I nuovi delitti contro l’ambiente
La l. 22.5.2015, n. 69 ha introdotto nel libro II del codice penale un nuovo titolo VI bis, rubricato Delitti contro l’ambiente. La novità più significativa, sulla quale ci soffermeremo nelle fasi di focalizzazione e di problematizzazione, consiste nell’introduzione dei delitti di inquinamento ambientale (art. 452 bis c.p.) e di disastro ambientale (art. 452 quater), puniti anche nella loro forma colposa. Di tali delitti verranno analizzati i singoli elementi costitutivi e verranno poste in evidenza le maggiori difficoltà interpretative.
A distanza di più di vent’anni dalle prime proposte in materia, nel maggio 2015 il Parlamento ha infine approvato una “riforma di ampio respiro” del diritto penale dell’ambiente. La novella si struttura in due macroaree di intervento, apportando significative modifiche tanto al codice penale, che al d.lgs. 3.4.2006, n. 152 (Testo unico sull’ambiente: di seguito TUA).
Quanto alle modifiche inserite nel codice penale, quella più significativa è l’introduzione di un nuovo titolo dedicato ai Delitti contro l’ambiente, collocato al numero VI bis, cioè immediatamente dopo il titolo dei delitti contro l’incolumità pubblica1.Nel nuovo titolo vengono innanzitutto introdotte cinque nuove figure delittuose. Le figure principali sono l’inquinamento ambientale (art. 452 bis, aggravato ai sensi dell’articolo successivo quando dall’inquinamento siano derivate morti o lesioni) e il disastro ambientale (art. 452 quater), punibili anche a titolo di colpa (art. 452 quinquies). Le altre fattispecie di nuovo conio sono il traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività (art. 432 sexies), l’impedimento del controllo (art. 452 septies) e l’omessa bonifica (art. 452 terdecies). Diverse sono poi le disposizioni di varia natura che completano la struttura del nuovo titolo. Vengono introdotte due nuove circostanze aggravanti, l’una (art. 452 octies) relativa ai reati associativi di cui agli artt. 416 e 416 bis, l’altra (art. 452 novies, aggravante ambientale) di carattere comune, applicabile quando un fatto previsto come reato è commesso allo scopo di eseguire uno o più tra i delitti previsti nel titolo; l’art. 452 decies contiene una disposizione premiale applicabile ai delitti del titolo nei casi di ravvedimento operoso; l’art. 452 undecies introduce una nuova ipotesi di confisca obbligatoria e per equivalente; ed infine l’art. 452 duodecies disciplina la misura riparatoria, applicabile in tutte le ipotesi di condanna o patteggiamento per un delitto del titolo, del ripristino dello stato dei luoghi.
Collocate al di fuori del nuovo titolo, ma comunque legate alla disciplina dei nuovi reati, sono le norme che per essi prevedono: il raddoppio dei termini di prescrizione (viene modificato l’art. 157 co. 6 c.p.); l'applicabilità della pena accessoria che comporta l'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione (modifica all'art. 32 quater c.p.); l'applicabilità della disciplina in materia di responsabilità da reato degli enti (modifica dell'art. 25 undecies del d.lgs. 8.6.2001, n. 231).
Di notevole rilievo è poi l’intervento sul Testo unico sull’ambiente, al quale viene aggiunta una nuova parte sesta-bis, contenente la «Disciplina sanzionatoria degli illeciti amministrativi e penali in materia di tutela ambientale». La novella introduce – per le contravvenzioni previste dal testo unico, e dunque non per i reati di nuovo conio, che hanno natura delittuosa – una particolare ipotesi di estinzione del reato quando vengano correttamente eseguite le prescrizioni impartite dagli organi competenti: la nuova parte del testo unico disciplina i presupposti sostanziali e processuali dell’istituto, prendendo in larga misura a modello la disciplina relativa all’estinzione delle contravvenzioni in materia di sicurezza sul lavoro contenuta agli artt. 20 e ss. del d.lgs. 9.4.2008, n. 281.
Evidenti ragioni di spazio impediscono una focalizzazione di ciascuna delle numerose novità oggetto della nostra ricognizione. Nelle pagine che seguono concentreremo pertanto l’attenzione sulle due norme che senza dubbio costituiscono il “cuore” della riforma, i nuovi delitti di inquinamento e disastro ambientale.
