I missionari e le conversioni
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il tema delle missioni nei secoli XI e XII, che riguarda soprattutto la cristianizzazione di quelle ultime popolazioni europee del nord e dell’est ancora pagane, di come tali conversioni si realizzano, delle sopravvivenze delle antiche fedi, è molto importante anche per comprendere l’attuale dibattito sulle radici dell’Europa. Queste conversioni avvengono sotto la duplice influenza della Chiesa romana e di quella bizantina. Tra la lingua latina e la lingua greca, la liturgia occidentale e quella orientale, inoltre, si fa strada una lingua sacra che diventerà lo strumento principe della diffusione del cristianesimo: il cosiddetto slavone ecclesiastico, nel quale sono stati tradotti i testi sacri, a partire già dal IX secolo a opera di Cirillo e Metodio.
Nel 1985 l’enciclica Slavorum apostoli, preannunciata anche dalla lettera apostolica Egregiae virtutis, mette l’accento sul significato europeo che, col passar del tempo, va sempre più acquistando l’opera di cristianizzazione, iniziata nel IX secolo da Cirillo e Metodio, in quelle terre oltre il Danubio che per molti secoli sono state invece considerate, come ci ricorda lo storico Federico Chabod, fuori della Res publica christiana. Ed è dunque da questa parte dell’Europa, e da questo periodo, che occorre prendere le mosse per cercare di comprendere il tema dei missionari e delle conversioni nei secoli che qui ci interessano. Molti sono infatti i punti di vista da cui si può partire per affrontare in termini storici un argomento a lungo coltivato solo all’interno di una storiografia provvidenzialistica e agiografica come quella della storia delle missioni, ma il punto di vista più attuale è proprio quello aperto dal dibattito sulle radici dell’Europa. Radici quanto mai multiformi e composite, anche a guardarle soltanto all’interno della cultura ebraico-cristiana, come all’interno del cristianesimo stesso, e la cui complessità è sottolineata proprio dalla proclamazione dei due Slavorum apostoli, come compatroni dell’Europa insieme a san Benedetto.
Il processo che porta le popolazioni d’Europa alla conversione dura parecchi secoli giungendo fino alle soglie dell’età moderna – se vogliamo considerare come evento conclusivo di tale processo la conversione del granduca di Lituania Jogalia nel 1386 –, ma la Res publica christiana non è il frutto di un parto indolore.
L’azione evangelizzatrice incontra resistenze e ostilità, anche perché non si fonda, come avverrà generalmente anche per le missioni extraeuropee di epoca moderna, sul dialogo e la persuasione. La distruzione degli altari pagani e la violenza contro chi rifiuta la conversione costituiscono una pratica costante, riferita dalle fonti fin dalle prime cristianizzazioni. Né va trascurato che spesso, come è stato autorevolmente osservato, ci troviamo di fronte a una conversione “epidermica, sia a livello dei sovrani, sia, e non meno, a livello dei fedeli” (Raul Manselli, “Resistenze dei culti nella pratica religiosa”, in Cristianizzazione ed organizzazione ecclesiastica delle campagne, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 1982). Anche la riflessione su tali resistenze andrà ad arricchire il dibattito sulle radici dell’Europa.
