veneto, come nella maggior parte d’Italia — i fautori dell’associazionismo devono fare buon viso a cattiva sorte, guardando a sodalizi locali tutt’altro che moderni, residuo di vecchie pratiche caritative, corporative, o di chiuse solidarietà di gruppo e di comunità, come surrogato alle reti sociali più dinamiche possibili in un sistema politico liberale(29). Le stesse società imprenditoriali, dovendo sottostare a regole severe e a controlli, non hanno vita facile. Fino al 1848 la Restaurazione fa sentire questo peso oppressivo in tutta Italia; successivamente simili vincoli si allentano in capitali come Torino e Firenze, aumentando ancor di più il senso di privazione e la frustrazione di un’ex capitale come Venezia, all’infuori dei suoi caffè e teatri, impedita a tenersi al passo con mode urbane e costumi borghesi che si vanno affermando in Europa. La sociabilità veneziana — pur risentendo di una vistosa compressione delle associazioni e di un certo isolamento provinciale — appare ugualmente in pieno fermento quando vi si tiene il IX congresso degli scienziati italiani. Per l’intellettualità veneta e italiana in genere si tratta di un evento, perché il clima in cui si svolge il congresso è una tappa decisiva dell’autoriconoscimento di un’élite nazionale, prima della rivoluzione della primavera successiva. Ma per le autorità del Lombardo-Veneto e soprattutto per la città, si tratta di un’occasione fondamentale per motivi ritenuti ancora più importanti: è la prima grande occasione — culturale, politica e anche mondana — in cui Venezia ha l’opportunità di essere al centro dell’attenzione nazionale, rifiorita da una decadenza mai accettata, mostrandosi in una veste finalmente rifatta. La città si esibisce calata nelle proprie glorie antiche, ma allo stesso tempo aperta al progresso, che prende a proprio simbolo il colossale ponte ferroviario translagunare che l’ha appena saldata alla terraferma, e aperta a scambi più agevoli. Il giornalista Tommaso Locatelli la può così presentare ai convegnisti come maestoso centro dove nulla manca ai più brillanti divertimenti della società mondana: «Venezia non è solo una città monumentale ed istorica, la città dell’artista e delle grandi memorie, ma altresì un lieto e sollazzevol soggiorno, in cui si gode veramente la vita; e però cara del pari e all’uomo d’ingegno, che trova in essa pascolo a’ piaceri sublimi della immaginazione, e all’uomo del bel mondo, al quale ella consente ogni agiatezza ed ogni desiderabile diletto»(30). A tal punto che — a suo dire — in ogni parte del suo abitato non mancherebbero ritrovi allegri e una popolazione di spensierate cicale, ogni notte di ogni stagione dedite a baldorie, con qualunque pretesto religioso o profano. Non è casuale che in un simile quadro sfavillante di spontanea gioia che pervaderebbe la città il giornalista menzioni unicamente feste promosse dalle chiese e dalla Municipalità, o da gruppi informali di veneziani. Se i ritrovi citati consistono in una miriade di caffè e osterie di varie dimensioni, o in improvvisate brigate di popolo gaudente nei campi, nelle calli e nei canali, da questa scena così animata manca completamente la modernità borghese costituita da ritmi industriali, associazioni, circoli, mentre Venezia appare fortemente protesa a far rivivere lo scenario di un ricco passato. Ad avere sì ammirazione, ma anche molta diffidenza politica verso il culto cittadino di quel passato sono le autorità austriache, non solo per evitare che il mito della Serenissima possa essere agitato in chiave antiasburgica, ma pure timorose che l’enfatizzazione di tradizioni veneziane nelle relazioni quotidiane divenga un mezzo per far sentire gli uomini del loro apparato politico-militare degli estranei, degli occupanti tedeschi. Nella città portuale, la presenza di ospiti stranieri e di nutrite colonie di altra nazionalità, dotate anche di propri istituti solidaristici e di rappresentanza, è un’abitudine consolidata nei secoli. L’anomalia è che una di queste abbia in mano il governo. Se nei luoghi della sociabilità l’influenza austriaca non va oltre l’affiancare ai caffè un discreto numero di birrerie, frequentate prevalentemente da militari slavi e tedeschi, nel sistema di relazioni la loro presenza come dominanti ha ben altro peso. Le vecchie classi superiori veneziane in parte mantengono tradizioni proprie, senza ostentarle troppo, ma una parte di esse «più vivace, più giovane, coi forestieri un po’ la ci trescava, ammettendoli alle proprie veglie, trovandosi insieme ai teatri, ai brillanti ritrovi notturni. I signori dell’alto ceto austriaco, educatissimi, amabili, la accoglievano col segreto disprezzo della nobiltà di spada e d’una spada vincitrice, verso quella vinta, incoraggiavano in ogni modo una sognata fusione, meditando in vece di imporre la propria vita a quella indigena; e di fatto qualcosa ottenevano»(31). L’abbondanza di caserme condiziona poi la vita locale, ma, per le disparate provenienze etniche della truppa, i ricorrenti momenti di commistione coi civili non producono una visibile germanizzazione del costume popolare. Se l’attuazione del ponte ferroviario, nel 1846, mira a portare in città nuove energie e un diverso stile di vita, le vicende politiche seguite di lì a poco e le loro conseguenze nei rapporti tra autorità asburgiche e popolazione limitano notevolmente la portata dei rivolgimenti socio-economici che a breve termine avrebbero potuto derivarne.