2.1 Il delitto di inquinamento ambientale
A) Il nuovo art. 452 bis c.p. (rubricato Inquinamento ambientale) punisce con la reclusione da due a sei anni e con la multa da euro 10.000 a euro 100.000 «chiunque abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili:
• delle acque o dell’aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo;
• di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna»; il secondo comma prevede poi una circostanza aggravante comune «quando l’inquinamento è prodotto in un’area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o archeologico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette».
La norma segna una netta discontinuità rispetto all’assetto previgente del diritto penale ambientale. Sino alla riforma, infatti, la tutela penale dell’ambiente era imperniata su fattispecie contravvenzionali di condotta, che sanzionavano l’immissione nell’ambiente di sostanze pericolose oltre la soglia fissata dalla legge. Oltre ad essere discutibile sul piano assiologico per il sistematico ricorso alla tecnica di incriminazione del pericolo astratto, della cui conformità rispetto al principio di offensività dubita una parte significativa della dottrina, tale sistema si era rivelato del tutto inefficiente in considerazione della scarsissima afflittività delle sanzioni comminate e della conseguente brevità del termine prescrizionale (trattandosi di contravvenzioni, solo cinque anni dal momento consumativo alla sentenza definitiva).
La fattispecie di nuova introduzione ha caratteristiche esattamente opposte rispetto a tale modello di incriminazione. Innanzitutto si tratta di un reato d’evento, in cui viene punita la causazione di un pregiudizio per l’ambiente, e non già il mero superamento di limiti tabellari nell’immissione di sostanze pericolose. Proprio il fatto che oggetto del rimprovero non sia più l’aver tenuto soltanto una condotta pericolosa per l’ambiente, ma l’aver cagionato un danno a tale primario bene giuridico, giustifica poi sotto il profilo dell’offensività la qualificazione a titolo di delitto, con comminazione di pene detentive e pecuniarie di entità adeguate alla gravità del fatto, e con un termine prescrizionale più adeguato ai tempi spesso molto lunghi dei procedimenti in materia ambientale (in virtù della norma sul raddoppio della prescrizione per i delitti contro l’ambiente, il nuovo reato si prescrive in dodici anni, o quindici in caso di atti interruttivi).
A differenza dunque dal passato, quando la causazione di una contaminazione era punita solo se pericolosa per la pubblica incolumità (come vedremo meglio infra, nel paragrafo dedicato al disastro ambientale), oggi l’inquinamento ambientale è punito in quanto tale, a prescindere da un pericolo nei confronti di interessi ulteriori. Si assiste così al passaggio, nella concezione di ambiente adottata dal nostro legislatore penale, da una nozione antropocentrica, in cui il bene giuridico ambiente era tutelato solo in quanto strumentale alla tutela del bene finale rappresentato dall’incolumità o salute pubblica, ad una nozione ecocentrica di ambiente, in cui esso acquista una autonoma meritevolezza di tutela2.
Prima di analizzare i singoli elementi costitutivi del reato, rimane poi da segnalare come la riforma segni l’adeguamento dell’ordinamento italiano alla normativa europea in materia di ambiente, ed in particolare alla direttiva 2008/99/CE (dedicata proprio alla “tutela penale dell’ambiente”), che aveva strutturato l’apparato sanzionatorio non già, come la legislazione italiana anteriforma, su illeciti formali di pericolo astratto, ma su fattispecie causali di danno
o di pericolo concreto (alternativamente alle matrici ambientali o alla salute pubblica)3. Dopo il modesto ed insoddisfacente intervento di trasposizione realizzato con il d.lgs. 7.7.2011, n. 1214, con la riforma in commento le indicazioni del legislatore europeo trovano infine adeguato riscontro anche nel nostro sistema penale.
B) Rispetto all’evento, che come già visto rappresenta il nucleo attorno a cui si struttura la nuova fattispecie, il legislatore si sforza di tipizzarne in maniera precisa i contorni, anche se non mancano i problemi interpretativi rispetto ad ognuno dei suoi elementi costitutivi.
