I materiali sintetici: successi, delusioni e speranze
Il mondo attuale è così pervaso di materiali sintetici che non potremmo sostenere il nostro modo di vestire, abitare e viaggiare senza il contributo di un poderoso sistema di industrie impegnate nella produzione e trasformazione di questi materiali. Se li collochiamo nella prospettiva storica dello sviluppo dell’industria chimica, scopriamo che la loro origine è abbastanza recente, perché, salvo produzioni di nicchia, solo alla fine degli anni Trenta cominciarono a comparire sul mercato i primi prodotti fabbricati con quei materiali sintetici che dopo la Seconda guerra mondiale avrebbero iniziato una marcia pressoché trionfale.
La sfida che l’industria chimica affrontò nell’avviare la produzione di questi nuovi materiali fu veramente difficile, da un punto di vista sia quantitativo sia qualitativo. I problemi quantitativi appaiono evidenti, in quanto si trattava di sostituire materiali naturali come il caucciù, la cui produzione mondiale nel 1930 aveva toccato le 850.000 t. È certamente questa una cifra imponente, ma è dal punto di vista qualitativo, tecnologico che si coglie ancor meglio il carattere totalmente nuovo della produzione di massa di un materiale sintetico, e qui occorre precisare quanto sia diverso un ‘materiale’ da una ‘sostanza’ (o da un ‘composto’).
L’industria chimica tedesca aveva conseguito grandi successi perseguendo una strategia di sostituzione dei prodotti naturali, in particolare con la sintesi dell’indaco e dell’ammoniaca. Però l’uso dell’indaco nelle tintorie industriali dipende esclusivamente dalle sue proprietà chimiche, ben definite da una certa composizione e struttura molecolare. Invece l’impiego della gomma naturale come isolante o come elastomero è possibile solo dopo un qualche processo di ‘vulcanizzazione’, che ne altera notevolmente le proprietà fisiche. A tale proposito, può essere utile esporre un semplice schema epistemologico: abbiamo a che fare con una sostanza (o un composto) quando sono in gioco soltanto le proprietà chimiche, mentre siamo di fronte a un materiale quando per il suo uso diventano rilevanti le proprietà fisiche, e non in modo astratto, ma in relazione alla funzione che quel certo materiale dovrà assolvere. La gamma delle proprietà richieste a un materiale dipende ovviamente dai suoi impieghi, e nell’impiego industriale è spesso importante la proprietà (mai richiesta a una sostanza in quanto tale) di essere lavorabile da parte di certe macchine.
L’industria dei materiali sintetici è progredita operando in un contesto scientifico e tecnologico in continuo avanzamento, fino a giungere all’esplosiva crescita dei materiali compositi negli ultimi decenni del Novecento. In queste pagine daremo ampio spazio al ruolo scientifico-tecnologico, preminente, di Giulio Natta e del suo polipropilene; tuttavia non potremo tacere sul fatto che nel merito della produzione dei materiali sintetici avvennero duri scontri politici e finanziari, i quali, in definitiva, portarono alla rovina della grande industria chimica in Italia.
I primi materiali sintetici e semisintetici
La celluloide è stata il primo materiale, tra quelli che qui ci interessano, a essere prodotto a livello industriale. Negli Stati Uniti, la Phelan & Collander, un’impresa che fabbricava palle da biliardo, nel 1860 aveva offerto un premio di 10.000 dollari a chi avesse trovato per il suo prodotto un materiale che sostituisse l’avorio. Allo scopo di vincere il premio, John Wesley Hyatt (1837-1920) studiò la nitrocellulosa, scoprendo che per questa sostanza una soluzione di canfora in etanolo rappresentava un solvente perfetto e un plastificante ideale. Nel 1869 brevettò quella che tre anni dopo sarà battezzata celluloide e che chimicamente è una soluzione solida di nitrocellulosa e canfora. La celluloide è rimasta famosa fino ai giorni nostri per la sua connessione con l’industria cinematografica – dovuta all’eccellente stabilità dimensionale –, ma trovò impiego principalmente nella fabbricazione di una moltitudine di oggetti di uso comune e di giocattoli. In Italia fu Pompeo Mazzucchelli (1856-1946) ad avviare la produzione di celluloide, che in questo caso si presenta proprio come un nuovo materiale artificiale, sostitutivo di un prodotto naturale. Mazzucchelli, infatti, apparteneva a una famiglia imprenditoriale impegnata nella fabbricazione di oggetti in corno bovino. Nel 1906 Mazzucchelli impiantò a Castiglione Olona uno stabilimento per la produzione di celluloide e, nella stessa località, nel 1924 il figlio Silvio inaugurò una grande e moderna fabbrica di articoli di celluloide che, fin dal 1925, poté utilizzare canfora di sintesi prodotta a Spinetta Marengo.
Un secondo materiale plastico destinato a una lunghissima vita sul mercato fu la bachelite, dovuta a Leo H. Baekeland (1863-1944), un chimico belga che sembrava destinato a una rapida carriera accademica in patria e che invece aveva preferito ‘far fortuna’ negli Stati Uniti. Egli aveva già accumulato un notevole capitale con vari brevetti quando s’impegnò nella ricerca di un sostituto della gomma lacca, un materiale prodotto da insetti e importato dal Sud-Est asiatico. La reazione tra fenolo e formaldeide era stata molto studiata, ma la sostanza scura e catramosa che ne era l’esito rimase utilizzata fino a quando Baekeland mise a punto una procedura piuttosto semplice: in presenza di alcali aveva ottenuto un materiale resinoso, che una volta riscaldato diventava duro, insolubile e non più fusibile. Il nuovo materiale era un ottimo isolante; immesso in stampi sotto forma di polvere dava, per un semplice aumento di temperatura, oggetti di buona resistenza meccanica, sagomati e complessi a piacere. Baekeland, il chimico accademico ‘prestato’ all’industria, aprì il nuovo settore dei materiali termoplastici con i suoi brevetti del 1907.
La produzione della bachelite in Italia iniziò con un certo ritardo rispetto ai brevetti di Baekeland, per via della penuria di benzene, da cui era ottenuto il fenolo. L’occasione, in un certo senso forzata, si presentò al termine della Prima guerra mondiale, quando l’industria degli esplosivi dovette affrontare i gravi problemi della riconversione a scopi pacifici. Artefice della nuova iniziativa fu l’industriale Ferdinando Quartieri (1865-1936), proprietario della Società italiana prodotti esplodenti di Cengio, il quale nel 1922 fondò la Società italiana bachelite, con l’avvio della produzione nel 1923 a Ferrania.
La celluloide è un materiale semisintetico, nel senso che per produrla si parte dalla nitrocellulosa, la quale è ottenuta a sua volta dalla cellulosa, una sostanza presente in ogni pianta. La chimica quindi interviene modificando strutturalmente un prodotto naturale, con una specie di semisintesi. Nel campo dei materiali semisintetici, ebbero grande importanza proprio le fibre derivate dalla cellulosa.
Fra i vari eventi che segnarono l’Esposizione universale di Parigi del 1889, vi fu la presentazione di una fibra lucente che assomigliava molto alla seta e che per questo fu chiamata seta artificiale. La fibra era stata brevettata cinque anni prima dall’ingegnere francese Louis-Marie-Hilaire Bernigaud de Grange, conte di Chardonnet (1839-1924); egli utilizzava come materia prima naturale la nitrocellulosa (già impiegata da Hyatt), che veniva disciolta in una soluzione alcol-etere, solidificata per evaporazione del solvente e infine denitrata. La fibra che si otteneva dal procedimento fu chiamata raion, e rappresentò un’innovazione straordinaria perché introduceva nell’industria tessile, allora di importanza cruciale, un materiale nato da sostanze povere e però in grado di sostituire la seta, la fibra più nobile.
L’invenzione di Chardonnet fu il punto di partenza per la produzione di altre tre fibre che avevano come materia prima naturale la cellulosa: il raion cuproammoniacale, il raion viscosa e il raion acetato. In realtà, se la preparazione della cellulosa si ferma prima che questa diventi una sostanza pura, il materiale ottenuto ha proprietà che dipendono dalle piante di provenienza e che possono favorire l’uno o l’altro dei tre processi in competizione. Dato che l’industria rifugge (se possibile) dai costi di purificazione, i tre processi rimasero contemporaneamente sul mercato, e ciascuno di essi prevalse in determinate zone, a seconda delle condizioni locali di produzione della cellulosa e della maggiore o minore facilità di importazione di un certo tipo di cellulosa. Tuttavia è indubbio che a livello mondiale il raion viscosa ebbe la supremazia quantitativa.
