Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nelle società tradizionali, il consumo di beni non strettamente necessari alla sopravvivenza, è limitato a una ristretta fascia sociale. Nel corso del Settecento e dei primi decenni dell’Ottocento tuttavia, si assiste, soprattutto negli Stati più dinamici dell’Europa nord-occidentale, a una vera e propria “rivoluzione dei consumi” legata all’aumento del reddito agricolo e protoindustriale, all’intensificazione degli scambi intercontinentali e, limitatamente all’Inghilterra, all’avvio di una Rivoluzione industriale che, oltre a trasformare radicalmente il mondo della produzione, rivoluziona i modelli di consumo.
Il problema dei consumi nell’Europa moderna, e a livello globale, può essere indagato a molteplici livelli. Il primo è quello che si riassume nel confronto fra generi di prima necessità e consumi superflui, in primis tra le necessità alimentari e tutti quei generi di consumo che rendono la vita quotidiana più facile, gradevole e in definitiva più lunga. Tale approccio si compendia nella contrapposizione tra agricoltura e manifatture, queste ultime anticipatrici di quella che noi definiamo rivoluzione industriale. In altri termini, solo quei Paesi che hanno reso possibile una transizione (dolce o rapida, con dei costi sociali accettabili o pesanti) da un’economia di carattere agricolo a una di carattere industriale sono riusciti a incrementare i consumi non di prima necessità, i quali a loro volta si sono presentati come superflui o ritenuti, in periodi successivi alla loro introduzione, necessari e ai quali non è possibile rinunciare, con gravi conseguenze sugli stessi equilibri economici.
Quest’ultima dimensione apre quindi uno scenario non meno complesso. Quali consumi sono divenuti consumi di massa perdendo le loro caratteristiche di prodotti di lusso o semilusso destinati a una clientela ristretta o almeno provvista di mezzi economici adeguati? Quando e quali Paesi hanno conosciuto tale transizione? Con tali questioni evidentemente ci si muove dalle dimensioni di una economia tradizionale a un’economia moderna e complessa. Quest’ultima si è sviluppata soprattutto all’interno del mondo occidentale, sebbene il ritmo delle trasformazioni economiche attuali e il capovolgimento di fronte fra Paesi ricchi e Paesi emergenti sicuramente muterà in forme molto rapide la geografia economica e quella dei consumi. È questo un terzo aspetto suscettibile di ulteriori approfondimenti.
Ritornando alla prima problematica, vale a dire quella concernente il progresso dell’agricoltura, la prima considerazione da farsi è che tali trasformazioni avevano influito pesantemente sugli altri settori economici. In altri termini, dopo gli studi classici di Slicher van Bath sull’incremento dei rendimenti in agricoltura, e le variazioni che tale incremento della produttività agricola avevano determinato nella geografia economica d’Europa,possiamo intravedere quanto tali scostamenti abbiano poi influenzato l’evoluzione dell’industria e reso possibile l’incremento dei consumi. Certamente una prima distinzione da farsi è quella tra il periodo preindustriale e il sistema di fabbrica, quest’ultimo finalmente in grado di inondare il mercato di prodotti di largo consumo.
Due società e due economie permettono di parlare di una precoce consumption revolution, i Paesi Bassi del XVII e XVIII secolo eInghilterra a cavallo della rivoluzione industriale (XVIII-XIX secolo). Due Paesi che con sistemi produttivi in parte diversi hanno ciononostante conosciuto un forte incremento nei consumi a livello persino popolare. È vero peraltro che per varie ragioni, che possiamo qui riassumere solo a grandi linee, l’Olanda, pur avendo espresso con grande “imbarazzo” della propria borghesia calvinista, ma non per questo meno ricca, una società dei consumi, non avrebbe continuato la sua evoluzione verso un mercato di prodotti di massa anche nel corso del XIX secolo. Questa divaricazione tra l’Inghilterra della rivoluzione industrialee i Paesi Bassi, rimasti legati a lungo a un fiorente settore agricolo, senza per questo conoscere l’affermazione della grande fabbrica, la si ritrova peraltro in molti Paesi europei, sebbene già nel corso del XVII secolo i Paesi Bassi sicuramente avevano conosciuto una rivoluzione dei consumi.