E certamente, anche una certa marginalizzazione, da parte della più comune storiografia occidentale, dei temi che riguardano questa parte dell’Europa, può rendere incompleto e frammentario il dibattito sulle “radici”. L’incognita tellus che si estende fino agli Urali e al Baltico è occupata da popolazioni slave e non slave che subiscono varie influenze tra cui quella dell’Impero bizantino, che le fronteggia dai suoi non sempre ben difesi confini, è una delle più importanti. E così, divisa tra Oriente e Occidente, tra papi e imperatori bizantini, tra lingua latina e lingua greca, tra liturgia romana e liturgia bizantina, tra cristianizzazioni e resistenze di antiche fedi, l’Europa ha visto realizzarsi le ultime conversioni, veicolate, in parte, da un nuovo alfabeto, una propria lingua e una propria tradizione liturgica. Questi territori sono i più esposti alle incursioni che vedono migrazioni di popoli, a loro volta spinti dalla fame, o da altre popolazioni: esodi che sconvolgono gli assetti delle popolazioni stanziali generando non poche paure, tanto che, come ha ricordato una studiosa, “dall’antica invocazione A peste a fame a bello libera nos Domine si sviluppano invocazioni più precise, quale quella dei bavaresi: Ab incursione alienigenarum libera nos Domine” (Gina Fasoli, “Unni, Avari e Ungari nelle fonti occidentali” in Popoli delle steppe: Unni, Avari, Ungari, Centro Italiano per lo Studio dell’Alto Medioevo, 1988). Varie sono le strade attraverso cui si incammina la strategia missionaria, non solo verso gli Slavi occidentali, ma anche verso quelli orientali (prima di tutto i Russi di Kiev) e meridionali, e anche verso altre popolazioni non slave dell’est europeo, in particolare i Magiari e i Moldavi. Soprattutto, per comprendere l’evangelizzazione di questo periodo, sono importanti, come testimonia anche una precisa rivalutazione storica dell’opera degli Slavorum apostoli, le fonti agiografiche. Da santa Olga di Kiev, modello di quella santità regale femminile che caratterizza l’Europa dell’est forse più ancora che quella dell’ovest, a sant’Adalberto di Praga, a san Vladimir di Kiev, da santo Stefano di Ungheria a san Simeone di Serbia e a suo figlio san Sava, fondatore della chiesa autocefala di Serbia e patrono del paese, le storie di santità attraversano buona parte della politica, della cultura, dell’arte e dunque della storia dell’Europa orientale non meno di quella occidentale nei secoli che qui ci interessano.
Tutta la progressiva assimilazione delle popolazioni della Germania del Nord e, oltre il mare, della penisola scandinava, del centro e dell’est europeo come del sud balcanico è largamente incomprensibile al di fuori di queste storie di santi. È dunque da queste fonti che, rilette attraverso gli strumenti di una rinnovata agiografia scientifica, e con il supporto di studi specialistici nelle diverse lingue in cui esse ci sono pervenute, che occorre ripartire. Qui si cercherà soltanto di tracciare le linee generali di queste ultime missioni verso i popoli destinati a formare l’Europa. E tra le strategie missionarie, messe in atto non raramente anche dai santi, ci sono anche battesimi e matrimoni regali. Non solo Bisanzio pratica, all’interno della sua proverbiale abilità diplomatica, regali strategie matrimoniali con neoconvertiti, ma gli stessi neoconvertiti cercano sempre più frequenti alleanze matrimoniali anche con il mondo europeo-occidentale. All’interno di queste strategie gioca un ruolo decisivo un concetto di santità che, se approfondito, molto potrebbe dirci di queste cristianizzazioni, come giocano un ruolo interessante, naturalmente, anche le donne, sovente molto più colte degli uomini cui sono destinate. Ma cominciamo con ordine.
Su una delle direttive principali in cui si sviluppa la cristianizzazione dalla fine del X secolo, quella verso l’est europeo, si muovono soprattutto, come si è detto, sia il mondo bizantino, sia i missionari dei territori tedeschi già cristianizzati: vescovi venuti da Passau operano conversioni e battesimi regali non meno di quanto si faccia a Costantinopoli, dove i sempre maggiori contatti stabiliti con i Magiari, anche per “utilizzarli” contro i Bulgari, sono sfociati, nella prima metà del X secolo, nel battesimo di due loro capi, dapprima Bultus e poi Gyula, che governava il sud-est della regione, corrispondente più o meno all’attuale Ungheria. Questi, attraverso il matrimonio di una sua figlia con Geiza, capo della regione occidentale, favorisce la penetrazione nel paese di missionari bizantini. Ma fondamentale, per l’aprirsi di una nuova fase di evangelizzazione, che schiuderà nuove prospettive anche per il papato, è soprattutto la sconfitta degli Ungari del 955 presso il fiume Lech, nei dintorni di Augsburg, inflitta da Ottone I. I Magiari, costretti a stabilirsi nel bacino del Danubio, appaiono pronti a entrare nella grande e movimentata famiglia della christianitas europea. Ingresso che avviene soprattutto con la generazione successiva che vede la conversione del figlio di Geiza, Waik, che con il matrimonio si imparenta con Gisela, sorella del futuro imperatore Enrico di Baviera. Waik, che con il battesimo ha assunto il nome cristiano di Stefano, nel 1001 riceve dal papa la corona regale. Egli promulga una legislazione che contribuisce a cristianizzare il paese, guadagnandosi così alla sua morte anche la santità. È il famoso santo Stefano re d’Ungheria che, quando muore, nel 1038, lascia disposizione che ogni villaggio contribuisca alla costruzione di una chiesa e al suo mantenimento. A tal proposito, Rodolfo il Glabro – nella Historiarum libri quinque, a cura di J. France 1989 – loda i Magiari che erano abituati a saccheggiare con crudeltà e ora donano volontariamente i loro beni per la gloria di Dio.