Il periodo d’oro del raion – nelle sue diverse versioni – fu tra le due guerre mondiali. Anche in Italia vi fu una vera corsa per partecipare allo sviluppo vertiginoso di questo mercato, con ben nove società che si costituirono fra il 1924 e il 1925 per produrre il raion viscosa.
In effetti, la produzione di raion in Italia era iniziata nel primo decennio del secolo, con diverse imprese che impiegavano il metodo Chardonnet, ancora di successo, ma destinato a essere soppiantato dagli altri processi. Dopo la Prima guerra mondiale e fino alla crisi economica del 1929, il mercato italiano fu dominato da un’azienda fondata nel 1922 da Riccardo Gualino (1879-1964), la SNIA Viscosa (Società Nazionale Industria e Applicazioni), che giunse a essere uno dei massimi produttori mondiali di raion. Interessante figura di imprenditore e di mecenate, Gualino era un ‘irregolare’, sia nella disinvolta gestione finanziaria dell’azienda sia nei difficili rapporti con il regime fascista, e il 28 gennaio 1930 fu costretto alle dimissioni dalla carica di presidente della SNIA, il cui portafoglio azionario era stato gravemente colpito dal crollo in borsa del valore dei titoli. Fin dal 1926-27 la maggioranza delle azioni della SNIA era stata detenuta dalla britannica Courtaulds e dalla tedesca Glanzstoff, con una partecipazione della banca d’affari Hambro’s, così a succedere a Gualino fu chiamato Senatore Borletti (1880-1939), imprenditore del settore tessile e cognato del rappresentante della Glanzstoff nel consiglio di amministrazione della SNIA. Direttore centrale venne nominato Franco Marinotti (1891-1966), e la Glanzstoff apportò alla SNIA un know-how già collaudato durante la Prima guerra mondiale, quando in Germania si era cercato un sostituto del cotone: con il contributo del chimico Emil Bronnert e dell’ingegnere Eduard Boos, nel 1916 era iniziato l’impiego di fiocco di raion (Stapelfaser in tedesco). Nel 1936 l’Italia occupava il primo posto nel mondo per la produzione di fiocco di raion, con 50.000 t su 130.000.
La nascita della chimica macromolecolare e la gomma sintetica
La chimica accademica aveva seguito con un certo distacco il crescente uso industriale della cellulosa per produrre fibre e del caucciù per produrre pneumatici e materiali isolanti. Cellulosa e caucciù erano sostanze intrattabili con le usuali tecniche della chimica organica, e quindi non promettevano risultati interessanti.
Il problema della costituzione di queste sostanze misteriose fu affrontato magistralmente da Hermann Staudinger (1881-1965), un chimico tedesco già affermatosi come chimico organico ‘classico’. Nel 1922, con dati sperimentali incontrovertibili Staudinger dimostrò l’esistenza nel caucciù di molecole più grandi delle usuali molecole organiche per diversi ordini di grandezza. Egli le chiamò Makromolecüle, e ciò segnò l’inizio della chimica macromolecolare. Per molti anni Staudinger rimase completamente isolato dal resto della comunità dei chimici tedeschi, che avversavano le sue idee ‘bizzarre’ sull’esistenza di molecole gigantesche, ma proseguì le sue ricerche con l’aiuto potente di tre grandi aziende, la BASF (Badische Anilin- und Soda Fabrik), la Bayer e la Höchst, che nel 1925, insieme con altre società, confluirono nel conglomerato IG Farben (Interessen-Gemeinschaft Farbenindustrie). Staudinger condusse quindi una battaglia accademicamente solitaria, ma con un impressionante retroterra di rapporti con l’industria.
Negli Stati Uniti, dalla fine degli anni Venti un contributo cruciale allo sviluppo della chimica macromolecolare venne da Wallace H. Carothers (1896-1937), un abilissimo chimico organico che lavorava nei laboratori della Du Pont. Sulla base dei lavori di Carothers e dei suoi collaboratori la Du Pont avviò la produzione del nylon, una fibra poliammidica. I primi prodotti fabbricati con il nuovo materiale furono degli spazzolini da denti con setole di nylon, messi in commercio nel febbraio del 1938.
In Germania, i chimici della IG Farben avevano già scoperto nel 1929 il Buna S, nome commerciale di un copolimero di butilene e stirene, in grado di sostituire il caucciù nei pneumatici; ma, seguendo un percorso di ricerca e di sviluppo abbastanza contorto, soltanto il 20 aprile 1939 (il giorno del compleanno di Adolf Hitler) fu inaugurato il primo grande impianto, a Schkopau in Sassonia.
L’Italia dell’autarchia non rimase estranea a questa prospettiva strategica, di grande interesse militare. Nel settembre 1939, appena dopo lo scoppio del conflitto, la Pirelli e l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) costituirono, per produrre gomma sintetica a partire da butadiene, la Società anonima industria gomma sintetica (SAIGS). Questa azienda operò in due stabilimenti, a Terni e a Ferrara. Nella città umbra il butadiene si sarebbe dovuto ottenere a partire dal carburo di calcio, con l’acetilene come intermedio; nel 1943 era ormai in funzione la linea di produzione dell’acetilene, ma il precipitare degli eventi bellici bloccò tutto. Le cose andarono meglio a Ferrara. Dal giugno 1937 Natta, allora giovane ingegnere chimico, era diventato consulente della Pirelli con un contratto «per studi riguardanti la fabbricazione della gomma sintetica butadienica». La separazione del butilene dal butadiene messa a punto da Natta fu sviluppata a livello industriale nello stabilimento di Ferrara della SAIGS, che risultò essere l’unico impianto italiano in grado di produrre elastomeri sintetici a partire dall’alcool di fermentazione. Nel corso della guerra furono prodotte a Ferrara circa 13.000 t di gomma sintetica.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti, si deve dire che solo dopo la loro entrata in guerra (dicembre 1941) fu avviata la produzione di gomma sintetica, una mossa resa obbligata dalla rapida occupazione giapponese di tutte le zone di produzione del caucciù. Con una velocità enormemente accelerata dalle necessità belliche, nacque un settore industriale nuovo e di dimensioni colossali. La produzione di gomma sintetica richiese l’avvio di impianti per la produzione di etilene da craking di petrolio per centinaia di migliaia di tonnellate all’anno, e l’enorme richiesta di carburanti speciali per l’aviazione permise di migliorare la capacità di ottenere dal petrolio le più varie miscele di composti utili. Nel 1945 l’industria chimica organica statunitense utilizzava ormai più i derivati del petrolio che quelli del carbone.
Giulio Natta e la scoperta del polipropilene
Natta nacque a Porto Maurizio (ora Imperia) nel 1903. Studiò ingegneria chimica al Politecnico di Milano, dove iniziò lo studio dei cristalli con i raggi X, e nel 1929, basandosi sulla correlazione fra struttura cristallina degli ossidi e attività catalitica, infranse il monopolio che l’industria chimica tedesca deteneva sulla sintesi del metanolo. Nel 1932, poco prima di salire in cattedra, fruì di una borsa della Fondazione Alessandro Volta per studiare in Germania, e a Friburgo, nel laboratorio del fisico Hugo Seemann, apprese le tecniche di diffrazione elettronica; in quella città conobbe anche Staudinger. Salito in cattedra dal 1933, dopo essere stato in diverse sedi nel 1939 fu sollecitato dal rettore del Politecnico di Milano a ricoprire la cattedra di chimica industriale che era stata di Mario Giacomo Levi, colpito dalle leggi razziali (la cattedra era già stata presa di mira da carrieristi ben introdotti nel regime). Della sua partecipazione allo sviluppo della produzione di gomma sintetica si è appena detto.