È sicuro che solamente un solido settore agricolo, legato certo ad altri fattori espansivi, che avevano accompagnato l’affermazione della first modern economy, ha permesso nei secoli precedenti la rivoluzione industriale che le popolazioni europee accedessero ad altri beni che non fossero quelli di stretto ambito alimentare. Rendimenti agricoli stagnanti, quali avevano caratterizzato l’Europa meridionale (penisola italiana inclusa, sebbene sino al XVI secolo essa non sarebbe stata certamente più arretrata dell’Europa del nord), hanno costituito a lungo il maggior impedimento allo sviluppo di una società dei consumi. Questa invece si va affermando laddove il settore agricolo, producendo di più e meglio, può nutrire una popolazione che si dedica alle manifatture e ai commerci.
L’industria rurale, la manifattura domestica, il surplus di lavoro svolto nell’ambito della famiglia protoindustriale sono stati volta a volta interpretati come fattori essenziali nell’innescare una domanda di beni extra-agricoli e quindi determinare l’incremento nel consumo di indumenti e biancheria, oggetti domestici, suppellettili, mobili, specchi, bigiotteria e così via. I documenti notarili, gli inventari post mortem, i testamenti, ci illustrano quindi il grado di benessere raggiunto presso le popolazioni rurali, evidenziando delle forme di ricchezza articolate nel panorama europeo, con delle punte legate alle performances agricole ma anche a una logica che può spingere la famiglia contadina a lavorare di più per il mercante-imprenditore, al fine di ottenere alcuni beni sul cui consumo è venuta meno ogni forma di divieto morale. In tal senso l’economia rurale sposa l’economia morale, spingendo in alto quei consumi che sono considerati ora ilturning point dell’economia moderna.
Altre cause spiegano la divaricazione tra popolazioni europee nell’ambito delle quali i consumi conoscono uno sviluppo rilevante e al contrario quelle che non hanno fatto registrare tale processo. L’accesso ai ricchi mercati extraeuropei sicuramente permette l’arrivo di quelle che consideriamo le nuove derrate coloniali, sostituendosi alle tradizionali spezie, vale a dire il consumo di zucchero, caffè, cioccolata, tè, tabacco. Possiamo spiegare l’incremento in questo genere di consumi con due ordini di fattori. Da un lato la capacità espansiva di alcuni Paesi europei, i quali in tal modo hanno accesso alle aree fornitrici di tali generi e ne incrementano le potenzialità produttrici. Non si deve dimenticare che, per esempio, sia lo zucchero che il caffè erano già conosciuti nel bacino del Mediterraneo e che solo il loro trapianto nelle Americhe ne aumenta la produzione, venendo così incontro all’incremento della domanda che si manifesta in Europa. Un discorso simile si può fare per quanto riguarda la cioccolata, originario prodotto americano ma che grazie alla colonizzazione spagnola e al suo connubio con lo zucchero conosce un grande sviluppo sin dal XVI secolo e, in misura crescente, nei decenni successivi.
Il caso della cioccolata, conosciuta grazie alla presenza della Spagna nel Centro America e in seguito in grande espansione in molte aree europee, introduce la tematica del ruolo della domanda e dei consumi. In altri termini costringe a chiedersi perché questi prodotti conoscono una diffusione crescente presso alcune fasce di consumatori e in alcune aree europee e non in altre.
Perché la Spagna e il Portogallo, pur giocando un ruolo fondamentale nella colonizzazione delleAmeriche e di altre aree extraeuropee, e nel trapiantare colture agricole dei prodotti sopra menzionati, non risultano poi i grandi consumatori come le aree del NordEuropa: regione parigina, Londra, Amsterdam, Berlino, Vienna, i grandi porti tedeschi di Brema e Amburgo? Quale rapporto esiste dunque tra le capacità d’acquisto, il potenziale umano aperto ai nuovi consumi e la disponibilità del prodotto? È la domanda crescente dei nuovi consumatori a determinare l’incremento nell’arrivo di tali merci oppure l’offerta sui mercati internazionali a causa della rivoluzione commerciale e marittima in atto sin dal XVI secolo? In che misura l’evoluzione dell’economia agricola, lo sviluppo manifatturiero e in ultima analisi l’evoluzione storica consentono l’emergere di consumi crescenti?
I grandi mutamenti di ordine geopolitico, lo spostamento dell’asse commerciale in direzione dell’Europa nord-occidentale e l’arretramento delle società mediterranee costituiscono un fatto che non può essere sottovalutato. I Paesi commerciali più forti (Inghilterra, Olanda, Francia) si muovono ormai a livello globale per estendere la coltivazione (senza troppi scrupoli di ordine morale, se si considera il ruolo della schiavitù) di zucchero, caffè, cioccolata, tè, tabacco, prodotti destinati a sovvertire i modelli di consumo tradizionali. Uno scrittore austriaco, a proposito di Vienna, avrebbe osservato: “come si sa, oggi i caffè sono una delle cose di cui una grande città non può assolutamente fare a meno”.
