Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso del Novecento l’industria farmaceutica si è evoluta a partire da tecniche artigianali e dall’idea che alcuni prodotti di sintesi chimica, come le molecole coloranti, siano dotati di proprietà terapeutiche. Tra le due guerre si evidenzia che l’azione terapeutica dei sulfamidici è dovuta alla caratteristica strutturale del sulfamide, e si scopre inoltre l’attività antimicrobica o antibiotica di fattori prodotti dal metabolismo di diverse specie e ceppi di microrganismi. Le tecnologie dell’ingegneria genetica aprono nuove prospettive per lo sviluppo dei farmaci, ma l’industria farmaceutica continua a utilizzare strategie diversificate.
Farmacopea: una duplice origine
L’industria farmaceutica moderna ha una duplice origine. Da una parte i farmacisti, che a metà dell’Ottocento sono in grado di produrre su larga scala farmaci come la morfina, il chinino e la stricnina; dall’altra le industrie chimiche e dei coloranti che, a partire dall’ultimo ventennio del XIX secolo, creano laboratori di ricerca capaci di sviluppare applicazioni mediche dei loro prodotti. La Merck, nel 1668, non era altro che una piccola farmacia; solo nel 1840 inizia la produzione di farmaci su ampia scala, applicando le nuove tecniche di estrazione degli alcaloidi dalle piante. Analogamente la Schering in Germania, l’Hoffman-LaRoche in Svizzera, la Burroughs Wellcome in Gran Bretagna, l’Étienne Poulenc in Francia e la Smith Kline, la Parke-Davis, la Eli Lilly, la Upjohn e la Abbott negli Stati Uniti iniziano tutte come farmacie e fornitori di medicinali tra gli anni Trenta e Novanta dell’Ottocento. Altre marche, come Agfa, Bayer e Hoechst in Germania, Ciba, Geigy e Sandoz in Svizzera, Imperial Chemical Industries in Gran Bretagna, e la Pfizer e la Squibb negli Stati Uniti, nascono come fabbriche di prodotti chimici organici, soprattutto coloranti, prima di diventare industrie farmaceutiche.
Un’industria del farmaco vera e propria nasce alla fine dell’Ottocento, con l’emergere della farmacologia come scienza volta sia a identificare e a preparare farmaci, sia a studiare i cambiamenti indotti nell’organismo dai farmaci e la loro possibile influenza sulle condizioni patologiche. Prima in Germania, poi anche negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, le aziende farmaceutiche stringono rapporti di stretta cooperazione con i laboratori universitari. In Italia e in Francia, l’industria del farmaco si svilupperà attraverso l’ampliamento dei laboratori che alcuni farmacisti tengono a fianco delle proprie botteghe. Tuttavia, mentre anche in Francia già agli inizi del secolo si assiste a un matrimonio d’interesse fra l’industria farmaceutica e il mondo della ricerca, in Italia questo non avverrà, per l’assenza di una tradizione nel campo della medicina sperimentale, insieme al permanere di una concezione elitaria della pratica medica.
Dalla chemioterapia agli antibiotici
Agli inizi del XX secolo l’interesse si focalizza su gruppi chimicamente reattivi, i recettori, con i quali reagiscono sia i coloranti sia altri agenti fisiologici. Paul Ehrlich lancia l’idea della chemioterapia o therapia sterilisans magna, che mira a scoprire i composti chimici artificiali in grado di uccidere i microbi patogeni senza danneggiare l’organismo ospitante; ritiene che si possa utilizzare l’affinità chimica fra le molecole dei coloranti e i recettori nutrizionali delle cellule batteriche per sfruttare eventuali proprietà battericide del colorante stesso o per modificare le formule dei coloranti in modo da inserire agenti velenosi per i batteri o i protozoi infettivi. Sulla base di ciò, nel 1909, mette a punto il primo prodotto di sintesi, a base di arsenico, attivo contro il treponema della sifilide: il Salvarsan. Per ottenere questi preparati, a suo dire, occorono come ingredienti, quattro “g”: Geld (“denaro”), Geduld (“pazienza”), Geschick (“abilità”) e Glück (“fortuna”). Quest’ultima, la cosidetta serendipity, cioè la scoperta fortuita che una determinata sostanza è dotata di un’attività farmacologica, è stata, fino all’avvento delle biotecnologie e delle nanotecnologie, la vera protagonista della scoperta dei farmaci. La visione di Ehrlich stimola la nascita di un vasto progetto di ricerca industriale che dura fino a oggi.