Alla fine della guerra, Natta aveva 43 anni, era nel pieno del vigore scientifico e aveva accumulato una grande esperienza nel gestire il non facile raccordo fra ricerca di laboratorio e innovazione industriale. Fu nel clima appassionato della ricostruzione postbellica che si strinse il rapporto fra Natta e l’imprenditore Pier Candiano Giustiniani (1900-1988). Questi, che aveva compiuto studi di ingegneria a Napoli, nel 1924 era entrato alla Montecatini, di cui tra il 1933 e il 1940 aveva diretto diversi comparti; tra il 1940 e il 1942 era stato a capo di due imprese controllate dalla Montecatini e appartenenti ai settori più impegnativi della chimica organica fine, Farmitalia e Società dinamite Nobel, e tra il 1942 e il 1945 era stato direttore generale della Montecatini. Nell’immediato dopoguerra Giustiniani, ‘epurato’ e allontanato dalla Montecatini, andò a dirigere lo stabilimento di Terni della SAIGS, che allora era ancora proprietà dell’IRI e della Pirelli e che nel 1949 fu acquisito dalla Montecatini insieme allo stabilimento di Ferrara. Giustiniani iniziò con Natta un dialogo serrato su una questione strategica: se fosse possibile seguire il ‘modello tedesco’, ovvero utilizzare l’acetilene (già prodotto a Terni) per produrre elastomeri, il cui mercato era destinato a crescere enormemente. Nell’estate del 1947, Natta e Giustiniani (nel frattempo rientrato alla Montecatini come amministratore delegato) compirono un viaggio di due mesi negli Stati Uniti, visitando impianti e laboratori pubblici e privati, e scoprirono che in quel Paese l’industria chimica organica era diventata un’industria ‘petrolchimica’ e che veniva fatto un uso impressionante delle tecniche chimico-fisiche più avanzate.
Appena rientrati in Italia, Giustiniani e Natta strinsero un inedito accordo di collaborazione strategica, che si concretò nell’apertura, presso l’Istituto di chimica industriale del Politecnico di Milano, di un centro di ricerca avanzata finanziato dalla Montecatini, e il cui tratto più interessante era rappresentato da una significativa presenza di ricercatori dipendenti da quella azienda ma coordinati da Natta.
Nel 1952 si realizzò l’incontro, poi risultato decisivo, fra Natta e il chimico tedesco Karl Waldemar Ziegler (1898-1973). Durante un convegno a Francoforte, Natta ascoltò una conferenza di Ziegler su una reazione che permetteva di ottenere dei bassi polimeri dell’etilene ‘lineari’; ne fu impressionato, perché da tempo lavorava sul nesso fra stato solido e linearità dei polimeri. Quindi convinse Giustiniani a invitare Ziegler a Milano, dove fu firmato un accordo in base al quale la Montecatini acquistava i diritti per lo sviluppo industriale in Italia delle scoperte di Ziegler, e Natta otteneva l’accesso agli studi che erano alla base di tali scoperte. Un anno dopo giunse a Milano la notizia che Ziegler aveva ottenuto del polietilene lineare usando temperatura e pressione non elevate; ma Natta e Piero Pino (1921-1989), suo collaboratore e ottimo chimico organico, erano più interessati alla gomma sintetica che ad altri materiali plastici, così il propilene fu il monomero scelto per le ricerche ‘esplorative’ da condurre nel loro laboratorio. L’11 marzo 1954 fu ottenuta una polvere bianca, cristallina e con alto punto di fusione. Il giorno dopo, un diagramma di diffrazione ottenuto da Paolo Corradini con i raggi X confermava un alto grado di cristallinità. L’interpretazione degli spettri di diffrazione portò alla scoperta straordinaria di un ordine totalmente inaspettato, preludio di possibili materiali con proprietà straordinarie.
Tutto il laboratorio di Natta fu mobilitato, con un lavoro duro e disciplinato, e dopo pochi mesi furono spedite le prime richieste di brevetti. Nel dicembre 1954 Natta presentò i principali risultati all’Accademia dei Lincei, e in seguito mandò alla più nota rivista statunitense di chimica una breve lettera (firmata anche dai suoi principali collaboratori) in cui, tra l’altro, proponeva di denominare isotattici i polimeri appena scoperti (G. Natta, P. Pino, P. Corradini et al., Crystalline high polymers of-α olefins, «Journal of the American chemical society», 1955, 6, pp. 1708-10). All’inizio del 1955, nello stabilimento di Ferrara della Montecatini entrò in funzione un primo impianto pilota per la produzione del polipropilene.
L’impatto di questi avvenimenti sulla comunità scientifica internazionale fu notevolissimo e protratto nel tempo, perché il gruppo di Milano pubblicò oltre 1200 articoli (Natta ne firmò 540) e ottenne circa 500 brevetti. Un’intensa e prolungata collaborazione fra mondo accademico e mondo economico, insolita nel panorama italiano, fece sì che alla scoperta dei polimeri isotattici seguisse un trionfo scientifico e tecnologico. Nel 1962 la produzione mondiale del polietilene ad alta densità di Ziegler e del polipropilene di Natta raggiunse le 250.000 t; l’anno successivo i due scienziati ricevettero congiuntamente il premio Nobel per la chimica.
Uno sviluppo scientifico e tecnologico prodigioso
È importante analizzare la fase di industrializzazione dei polimeri isotattici, perché è proprio in questa fase che gli esiti della ricerca giunsero a compimento e che l’impresa protagonista dimostrò di essere in grado di realizzare una vera innovazione tecnologica. Gli scenari dell’industrializzazione del polipropilene furono due, a Ferrara e a Terni, due localizzazioni di impianti che, come abbiamo visto, risalivano alle scelte del regime fascista per la preparazione della guerra. Nel 1949 la Montecatini (con i fondi del piano Marshall) aveva rilevato i due stabilimenti, e nel 1951 aveva costituito la società Polymer, per la produzione di materiali polimerici, resine e fibre. Entrambi gli insediamenti erano dotati di laboratori e, in particolare nel centro ricerche annesso allo stabilimento di Terni, si cominciarono a studiare fibre della più diversa natura chimica (poliestere, fibre acriliche, fibre poliviniliche).
I due amministratori delegati della Montecatini, Giustiniani e Carlo Faina, reagirono rapidamente alla scoperta del polipropilene, e nel settembre 1955, a pochi mesi di distanza dall’entrata in funzione del primo impianto pilota, formularono un programma di sviluppo che tra l’altro prevedeva l’ingresso sul mercato più difficile, quello degli Stati Uniti. Precise direttrici furono assegnate ai centri di ricerca di Ferrara e di Terni, il cui lavoro fu intensissimo, in quanto la Montecatini avviò la produzione del polipropilene nel 1957 e il lancio commerciale iniziò nel 1958. Giustamente Pier Paolo Saviotti (1990) ha scritto:
Il periodo di quattro anni intercorso tra la scoperta e il lancio commerciale del polipropilene, ne fa uno degli sviluppi più rapidi di tutta la storia dell’industria chimica (p. 392).
La complessità dell’impegno scientifico e tecnologo di quegli anni è ben descritta nelle testimonianze dei ricercatori che vi svolsero ruoli importanti. Giorgio Mazzanti, uomo di punta del gruppo di Natta, ha descritto (2003) le nuove produzioni che si dovevano sviluppare, prima a livello di impianto pilota e poi a livello industriale:
Gli alluminioalchili ([i catalizzatori] con tutta la loro pericolosità), il nuovo polietilene [di Ziegler], il polipropilene isotattico, le fibre e i film di polipropilene e le gomme etilene-propilene (p. 27).
Fabio Garbassi, dell’Istituto Donegani di Novara, ha illustrato (2006) le molte ramificazioni dell’innovazione industriale: a Ferrara le ricerche spaziavano
dal sistema catalitico al meccanismo di reazione, dagli impianti pilota agli studi chimico-fisici sul materiale, dalla messa a punto delle tecnologie di trasformazione del polipropilene allo studio di nuovi materiali derivati in vario modo dal prodotto di base (leghe, copolimeri, polimeri funzionalizzati, ecc.) (p. 144).
Verso la metà del 1954, giunse al centro ricerche di Terni la notizia della grande scoperta del gruppo di Natta. Nel lavoro svolto a Terni, cogliamo quanto sia astratto il termine scoperta rispetto alla materialità di ciò che è stato scoperto. Paolo Maltese, Paolo Olivieri e Francesco Protospataro (2003) hanno descritto molto bene come affrontarono alcuni aspetti di questa materialità:
Il polimero era molto polverulento, con frazioni di dimensioni molto esigue, inferiori a 5 micron, difficilmente gestibili, con tendenza ad accumularsi nei punti morti degli impianti pilota, subendo a caldo una degradazione termossidativa, che, in alcune occasioni, innescò esplosioni delle nubi di polvere che si formavano nell’essiccatore pilota. [...] A queste difficoltà si fece fronte, dopo una lunga ricerca, mediante un processo definito di prepolimerizzazione, che fornì polvere di granulometria molto maggiore e soprattutto controllata che risultò particolarmente adatta, oltre che alla gestione del polimero, anche alla sua miscelazione con gli additivi e i pigmenti necessari alla colorazione della fibra (p. 35).