La norma innanzitutto punisce la causazione di «una compromissione o un deterioramento» delle matrici ambientali. Posto che né la legge penale né altre fonti normative definiscono tali concetti5, l’interprete non può che rifarsi al linguaggio comune per la loro comprensione, e per la loro reciproca delimitazione. Entrambe le espressioni segnalano un “danneggiamento” del bene che hanno ad oggetto6. La compromissione pare evocare una situazione di strutturale e non provvisoria inabilità del bene rispetto alle sue funzioni, mentre il deterioramento insiste più sulla modificazione in peius delle condizioni del bene: il primo quindi un concetto assoluto, il secondo un concetto di relazione, che constata il peggioramento rispetto ad uno stato preesistente. Per la definizione delle condotte tipiche bisogna però anche analizzare quelle che integrano la più grave fattispecie di disastro ambientale di cui all’art. 452 quater c.p., ove in particolare, come vedremo meglio nel prossimo paragrafo, si punisce «l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema», e «l’alterazione la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali». Visto quindi che il carattere della definitività del danno arrecato (o comunque della particolare difficoltà della sua rimozione) caratterizza l’ipotesi del disastro, il termine “compromissione” che compare nella formulazione dell’inquinamento, benché non sia privo di una nota semantica di stabilità, se non definitività del danno, deve essere inteso in coordinamento con la figura più grave del disastro, per compromissione dovendosi intendere in sostanza ogni “danneggiamento” dell’ambiente che non abbia le caratteristiche connotanti l’evento come disastro. La differenza con il deterioramento arriva così a sfumarsi, sino a configurare quell’endiadi riscontrata da alcuni dei primi commentatori7: entrambe le condotte stanno ad indicare un peggioramento delle condizioni delle matrici ambientali, di gravità non tale da configurare le ipotesi descritte dalla norma sul disastro.
Se dunque nei suoi margini superiori il confine dell’inquinamento è segnato dal configurarsi del disastro, per definire l’estremo inferiore della rilevanza penale è necessario considerare come la norma punisca la compromissione o il deterioramento a condizioni che essi siano “significativi e misurabili”. La volontà del legislatore è chiara: la risposta penale deve intervenire solo quando il danneggiamento dell’ambiente abbia superato una certa soglia di gravità. Entrambi gli indici utilizzati per la definizione di tale soglia sono peraltro privi di autentica capacità selettiva. Quanto alla “significatività”, si tratta di un parametro del tutto indeterminato, di cui è opinabile la natura qualitativa o quantitativa, e di conseguenza il carattere numerico o meno. Quanto alla “misurabilità”, ne è evidente la connotazione empirico-quantitativa, ed essa può essere intesa in astratto, come formulabilità di una valutazione quantitativa del danno, con il rischio di una sostanziale interpretatio abrogans, posto che in astratto, in presenza delle necessarie rilevazioni, ogni forma di danno ambientale è esprimibile in termini quantatitivi; oppure si può intendere in concreto, come necessità della concreta possibilità di esperire, ai sensi dei dati probatori acquisibili, una valutazione quantitativa del danno. Non si può comunque intendere il requisito della misurabilità come sinonimo di effettiva misurazione degli esiti, che dovrebbero essere superiori ad una certa soglia: il dato letterale, che parla di misurabilità, è incompatibile con una ricostruzione del requisito che richiedesse alla pubblica accusa di provare il superamento di precisi parametri tabellari. Il superamento di tali parametri rileva ai fini delle diverse figure contravvenzionali di pericolo astratto presenti nel TUA, ma non può essere decisivo per la sussistenza dell’evento di inquinamento, che il legislatore ha tipizzato non facendo riferimento a dati quantitativi, ma solo alla possibilità di una misurazione degli esiti dannosi. In definitiva, i requisiti di fattispecie della significatività e misurabilità lasciano ampia discrezionalità al giudice nell’individuare i criteri alla cui stregua valutare nel caso concreto la gravità del danno ambientale8, risolvendosi in null’altro che nella prescrizione di una generica non esiguità del danno (il requisito della significatività) e di una sua consistenza materiale, esprimibile in termini quantitativi (il requisito della misurabilità, astratta o concreta che si voglia).
I maggiori problemi interpretativi ci paiono tuttavia quelli relativi all’oggetto materiale dell’evento di inquinamento ambientale. La prima parte della definizione non pone particolari difficoltà ermeneutiche. La compromissione deve avere ad oggetto «le acque o l’aria, o porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo»: tutte le componenti classiche del bene giuridico “ambiente” rientrano nell’ambito della tutela penale. Mentre rispetto alle prime due matrici il legislatore non fissa una soglia di rilevanza del danno, rispetto al suolo ed al sottosuolo parla di “porzioni estese o significative”, ma la precisazione non pare di particolare rilievo. Viene ancora ripetuto l’attributo della “significatività” già utilizzato a proposito della compromissione e del deterioramento: il parametro è talmente generico e ridondante, da non comportare una reale limitazione dell’area della punibilità9.