Le istituzioni che sostengono la nascita della ricerca farmacologica sono originariamente influenzate dal pensiero chimico e quindi si dimostreranno inadeguate a rispondere alle più articolate esigenze della farmacologia e delle scienze cliniche. La scoperta dei sulfamidici e quella degli antibiotici segna una prima svolta. Nel 1935 viene dimostrato dai chimici dell’Istituto Pasteur che, al contrario di ciò che sostenevano Elrich e la sua scuola, l’azione farmacologica di un principio chimico è indipendente dalla sua proprietà colorante. Le ricerche del gruppo francese sui sulfamidici dimostrano altresì che, diversamente da quanto pensava Ehrlich (per il quale su ogni prodotto dimostratosi attivo si intraprende un programma di modificazioni della struttura per ottenerne di più efficaci), eventuali modificazioni non avrebbero portato a strutture più efficaci, ma sarebbero andate a danno delle proprietà antibatteriche del prodotto. Grazie a ciò si arriva al concetto di drug design, cioè a quell’approccio razionale alla creazione del farmaco, basato sullo studio del rapporto fra struttura e attività biologica delle sostanze chimiche, per progettare a priori delle molecole dotate dell’attività desiderata.
La scoperta dell’attività antimicrobica della penicillina da parte di Alexander Fleming nel 1929, e la sua sperimentazione clinica da parte di Ernst Boris Chain e Howard Walter Florey alla fine degli anni Trenta, inaugurano una nuova era nel trattamento delle infezioni batteriche. La ricerca farmaceutica, in occasione di ciò, utilizza i metodi microbiologici di coltivazione e selezione dei ceppi, insieme alle strategie di sintesi chimica, per sviluppare nuovi principi farmacologicamente attivi. Così, numerose aziende farmaceutiche istituiscono dei dipartimenti di microbiologia e delle unità di fermentazione, che si aggiungono alle strumentazioni tecnologiche già esistenti.
Con la penicillina si entra nell’“era degli antibiotici”. L’aspettiva di vita in Europa e negli Stati Uniti passa, in 10 anni, da 59,7 a 69,7 anni; la mortalità infantile si dimezza e la morte per infezione postparto diminuisce di oltre il 90 percento. Per la prima volta si è in grado di curare malattie come la tubercolosi, la difterite e la polmonite. Le case farmaceutiche si espandono rapidamente. Durante gli anni della seconda guerra mondiale lo sviluppo della penicillina viene realizzato a livello industriale da ben 11 case farmaceutiche negli Stati Uniti. Nuovi antibiotici vengono intanto scoperti e commercializzati: la streptomicina dalla Merck, la clorotetraciclina dalla Lederle, il cloramfenicolo dalla Parke-Davis, l’eritromicina dalla Abbott e dalla Lilly, la tetraclina dalla Pfizer. La Merck, la Sandoz e la Takeda utilizzarono i metodi microbiologici anche per sviluppare farmaci dotati di altre proprietà farmacologiche o chemioterapiche. Ad esempio, l’ivermectina, un farmaco contro la filariasi (malattia tropicale trasmessa da punture di zanzare infette), o la ciclosporina A e l’FK 506, due importanti immunosoppressori. Tra gli anni Trenta e Sessanta del XX secolo le compagnie farmaceutiche sviluppano e commercializzano un’enorme quantità di medicinali: vitamine sintetiche, sulfamidici, corticosteroidi, tranquillanti oltre che antibiotici. Mentre l’industria si appresta ad abbandonare la ricerca sui prodotti naturali per concentrarsi sui prodotti di sintesi chimica, le compagnie americane conquistano il dominio globale, producendo più della metà dei farmaci del mondo e incidendo per un terzo sul mercato internazionale dei medicinali.