Anche i Russi di Kiev sono ormai pronti per la conversione e la strada che li porterà al cristianesimo sarà opera (in conformità con una ricca tradizione slavo-scandinava “al femminile”) di una donna che non solo si convertirà, ma che sarà anche riconosciuta come santa: Olga, principessa di Kiev. Che la conversione abbia non trascurabili risvolti economici è un fatto ben noto, e anche quando Olga si reca nel 957 a Costantinopoli per ricevere il battesimo, è accompagnata da una delegazione di mercanti che sperano di fare affari col ricco impero bizantino.
Ma la conversione si muove anche su altri binari: il rito di conversione, la scelta del nome, gli atti che seguono l’evento, sono elementi essenziali per comprendere la natura anche storico-politica, oltre che più genericamente culturale di questi avvenimenti. Proprio il battesimo di questa principessa è, ad esempio, descritto nelle fonti bizantine con la precisione di chi comprende bene quanto ogni dettaglio, non esclusa la ricchezza del cerimoniale, possa indirizzare verso una confessione religiosa o un’altra. Sappiamo anche che Olga, di origini scandinave (e il cui nome secondo quella lingua vale “la santa”) sceglie da cristiana il nome dell’imperatrice che le fa da madrina, Elena, che era anche quello di sant’Elena, madre del grande Costantino, che, secondo la tradizione, con la scoperta della croce, aveva dato l’avvio a quel cristianesimo “delle cose” che avrebbe contribuito per secoli a modellare il volto della cultura e dell’arte dell’Europa occidentale non meno di quella orientale. Tornata a Kiev, Olga costruisce una chiesa della Santa Saggezza, la cui intitolazione ripete quella dell’ Hagìa Sophia che a Costantinopoli era stata eretta, nel suo più antico nucleo, proprio da Costantino. Ma Olga sembra aver ereditato da Bisanzio anche l’abilità diplomatica: da Kiev manda un’ambasceria a Ottone I; l’imperatore risponde inviando Adalberto, che diverrà arcivescovo di Magdeburgo, e che morirà nel 981, destinato ad essere anch’egli canonizzato come il più celebre, omonimo vescovo di Praga, morto quasi 20 anni dopo. Il processo di cristianizzazione dei Rus’ prosegue, e sebbene si interrompa con il figlio di Olga, riprende alla successiva generazione: il nipote di Olga, Vladimir, passerà, col battesimo e il matrimonio, da esempio di slavo trasgressore e peccatore a modello di santo principe. Egli, che sarà chiamato Ravnoapostolny (“Colui che cammina con gli apostoli”), è onorato da Bisanzio anche con gli attributi imperiali del basileus: di questo sono segno quei calzari rossi che lo caratterizzano nelle miniature. Vladimir inoltre sposa Anna, sorella dell’imperatore di Costantinopoli Basilio II. Dopo il matrimonio di Vladimir continua la strategia matrimoniale che colloca su vari troni europei fanciulle, come si è detto, spesso assai più colte dei mariti: il figlio di Vladimir, Jaroslav il Saggio, a quel che ci è tramandato, fa studiare anche le figlie, e le dà in moglie a vari sovrani, tra cui Andrea d’Ungheria ed Enrico I di Francia. La famiglia cristiana europea acquista con Vladimir un durevole alleato: quelli che possiamo chiamare in gran parte i suoi eredi domineranno un immenso territorio ereditando, alla caduta di Bisanzio, quella Terza Roma destinata anch’essa, come Vladimir il Santo, a “camminare con gli apostoli”. Anche perché la tradizione riportata dai cronisti del XII secolo si basa in gran parte su tradizioni apocrife che volevano la Russia già cristianizzata nei tempi apostolici da sant’Andrea.