Si può aggiungere che agli oggetti ‘di plastica’ si applicò il marchio Moplen® (sviluppato a Ferrara) e alle fibre il marchio Meraklon®, dopo una serie di procedimenti che trasformavano il materiale industriale in merce, con un valore d’uso completamente diverso da quello di partenza.
Gli impianti iniziali di Ferrara utilizzavano su scala industriale lo stesso sistema di reazione in soluzione impiegato da Natta. L’uso di soluzioni poneva il problema del riciclo del solvente, ed era un ostacolo all’aumento di dimensioni degli impianti, che avrebbe portato a risparmi di scala. Un passo in avanti fu fatto utilizzando lo stesso propilene in fase liquida e il polimero in sospensione; rimanevano i problemi di scalabilità, che furono infine risolti con l’impiego di catalizzatori che permettevano la crescita dei polimeri in un flusso di propilene gassoso. La tecnologia della polimerizzazione in fase gassosa fu studiata negli anni Settanta e portata a livello industriale negli anni Ottanta.
Il riverbero sulla ricerca accademica
Anche senza la scoperta del polipropilene, in Italia la chimica macromolecolare si sarebbe comunque sviluppata, proprio per il suo stretto rapporto con la produzione dei materiali sintetici che stavano invadendo i mercati di tutto il mondo. Ovviamente, la spinta poderosa partita dal laboratorio del Politecnico di Milano portò a una fioritura di centri del CNR (Centro Nazionale delle Ricerche) di chimica macromolecolare; più in generale, anche gli accademici e il ceto politico cominciarono a prendere maggiormente sul serio il rapporto fra ricerca di base e innovazione tecnologica. Gli esiti di questa maggiore ‘serietà’ non furono però felicissimi.
Nel 1970, Vincenzo Caglioti (1902-1998), chimico di prestigio e presidente del CNR, auspicò un incremento della ricerca applicata. Nel 1972, come presidente del CNR a Caglioti successe il matematico e informatico Alessandro Faedo, che intendeva favorire la prospettiva dei cosiddetti progetti finalizzati (PF). Nel 1973 i comitati del CNR esaminarono circa 75 proposte di PF, e ne selezionarono una cinquantina; nell’ottobre 1975 arrivò l’approvazione dei progetti selezionati da parte del Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE). Nel nostro contesto, interessano in particolare le vicende del progetto ‘chimica fine e secondaria’.
La cronologia dello sviluppo di questo progetto è lunga e complicata. Entro l’aprile 1977 erano state formulate oltre 600 proposte di ricerca: è una cifra che indica una terribile frammentazione, che sarà poi confermata quando diventeranno operative 673 unità di ricerca. Nell’ottobre 1977 furono prescelti e organizzati quattro settori (nuove sintesi, materiali polimerici, prodotti con attività biologica, metodologie), ma si dovette arrivare al secondo semestre del 1980 prima che il progetto diventasse esecutivo. Erano passati quasi cinque anni dall’approvazione dei primi progetti da parte del CIPE.
Le cause di tale ritardo furono molte, ma forse la più importante fu la sostanziale impreparazione della comunità accademica ad affrontare la sfida di una ricerca finalizzata alla produzione materiale. Ezio Martuscelli era allora responsabile, a Napoli, di un centro ricerca del CNR sulla chimica macromolecolare, e aveva pubblicato analisi e proposte estremamente interessanti. Così scriveva all’epoca (1976):
Quasi mai gli studi che si compiono possono definirsi veramente orientati o finalizzati, poiché non hanno come obbiettivo un oggetto, ma piuttosto una disciplina che è quella dei polimeri. [...] [L]e proprietà che vengono studiate non sono quelle che realmente vengono richieste come requisiti affinché tali materiali possano essere utilizzati in una società costruita dall’uomo (pp. 279 e 280).
Le parole in corsivo sottolineano ancora una volta la differenza tra una sostanza e un materiale, non soltanto dal punto di vista quantitativo (grammi contro tonnellate), ma anche per le proprietà fisiche e chimico-fisiche che si chiedono a un materiale. Per fare le opportune prove, per es. quelle di trasparenza di un film, si deve ottenere dal materiale una ‘cosa’ (un campione), che anche dal punto di vista oggettuale è qualcosa di assolutamente distinto dalla sostanza. Un materiale è prodotto per finalità d’uso, e le finalità di studio sono solo provvisorie e preliminari.
I risultati scientifici del progetto ‘chimica fine e secondaria’ furono buoni, in contrasto con quelli applicativi, piuttosto mediocri. Nella sua relazione conclusiva tenuta a Milano nel novembre del 1985, Martuscelli, divenuto responsabile del sottoprogetto ‘materiali polimerici’, fra le difficoltà incontrate citò «l’instabilità e l’insicurezza derivate da processi di ristrutturazione e di scorporamento» nei «centri di ricerca delle industrie interessate a processi di riorganizzazione, di joint ventures e di acquisizioni» (Martuscelli 1986, p. 65; su questo si veda oltre). Ma è a proposito della collaborazione con il PF sui trasporti che Martuscelli scrisse delle frasi illuminanti:
I risultati di questa collaborazione [...] sono stati poco fruttuosi e alla fine praticamente la collaborazione è andata man mano scadendo. [...] Si è avuta l’impressione che l’industria italiana del settore auto abbia in scarsa considerazione la ricerca di nuovi materiali (p. 66).
Nella nostra cronologia siamo a metà degli anni Ottanta e l’impermeabilità del settore auto di fronte ai nuovi materiali appare sorprendente.
La ‘guerra chimica’ e il fallimento di una classe dirigente
La posizione che l’industria chimica italiana aveva conseguito nella produzione dei materiali sintetici era difficile da mantenere, data la competizione internazionale, però ancora a metà degli anni Sessanta – malgrado le difficoltà finanziarie – nessuno poteva prevedere la fine prematura della grande industria della chimica organica in Italia. Si tratta di una storia torbida, che qui non possiamo evitare di trattare perché nella fase più drammatica si incardinò proprio sulla produzione dei materiali sintetici.
Tutto ebbe inizio nel 1962, con la nazionalizzazione dell’industria elettrica e l’istituzione dell’ENEL (Ente Nazionale per l’energia ELettrica). La situazione finanziaria della Montecatini era delicata, e Faina era orientato verso un suo passaggio più o meno completo al settore pubblico. Da parte sua, Giorgio Valerio, allora direttore amministrativo e consigliere delegato (e dal 1965 amministratore delegato e presidente) dell’azienda elettrica Edison, era ancora incerto sulla destinazione degli ingenti capitali che avrebbe ricevuto come indennizzo per la nazionalizzazione, e pensava a un accordo con l’azienda automobilistica statunitense Ford che permettesse all’Edison di entrare nel mercato dell’auto in Italia e in Europa. All’interno della Montecatini, nel 1963 Giustiniani venne esautorato, e nel 1965 Giorgio Macerata, uno dei nuovi amministratori delegati, partecipò a un incontro a San Francisco con Valerio, Gianni Agnelli e Leopoldo Pirelli: con la complicità di Macerata, i rappresentanti delle due ‘grandi famiglie’ dell’industria italiana non stentarono a convincere Valerio a cambiare la precedente scelta strategica e ad acquisire la Montecatini.
Nacque così (ma con gravi contraddizioni interne) una nuova società, denominata Montecatini Edison (d’ora in poi chiamata in questo saggio Montedison, il nome ufficiale che l’azienda assunse dal 1970); il 7 luglio 1966 Valerio ne divenne amministratore delegato. In questo modo si era ottenuto che la Montecatini rimanesse fuori dal sistema delle partecipazioni statali, ma alcune parti politiche imposero che fossero troncate tutte le relazioni internazionali intessute dai due partner della fusione. Fu una scelta sciagurata, che si rivelerà estremamente onerosa dal punto di vista finanziario. La dirigenza della Montecatini fu decapitata e sostituita dalla dirigenza dell’Edison, che aveva una ben diversa tradizione per quanto riguardava l’innovazione tecnologica in campo chimico e propendeva per l’acquisto di know-how esterno all’impresa. In definitiva, la fusione provocò una strage di competenze tecnologiche e di capacità di ricerca.