Da sottolineare il ruolo dunque della città. Le campagne si mostrano invece esitanti nel seguire l’esempio urbano e il solco in molti casi, e forse in particolare nel contesto italiano, sembra approfondirsi. Il caffè, la tazza di cioccolata, il tabacco sono certamente consumi affermati nelle città italiane, anche nel corso del XVII e XVIII secolo, meno sicuro è invece che tali consumi si estendessero all’entroterra e negli alveoli della società rurale.
Le strutture e le dinamiche sociali influenzano profondamente l’evoluzione dei modelli di consumo. Laddove maggiore è l’apertura politica e istituzionale alle classi sociali emergenti e si profila la formazione di un nuovo blocco sociale rappresentato da agricoltori liberi, artigiani, uomini del commercio e delle Arti liberali, in una parola, forse generica, la borghesia, le condizioni sono più propizie all’affermazione di una consumption revolution. Al contrario una società aristocratica, chiusa nei suoi privilegi di classe e volta a impedire l’accesso al potere politico alle classi emergenti, non contribuisce certo a un allargamento dei consumi. D’altro lato un diverso orientamento culturale della società, la caduta di divieti morali e religiosi possono aver spinto alla nascita di una consumer society. È quanto si è verificato nell’Inghilterra del XVIII secolo e ancor prima ai Paesi Bassi del XVII secolo.
Nell’Inghilterra del XVIII secolo si assiste a un vero boom dei consumi, comprensibile solo se si tiene conto di una pluralità di fattori. Innanzitutto il ruolo commerciale ed economico svolto dalle isole britanniche a livello globale. Una circostanza che permette non solo l’accesso a quei prodotti coloniali di cui sopra ma anche a quella materia prima che avrebbe rappresentato la premessa della prima rivoluzione industriale, vale a dire il cotone indiano. Ma occorre tenere presente anche l’ascesa di una classe di consumatori più larga che in passato e i mutamenti culturali. La pubblicistica sull’utilità in termini economici, oltre che morali, dei consumi non strettamente di prima necessità conosce infatti una forte accelerazione nel corso del Settecento, testimoniata da una letteratura particolarmente copiosa.
L’introduzione delle macchine nel settore produttivo e l’avvio del sistema di fabbrica introduce peraltro una variabile nell’antico dibattito su che cosa contraddistingua un prodotto di lusso e a quali parametri risponda il consumo di un determinato genere. Una categoria interpretativa dunque sfuggente di per sé quella che caratterizza i prodotti di lusso, confrontati ora, a partire dal XVIII secolo, a quelli di massa resi disponibili dalle economie di scala e da quel processo che definiamo “rivoluzione industriale”.
I prodotti di lusso e il loro consumo deve certamente essere studiato sotto il profilo economico. Da questo punto di vista non si può disconoscere la loro importanza nell’aprire la strada, in epoca medievale e moderna, agli scambi commerciali tra l’Oriente e l’Occidente, con il flusso di prodotti di lusso provenienti dall’Asia, il conseguente squilibrio della bilancia commerciale a sfavore degli Europei che avevano avuto ben poco da esportare in quel continente sino al XIX secolo.
Ma non per questo si può prescindere da altre prospettive. Soprattutto non si può ignorare il carattere simbolico-ideologico rappresentato da alcuni consumi e in particolare quelli correlati alla produzione di beni di lusso o al fattore moda. Secondo alcuni autori la distinzione tra il consumo di oggetti che rispondano a delle necessità di base e quelli che potremmo ritenere superflui non ha senso,“in quanto i consumi sono sempre un atto di carattere sociale correlato a valori sociali e alla domanda”.
È vero peraltro che dalla seconda metà del XVIII secolo la trattatistica sottolinea sempre più il valore economico del lusso e dei consumi. Inoltre il valore rappresentativo di un bene di lusso è destinato a scemare allorquando l’intensificarsi degli scambi e lo sviluppo economico e tecnologico permette che un determinato bene abbia una diffusione molto più larga rispetto al passato, distruggendone di conseguenza il suo valore elitario. In tal senso i beni di lusso sono stati interpretati volta a volta come “beni posizionali”, mentre i timori delle società rispetto agli aspetti degenerativi innescati da un uso smodato di beni e consumi non strettamente necessari sono inevitabilmente superati dallo sviluppo tecnologico ed economico in senso lato. Talvolta le politiche economiche si sono proposte di ostacolarli ritardandone l’accesso, programmandone nel tempo l’ingresso definitivo in sostituzione di beni di largo consumo, ma i risultati sono stati sempre parziali, cozzando essi con l’“esprit de distinction sociale”.