All’inizio dell’XI secolo la Grande Moravia, come era chiamata la terra su cui si era svolta la missione degli apostoli degli slavi, e che comprendeva sostanzialmente Boemia, Moravia e Slovacchia, non è che un ricordo. Una delle conseguenze del disfacimento di questa unità “politica ed ecclesiastica” è stata la scissione tra i popoli che l’avevano formata; il territorio è diviso, in parte, tra Boemia e Polonia, in parte, verso il 1030, finisce sotto il regno d’Ungheria. La scissione dà luogo, per la sua parte occidentale e orientale, al cosiddetto Stato dei Premyslidi, che occupa nei secoli XI e XII pressappoco il territorio della Boemia moderna, mentre la Slovacchia diventa parte del territorio ungherese; situazione, quest’ultima, che durerà per oltre un millennio, come afferma uno storico che non manca di aggiungere come questo periodo sia, per quella terra “uno dei più difficili e meno conosciuti” (Felix G. Litva, “La storia religiosa dei cechi e degli slovacchi: quadro storico generale, problemi storiografici e fonti ufficiali”, in Storia religiosa dei cechi e degli slovacchi, a cura di L. Vaccaro, 1987).
La tradizione missionaria cela, per la storia di alcuni santi che hanno rivestito un ruolo fondamentale nel processo di cristianizzazione di questi paesi, nella lunga durata e nel radicamento popolare del loro culto, e dunque nelle fonti agiografiche, anche molte di quelle ragioni che orientano scelte culturali e politiche di appartenenza verso il mondo greco o romano, e che contribuiscono, proprio come per i Russi di Kiev, a definire anche identità culturali e politiche che caratterizzano l’Europa di oggi.
L’aspetto più interessante della cristianizzazione messa in atto dai discepoli di Cirillo e Metodio che sotto la guida di Clemente, primo vescovo di lingua bulgara, anch’egli santo, si erano rifugiati in Bulgaria, da dove la loro opera si sarebbe ulteriormente estesa, è il fatto che essi avevano portato con sé i libri sacri tradotti in uno slavo ecclesiastico, che l’opera congiunta di questi missionari avrebbe consacrato come lingua di una liturgia comprensibile dal popolo e destinata a durare. Il frutto del lavoro dei due fratelli è stato salvato dai Bulgari; questi più tardi l’hanno condiviso con Russi e Serbi, e in parte con i Rumeni, anche se di questi ultimi è più difficile documentare il ruolo, dal momento che i loro più antichi scritti in slavo ecclesiastico sono del XIV secolo. Il luogo dove l’incontro tra cristianesimo e mondo slavo dà i suoi migliori frutti è forse il monte Athos, dove si ritrovano e si rimescolano molte di quelle identità culturali che si sono incontrate nel processo di cristianizzazione dell’Europa orientale. Qui, nel monastero bulgaro di Zograf, in quello russo di San Panteleimon e in quello serbo di Chilandar, si tradurranno dal greco nello slavo ecclesiastico tutti i più importanti testi religiosi.
La realtà, infatti, con cui i missionari sono ormai a contatto, è molto diversificata dal punto di vista storico-politico; semplificando possiamo dire che mentre più a Oriente si va delineando, come abbiamo visto, la conversione dei Rus’, gli altri paesi verso cui si indirizzano i missionari sono quei territori moravi, slovacchi e della regione attorno a Cracovia di cui, dopo l’arretramento dei Magiari seguito alla vittoria dell’imperatore germanico a metà del X secolo, si è avviato ad essere padrone Boleslao I di Boemia, anche grazie all’uccisione del fratello (il famoso patrono di Cracovia san Venceslao).