La grande mobilitazione del 1848 agisce sicuramente nella sfera dell’immaginario, produce identità collettive e comportamenti inediti, abitua a diversi modi d’aggregarsi, o porta a emergere fermenti già diffusi mezzo secolo prima, al momento del collasso della vecchia Repubblica oligarchica. Ma il coinvolgimento in oltre un anno di esperienza rivoluzionaria dei più diversi strati della popolazione non produce un profondo rimescolamento sociale: mette la città contro l’Impero e la predominanza politica dell’elemento tedesco, senza disfare in profondità le regole interiorizzate in una società cetuale. Si ostentano identità e comportamenti borghesi, si diffida di chi abbia l’ardire di ostentare modi aristocratici, si teme però il radicalismo popolare, e non nasce nessuna associazione operaia. La rivoluzione, però, solo in certi suoi momenti alti — non quelli più drammatici — risulta corale; durante e dopo la vittoria insurrezionale, i comportamenti e le frequentazioni delle classi superiori e di quelle inferiori restano sostanzialmente distinti. Abbattuto il sistema di controllo autoritario — con la sua invadenza censoria e poliziesca, e col suo capillare sistema di spionaggio che sembrava asservire la vita cittadina al commissariato, ai forti e alle caserme — la gente assapora la relativa libertà di discussione, la dialettica tra giornali di diverso orientamento che sollecitano il formarsi di un’opinione pubblica. Ma in particolare, la scoperta di questo tempo di libertà viene rappresentata nella possibilità d’associarsi in base ai propri orientamenti ideali: alle appartenenze elettive degli individui, non a quelle cetuali e familiari: «La smania d’associazione, quello sfrenato bisogno d’istruirsi ed istruire a vicenda, per tanto tempo conteso, fece germogliare, da ogni parte, i convegni politici. Non pochi circoli s’aprirono dunque a Venezia, e vi si sparsero le intelligenze a seconda del programma e delle particolari convinzioni»(32). Nella primavera insurrezionale, la Piazza, i circoli e la guardia civica diventano anche un inusuale momento d’incontro e confronto tra diverse generazioni. Ma nel campo liberale la difficoltà a reggere la scarsa familiarità con queste forme di dialettica rende presto sospetta la molteplicità dei circoli politici, in cui si vede la temuta e sofferta lacerazione di un tessuto sociale fino allora apparentemente compatto. In particolare, desta diffidenza il Circolo popolare, «per la classe di cittadini chiamata a comporlo»(33), coinvolgente cioè una parte di lavoratori, temuto quindi per la sua composizione sociale, prima ancora che per il radicalismo politico. Da tale impreparazione alla dialettica politica, ma anche alla pluralità di appartenenze associative non rigidamente gerarchizzate dalle autorità, pare derivare una rapida delusione nella partecipazione ai circoli da parte di borghesi e notabili, con una loro conseguente perdita d’influenza tra la gente comune. Declino condizionato anche dall’onerosa imposizione ai militi di non essere membri di circoli, creando così una incomunicabilità tra combattenti e organismi politici, e privando i circoli della componente più decisa nel sostegno alla Repubblica(34). È comunque in quell’anno di continue tensioni e passioni che la popolazione fa pienamente l’apprendistato del nuovo stile civile borghese. Nel 1848-1849 — messa temporaneamente da parte la necessità di vestire la maschera a carnevale, nei teatri o al Ridotto, per potersi mescolare ad altri ambienti sociali, senza che la cosa sembri lesiva delle dignità personali o familiari — la politica e il rituale patriottico divengono il momento di scoperta di nuovi linguaggi, di assorbimento dei fermenti culturali, d’incontro collettivo in una dimensione che cerca di apparire aperta, senza ingombri del passato. Il gioco mimetico tra ceti sociali sembra fondarsi allora su un solido e largamente condiviso adeguamento a modelli culturali borghesi, senza bisogno di ricorrere al senso comune tradizionale, alle effimere inversioni simboliche della satira carnevalesca, agli sfuggenti doppi sensi di ambigui travestimenti, nell’indicare bersagli polemici o nell’enunciare gli obiettivi di un civismo democratico realizzabile al posto di una società aristocratica. Ma se ci si distacca dalle enunciazioni ideologiche e si considerano le forme in cui si strutturano le relazioni sociali nei circoli, la realtà non appare così fluida. I gruppi maschili più caratterizzati in senso democratico, in particolare il Circolo italiano presieduto da Giuseppe Giuriati, sono largamente composti di volontari giunti dall’esterno per combattere l’esercito imperiale. La decina di donne di famiglie nobili e facoltose che pubblica un giornale come «Il Circolo delle Donne Italiane» pieno, fino all’ultimo, di ardore patriottico in difesa della Repubblica e del suo tricolore, non fa il minimo cenno ad allargare la propria cerchia, coinvolgendo donne di altro ceto. Ma se la rete dei gruppi politici tende a rimanere ancorata a logiche cetuali, e solo la politicizzazione delle classi superiori e della classe media riceve piena legittimazione, la relativa confusione del periodo rivoluzionario lascia effetti più consistenti nella frequentazione sociale degli spazi pubblici. La fiammata di sentimento nazionale cementa definitivamente l’ambiente dei notabili, legittimandolo pubblicamente alla successione del patriziato come ceto politico, alla testa della società urbana e con ambizioni di leadership territoriale anche ben più ambiziosa. I caffè, molto più dei teatri, prima ancora delle piazze o dei circoli ristretti, divengono i luoghi di rappresentanza privilegiati dell’opinione pubblica prodotta dal fermento rivoluzionario(35).
I traumi delle lacerazioni nel fronte liberale e poi della sconfitta della rivoluzione paralizzano presto queste dinamiche, o innescano delle regressioni involutive nella socialità, ma lasciano comunque nella popolazione un forte senso di diffidenza verso gli austriaci, che si esprime nell’opporre fieramente alla sfera pubblica ufficiale il senso di appartenenza alla comunità locale e alla nazionalità italiana. Nei due mesi che precedono la rivoluzione del 1848, poi in modo sistematico tra il 1859 e il 1866, si assiste a uno stillicidio di boicottaggi in pubblico contro gli austriaci e chi si mostri ad essi connivente(36). Si arriva a un vero e proprio sciopero della sociabilità, disertando i luoghi che gli austriaci frequentano abitualmente, astenendosi dai rituali mondani in segno di lutto collettivo, mentre nei luoghi di passeggio o dov’è inevitabile l’incontro tra civili e militari avvengono frequenti provocazioni simboliche o tafferugli tra questi ultimi e la gioventù. I palchettisti della Fenice decidono la completa chiusura del loro teatro — che non è solo il più elegante ritrovo per i veneziani e l’ufficialità austriaca, ma anche la principale attrattiva per i ricchi forestieri — protraendola addirittura dal 1859 al 1866. L’interruzione volontaria della vita di società serve a mostrare anomale e opprimenti le condizioni di vita della città. Si palesa con questi comportamenti simbolici una situazione di oppressione, osteggiata, che proprio attraverso queste forme ostentate di opposizione — passanti attraverso le relazioni in privato e in pubblico — viene percepita negativamente, come una prevaricante occupazione straniera. Vi si riscontra anche l’emergenza — vistosa, perciò autogratificante — di una società civile che rifiuta radicalmente l’integrazione con un potere avvertito come straniero e militaresco da questa nuova sensibilità collettiva. L’insistente sistema di spionaggio e vessazioni politiche che la polizia esercita sui caffè, le osterie e i pochi circoli autorizzati finisce per dare alla frequentazione di questi spazi laici e borghesi o popolari un’aura sovversiva, che rimarrà a lungo nella memoria cittadina, molto al di là di quanto realmente vi sia stato possibile tenere cospirazioni di pur minima rilevanza. Non appare perciò strano che proprio la sociabilità sia il terreno di questo aspro e lungo scontro, in cui Venezia proclama la propria appartenenza alla nazione italiana con un’ostinata solennità, che anche i numerosi visitatori forestieri sono costretti a percepire, valutare e raccontare nei loro paesi. E il fenomeno non va rilevato solo nella sua dimensione politica, ma in quella peculiarmente sociale in cui sia i ceti interessati alla mobilità sociale, che quelli danneggiati dal prevalere di un’élite straniera o da essa dipendente proclamano la propria adesione ad una ideale cittadinanza italiana e borghese, ormai estranea a una sudditanza alla corona asburgica(37). Fatta eccezione per un breve periodo che va dal 1847 alla primavera del 1848, è la sociabilità profana il terreno privilegiato nella scoperta della nuova identità collettiva e di questo scontro tra due modelli di società; ma non mancano sottili utilizzi — in senso progressista-nazionale o conservatore-antinazionale — della liturgia cattolica, perché in un simile contesto la politicizzazione delle simbologie religiose diventa inevitabile, e interpretata in base agli orientamenti politici del clero. Chi officia funzioni religiose viene regolarmente coinvolto dalle autorità a legittimare il lealismo dinastico nei riti ecclesiastici, mentre invece i valori patriottici veneto-italiani non sono sostenuti da una immediata influenza dei laici in chiesa, ma dalla crescita d’importanza di un’opinione pubblica di cui il clero è interessato a essere parte.