Se dunque la disponibilità di alcuni prodotti, la collocazione geografica e il ruolo internazionale dei Paesi consumatori, l’incremento del potere d’acquisto delle fasce sociali aperte ai beni voluttuari sono variabili fondamentali, non si dovrà tralasciare una psicologia e una filosofia del gusto, le quali, assieme alla dimensione religiosa, hanno influenzato sicuramente le scelte dei consumatori. Alcune pratiche e visioni di carattere morale e religioso, hanno certamente orientato i modelli di consumo. Si può per esempio sostenere che l’Europa dell’età moderna veda una contrapposizione tra un cattolicesimo propenso alla ostentazione e un protestantesimo molto più parco e asciutto nelle sue manifestazioni esteriori, con conseguenze forse rilevanti sullo sviluppo di lungo periodo. Ogni società, in altri termini, può indirizzare i propri consumi verso beni voluttuari o al contrario verso beni durevoli, in grado questi ultimi di consolidare le capacità produttive stesse.
L’ exploit commerciale del XVIII secolo e il confronto con una produzione di spiccato valore artistico di origine asiatica spingono verso l’alto le manifatture europee che si propongono di imitare, e possibilmente sostituire, i costosi prodotti asiatici. In questa prospettiva si colloca l’introduzione delle fabbriche di porcellana a Sèvres,Meissen e infine quelle di Wedgwood, le quali non solo superano la più tradizionale ceramica sviluppata sin dal Cinquecento in Italia, ma limitano l’importazione delle raffinate porcellane cinesi (china indicava tout court tale prodotto). Uno sviluppo simile si registra per quanto concerne il setificio europeo. Era questo un settore manifatturiero tradizionalmente legato alla moda, ma che appariva investito da una domanda in continua ascesa da parte di nuovi attori che scalavano, attraverso l’abito, la piramidesociale.
In ogni caso il confronto con il sistema produttivo asiatico e quello indubbiamente più dinamico europeo si esprime in una traiettoria dei consumi articolata e complessa. Per esempio, se in alcuni Paesi asiatici, come il Giappone, tabacco, zucchero, caffè, cacao, birra, latte conoscono una diffusione meno ampia rispetto all’Europa moderna, e restano prodotti esotici e di lusso, altre produzioni conoscono un’affermazione crescente e giungono ad alimentare una consistente corrente di esportazioni. Una produzione fine di oggetti in lacca, di ceramica e porcellana, di tessuti di cotone e di seta, di oggetti in legno, di carta di qualità viene a caratterizzare l’economia del “lusso” nel Giappone di questi secoli (una consolidata letteratura illustra i consumi crescenti di Edo e delle altre popolose città nipponiche), risultando essa non solo originale ma anche in grado di esercitare un influsso crescente nel mercato internazionale, scavalcando la stessa Cina.
Il confronto dell’Occidente con l’Oriente avrebbe assunto una dimensione nuova con la “rivoluzione industriale”, e i relativi postulati delle economie di scala, l’allargamento della produzione e l’accesso a prodotti di base da parte di un numero crescente di consumatori. È stato sicuramente il sistema di fabbrica a concedere all’Occidente, soprattutto attraverso il suo agente principale, vale a dire la Gran Bretagna, un vantaggio innegabile nei mercati internazionali, asiatici inclusi. Sul finire del Settecento le porcellane di Josiah Wedgwood, che beneficiano dei nuovi processi produttivi della rivoluzione industriale, fanno addirittura la loro comparsa nei mercati indiani, americani e persino cinesi. In effetti, nel corso del XIX secolo sarebbe intervenuta una mutazione strutturale nella divisione internazionale del lavoro, con la riduzione delle esportazioni di prodotti di alta qualità asiatici, sostituiti progressivamente da beni prodotti in Europa, mentre al contrario gli altri continenti avrebbero inviato in quello europeo materie prime e prodotti primari.