E sarà proprio attraverso Boleslao il quale, nonostante tutto, si mostrerà favorevole alle missioni, che l’evangelizzazione potrà avanzare, anche attraverso un’oculata politica in cui, anche qui come tra i Rus’, le donne giocano un ruolo primario, insieme a uomini ben presto assurti agli onori degli altari. E questa politica non solo farà avanzare la cristianizzazione in Boemia e in Polonia, ma la incamminerà in quella direzione romano-papale che caratterizzerà, nei secoli, l’appartenenza “occidentale” della Polonia. Boleslao, infatti, da un lato dà in sposa la figlia Dobrovka al duca di Polonia Miezko I, che è da lei convertito al cristianesimo, dall’altro invia l’altra figlia a Roma per ottenere dal papa l’istituzione di vescovati di diretta sottomissione alla santa sede. La Polonia ottiene subito il suo primo vescovo a Poznan, mentre a Praga viene fondato un monastero benedettino di cui badessa sarà la figlia di Boleslao, Mlada. In seguito saranno fondati anche due vescovati, quello di Praga e quello della Moravia. Con la nomina a vescovo di Praga di Adalberto, il futuro santo, la sede morava sarà incorporata in quella praghese.
Adalberto, vescovo di un immenso territorio, si rivolgerà così a quell’opera di conversione che lo farà consacrare patrono di Boemia, Polonia, Ungheria e Prussia. La sua opera, come vedremo, inizierà dai vicini Magiari e finirà, tragicamente, con le popolazioni ancora pagane presso Danzica. Ed è soprattutto intorno a questo santo che rientra, sia pur con qualche ambiguità, nel modello del santo vescovo medievale, che si articolano le prime, interessanti notizie che riguardano la Boemia e i territori verso cui, da questo paese, si va indirizzando la missione. Adalberto, anzi Vojtec, come sarebbe più giusto chiamarlo, si trova al centro di un dibattito che ben può farci comprendere quali possano essere i più forti motivi di attrito tra il cristianesimo e certe abitudini di questi popoli europei, come ad esempio la poligamia, che essi non vogliono abbandonare. Basti pensare che anche il padre di Adalberto aveva numerose mogli ufficiali. Per considerare la valenza politica di questo santo, possiamo ricordare che è durante un pellegrinaggio alla sua tomba a Gniezno, che Ottone III nel 1000 concede a Boleslao di Polonia il titolo di Frater et Cooperator Imperii. La tradizione, mostrando quali fossero i legami tra battesimi, santità e regalità, ha anche attribuito a lui il battesimo di Géza d’Ungheria e di suo figlio. L’opera del vescovo continua nei suoi discepoli: nel 1009 Bruno di Querfurt, che aveva già percorso Ucraina e Svezia, a sua volta viene martirizzato.
Come abbiamo detto, Adalberto trova la morte tra quelle tribù ancora pagane della Pomerania (letteralmente, “costa del mare”), toponimo che, come tanti altri, la dice lunga sul radicamento del gruppo slavo-occidentale nella zona. Si tratta, infatti, di quegli Slavi più occidentali che oggi la storiografia tende a identificare col nome che li designa in alcune antiche cronache tedesche: i Vendi. Per quanto riguarda queste popolazioni, due sono le ribellioni più importanti con cui essi rifiutano una cristianizzazione già in parte attuata, quella che si accende negli anni Ottanta del X secolo e quella del 1066. Entrambe queste ribellioni fanno riflettere sulla capacità di resistenza anche sotterranea di un paganesimo fortemente radicato, che lascerà le sue tracce in Europa. Solo nel XII secolo avanzato il paganesimo dei Vendi sarà, almeno in parte, sconfitto, quando il più autorevole capo della Pomerania, Vratislav, battezzato durante una giovanile prigionia, alleatosi con i conquistatori polacchi, promuove la fede tra gli altri capi e protegge le successive missioni giunte nel paese sotto la guida di un altro celebre vescovo, anch’egli santo, Ottone di Bamberga; egli si assicura così un potere di assai lunga durata: i suoi discendenti governeranno la Pomerania infatti per oltre cinque secoli. Ai tentativi di Ottone di Bamberga succede nel 1134 la spedizione militare di Eric II di Danimarca che conquista l’isola di Rügen, roccaforte del culto pagano, ma anche qui la cristianizzazione non si radica, e il culto pagano prevale di nuovo. Persino san Bernardo di Chiaravalle invoca contro gli Slavi dell’Elba la “crociata del nord”, e in una lettera del 1146-1147 chiama a raccolta vescovi e principi dell’impero contro quegli Slavi pagani. Una seconda spedizione danese nel 1168 distrugge i templi pagani e avvia un programma di evangelizzazione, con la costruzione di molte chiese e l’invio di sacerdoti. Essi alla fine sono vinti anche se l’antica cultura, attraverso percorsi che solo in parte vanno riaffiorando, continua a esistere. Discorso interessante ma ancora difficile è quello su quali possano essere le tracce di queste credenze che rimangono anche dopo la conversione tipica di questi tempi, che è, non solo imperfetta, ma soprattutto, in molti casi, come si è visto, una conversione “di capi”.