Nel difficile tentativo di normalizzare la società urbana e di rappacificarsi con le sue diverse stratificazioni — nonostante il gran numero di rivoluzionari esiliati — le autorità austriache dal 1852 permettono le maschere e incentivano i divertimenti carnevaleschi e teatrali, o feste popolari come il Redentore, utilizzati come valvola di sfogo degli umori negativi e dei conflitti ancora latenti. Questa tattica di vietare la costituzione di circoli organizzati, ma di agevolare la socialità informale con feste che riportino brio nello spirito pubblico, ha successo per alcuni anni, fino alla clamorosa dissociazione della cittadinanza dai divertimenti pubblici, con l’ulteriore congiuntura politica apertasi alla vigilia del 1859(38).
I circoli maschili di lusso, secondo la moda inglese, nascono a Venezia piuttosto tardivamente, rispetto ad altre città italiane. Ad avviare questo costume sono i borghesi, seguiti in un secondo tempo dai nobili. Al 1833 risale il primo statuto del Casino di commercio, collocato nella prestigiosa e sfarzosa sede delle Procuratie Vecchie che aveva ospitato il Casin dei nobili. Nel 1871 nasce invece la Società dell’unione, con sede affiancata a quella dell’altro circolo, probabilmente subentrando pure essa a un precedente casino di nobili. Entrambi i circoli si dedicano essenzialmente ad attività ricreative, tra cui impera il gioco delle carte, seguito a distanza dalle letture e conversazioni amichevoli. Fissando quote d’iscrizione molto elevate, praticano una rigida selezione dei propri membri in base al censo, poi applicando severi criteri selettivi nell’ammissione dei nuovi soci, o talvolta espellendo quanti, anche involontariamente, perturbino gli equilibri con durevoli contrasti coi consoci. Al primo sodalizio aderiscono in particolare negozianti e industriali; la stessa Camera di commercio, quando verrà istituita, mantiene anzi una sala al suo interno, per le periodiche riunioni della propria direzione. Oltre che sede di attività ricreative, il locale assume quindi funzioni di rappresentanza, con una discreta apertura a visitatori e ospiti, ammessi nei locali per consentire loro incontri e colloqui con singoli soci, anche per trattare affari economici. Tale funzione si rafforza alla fine del XIX secolo, quando al Casino di commercio vengono ammessi anche benestanti professionisti e si apre nella sede un ristorante in cui è ammesso invitare i propri clienti per conferire prestigio alle relazioni professionali. Almeno una metà dei soci è costituita da ricchi ebrei, mentre i nobili vi hanno una presenza insignificante. Il secondo sodalizio, che tende ad autoqualificarsi come casino nobiliare, è invece composto e diretto in prevalenza da nobili, che in questo circolo cercano di legare e assimilare a sé la crema del notabilato cittadino, comprendente borghesi di spicco per potere e ricchezza, o i più importanti pubblici ufficiali(39). Nei circoli d’élite — molto più facilmente che nei caffè, dove le sfide personali si risolvono con motteggi verbali o nel gioco — la predominanza simbolica dell’elemento nobile può essere fonte di contrapposizioni — solitamente non esplicite e dirette, ma più facilmente trasversali — tra le due categorie che Gino Bertolini qualifica come «gentiluomini» e «galantuomini»(40). Una delle cause principali della lunga permanenza della pratica del duello o del giurì d’onore, per lavare onte di pretese mancanze di rispetto, o semplicemente per portare il borghese a misurarsi su un codice morale e simbolico che non è il suo, è la frequente ripicca d’orgoglio mossa dal perdurante senso di superiorità di nobili che si sentono legittimati a frenare e castigare comportamenti avvertiti come indebite invadenze dei borghesi.
Se dopo la metà del secolo le peculiarità delle selettive relazioni di società tendono ulteriormente a ridursi, in un contesto nazionale e internazionale che diffonde l’uniformità dei costumi borghesi, a Venezia l’importanza e la rigidità delle barriere cetuali resta enfatizzata più che altrove, anche al di là del censo di individui e famiglie in vistosa ascesa sociale. I nobili di sesso maschile, e diversi notabili e intellettuali, danno ancora molta importanza a trascorrere regolarmente qualche pomeriggio o serata a guadagnarsi fama di gentiluomini «in società», cioè in quel che resta dei ricevimenti salottieri delle dame veneziane, dove si sono quasi del tutto perdute le velleità di dissertare su arte e filosofia, ma si trascorre il tempo tra chiacchiere e intrighi che finiscono poi per influenzare i comportamenti dei due sessi anche nei loro reciproci ritrovi esclusivi, suscitandovi di frequente sottili rivalità o brucianti questioni d’onore. Se la maggior parte dei maschi ostenta poi coi propri compagni una certa noia verso quel genere di frequentazione che alterna alla sociabilità virile, si tratta in realtà di incontri rituali fondamentali per le strategie relazionali e matrimoniali dell’élite; per la loro immagine risulterebbe quindi un danno e un’umiliazione esserne esclusi. Più socialmente vario, curioso di rapportarsi con la città e spesso desideroso di essere ammesso nei ritrovi pubblici e privati dei veneziani è il folto pubblico di forestieri alloggiati in alberghi e locande, che può alternare alla visita della città i ricorrenti intrattenimenti organizzati appositamente a loro consumo, comprese le serenate dai canali che i giovani veneziani offrono in omaggio alle belle donne(41). Mentre tutta la popolazione locale, nei propri ritrovi, usa osservare e commentare l’operato degli stranieri in visita alla città, molti maschi veneziani sono anche dediti a pavoneggiarsi con le straniere e pronti a cogliere pretesti per attaccarci discorso, sperando in avventure galanti.