Tuttavia occorre guardarsi dal contrapporre frontalmente la nuova produzione di beni di largo consumo a un’attardata economia del lusso. È indubbiamente vero che nella società industriale i consumatori appaiono più disposti ad accettare, in termini di gusto, una produzione di beni di consumo di medio-bassa qualità e a basso prezzo. Tuttavia, se le economie di scala in un primo momento si indirizzano alla fabbricazione di prodotti di largo consumo e di qualità medio-bassa, tali economie e tecnologie in seguito alimentano una produzione di beni più sofisticati, in ossequio alle aspettative di una clientela che diventa più esigente. Inoltre occorre tener presente le diverse tradizioni culturali e le diverse strutture sociali. Negli Stati Uniti, a causa dell’assenza di corporazioni e di una tradizione di “deferenza feudale”, i consumatori sono più ricettivi nell’accettare una produzione omogenea e di un gusto uniforme. In Inghilterra invece, in città che richiamano alla memoria storica ciminiere e produzione siderurgica, come Birmingham e Sheffield, emergono nel corso del XVIII e XIX secolo tutta una serie di lavorazioni che non sono state meno significative rispetto a una produzione di beni di massa, indicate come toy trades. È difficile dare un significato preciso a questa produzione in quanto essa comprende ciò che si intende come gioielleria, vasellame, spade, impugnature, fucili, pistole, pugnali, bottoni, tabacchiere, astucci di metallo, sigilli, catenelle, cornici, montature, seghe, forbici, scatole. Queste manifatture occupano a metà Settecento migliaia di artigiani e sviluppano una produzione di elevato valore commerciale, valutato nell’ordine di 600 mila sterline, 500 mila delle quali derivanti dal commercio estero.
Il caso di Sheffield e Birmingham ci riporta al perdurare di un mercato parallelo, nell’ambito del quale,invece di soddisfare un gusto teoricamente universale al prezzo più basso possibile, i produttori si propongono di rispondere a una domanda più articolata e per questo motivo incentrata su beni più sofisticati e più cari. Riguardo a questa impostazione è stato elaborato il concetto di “economie flessibili”, applicato soprattutto a quelle economie e a quelle società attente alla qualità del prodotto e non solo a una produzione di massa. La produzione di tali beni ci appare non tanto la forma residuale di un’economia attardata, bensì il raggiungimento di una sorta di percorso verso l’alto, rappresentato dal valore aggiunto realizzato, da elevati profitti di artigiani e mercanti, da una lunga tradizione manifatturiera nonché dal gusto espresso da consumatori che nel corso del tempo e nel conseguimento di più elevate capacità d’acquisto ambiscono a beni e consumi vieppiù sofisticati.
La liberazione dalle dure necessità alimentari, la disponibilità di tessuti a buon mercato (quelli di cotone, divenuto nel corso dell’Ottocento materiale popolare e persino alla moda) e di altri beni di uso quotidiano resi disponibili dalle innovazioni tecnologiche (le calzature per esempio, ma anche orologi, utensili di uso domestico, mobili), tutto questo ha permesso lo sviluppo e l’estensione di altre forme di consumo, destinate a conoscere un’incidenza di eccezionale importanza nella società moderna. I “beni dello spirito”, come libri, quadri, strumenti musicali, e beni voluttuari come piante esotiche ed animali domestici, conoscono indubbiamente un’espansione e un’accelerazione nel corso del tempo, parallelamente all’incremento del tenore di vita nelle economie più avanzate.
È stato ancora il tempo libero, in tutte le sue implicazioni, a irrompere all’interno dellaconsumer society. La società industriale ha moltiplicato anche le forme di consumo di beni immateriali, o, se si preferisce, ha mercificato attività che in precedenza non avevano un valore in primo luogo economico. La commercializzazione del tempo libero non necessariamente implica, tuttavia,perdita dei valori culturali tradizionali, anzi essa ha aperto la porta della cultura e delle sue manifestazioni più varie a un pubblico più vasto, escluso sino ad allora a causa delle ristrettezze economiche e dei vincoli sociali della società tradizionale. In tal senso la lettura, le biblioteche, il teatro, la musica sono divenuti dei consumi di notevole valore culturale e sociale oltre che economico, aprendo comunque il dibattito odierno sulla massificazione della cultura e la perdita delle conoscenze tradizionali. Non si può ignorare il fatto che il godimento di tali beni abbia assunto delle caratteristiche diverse a seconda dello sviluppo sociale, economico, nonché delle tradizioni culturali di ogni Paese. Cultura ed economia possono dare dei risultati diversi e orientare in modo diverso i consumi che vogliamo considerare. Occorrerà tenere presente la tenuta delle società più colte nel far fronte agli aspetti degenerativi della società consumistica, nella sua accezione più negativa.