Per quanto riguarda invece la penisola scandinava, se la conversione della Norvegia si fa risalire tradizionalmente al re Olaf I, nel XII secolo anche la Svezia viene considerata cristianizzata, mentre la Danimarca, dove soprattutto Canuto il Grande ha favorito la diffusione del cristianesimo, ottiene nel 1104 l’autonomia della sua chiesa da quella tedesca. Ancora sostanzialmente pagana è invece la Finlandia.
Se Vladimiro di Kiev, oltre a fondare chiese si preoccupa di far educare alla nuova fede i bambini (“mandò a prendere i bambini delle famiglie più elevate e li fece istruire”, come raccontano le Cronache dei tempi passati), non sempre i sudditi seguono i loro capi nel cammino dell’evangelizzazione: Gottschalk, di una tribù dei Vendi, viene assassinato proprio nel corso di una delle rivolte, quella del 1066, di cui si è detto; nella stessa circostanza il vescovo irlandese di Meclemburgo, Giovanni, è torturato e decapitato, mentre a Ratzenburg il monaco Ansuero e i suoi confratelli “ lapidati sunti ”, come si legge nel XXII capitolo della cronaca di Helmoldo. Dalle scarne notizie che riguardano questi popoli, sembra di comprendere che presso molte popolazioni il paganesimo – meglio sarebbe dire i paganesimi – fosse ancora molto diffuso. Ma se ci chiediamo quali fossero in realtà queste credenze diffuse nei secoli delle ultime conversioni e quali forze si opponevano alla cristianizzazione, dobbiamo confessare che ne sappiamo poco. A proposito dei Vendi, ad esempio, sappiamo che la nuova religione era osteggiata da una casta sacerdotale che ogni anno sacrificava agli dei un uomo “scelto a caso”. Sappiamo che alcune di queste tribù adoravano il dio Svantovit, conosciamo alcuni particolari del suo culto: qualche informazione è fornita dalle Gesta Danorum (in Régis Boyer, “Le religioni nordiche e della Germania del Nord”, in Atlante delle religioni, a cura di Giovanni Filorano) di Saxo Grammaticus. Egli ci descrive vari riti e ci informa che tutti gli uomini e le donne dovevano pagare ogni anno una moneta come contributo all’adorazione dell’idolo. A questo veniva assegnato anche un terzo del bottino di guerra, se si pensava che questa fosse stata vinta con l’aiuto del dio. Ma, naturalmente, per misurare la profondità della conversione, il discorso dovrebbe essere molto più vasto, non solo per abbracciare le varie e diverse popolazioni, ma anche per potersi estendere dal mero aspetto delle credenze o dei riti a quello mitico-simbolico. Sulla coesistenza di simbolismi cristiani e precristiani, ad esempio, più delle testimonianze scritte possono valere fonti archeologiche o iconografiche: si pensi, per fare un semplice esempio, agli amuleti slavi che uniscono agli antichi simbolismi solari l’iconografia cristiana della Vergine.