Paradossalmente, i costumi goderecci veneziani non risultano incompatibili con una larga adesione di tutti i ceti sociali alle pratiche religiose e con una influenza rilevante del clero nella vita urbana. I sacerdoti ricoprono un ruolo molto rilevante nel presiedere a una molteplicità di momenti della vita quotidiana e delle occasioni solenni dei veneziani, e soprattutto delle veneziane, pure in una città che — adeguandosi alle universali tendenze secolarizzanti dell’epoca — ha formalmente diviso le proprie sorti civili dalle simbologie religiose, e dove gli ebrei costituiscono una componente rilevante dell’élite economica emergente. Se dopo le soppressioni napoleoniche e asburgiche si riscontra una limitata consistenza delle antiche confraternite devozionali, queste sono comunque attive in oltre la metà delle trenta parrocchie cittadine(42). Staccate dalle parrocchie, hanno una funzione culturale non dissimile da queste le residue scuole professionali, che riprendono le consuetudini religiose delle cessate corporazioni di mestiere. Lo scarso numero di confraternite tradizionali, compensato da un’eccezionale diffusione di moderne pie unioni devozionali culturalmente orientate da Roma, oltre a una precoce e solida diffusione di circoli collegati all’Opera dei congressi — di cui Venezia resta a lungo il principale centro operativo nazionale — non è qui sintomo di una debole pratica religiosa, ma piuttosto della schiacciante autorevolezza del clero di orientamento politico intransigentista nel disciplinare il laicato cattolico. Ne fa testimonianza anche una delle prime significative sperimentazioni — a Venezia come nella Torino di don Bosco, subito dopo l’unificazione nazionale — dei cosiddetti «patronati» per l’infanzia e la gioventù: istituzioni con scopi ricreativi e insieme educativo-caritativi, che diversi decenni dopo, col nome di «oratorio», si propagheranno sistematicamente nel resto d’Italia(43). Dal 1899, dopo la costituzione di una «cassa operaia cattolica» a Murano — la prima in Italia — ad opera del sacerdote Luigi Cerutti, in quattordici parrocchie di Venezia si fondano organismi analoghi, che coi risparmi degli associati concedono piccoli prestiti, chiedendo interessi inferiori a quelli praticati dalle casse peote, e dirottando gli utili economici, che queste ultime avrebbero speso in bagordi, verso spese devozionali o caritative. Il movimento sociale cattolico comunque non raggiunge in città dimensioni consistenti come in alcune zone dell’entroterra veneto, tendendo piuttosto — con risultati per altro limitati — a conservare l’ambiente operaio devoto e immune dal radicalismo sociale o da influenze anticlericali.
A ostacolare la diffusione di conflitti operai e di movimenti politici radicali e socialisti è piuttosto il lungo ed efficace permanere di un’organizzazione della società urbana in strutture corporative — ben al di là della contrastatissima soppressione legale delle antiche corporazioni di mestiere, avvenuta tra il 1806 e il 1816(44) — anche in una economia di libero mercato, molto al di là nel tempo di quanto avvenga in altre città portuali. Fraterne(45) e opere caritative, confraternite e scuole d’arti, residui di corporazioni, mantengono lungamente in vita forme paternalistiche di protezione sociale dei poveri e di disciplinamento di tutti i diversi strati popolari, che risultano ostacoli all’affermarsi di morali classiste borghesi e proletarie. Ancora a fine secolo la giunta municipale di Grimani cerca di revisionare e ostacolare l’assestamento laico delle opere pie attuato anni prima da Crispi. L’identità religiosa cattolica resta importante nel definire non solo certe tradizioni di gruppi socio-professionali, ma in particolare i molteplici sensi d’appartenenza territoriali di un variegato mosaico di microcomunità di cui si compone la popolazione nei sestieri e nelle parrocchie della città insulare. Risulta perciò scontato che gli ebrei usciti dal Ghetto, soprattutto le ebree, pur inserendosi per tutto il secolo nei diversi spazi di sociabilità laica in cui è loro concesso di integrarsi, mantengano qualche ritrovo e sodalizio separato — anche non di carattere religioso o caritativo — la cui frequentazione o accesso sono limitati ad essi(46). Qualcosa di analogo avviene anche per le altre minoranze religiose. Per tutto il secolo — anche con l’avvicendamento di notabili borghesi in molte delle posizioni di potere un tempo detenute dal patriziato — resta in vigore nella città un’economia morale che obbliga i diversi ceti a rapporti di solidarietà verticale e clientelare, e al rispetto — almeno simbolico — di residui organismi sociali tradizionali, poco rispondenti alle dinamiche di una società borghese. Se la polizia austriaca ritarda in tutti i modi lo sviluppo di società volontarie di mutuo soccorso in ambiente popolare — autorizzando solo qualche embrionale sodalizio della classe media da cui vanno formandosi gli ordini professionali(47) — dopo l’unificazione nazionale la nuova classe dirigente liberale sostiene prevalentemente sodalizi rispondenti a logiche corporative e spesso confessionali, orientando l’associazionismo operaio verso il tradizionalismo, piuttosto che in senso progressista(48). A fine secolo, insediatasi la Camera del lavoro, la logica delle leghe di resistenza che essa federa — alimento di modi di pensare classisti — non trova un terreno facile nella trama di relazioni tradizionali che si mantiene più che altrove a Venezia; tanto che diversi dirigenti sindacali e socialisti finiscono per sollecitare versioni operaiste e classiste degli esasperati localismi identitari nei sestieri popolari(49). La debolezza della Camera del lavoro viene anche dalle difficoltà di rapporto tra il notabilato radicale — promotore di mobilitazioni democratiche ma propenso a incoraggiare il proletariato ad assimilarsi in pratiche paternalistico-clientelari — e un movimento socialista sostenitore invece di lotte contro le istituzioni municipali e i padroni di industrie e di case: pratiche apertamente conflittuali che risulterebbero dirompenti sulle relazioni sociali improntate a un interclassismo tradizionalista. Non si producono a Venezia alleanze socio-politiche che dinamizzino in senso progressista le relazioni tra imprenditoria e associazionismo operaio, dissolvendo la visione della società in «corpi», come avviene nella Milano del 1899, dove la sinistra conquista la Municipalità grazie a intensi scambi tra i circoli borghesi e quelli popolari, mostrando i limiti strutturali delle relazioni strettamente elitarie dei vecchi gruppi dominanti della possidenza agraria e dei finanzieri, la cui base di consenso resta troppo esigua dopo l’allargamento della base elettorale(50). Il relativo isolamento localistico, per le difficoltose comunicazioni con la terraferma, e la capacità del vecchio notabilato di aggiornare e far rivivere nella quotidianità mitologie passatiste paternalistiche, mantengono, anacronisticamente, le concezioni e le strutture corporative della società urbana.