Nel 1968, contro la Montedison si mossero i ministri del Tesoro e delle Partecipazioni statali: due aziende dipendenti da questi ministeri, l’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi) e l’IRI, acquisirono il 18,4% delle azioni della Montedison, e ne assunsero quindi il controllo. Il primo manager ‘pubblico’ della Montedison fu Cesare Merzagora, che tentò, senza alcun successo, di razionalizzare la mastodontica struttura della nuova impresa; nel maggio 1971, alla guida dell’azienda lo sostituì Eugenio Cefis, già presidente dell’ENI. E non era finita. Il pendolo dal ‘privato’ al ‘pubblico’ invertì ancora una volta l’oscillazione in seguito a una manovra puramente finanziaria condotta da Mediobanca e da gruppi privati, fra cui Fiat e Pirelli. Infatti, nel dicembre 1982 il CIPE approvò una spartizione fra ENI e Montedison delle produzioni che qui ci interessano maggiormente: all’ENI toccarono etilene e cracking, polietilene, polivinilcloruro, elastomeri e il settore ABS (acrilonitrile-butadiene-stirene), mentre alla Montedison rimasero il polipropilene e il polistirolo. La spartizione portò a scorporare produzioni di centinaia di migliaia di tonnellate, grandi impianti, laboratori di ricerca, edifici. Avvenne, com’è facilmente immaginabile, una demolizione massiccia delle competenze di cui fruivano gli impianti, i laboratori, i reparti amministrativi. Un dramma per la ricerca e per l’occupazione operaia, a cui si aggiunse il fatto che da qualche tempo si era conclusa in un vero disastro la ‘guerra chimica’ fra Cefis e l’imprenditore privato Nino Rovelli.
Le imprese di Rovelli erano tecnologicamente molto avanzate, mentre dal punto di vista finanziario erano un incubo. Nel 1948 Rovelli aveva acquisito la Società italiana resine (SIR) e nel 1959 fondò a Porto Torres la sua prima impresa sarda, la Sarda industria resine. Nel 1970 aveva nell’isola ben 50 imprese, perché, non potendo fruire di un unico finanziamento statale per una sola grande società, ne aveva impiantato decine, che poi funzionavano in modo integrato. Aveva avuto come sponsor politico Giulio Andreotti, e avrebbe voluto proseguire l’invasione della Sardegna con un triplice insediamento nelle sue zone interne, per una produzione di 30.000 t/a di fibre in poliestere e 35.000 t/a di fibre acriliche. L’uomo da opporre a Rovelli non poteva essere che Cefis, e le diverse correnti interne della Democrazia cristiana e del Partito socialista si posero dalla parte dell’uno o dell’altro.
Cefis rispose alle pressioni politiche insediando nella Sardegna centro-settentrionale, nelle vicinanze di Ottana (proprio uno dei tre siti scelti da Rovelli), due grandi impianti, uno per la produzione di polimero acrilico e l’altro per le fibre; il progetto era stato elaborato in appena due giorni. Nel 1970 furono così avviati gli impianti della Chimica del Tirso (per il 51% di proprietà dell’ANIC – Azienda Nazionale Idrogenazione Combustibili, dipendente dall’ENI – e per il 49% della Montedison) e nel 1971 quelli della Fibra del Tirso (50% ANIC, 50% Montedison), per una produzione rispettivamente di 50.000 t/a di fibre acriliche (know-how della Montedison) e di 50.000 t/a di fibre in poliestere (know-how dell’azienda chimica giapponese Toray industries).
L’esito infelice di questa ‘guerra chimica’ non fu dovuto soltanto all’attacco di Cefis, pronto a violare qualsiasi criterio di programmazione regionale e nazionale: infatti risultò che Rovelli si era indebitato al di sopra di ogni margine di sicurezza. Il 2 dicembre 1977 vi fu contro Rovelli un intervento giudiziario, che poi si risolse in un nulla di fatto dal punto di vista penale. Però ciò che successe a livello strutturale fu veramente grave, perché grandi impianti furono venduti a prezzo di rottame, e la rottamazione di una industria di avanguardia è qualcosa di assurdo. Contestualmente, il 18 aprile 1977 Cefis diede le dimissioni da presidente della Montedison e alla fine di quell’anno si ebbe la chiusura delle due aziende di Ottana, con 65 miliardi di lire di perdite.
Poco più sopra si è accennato alla ‘privatizzazione’ della Montedison del 1982, ma pochi anni dopo, nel 1986, vi fu un ulteriore cambio di proprietà: il controllo dell’azienda fu infatti assunto dall’imprenditore privato Raul Gardini, presidente del gruppo Ferruzzi. Diventava così possibile, sulla carta, unire in una ‘cultura mista’ il colosso agro-industriale Ferruzzi con le grandi produzioni della Montedison, dal polipropilene ai prodotti per l’agricoltura di Agrimont. La storia fu invece ben diversa. Nel 1989 nacque l’azienda chimica Enimont, un’impresa ‘posticcia’ voluta anche da Gardini. Durante la sua brevissima esistenza avvenne la cessione di tutte le attività chimiche Montedison all’ENI (con gravissimi episodi di corruzione), e la Montedison si ritrovò a operare ormai come holding finanziaria e non più come grande impresa chimica.
Sui criteri imprenditoriali all’opera in quella occasione rimandiamo a Fabio Garbassi (2006), che racconta come, nel giugno 1988, la Montedison di Gardini attuasse un vertiginoso giro di poltrone presidenziali e venisse creata ad hoc la società Raggruppamento materiali compositi e avanzati (RMCA). La direzione della RMCA fu affidata a Giovanni Di Drusco, rimosso dal posto di amministratore delegato della Himont – una joint venture tra la Montedison e la statunitense Hercules –, che egli aveva portato al successo introducendovi la tecnologia della polimerizzazione del polipropilene in fase gassosa. La RMCA era una strana entità, costituita da piccole società del gruppo Montedison impegnate sui materiali compositi e da alcuni progetti strategici dell’Istituto Donegani sui compositi termoplastici e i polimeri liquido-cristallini. Il tutto ebbe vita difficile e non andò meglio per gli esiti applicativi del programma nazionale di ricerca sui compositi termoplastici per il settore dei trasporti, lanciato nel maggio 1994. Come ha scritto Garbassi, allora direttore del progetto, «semplicemente il meccanismo così com’era non poteva funzionare» (p. 126). Sulla base della sua trentennale esperienza di ricerca e sviluppo, Garbassi afferma che la decisione di usare i compositi termoplastici per un componente di automobile o di aereo dipendeva solo in minima parte dai fattori tecnici e finanziari intrinseci alla proposta di innovazione, perché intervenivano ben altre considerazioni imprenditoriali, «tutto un contesto di strategie, di situazione di concorrenza, di accettazione da parte degli utenti, di soluzioni alternative» (p. 126).
Alle soglie del 2000, non vi era ormai più nessuna impresa italiana fra le prime dieci produttrici di polipropilene nel mondo. Incalcolabile era stato lo spreco di risorse scientifiche e tecnologiche dovuto alla ‘guerra chimica’ e alle successive grandi manovre finanziarie. Politici, imprenditori pubblici e privati, finanzieri, grands commis dello Stato, e anche qualche accademico, al di là delle intenzioni – più o meno buone – avevano portato alla rovina una parte cospicua dell’industria chimica italiana, si erano dimostrati incapaci di gestire il complesso rapporto fra scienza e innovazione, e avevano segnato così il fallimento di un’intera classe dirigente.
Sicurezza negli impianti, inquinamento e salute dei lavoratori
L’industria dei materiali sintetici è la spina dorsale dell’industria chimica, e da decenni si discute sul rapporto fra industria chimica e tutela di ambiente, sicurezza e salute. Su alcuni casi concreti cercheremo ora di misurare i ‘tempi di reazione’ della nostra classe dirigente nell’affrontare questo rapporto, di enorme interesse sociale ed economico.