Nella prima metà del XII secolo, dopo che gli Slavi abbandonano i territori che avevano occupato nella Germania per spostarsi più a est, molte terre incolte si rendono disponibili per insediamenti produttivi. Nel grande crogiuolo europeo della formazione delle varie unità politiche e dell’economia rurale il cristianesimo gioca un ruolo di primo piano: Helmoldo riferisce che il margravio di Brandeburgo, Alberto detto l’Orso, “quando gli Slavi gradualmente cominciarono a decrescere di numero (deficientibus sensim Slavis), mandò a chiamare a Utrecht e in altri luoghi lungo il Reno quei popoli che vivevano vicino all’Oceano, cioè Olandesi, Zelandesi e Fiamminghi, trasferendoli in gran numero”. Questi insediamenti dei nuovi venuti si rivelano un affare: con il loro arrivo le chiese si moltiplicano e le decime crescono; il vescovato di Brandeburgo e quello di Havelburgo sono rafforzati dall’arrivo degli stranieri e gli Slavi sono sconfitti e scacciati. All’azione militare si affianca quella missionaria: i territori si popolano anche di ordini religiosi che costruiscono abbazie e monasteri, imprimono impulso all’economia dissodando e coltivando. In prima linea troviamo Cistercensi, Agostiniani, Premonstratensi, e più tardi Francescani e Domenicani. Oltre a essere missionari e portatori del Vangelo, vescovi e frati sono educatori e per così dire addomesticatori al lavoro, gestori di economie locali e talvolta regionali.
Il cosiddetto Appello di Magdeburgo (Magdeburg Aufruf), che risale alla prima metà del XII secolo, per reclutare volenterosi contro i Vendi, non solo ricorda le torture subite dai cristiani per mano dei pagani di quella zona, e il loro sacrificio a Pripegala, una divinità pagana, ma, citando l’esempio dei crociati, la dice lunga anche sugli incerti confini teorici entro cui si distinguono termini come, appunto, missione e crociata. Distinzione che qui, sia detto tra parentesi, si è data per scontata, ma che per comprendere il ruolo di certi luoghi e le rappresentazioni artistiche di certi monumenti della storia d’Europa, basti l’esempio dell’abbazia di Vézelay, appare assai problematica. L’appello, comunque, stabilisce anche un interessante parallelo tra guadagni materiali e spirituali: “questa è un’occasione affinché possiate salvare le vostre anime e acquisire [...] una terra più ricca” (Richard Flecter, La conversione dell’Europa, 2003).
Se alla fine di queste annotazioni cerchiamo di interrogarci sulle trasformazioni che la cultura cristiana diffusa dai missionari, in particolare attraverso il suo patrimonio di testi scritti, può aver prodotto nel vasto e diversificato universo di questa zona d’Europa, uno dei più interessanti cambiamenti che possiamo rilevare è certamente quello operato dalla scrittura stessa. È attraverso la condivisione non tanto di questa o di quella verità scritturale quanto attraverso la condivisione in se stessa di un patrimonio di scrittura, nella trama del quale poter inserire le vicende del proprio popolo, che le varie identità di questa vasta parte dell’Europa si sono andate precisando e rafforzando. La storia biblica, come aveva già fatto per l’Occidente, e come avrebbe tentato di fare anche per il Nuovo Mondo dopo la scoperta, offre un quadro preciso di riferimenti di una storia globale ove ciascuno, per il suo popolo e per la sua lingua, può ritrovare le proprie radici. E così possiamo capire perché la Cronaca di Nestore, il manoscritto che narra la storia del Rus’ di Kiev, inizi la sua narrazione da quell’epoca postdiluviana che segnava, con la suddivisione tra Sem Cam e Jafet, e con la caduta della torre di Babele, anche nelle cronache occidentali, l’inizio del tempo storico. La “favella slava”, come tutte le lingue, ci dice la Cronaca, nacque dalla distruzione della Torre di Babele, gli Slavi, come tutti gli europei, ebbero origine da Jafet. Ecco che nel quadro della storia biblica tutta l’Europa, per la prima volta, quella orientale come quella occidentale, ha trovato una sua unità.