Caratteristica del complesso sistema di relazioni nei sestieri popolari veneziani resta la vasta dispersa rete delle casse peote: minuti e informali organismi di credito, che raccolgono quote d’iscrizione e oboli settimanali da una ristretta cerchia di poche decine di soci — personalmente vincolati da legami di vicinato, oppure amicali o professionali — concedendo loro prestiti, soprattutto per grandi acquisti di vino o cibarie da consumare insieme festevolmente nei cosiddetti garanghelli. La maggior parte ha sede presso osterie o locali consimili. Questi sodalizi si richiamano con enfasi a relazioni consuetudinarie — seppure probabilmente non antiche come affermano di essere — chiuse in un angusto circuito di relazioni. La peota è particolarmente diffusa tra le donne del popolo, ma anche in una miriade di piccoli gruppi interni a categorie professionali maschili notoriamente coese, come gli arsenalotti. Nel 1912 un’inchiesta di alcuni studiosi e operatori finanziari(51) — muovendosi con circospezione ma con grande fatica tra la diffidenza popolare verso supervisioni istituzionali e possibili intromissioni dei «signori» o di agenti fiscali — ne stima la quantità in città a circa cinquecento. All’epoca il fenomeno viene ancora considerato tipico del popolino della città, limitato nei confini insulari, non esteso a gran parte della regione; ma si dice che da qualche tempo la prassi e i suoi presupposti etici si stanno affermando con vigore tra il ceto medio urbano e i professionisti, in questo caso imitatori del basso popolo. Un simile modello di relazioni sociali potrebbe costituirsi come base e alimento a un sistema relazionale eccezionalmente frammentario, ed estraneo e talora malfidente verso forme più estese e dinamiche di solidarietà, quali quelle dei moderni sodalizi mutualistici, cooperativi e associativi propagatisi nell’Italia liberale. Ciò non ostacola solo l’affermarsi di quelle forme di solidarietà di classe propagandate dai socialisti all’interno del movimento operaio, ma pone problemi anche alle forme di solidarietà operaia e di associazionismo popolare caldeggiate e diffuse nella provincia veneta da propagandisti laici e influenti notabili di origine locale come Luigi Luzzatti, poi in parte rimpiazzate dalle concorrenti casse operaie parrocchiali, che in ambito confessionale trovano proprio a Venezia il loro iniziale campo di fortunata sperimentazione, poi esteso al movimento politico-economico cattolico in intere regioni rurali, soprattutto nell’area veneta e lombarda. Nessuna di queste moderne forme associative politiche, che pure vanno estendendo rapidamente ed efficacemente la propria attività, riesce a soppiantare le casse peote.
Questi molteplici circuiti di relazioni popolari, che formalizzano i propri rapporti solidali a cortissimo raggio nel raccogliere risparmi da spendere in alcune bisbocce nel corso dell’anno, creano un clima favorevole alla partecipazione popolare al ricchissimo calendario festivo della città — pure tormentata endemicamente da disoccupazione, caroviveri e miseria — e delle sue porzioni che mantengono gelosamente tradizioni di particolarismo identitario. Rimangono molto frequenti in città, ben oltre la fine dell’antico regime, le solennità religiose, rievocanti antiche tradizioni civili e occasione — assieme al celebre Carnevale, per quanto decaduto — per partecipatissimi bagordi. La loro decadenza è molto lenta, fino all’ultimo decennio del XIX secolo, quando la loro smorzata intensità viene ravvivata dalla Municipalità, come attrazione turistica abbinata all’avvio delle grandi mostre d’arte. Il costume locale si compiace così della permanenza di una profusione di festeggiamenti profani scanditi sempre da un calendario religioso rievocante le antiche glorie della città; resta invece poco attratto dalle ricorrenze di un tempo laico, con cui l’Europa industriale secolarizzata sta cercando nuove armonie nella vita sociale. I luoghi delle feste sono — anche simultaneamente — i più diversi: tanto negli spazi aperti come in quelli chiusi. Da chiese, palazzi, teatri, i festeggiamenti debordano quasi regolarmente nelle calli e nelle piazze, fino alle acque, intasate di imbarcazioni piene di vino e vivande, e di gente di ogni ambiente sociale che gareggia in canti, durante i settembrini «luni del Lio», o gli estivi «freschi» notturni. Dalla strada, la festa invade poi i caffè, le osterie e — in misura ridotta — i circoli.
Tra i ritrovi al chiuso, uno dei pochi un tempo dedicati ai divertimenti dei ceti superiori, e durante la belle époque invasi a ogni festa da un pubblico popolare, sono i teatri decaduti, che ormai ospitano il cosiddetto «varietà» e dai primissimi anni del XX secolo vengono a periodi alterni trasformati in cinematografi: un genere di spettacolo economico, verso cui i ceti colti storcono generalmente il naso(52). Ma, a parte la limitata diffusione di simili forme di spettacolo popolare, una parte consistente della popolazione veneziana — e della sua élite in particolare — nelle sue feste, negli spettacoli, nei divertimenti, nel ballo e nel canto, permane poco coinvolta, guardinga, verso le nuove forme espressive alla moda della belle époque. Pur avendo a lungo contribuito a diffondere la moda dei caffè, pur con l’ambizione di essere un privilegiato luogo ospitale per gli artisti, pur incrementando l’alcolismo e mostrandosi sensibile alla figura del bohémien, la città lagunare sembra serrarsi nelle sue tradizioni e nelle sue peculiarità festaiole, piuttosto che aprirsi a costumi e linguaggi borghesi che da Parigi, Vienna e Londra si diffondono con successo nelle città europee, fino nei centri di provincia e rurali(53).