Il 10 luglio 1976, nello stabilimento dell’ICMESA (Industrie Chimiche MEda Società Azionaria) – situato poco a Nord di Milano, tra Meda e Seveso –, da un reattore fuori controllo per un inaspettato e forte innalzamento termico si sprigionò una nube di vapori che solo dopo tre-quattro giorni dimostrarono tutta la loro pericolosità, con un’estesa moria di animali domestici e selvatici di piccola taglia. Passarono ancora alcuni giorni prima che si verificassero i primi casi di intossicazione fra la popolazione, e soltanto il 24 agosto il sindaco di Meda emanò un’ordinanza contenente misure di emergenza. L’inadeguatezza degli impianti, i silenzi e l’ignoranza dei dirigenti dello stabilimento, i colpevoli ritardi delle autorità locali e nazionali nell’avvisare e proteggere la popolazione (in parte poi costretta a un trasferimento coatto), la gravità delle conseguenze sanitarie ed economiche, tutti questi aspetti divennero paradigmatici degli esiti negativi di un colpevole vuoto legislativo. Un’analisi dettagliata degli eventi, condotta anche sul medio e lungo periodo, porta alla luce un fronte composito di fattori diversi, che abbracciano sanità e salute pubblica, ambiente e gestione degli ecosistemi, alimentazione e cicli alimentari, scelte allocative nel territorio, adempimenti legislativi e norme tecniche, aspetti economici e sociali, questioni giuridiche e processuali correlate ai danni civili e penali dei responsabili. Non si può negare che si tratta di un elenco impressionante, che avrebbe dovuto richiamare qualsiasi autorità competente alle proprie responsabilità. A seguito di questo incidente, ma con il ‘dovuto’ ritardo, la Comunità europea emanò nel 1982 la cosiddetta direttiva Seveso I (la 82/501/ CEE), sul «controllo dei pericoli di incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose». L’Italia rimase inadempiente a lungo, e la direttiva fu recepita soltanto nel 1988, ben dodici anni dopo i fatti dolorosi di Seveso.
La seconda vicenda che prendiamo in considerazione riguarda direttamente la salute dei lavoratori di un settore chiave dell’industria dei materiali sintetici, quello del polivinilcloruro (PCV). I primi casi di acroosteolisi (una malattia degenerativa delle ossa) furono segnalati nel 1964 fra gli addetti alla polimerizzazione del cloruro di vinile monomero (CVM) negli impianti della statunitense Goodrich; successivamente venne indicata una possibile connessione fra l’esposizione al CVM e l’insorgere di fenomeni cancerogeni. Nel 1970 la Montedison avviò una ricerca sulla cancerogenicità del CVM, e nel novembre 1972 i produttori europei e statunitensi furono informati in modo riservato del fatto che un’esposizione a 250 ppm (parti per milione) era sufficiente per l’insorgenza del cancro a livello di fegato e reni. Nel 1973 l’Organizzazione mondiale della sanità riconobbe gli effetti cancerogeni del CVM; è questa una data cruciale, perché segnerà uno spartiacque nel campo delle responsabilità civili e penali dei dirigenti che avrebbero dovuto proteggere la salute dei lavoratori delle loro aziende.
Nel 1994, un operaio dello stabilimento della Montedison di Porto Marghera presentò alla Procura della Repubblica di Venezia un esposto in cui chiedeva l’intervento della magistratura perché indagasse sulla nocività dei processi produttivi, sull’assoluta mancanza di sicurezza per i lavoratori e sulle responsabilità dei dirigenti. Il 16 ottobre 1996 la Procura della Repubblica di Venezia chiese il rinvio a giudizio dei dirigenti della Montedison con terribili imputazioni: strage, omicidio e lesioni colpose multiple per la morte da tumore di 157 operai addetti alla lavorazione del CVM e PVC; disastro colposo per l’inquinamento della laguna. Con un’altalena di assoluzioni e condanne, si giunse fino alla sentenza della Corte di cassazione nel 2006, che confermò le sentenze di condanna pronunciate nel 2004 nei confronti di tre amministratori delegati della Montedison, di un suo direttore generale centrale e del suo responsabile medico-sanitario nazionale. Le condanne erano state a un anno e mezzo di reclusione per un singolo omicidio colposo nei confronti di un operaio morto di angiosarcoma epatico nel 1999; erano stati prescritti sette omicidi colposi precedenti (sempre causati da angiosarcoma), gli scarichi inquinanti nella laguna e l’omessa collocazione di impianti di aspirazione dal 1974 al 1980 (un fatto gravissimo, questo, da ‘imprenditori’ irresponsabili); infine, gli ex dirigenti erano stati assolti, perché il fatto non costituiva reato, dall’accusa di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro fino a tutto il 1973.
Il terzo caso esaminato riguarda il codice di autocontrollo dell’industria chimica e la tragedia alla sua origine. Il 3 dicembre 1984, da uno stabilimento dell’azienda chimica statunitense Union carbide situato a Bhopal, in India, fuoriuscirono tonnellate di gas tossici che uccisero in poco tempo 2259 persone e ne avvelenarono altre decine di migliaia. Le autorità governative indiane avrebbero fornito nel 1991 la cifra ufficiale di 3787 morti direttamente correlate all’evento. L’immagine pubblica dell’industria chimica, già da anni compromessa, ebbe un crollo e – finalmente – le associazioni di categoria cominciarono a muoversi.
Nel 1985 la canadese CCPA (Canadian Chemical Producers Association) lanciò un programma di autocontrollo che comportava l’obbligo di rispettare condotte ottimali in tutte le operazioni di trasporto, distribuzione, produzione, ricerca e sviluppo, gestione dei rifiuti pericolosi. Il programma di autocontrollo fu battezzato Responsible care. Tre anni dopo, nel 1988, la statunitense CMA (Chemical Manufacturers Association) fece proprie le linee guida di Responsible care; nel 1989 il programma fu adottato dall’europea ECIC (European Chemical Industry Council) e nel 1992, finalmente, dall’italiana Federchimica.
È evidente dalle date che gli imprenditori chimici italiani attesero per sette anni che si sviluppasse una specie di lunga ‘catena di comando’ prima di darsi un codice di autocontrollo. L’adesione delle imprese chimiche italiane a Responsible care fu quindi lenta, e a distanza di oltre vent’anni non coinvolge ancora tutte le aziende, ma solo una parte di esse, comunque le più importanti, dato che producono il 57% del fatturato nazionale; queste aziende, peraltro, rispetto alle altre hanno un numero di infortuni per milione di ore lavorate molto più basso. La caduta di questo indice a livello nazionale – da 27,1 nel 1989 a 8,4 nel 2011 – dimostra l’efficacia di Responsible care. Va anche aggiunto che, sul piano della sicurezza degli impianti, l’industria chimica nel suo complesso si colloca in Italia al secondo posto, dopo l’industria petrolchimica, e con un’incidenza di incidenti che è due quinti di quella dell’industria dell’automobile. Sono risultati molto buoni, a cui si aggiungono altri dati positivi sulla riduzione delle emissioni di CO2 e sulla maggiore efficienza nei consumi energetici. Dietro tutto questo si intravede una miriade di innovazioni nella progettazione e gestione degli impianti, innovazioni molto lontane dall’effetto esplosivo della scoperta del polipropilene o delle fibre di carbonio, eppure non meno rilevanti nel loro effetto cumulativo, sia sul piano economico sia su quello sociale.
Se ora consideriamo ancora per un momento l’importanza di un ‘effetto cumulativo’, protratto negli anni, ci rendiamo conto del significato negativo di certi ‘ritardi’. Abbiamo visto che trascorsero sei anni dall’emanazione della direttiva Seveso I al suo recepimento in Italia (recepimento che avvenne, peraltro, dodici anni dopo l’evento); dieci anni dalla denuncia della pericolosità delle lavorazioni con CVM alla condanna definitiva in Cassazione dei dirigenti della Montedison (nel frattempo i reati di Cefis si erano estinti perché questi era morto); sette anni dall’avvio di Responsible care in Canada al suo lancio in Italia da parte di Federchimica. Aggiungiamo i dieci anni trascorsi dalle prime richieste di progetti di ricerca finalizzati al lancio del primo progetto da realizzare in campo chimico, e ancora gli assurdi cinque anni impiegati per rendere operativo tale progetto. Nel paragrafo precedente abbiamo parlato in modo piuttosto netto di fallimento di un’intera classe dirigente; qui possiamo aggiungere una caratteristica peculiare di questa classe: una specie di letargia – con reazioni ridotte e mancata risposta agli stimoli normali –, che va persino contro i propri interessi di classe e che è stata estremamente nociva per il Paese.