La chimica, la farmacologia, la microbiologia e la biochimica, che valorizzano i concetti di enzima e recettore, rivelatisi utili bersagli dei farmaci, orientano la ricerca farmaceutica verso la produzione di farmaci nati dalla collaborazione tra biologi e chimici. Al centro di questa cooperazione vi sono i meccanismi biochimici d’azione dei farmaci e la comprensione della struttura e della funzione biologica delle molecole organiche, che dà origine alla creazione di nuove strutture chimiche. La biologia molecolare introduce un nuovo concetto nella ricerca farmaceutica: l’informazione genetica, da utilizzare in termini biochimici e chimici molto concreti. Con l’avvento delle nuove tecnologie genomiche e post-genomiche, la principale promessa della biologia molecolare per la ricerca farmaceutica sta nella potenziale comprensione dei processi patologici, a livello genetico-molecolare, e nella determinazione dei bersagli molecolari ottimali per l’intervento farmacologico. Grazie agli sviluppi della biologia strutturale, oggi, la comprensione della struttura tridimensionale di proteine medicalmente rilevanti appare possibile.
Nonostante l’impatto delle biotecnologie nell’amplificare a dismisura la quantità di dati su cui lavorare, non sono numerosi i farmaci scaturiti dal biotech: si tratta principalmente di proteine ricombinanti e anticorpi monoclonali. Si può ipotizzare che risultati così scarsi siano proprio dovuti al nuovo paradigma della ricerca farmaceutica. Infatti, con l’avvento delle tecnologie genomiche e postgenomiche (cioè il sequenziamento rapido del DNA, la chimica combinatoria, i test su colture cellulari e i metodi di controllo automatizzati) sta prevalendo una strategia molto chiara: testare numeri elevatissimi di possibili bersagli attraverso sistemi automatizzati, il cosiddetto high throughput screening, esponendoli a un altrettanto elevato numero di composti (numerose variazioni su pochi temi chimici o da un grande numero di configurazioni chimiche differenti).
Il mercato del farmaco
Portare un farmaco sul mercato costa oltre 800 milioni di dollari; basti pensare che un principio chimico ritenuto interessante ha solo il 10 percento di probabilità di essere registrato come farmaco.
Tra il 1960 e il 1980 sono stati prodotti farmaci innovativi come i betabloccanti, alla fine degli anni Sessanta, i calcio-antagonisti e gli ACE inibitori negli anni Settanta e Ottanta, i tranquillanti, gli antidepressivi, gli antinfiammatori non steroidei e i contraccettivi orali. Negli ultimi due decenni del Novecento le case farmaceutiche hanno sviluppato medicinali capaci di agire sul sistema nervoso centrale, di trattare infezioni virali e retro-virali, come l’HIV, di curare o di rallentare il decorso del cancro. Si sono inoltre prodotti medicinali biotecnologici, come l’interluchina e l’interferone; la stessa insulina, una volta estratta dagli animali, può ora essere ottenuta, a un grado di maggiore purezza, grazie agli organismi geneticamente modificati. Sono nate piccole industrie biotecnologiche, che si focalizzano su biologia molecolare, genetica e genomica, attirando l’attenzione delle aziende tradizionali. Negli Stati Uniti i test clinici hanno raggiunto un alto livello di standardizzazione sotto il severo controllo della FDA (Food and Drugs Administration) mentre in molti altri Paesi è stato mantenuto un sistema più flessibile, che permette di immettere più velocemente i farmaci sul mercato, con una maggiore supervisione da parte dei medici. L’industria americana del farmaco, anche se ancora la più forte, è entrata in una fase di declino.
Rimane aperto il problema dell’accesso ai farmaci. Stati Uniti, Europa e Giappone rappresentano oltre il 70 percento della spesa farmaceutica globale. Di conseguenza le compagnie farmaceutiche hanno poco interesse a investire in farmaci per trattare le malattie più comuni e devastanti tra le popolazioni di alcune aree dell’Africa, del Sud America e del Sud-Est asiatico. Solo un accordo tra industrie farmaceutiche, governi e organizzazioni non governative potrà determinare un cambiamento di rotta.