I limitati spazi aperti della città restano vistosamente segnati da questo sistema di relazioni, piuttosto statico, e dalla rete dei luoghi di ritrovo. La Piazza, la Piazzetta e il molo — dove si concentrano i caffè, i circoli dei notabili e i residui casini — sono anche percorsi dal liston: il passeggio aristocratico-borghese. Le corti (cioè i cortili), i campi, le fondamenta dove attraccano le barche sono luoghi di filò all’aperto, dove al lavoro, o in attesa di lavoro, popolane e popolani si ritrovano a crocchi per chiacchierare(54), nei pressi della propria abitazione o di specifici punti di raduno di determinati gruppi professionali come facchini, barcaioli o lavandaie. Sia nello Stato asburgico che in quello nazionale unificato, la classe dirigente locale resta prevalentemente orientata a non alterare tali equilibri socio-culturali, alimentando tra tutta la popolazione il culto delle tradizioni e gli orgogli particolaristici(55), ricorrendo perciò con una certa frequenza a paternalistiche elargizioni a loro sostegno, che ai borghesi forestieri paiono cose da Medioevo, che sottraggono capitali alle attività imprenditoriali(56). E per tutto il secolo una pattuglia nutrita di eruditi non cessa di riflettere intensamente sulla socialità ricreativa cittadina e spesso anche di alimentare il culto nostalgico dei costumi di una società d’antico regime di cui si amano le permanenze nella società borghese(57). Nel tentativo di non modificare l’equilibrio sociale e insieme urbanistico che permette la conservazione di diversi costumi tradizionali — o talvolta di loro mere parvenze(58) — dagli anni Ottanta del XIX secolo si afferma una progettualità economica che punta a impiantare ai margini della città — alla Giudecca e poco dopo sulla terraferma — i moderni insediamenti industriali, facendo invece dell’isola ancora poco abitata del Lido un nuovo polo d’attrazione del turismo di lusso, e insieme delle attività ludico-ricreative aristocratico-borghesi. Da un lato, pur incrementandone la ricezione alberghiera, si persegue un sostanziale immobilismo estetizzante per quanto riguarda la struttura urbana; dall’altro, si fanno consistenti investimenti di capitali ai suoi poli estremi, di terra e di mare, che avranno notevoli conseguenze sulla vita locale e anche sulla sua sociabilità. Già dagli ultimi decenni del XIX secolo i nuovi sport dell’élite cittadina e i circoli ricreativi che li organizzano fanno del Lido una frontiera da colonizzare, con l’impianto di sedi associative e luoghi attrezzati per equitazione, ciclismo, scherma, tiro a segno e vela; mentre sulla spiaggia, con lo sviluppo della pratica balneare, si vanno impiantando i grandi alberghi che presto diventano, con le loro feste fiabesche, tra i più importanti richiami della mondanità internazionale e locale(59). Spazi meno consistenti, ma pure importanti, acquistano poi in città i circoli ginnici e sportivi che associano e amalgamano diversi ambienti borghesi, mentre il bacino di S. Marco, il canale della Giudecca e lo stesso Canal Grande cominciano a essere solcati quotidianamente da barche da diporto, condotte da giovani e uomini di distinta condizione e non da barcaioli di professione. Per quanto riguarda l’élite, alla fine del secolo l’uscita dalla città, il viaggio in terraferma, non si limitano più alla villeggiatura nei possedimenti in campagna, ma si allargano ai soggiorni in località termali e alpine, o all’escursione preparata col supporto di informazioni e servizi forniti dal Touring Club e dal Club Alpino. Sono nuovi costumi, all’insegna di un vitalismo esibito in luoghi aperti, che in città e sulle isole della laguna rischierebbero di creare nuove marginalità per la popolazione povera, se a ravvivarne gli antagonismi tra le frammentarie identità territoriali — in diversi percorsi navigabili della città — non fossero ideate numerose piccole regate di vogatori, talvolta gestite da associazioni sportive come la «Reyer», la «Querini» o la «Bucintoro», ma altre volte — in forme folklorizzate — riservate a barcaioli e pescatori professionisti. Nel centro urbano, anche un associazionismo legato alla moderna produzione artistica o alla valorizzazione del superstite e pure imponente patrimonio artistico-monumentale urbano dà un contributo a gestire e propagandare l’immagine di Venezia come crocevia dell’arte e della cultura. La continua nostalgica rivisitazione del passato e l’invenzione di tradizioni, a cavallo tra XIX e XX secolo, diventano un remunerativo e prestigioso investimento economico. Se a Marghera sono i legami tra la finanza locale e quella internazionale a permettere dal XX secolo lo sviluppo di grandi infrastrutture industriali e portuali, nel centro urbano e soprattutto al Lido paiono essere le forme moderne della sociabilità — o anche quelle tradizionali, assieme a quelle pretese tali, esibite nel loro carattere pittoresco — a dare una spinta rilevante a valorizzare ai massimi livelli fino allora riscontrati — a profitto dei medesimi gruppi finanziari — l’attività turistica della città monumentale e ora persino di quelle che fino a un paio di decenni prima erano spiagge desolate, solo nel mese di settembre percorse dall’allegria delle scampagnate e dai garanghelli notturni di popolane e popolani di Venezia.
1. Marco Meriggi, Il Regno Lombardo-Veneto, Torino 1987 (Storia d’Italia, diretta da Giuseppe Galasso, XVIII/2), pp. 116-127; Renzo Derosas, Dal patriziato alla nobiltà. Aspetti della crisi dell’aristocrazia veneziana nella prima metà dell’Ottocento, in Les noblesses européennes au XIXe siècle. Atti del convegno, a cura di Gérard Delille, Roma 1988, pp. 333-363.
2. Nicola Mangini, I teatri di Venezia, Milano 1974; Franco Mancini-Maria Teresa Muraro-Elena Povoledo, I teatri del Veneto, I, 2, Venezia e il suo territorio. Imprese private e teatri sociali, Venezia 1996.
3. Michele Gottardi, L’Austria a Venezia. Società e istituzioni nella prima dominazione austriaca (1798-1806), Milano 1993, pp. 261-266.
4. «Gazzetta Urbana Veneta», 25 ottobre 1795. Cf. Norbert Jonard, La vita a Venezia nel Settecento, Firenze 1985, pp. 173-192.
5. Étienne François, Il caffè, in Luoghi quotidiani nella storia d’Europa, a cura di Heinz Gerhard Haupt, Roma-Bari 1993, pp. 148-159 (l’autore attribuisce a Venezia la prima rivendita di caffè in Europa); La bottega del caffè. I caffè veneziani tra ’700 e ’900, a cura di Danilo Reato-Elisabetta Dal Carlo, Venezia 1991.
6. Gianjacopo Fontana, «Omnibus» (il giornale si stampa a Venezia dal 1846 al 1848, ma nell’unica raccolta esistente l’articolo non è stato da me trovato), cit. in Antonio Pilot, La bottega da caffè, Venezia 1917, p. 157. Cf. Florian: un caffè, la città, a cura di Danilo Reato, Venezia 1986; Maria Malatesta, Il caffè e l’osteria, in I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, a cura di Mario Isnenghi, Roma-Bari 1997, pp. 53-66.