Uno sguardo al futuro: i materiali compositi
Nell’introduzione a questo saggio si è accennato al grande successo incontrato negli ultimi decenni del Novecento dai materiali compositi, costituiti da due o più componenti eterogenei. In effetti, l’avvio della produzione industriale dei materiali compositi è anteriore alla Seconda guerra mondiale, ed è rilevante il fatto che questi nacquero in un ambiente prettamente ingegneristico e applicativo piuttosto che in un definito ambito disciplinare, quale la fisica dello stato solido o la chimica macromolecolare. Questo evento storico è facilmente interpretabile a livello epistemologico se ci si riferisce agli orientamenti conoscitivi dei fisici e dei chimici da una parte e degli ingegneri dall’altra: i primi focalizzano i loro interessi sul rapporto fra struttura e proprietà, mentre i secondi sono maggiormente interessati alle relazioni fra le proprietà dei materiali e le loro funzioni. È il predominio conoscitivo della funzione sulla struttura che ha portato ai materiali compositi.
All’inizio della storia dei materiali compositi vi è una scoperta avvenuta accidentalmente nella statunitense Owens-Illinois glass company. Nel 1932 Dale Kleist, un giovane ricercatore dell’azienda, stava cercando di saldare fra di loro, mediante getti di vetro fuso, alcuni blocchi di vetro destinati a uso architettonico, quando si accorse che, mentre i blocchi non si saldavano affatto, i getti raffreddandosi formavano piccole fibre di vetro. L’ingegnere chimico Games Slayter (1896-1964), capo di Kleist, trasformò la scoperta casuale in un metodo di produzione industriale di grande successo, e nel 1938 fu fondata la Owens-Corning fiberglas corporation, destinata a diventare un’importante multinazionale. In Europa i brevetti per la produzione della lana di vetro furono acquisiti dalla Vetreria italiana Balzaretti Modigliani, che nel 1939, trovatasi in difficoltà finanziarie, trasferì i suoi diritti alla francese Saint-Gobain.
Le fibre di vetro trovarono una significativa strada applicativa come isolante termico, ma nel nostro contesto, e richiamando gli aspetti epistemologici citati poco sopra, possiamo dire che si giunse a produrre i primi tipi di vetroresina mentre si cercava di attribuire nuove proprietà a materiali già scelti per specifiche funzioni. In certe produzioni belliche, i materiali polimerici avevano diversi vantaggi rispetto ai metalli in uso: si potevano ottenere in grandi quantità, erano molto più leggeri e non erano soggetti a corrosione. Il punto debole era la scarsa resistenza alle sollecitazioni meccaniche, ed è qui che intervenne il privilegio dato alla funzione: per aumentare la resistenza dei materiali plastici si pensò di inserire nella matrice polimerica delle fibre di vetro, il cui primo e immediato ruolo sarebbe stato quello di impedire la propagazione delle microfratture nella matrice.
All’inizio degli anni Quaranta erano disponibili diversi materiali plastici; negli Stati Uniti la ricerca si concentrò sui procedimenti più adatti per ottenere una giusta distribuzione delle fibre di vetro nella matrice polimerica, e nel 1942 furono prodotti i primi laminati di vetroresina, che trovarono un immediato impiego nelle costruzioni navali. Essendo trasparente alle onde radio, il nuovo materiale fu utilizzato anche per la protezione degli apparecchi radar sugli aerei.
In Italia la produzione di vetroresina è legata al nome di due imprenditori friulani, Giovanni Spangaro e Gian Pietro Borgnolo. Quest’ultimo dirigeva la Restel, una ditta specializzata in prodotti ottenuti da resine termoplastiche, quando nel 1959 fu raggiunto da Spangaro, che proveniva da una serie di esperienze lavorative abbastanza eterogenee. I due formarono una coppia formidabile. La produzione di oggetti in resine rinforzate da fibre di vetro si sviluppò a tal punto che nel 1963 nacque la società Vetroresina, destinata a diventare un nome storico dell’industria friulana. Che non si trattasse di mera imitazione è testimoniato dal fatto che Borgnolo e Spangaro registrarono importanti brevetti negli Stati Uniti, e che Spangaro divenne presidente degli industriali delle materie plastiche europei (1980) e mondiali (1988).
Il passo decisivo verso i materiali compositi fu fatto con la scoperta delle fibre di carbonio, un materiale con una resistenza alla trazione di un ordine di grandezza maggiore di quella dell’acciaio. La scoperta delle fibre di carbonio avvenne in un contesto molto particolare. Nel secondo dopoguerra le maggiori imprese statunitensi avevano aperto grandi laboratori in cui erano impiegati con grande libertà di indagine giovani e brillanti ricercatori. Nel 1956 la Union carbide inaugurò presso Cleveland uno di questi laboratori, il Parma technical center, in cui entrò anche Roger Bacon (1926-2007), un giovane fisico che aveva appena conseguito il dottorato di ricerca. Il tema su cui egli cominciò a lavorare era la determinazione del punto triplo della grafite, una ricerca assolutamente ‘pura’. Nel 1958, mentre utilizzava lampade ad arco e operava a temperature superiori ai 4000 °C e a pressioni superiori alle 100 atmosfere, Bacon notò la formazione di uno strano deposito alla base di un elettrodo: un’analisi accurata del deposito mostrò che, immersi in una matrice amorfa, vi erano filamenti assai resistenti, risultati poi costituiti di pura grafite. La scoperta fu annunciata pubblicamente da Bacon due anni dopo (Growth, structure, and properties of graphite whiskers, «Journal of applied physics», 1960, 2, pp. 283-90). Iniziò una corsa per la produzione delle fibre di carbonio a basso costo, e la vittoria fu conseguita dal Giappone, mediante l’uso di filamenti di poliacrilonitrile come precursori. Le fibre di carbonio furono subito utilizzate come rinforzo in matrici polimeriche, mentre, data la reattività dei filamenti con alluminio e magnesio, per il rinforzo dei metalli leggeri si dovette aspettare la messa a punto di un procedimento di rivestimento.
Non possiamo ripercorrere qui l’intera storia dello sviluppo dei materiali compositi, per i quali in Italia per molto tempo ci si indirizzò verso le applicazioni di avanguardia piuttosto che verso la ricerca e lo sviluppo. Solo verso la fine degli anni Ottanta la ricerca italiana nel campo dei materiali compositi trovò una sede degna, nell’ambito di un’intesa di programma firmata nel 1988 dal CNR e dal ministero per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno: l’Istituto per la tecnologia dei materiali compositi (ITMC) iniziò le sue attività a Napoli nel 1989, con un nucleo originale di tre ricercatori, anche se fu costituito ufficialmente solo nel 1993. Le date ci dicono che l’attenzione del CNR nei confronti di questo settore cruciale della scienza dei materiali fu piuttosto tardiva, ma in ogni caso la realizzazione dell’ITMC non si sarebbe potuta ottenere se nell’area napoletana non fosse stato attivo fin dal 1969 il Laboratorio di ricerche su tecnologia dei polimeri e reologia del CNR, voluto da Corradini e animato da giovani e valentissimi ricercatori, come Martuscelli, che ne diventerà direttore nel 1973, e Luigi Nicolais, che sarà ordinario di tecnologia dei polimeri nel 1980 e primo direttore dell’ITMC nel 1993.
Qui emerge un tratto molto significativo, in quanto l’ITMC si muoveva nell’ambito di quella cultura ‘mista’ che chiamiamo ingegneria chimica, e si collocava strutturalmente all’interno del dipartimento di Ingegneria dei materiali e della produzione dell’Università di Napoli (di cui era direttore Nicolais). Una delle direttrici di lunga durata della ricerca fu la messa a punto di materiali compositi in cui nella matrice plastica erano incluse fibre di origine vegetale ‘locale’. Si trattò fin dall’inizio di una strategia dichiaratamente ecosostenibile, che poteva giungere fino a produrre materiali biodegradabili o materiali per l’edilizia in Paesi del Terzo mondo. I risultati non si fecero attendere e alcuni materiali furono impiegati nell’industria automobilistica.