L’elemento a nostro avviso più problematico nella definizione dell’oggetto materiale risiede nell’ultima parte della norma, ove si punisce la compromissione o il deterioramento “di un ecosistema”, oltre che “della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna”. In mancanza di una definizione normativa valida ai fini del diritto penale10, il ricorso obbligato alla comune accezione del termine è problematico non tanto perché sia difficile definire in astratto un ecosistema11, quanto perché non è facile capire sotto quali concreti aspetti tale definizione si differenzi dall’insieme delle matrici ambientali (aria, acqua, suolo) evocate nella prima parte della norma. La formulazione della fattispecie prevede, in altri termini, che sia punibile la compromissione di un ecosistema che non sia derivata dalla compromissione di una matrice ambientale: rientra allora nella sfera di applicabilità della norma, ad esempio, l’abbattimento di un numero significativo di alberi in un parco cittadino, che abbia compromesso l’ecosistema esistente in quella specifica area urbana? Svincolata dal riferimento alla salubrità delle matrici ambientali, la tutela dell’ecosistema ci pare insomma prestarsi ad interpretazioni estensive che tutelino lo status quo di un qualsivoglia contesto locale, e solo la concreta applicazione della norma da parte della giurisprudenza potrà mostrare sino a che punto il riferimento all’ecosistema possa portare ad una estensione della sua sfera di applicabilità anche oltre i casi canonici di inquinamento mediante il deterioramento delle matrici ambientali.
C) La norma delinea un reato “causale puro” (o a forma libera)12, essendo punita ogni condotta cui sia eziologicamente riconducibile la verificazione dell’evento appena descritto. Come tutti i reati appartenenti a tale categoria, la fattispecie può essere realizzata anche da una condotta omissiva, a condizione che, come impongono i principi generali in materia di responsabilità per omissione, sull’agente incombesse un obbligo giuridico di impedimento dell’evento.
D) Quanto all’elemento soggettivo, la norma configura un reato a “dolo generico”, rispetto al quale sono ipotizzabili tutte le forme di dolo, e dunque anche il “dolo eventuale”. Proprio tale forma di dolo sarà verosimilmente nella prassi quella più ricorrente, considerato come pare difficile immaginare un soggetto che agisca con il precipuo scopo di danneggiare l’ambiente, mentre sarà assai più frequente l’ipotesi in cui, nel contesto ad esempio di un’attività industriale, l’inquinamento sia una conseguenza prevista e messa in conto, anche se non intenzionalmente perseguita, da parte dell’agente. Come noto, le Sezioni Unite della Cassazione, nella decisione sul caso Thyssen, non solo hanno fornito una definizione di dolo eventuale, ma si sono altresì sforzate di indicare dei criteri alla cui stregua verificare il ricorrere dell’ipotesi nel caso concreto: a quali risultati l’applicazione di tali criteri condurrà nell’ambito dei delitti contro l’ambiente, è domanda cui solo l’evoluzione giurisprudenziale potrà fornire risposta13.
Proprio per evitare che la rigorosa definizione di dolo eventuale adottata dalla giurisprudenza di legittimità potesse condurre ad una pratica disapplicazione della nuova normativa, il legislatore all’art. 452 quinquies c.p. ha opportunamente disposto la punibilità dei fatti di inquinamento anche a titolo di colpa: per tali ipotesi la pena applicabile è quella prevista per la fattispecie dolosa, diminuita da un terzo a due terzi.
Il secondo comma del medesimo articolo prevede poi che «se dalla commissione dei fatti di cui al comma precedente deriva il pericolo di inquinamento o di disastro ambientale le pene sono ulteriormente diminuite di un terzo». La formulazione letterale della norma lascia perplessi: se sono stati commessi dei fatti di inquinamento, non si vede come dagli stessi possa derivare un mero pericolo di inquinamento. Al di là di tale imprecisione redazionale, la norma pare configurare una anomala forma di “tentativo colposo”14, di cui risulta discutibile non solo la plausibilità dogmatica, ma anche l’opportunità politicocriminale, considerato l’elevato numero di fattispecie contravvenzionali volte proprio a punire le ipotesi in cui l’immissione illecita di sostanze pericolose nell’ambiente non sia sfociata in una compromissione delle matrici ambientali15.
E) L’art. 452 ter c.p. (rubricato «morte o lesioni come conseguenza del delitto di inquinamento ambientale») prevede uno speciale trattamento sanzionatorio qualora dalla compromissione ambientale costitutiva del delitto di inquinamento siano derivate le lesioni o la morte di una o più persone16. La norma configura un’ipotesi speciale della figura generale di cui all’art. 586 c.p. (Morte o lesioni come conseguenza di altro delitto), e come in tale ipotesi, l’evento sarà soggettivamente imputabile all’autore solo ove sussista la possibilità di un rimprovero a titolo di colpa.