7. Sociabilità nobiliare e sociabilità borghese, a cura di Maria Malatesta, «Cheiron», 5, 1988, nrr. 9-10; Élites e associazioni nell’Italia dell’Ottocento, a cura di Alberto M. Banti-Marco Meriggi, «Quaderni Storici», 26, 1991, nr. 77; Marco Meriggi, Milano borghese. Circoli ed élites nell’Ottocento, Venezia 1992; Raffaele Romanelli, Il casino, l’accademia e il circolo. Forme e tendenze dell’associazionismo d’élite nella Firenze dell’Ottocento, in Fra storia e storiografia, a cura di Paolo Macrì-Angelo Massafra, Bologna 1994, pp. 809-851; Daniela L. Caglioti, Associazionismo e sociabilità d’élite a Napoli nel XIX secolo, Napoli 1996; Circuiti culturali, «Meridiana», 9, 1995, nrr. 22-23.
8. A.S.V., Inquisitori di Stato, b. 914, fasc. «Casini di conversazione e gioco».
9. Emanuela Zucchetta, Antichi ridotti veneziani, Roma 1988, pp. 8-9. Sui passatempi serali nei ritrovi del patriziato veneziano villeggiante in provincia, ampie descrizioni si trovano nelle Confessioni di un italiano, di Ippolito Nievo, dove si narra delle serate a casa Frumier, e nei primi capitoli di Luigia Codemo di Gerstenbrand, Pagine famigliari artistiche cittadine. 1750-1850, Venezia 1875.
10. Antonio Lamberti, Ceti e classi nel ’700, a cura di Manlio T. Dazzi, Bologna 1959, pp. 21-22.
11. Ibid., pp. 8-9.
12. Annalisa Perissa Torrini, Ridotti e casini, Venezia 1988; E. Zucchetta, Antichi ridotti veneziani, p. 104; Alberto Fiorin, Ritrovi da gioco, in Fanti e denari. Sei secoli di gioco d’azzardo, a cura di Id., Venezia 1989, pp. 105-120.
13. A. Lamberti, Ceti e classi, p. 71.
14. Gino Damerini, Amor di Venezia, Bologna 1920, pp. 37-45.
15. Giandomenico Romanelli-Filippo Pedrocco, Bissone, peote e galleggianti, Venezia 1980.
16. Alessandro Fontana, La verità delle maschere, in Venezia e lo spazio scenico, a cura di Manlio Brusatin, Venezia 1979, pp. 21-36.
17. Giovanni Veludo, Accademie, biblioteche, raccolte scientifiche, medaglieri, tipografie e giornali, in Venezia e le sue lagune, II, 1, Venezia 1847, pp. 427-430 (pp. 425-460); M. Gottardi, L’Austria a Venezia, pp. 266-269; Mario Isnenghi, La cultura, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 401-404 (pp. 381-482); in questi volumi, v. il saggio di Giuseppe Gullino, Istituzioni di cultura.
18. Gino Bertolini, ‘Italia’, I, Le categorie sociali. Venezia nella vita contemporanea e nella storia, Venezia 1912, pp. 290-291.
19. La cosa è riscontrabile anche altrove, in Europa, benché l’epoca aurea dei salotti letterari, come luogo di diffusione di nuove idee, sia il secolo dei Lumi: Maria Iolanda Palazzolo, I salotti di cultura nell’Italia dell’Ottocento, Milano 1985; Giuseppina Rossi, Salotti letterari in Toscana, Firenze 1992; Ute Frevert, Il salotto, in Luoghi quotidiani nella storia d’Europa, a cura di Heinz Gerhard Haupt, Roma-Bari 1993, pp. 126-137; Mariuccia Salvati, Il salotto, in I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, a cura di Mario Isnenghi, Roma-Bari 1996, pp. 173-195.
20. Vittorio Malamani, Giustina Renier Michiel. I suoi amici, il suo tempo, «Nuovo Archivio Veneto», 19, 1889, t. 38, nr. 76, pt. 2, pp. 279-367. V. anche, in questo volume, il saggio di Nadia Maria Filippini.
21. Umberto Sailer, Un’altra pagina delle serate veneziane, Venezia 1884, p. 4.
22. Maria Damerini, Gli ultimi anni del leone. Venezia 1929-1940, Padova 1988, pp. 122-123.
23. Maurice Agulhon, Il salotto, il circolo e il caffè. I luoghi della sociabilità nella Francia borghese (1810-1848), Roma 1993; Alberto M. Banti, Il circolo, in Luoghi quotidiani nella storia d’Europa, a cura di Heinz Gerhard Haupt, Roma-Bari 1993, pp. 138-147.
24. E. Zucchetta, Antichi ridotti veneziani, pp. 11-12, 105.
25. A. Pilot, La bottega da caffè, pp. 53-54; Gino Bertolini, ‘Italia’, II, L’ambiente fisico e psichico. Storia sociale del secolo ventesimo, Venezia 1912, pp. 188-189, 197, 234-241.
26. Lorenzo da Ponte, Memorie, I, Bari 1918, pp. 209-229.
27. Alvise Zorzi, Venezia austriaca (1798-1866), Roma-Bari 1985, pp. 15-53.
28. Giovanni Codemo, Intorno alle società filantropiche, scientifiche, industriali, bancarie ed alle casse di risparmio, Venezia 1843, p. 6.
29. Ibid., pp. 9-10; Giovanni Tomasoni, Soccorsi pubblici, in Venezia e le sue lagune, II, 1, Venezia 1847, p. 477 (pp. 461-496); Id., Porto franco, industria, commercio, ibid., pp. 536-537 (pp. 497-570).
30. Tommaso Locatelli, Feste, spettacoli, costumi, ibid., p. 594 (pp. 571-642).
31. L. Codemo di Gerstenbrand, Pagine famigliari, pp. 427-428.
32. Giuseppe Giuriati, Cenni sul Circolo italiano pronunciati all’apertura della nuova sua residenza nelle sale del Ridotto, Venezia 1848, p. 3.
33. Lettera di Daniele Manin ad Alessandro Gavazzi, 14 gennaio 1949, cit. in Piero Brunello, Voci per un dizionario del Quarantotto. Venezia e Mestre marzo 1848 agosto 1849, Venezia 1999, p. 61. Più in generale, cf. Adolfo Bernardello-Piero Brunello-Paul Ginsborg, Venezia 1848-49. La rivoluzione e la difesa, Venezia 1979; Adolfo Bernardello, Veneti sotto l’Austria. Ceti popolari e tensioni sociali (1840-1866), Verona 1997.