Protezione dell’ambiente e innovazione tecnologica
Prima di esporre le conclusioni di questo saggio, è il caso di mettere in luce una contraddizione profonda fra la produzione di massa dei materiali sintetici e l’uso che se n’è fatto. Negli ultimi sessant’anni, l’industria chimica organica ha incrementato del 9% annuo la produzione di ‘plastiche’ (un termine generico usato nei documenti dell’Unione Europea); si è giunti così nel 2008 a un picco massimo di produzione mondiale di 245 milioni di t (nello stesso anno la produzione mondiale di acciaio è stata di 1326 milioni di t). Circa il 50% dei materiali plastici viene impiegato in prodotti monouso, in particolare negli imballaggi e in agricoltura. Il problema è che, quando un oggetto usato diventa un ‘rifiuto’, rimangono intatte le proprietà chimiche delle plastiche commerciali, quali l’insensibilità alla radiazione solare, la resistenza alla corrosione e così via. Rispetto ai tempi umani, una bottiglia di polietilene tereftalato (PET) abbandonata in un bosco o gettata in mare è praticamente eterna. Un recente rapporto dell’Unione Europea riporta che nel 2005 è stato trovato nello stomaco di un uccello (un albatro) un pezzetto di plastica sul quale un numero di serie ne indicava l’appartenenza a un aereo della marina statunitense abbattuto dai giapponesi nel 1944. Un complesso modello matematico delle correnti oceaniche ha permesso di individuare il percorso del pezzetto di plastica: da una zona di accumulo nei mari a Sud del Giappone, si è progressivamente spostato fino a un’altra zona di accumulo situata 6000 miglia più a Est, al largo della costa occidentale degli Stati Uniti, dove si è mosso in circolo per circa 50 anni prima di essere inghiottito dall’uccello. Si potrebbero portare molti altri esempi, meno drammatici e più legati ai consumi quotidiani, ma la contraddizione è chiara: si impiegano materiali indistruttibili (dalla natura) per prodotti dalla vita breve o brevissima.
Questa contraddizione non è facile da affrontare con successo, ma il nostro Paese sta dando un contributo importante per il suo superamento, in particolare a opera di Catia Bastioli, con la produzione e commercializzazione di ‘bioplastiche’, che si comportano rispetto all’ambiente come i polimeri di origine naturale. Nel 1984 Bastioli, quasi neolaureata, assunse all’Istituto Donegani la responsabilità del progetto strategico Montedison per i materiali compositi. Dopo la scalata di Gardini alla Montedison, nel 1989 creò il centro di ricerca FERTEC (FErruzzi Ricerca e TECnologia) sulle materie prime rinnovabili. Qui realizzò un aspetto importante della sua vita professionale, perché si occupò congiuntamente della ricerca e delle linee guida del marketing. Al momento della crisi della Montedison, la ricercatrice-imprenditrice riuscì a mettere in salvo il gruppo di ricerca, trovando investitori disposti a sostenere la sua avventura imprenditoriale nella società Novamont, fondata nel 1990 all’interno della Montedison appunto per sviluppare e commercializzare i prodotti FERTEC. La fortuna della nuova impresa si concretizzò in una famiglia di materiali che vanno sotto il nome commerciale di Mater-Bi, e che sono prodotti con vari tipi di amido in cui le molecole di amilosio sono state ‘complessate’ con polimeri sintetici. L’esito pratico di alcuni processi chimico-fisici di grande interesse conoscitivo è rappresentato da una gamma di materiali insolubili, con caratteristiche meccaniche e processabilità molto simili alle plastiche tradizionali, ma con la proprietà di essere biodegradabili.
Nella direzione di un’industria chimica in grado di annullare o diminuire l’impatto ambientale dei propri prodotti, la strada seguita dalla Novamont non è l’unica. Il gruppo trentino Aquafil, nato nel 1969, ha prodotto per decenni vari tipi di nylon, polimeri in sé più che ‘maturi’ dal punto di vista tecnologico, ma che erano stati ‘nobilitati’ da un procedimento di tintura del filo durante l’estrusione, con un’innovazione che ha consentito di avere una gamma illimitata di colori. I filati di Aquafil sono risultati tra i più pregiati per le moquette, ed è guardando al ciclo completo di queste merci, compreso il loro destino finale che, sotto la guida di Giulio Bonazzi, l’impresa ha fatto un vero salto di qualità. È stato messo a punto un procedimento, denominato Econyl, che permette di riottenere da moquette dismesse un filato di nylon con proprietà identiche al nylon ‘vergine’. È stato un risultato importante per il profitto dell’impresa e per l’intrinseca proposta di una ‘economia circolare’, che riutilizzi cioè i propri rifiuti.
Osservazioni finali
La storia dei materiali di sintesi vede il nostro Paese come l’iniziatore di una produzione che si è dimostrata fondamentale e duratura nel tempo. A livello mondiale, sono state prodotte 12,9 milioni di t di polipropilene nel 1990 e 50,9 nel 2010, pari a più di un quinto della produzione complessiva di tutti i materiali polimerici. Tuttavia, da tempo l’Italia non ha più nessuna impresa che si collochi fra i primi produttori mondiali di polipropilene, e abbiamo visto che i motivi di questa ‘retrocessione’ sono stati sia politici in senso stretto sia di politica industriale. D’altra parte, è molto difficile mantenere una posizione di preminenza in un campo, come quello dei materiali sintetici, dove le innovazioni di processo e di prodotto sono continue.
L’ampiezza di queste difficoltà è dimostrata dalla perdita della supremazia nei materiali compositi da parte degli Stati Uniti. Dal 1963, quindi nel pieno della guerra fredda e della corsa nello spazio, il dipartimento della Difesa sosteneva finanziariamente la ricerca nel campo dei materiali compositi. Poi sono entrati in gioco due fattori dirompenti: in seguito alla ‘normalizzazione’ dello scenario internazionale seguita al dissolvimento dell’Unione Sovietica, la ricerca statunitense ha ricevuto dallo Stato risorse meno abbondanti e ha ridotto il suo ritmo di avanzamento, proprio mentre il secondo fattore, la globalizzazione, portava alla ribalta nuovi competitori.
Possiamo interpretare quanto è avvenuto in Italia ricorrendo al modello presentato da Joseph A. Schumpeter nel suo Capitalism, socialism and democracy (1942), in cui propose una teoria dell’innovazione che ancora oggi è in grado di ispirare molte analisi dello sviluppo tecnologico. Egli distingueva tre fasi: l’invenzione, cioè il primo sviluppo di un nuovo prodotto o di un nuovo processo; l’innovazione, che si ha soltanto quando l’invenzione matura nell’effettiva commercializzazione del nuovo prodotto o del nuovo processo; la diffusione, quando l’innovazione diventa largamente disponibile per ulteriori applicazioni.
Se da questo punto di vista guardiamo al passato della nostra industria dei materiali sintetici, nascono alcune osservazioni di un certo interesse. Fra le grandi produzioni mondiali, il polipropilene di Natta è il solo materiale sintetico originato in Italia che ha superato tutte e tre le fasi di un’innovazione matura; ciò che sembra aver caratterizzato negativamente la situazione del nostro Paese, infatti, è che molte tentate innovazioni sono rimaste al primo stadio, quello dell’invenzione. Per decenni l’Istituto Donegani di Novara, gli istituti del CNR e i dipartimenti universitari hanno svolto ricerche d’avanguardia e sono giunti anche a brevetti significativi, concludendo così, in base al modello di Schumpeter, la fase dell’invenzione. Però i potenziali nuovi prodotti non sono arrivati alla fase successiva, quella della commercializzazione, e quindi non solo non si può parlare di vera e propria innovazione, ma ci si avvicina seriamente alla nozione di ‘spreco di risorse’. Un simile e perdurante spreco di risorse ci porta a un altro richiamo alle tesi sostenute da Schumpeter, che indicò quale caratteristica della società capitalistica il suo vivere in una perennial gale of creative destruction, «una tempesta perenne di distruzione creativa».
L’espressione di Schumpeter è estremamente evocativa, e richiama il fatto che, nel suo divenire, il processo innovativo mette ‘fuori gioco’ prodotti e processi per sostituirli con nuovi protagonisti del mercato internazionale. È riflettendo su questa ‘distruzione creativa’ che possiamo fare due osservazioni conclusive, una agra e l’altra dolce. L’osservazione agra è che in Italia abbiamo assistito a una ‘generosa’ distruzione di imprenditorialità, impianti e risorse di ricerca, certo senza traccia alcuna di creatività. Si è trattato di una distruzione puramente negativa, dovuta a una classe dirigente che nel suo complesso si è dimostrata rissosa e letargica rispetto alle esigenze del mercato, pur invocato in modo ossessivo. L’osservazione dolce è che alcuni segmenti di questa stessa classe dirigente hanno operato in modo egregio e stanno partecipando vigorosamente all’attuale fase della ‘tempesta perenne’. In tutto il mondo sono evidenti i segni di un nuovo ciclo innovativo per i materiali sintetici, un ciclo che favorisce innovazioni tecnologiche nel campo delle materie prime rinnovabili, nel rispetto dell’ambiente, nel riutilizzo industriale dei rifiuti, e che non è subito ma promosso anche da imprese e laboratori italiani.
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