34. G. Giuriati, Cenni sul Circolo italiano, p. 4.
35. A. Pilot, La bottega da caffè, pp. 65-69, 147-155, 160-161.
36. Dal diario inedito di Alessandro Guiccioli, «Nuova Antologia», settembre-ottobre 1932, vol. 285, pp. 366-374; Antonio Pilot, Venezia dal 1851 al 1866 nei diari inediti del Cicogna, «Nuovo Archivio Veneto», n. ser., 32, 1916, p. 450 (pp. 397-480); Eva Cecchinato, Tra due ‘assedii’. L’immagine della città attraverso le pagine della «Gazzetta Uffiziale di Venezia» (1849-1861), «Venetica», 16, 1999, pp. 117-170.
37. Cf. Ernest Gellner, Nazioni e nazionalismo, Roma 1985; Dalla città alla nazione, a cura di Marco Meriggi-Pierangelo Schiera, Bologna 1993; Benedict Anderson, Comunità immaginate, Roma 1996; Maurizio Bertolotti, Le complicazioni della vita, Milano 1998.
38. A. Zorzi, Venezia austriaca, pp. 114-141.
39. G. Bertolini, ‘Italia’, II, pp. 371-503.
40. Ibid., pp. 375-394.
41. Ibid., pp. 292-338; Antonio Pilot, Antichi alberghi veneziani, Venezia 1927, pp. 48-60; Raffaello Barbiera, Arride il sole. Racconto dell’alta società straniera a Venezia nell’800, Milano 1929.
42. MAIC-Direzione Generale Di Statistica, Statistica delle confraternite, I, Roma 1892, pp. XI-XII, 85. Cf. Letterio Briguglio, Origini e finalità del movimento cattolico a Venezia (1866-1888), «Quaderni di Cultura e Storia Sociale», n. ser., 3, 1954, pp. 422-444; Silvio Tramontin, Iniziative sociali dei cattolici fra Ottocento e Novecento, in La chiesa di Venezia nel primo Novecento, a cura di Id., Venezia 1995, pp. 125-140; Angelo Gambasin, Il movimento sociale nell’Opera dei Congressi (1874-1904), Roma 1958; Bruno Bertoli, Le origini del movimento cattolico a Venezia, Brescia 1965.
43. Alberto Cucito, I patronati per i ragazzi del popolo, Venezia 1874; Silvio Tramontin, Gli oratori di don Bosco e i patronati veneziani, in Don Bosco nella chiesa a servizio dell’umanità, Roma 1987, pp. 118-132.
44. Massimo Costantini, L’albero della libertà economica, Venezia 1987.
45. La beneficenza veneziana, Venezia 1900; Alberto Cosulich, Venezia nell’800, S. Vito di Cadore 1988, pp. 55-66.
46. Bianca Nunes Vais Arbib, Gli ebrei e il Risorgimento a Venezia, «Rassegna Mensile di Israel», 1961, nrr. 7-8, pp. 350-369; Riccardo Calimani, Gli ebrei a Venezia dopo l’apertura del Ghetto, nel secolo dell’emancipazione, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 6, Dall’età napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza 1986, pp. 729-748.
47. Antonio Pilot, Spirito d’associazione nella seconda metà del secolo XIX, a Venezia, «Rivista Mensile della Città di Venezia», 2, 1923, pp. 23-24.
48. Luca Pes, Sei schede sulle società di mutuo soccorso a Venezia (1849-1881), in Venezia nell’Ottocento, a cura di Massimo Costantini, «Cheiron», 6-7, 1989-1990, nrr. 12-13, pp. 115-145; La scienza moderata, a cura di Renato Camurri, Milano 1992.
49. Emilio Franzina, Una ‘belle époque’ socialista: venezianità e localismo in età giolittiana, in Cent’anni a Venezia. La Camera del lavoro 1892-1992, a cura di Daniele Resini, Venezia 1992, pp. 275-306.
50. Marco Meriggi, Associazionismo borghese e associazionismo popolare nella Milano di fine Ottocento, «Il Risorgimento», 96, 1994, nrr. 2-3, pp. 305-313.
51. Atti della commissione d’inchiesta sulle forme minute d’usura in Venezia, a cura di Giuseppe Bonaldi, Venezia 1914. Ringrazio Alessandro Casellato, che mi ha segnalato questo documento.
52. G. Bertolini, ‘Italia’, II, pp. 159-170.
53. François Gasnault, Guinguettes et lorettes, Paris 1986; Alain Faure, Paris Carême-Prenant, Paris 1978; L’invenzione del tempo libero (1850-1960), a cura di Alain Corbin, Roma-Bari 1996; La vita privata. L’Ottocento, a cura di Michelle Perrot, Roma-Bari 1988; Rémi Hess, Il valzer. Rivoluzione della coppia in Europa, Torino 1993.
54. Sulle popolane non segregate in casa nella Venezia del XIX secolo, anche per la pratica diffusa del lavoro industriale a domicilio: Nadia M. Filippini, Organizzazione del lavoro, ruoli sociali e familiari nei racconti delle impiraperle (1910-1950), in Perle e impiraperle. Un lavoro di donne a Venezia tra ’800 e ’900, catalogo della mostra storico-documentaria, a cura di Anna Bellavitis-Nadia M. Filippini-Maria Teresa Sega, Venezia 1990, pp. 42-43 (pp. 28-46); in questi volumi, v. il saggio di Maria Teresa Sega. Differente il costume per le donne della classe media e dei ceti superiori, più limitate nel passeggio e nella frequentazione di ritrovi pubblici e privati, stando alle annotazioni degli intellettuali statunitensi che soggiornano nella città (A. Zorzi, Venezia austriaca, p. 266).
55. Cf. Emilio Franzina, La società, in Venezia, a cura di Id., Roma-Bari 1986, pp. 301-322; Leopoldo Magliaretta, La qualità della vita, ibid., pp. 323-380; M. Isnenghi, La cultura, pp. 407-425.
56. Cesare Cantù, Grande illustrazione del Lombardo-Veneto, II, Milano 1858, p. 233; Leone Carpi, L’Italia vivente, Milano 1878, pp. 187-188; Carlo Lozzi, Dell’ozio in Italia, I, Torino-Napoli 1871, pp. 55-56, 419.
57. Per limitarsi ai più importanti, basti citare: Giustina Renier Michiel, Fabio Mutinelli, Giovanni Rossi, Tommaso Locatelli, Domenico Giuseppe Bernoni, Giuseppe Tassini, Pompeo Molmenti, Giovanni Dolcetti, Vittorio Malamani e Luigi Sugana, fino ad Hans Barth e Antonio Pilot.
58. Cf. Giandomenico Romanelli, Venezia nell’Ottocento: ritorno alla vita e nascita del mito della morte, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 6, Dall’età napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza 1986, pp. 749-766.
59. V., in questo volume, il capitolo di Andrea Zannini.