La dottrina ha enucleato diverse ragioni per dubitare dell’opportunità della norma in questione. Innanzitutto, pare del tutto irragionevole la scelta di averne limitato l’applicabilità ai soli casi in cui la morte o le lesioni derivino da un fatto di inquinamento ambientale, e non da un fatto più grave di disastro17: il risultato è che lo spazio di operatività della disposizione si restringe sin quasi a scomparire, posto che essa si applicherà solo nei casi, pressoché impossibili da immaginare, in cui l’inquinamento abbia cagionato delle morti o delle lesioni, ma non un pericolo per la pubblica incolumità, configurandosi in tale ipotesi, come vedremo più avanti, la più grave figura del disastro, la cui contestazione impedisce l’applicazione della norma in commento (se dal disastro derivano delle morti, si applicherà la norma generale di cui all’art. 586 c.p.).
Anche ipotizzando che comunque residui un sia pur ristretto margine di applicabilità, la norma risulta irragionevole perché, almeno in determinate ipotesi, la sua applicazione conduce alla comminazione di pene meno severe di quelle che, in sua mancanza, sarebbero derivate secondo i principi generali dall’applicazione della norma sull’inquinamento in concorso con i reati di omicidio o lesioni colpose, aggravate ex art. 586 c.p.18. Paradossalmente, dunque, la nuova disposizione, la cui finalità era all’evidenza quella di predisporre un trattamento di particolare rigore quando dall’inquinamento fossero derivati dei danni alla salute, rischia di risolversi in una norma di favore, priva di qualsivoglia giustificazione politicocriminale.
2.2 Il delitto di disastro ambientale
A) L’introduzione della figura di reato del disastro ambientale rappresenta senza dubbio la novità di maggior impatto, almeno a livello mediatico e di opinione pubblica, dell’intera riforma. In mancanza di una disposizione ad hoc, in verità, la giurisprudenza ormai da tempo aveva proceduto ad estendere l’ambito applicativo della fattispecie di «disastro innominato» di cui all’art. 434 c.p. sino a ricomprendervi tutte le ipotesi in cui una contaminazione ambientale avesse provocato un pericolo per l’incolumità pubblica; tale operazione ermeneutica, pur criticata dalla grande maggioranza della dottrina, non era tuttavia stata censurata dalla Corte costituzionale, che nell’affermarne la legittimità aveva peraltro rivolto un esplicito invito al legislatore affinché provvedesse a colmare la lacuna introducendo una specifica ipotesi di disastro ambientale19. Il procedimento senz’altro più noto, tra quelli in cui la fattispecie di cui all’art. 434 c.p. era stata utilizzata per punire ipotesi di disastro ambientale, è quello relativo al gruppo Eternit ed alle vittime della contaminazione ambientale da amianto; e proprio il clamoroso annullamento senza rinvio da parte della Cassazione20 delle durissime condanne inflitte in sede di merito ha fornito l’impulso decisivo perché, nell’arco di poche settimane, il Parlamento infine si decidesse ad approvare la riforma attesa da anni in materia di diritto penale dell’ambiente.
Con la riforma qui in commento, dunque, il disastro ambientale, sino ad allora ricondotto dalla giurisprudenza sotto l’evanescente tipicità del disastro innominato, trova finalmente un suo univoco referente normativo. Peraltro, i tratti caratterizzanti il “nuovo” disastro ambientale riprendono in larga misura, come vedremo, quelli del “vecchio” disastro di matrice giurisprudenziale, né il legislatore ha colto l’occasione della riforma per risolvere alcune delle questioni più controverse emerse in relazione al disastro ambientale preriforma: sicché l’introduzione della nuova fattispecie va sicuramente salutata con favore per avere fornito una solida base normativa al disastro ambientale, ma non ha inciso in maniera particolarmente significativa sull’area di illiceità penale che il “diritto vivente” già era arrivato a definire.
B) L’art. 452 quater c.p. punisce con la reclusione da cinque a quindici anni chiunque «fuori dai casi previsti dall’articolo 434, abusivamente cagiona un disastro ambientale. Costituiscono disastro ambientale alternativamente:
• l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema;
• l’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali;
• l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo». Il secondo comma prevede poi una circostanza aggravante comune «quando il disastro è prodotto in un’area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o archeologico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette».
La norma presenta la medesima struttura della fattispecie di inquinamento ambientale analizzata appena sopra. Si tratta dunque di un “reato d’evento a forma libera”, che punisce ogni condotta attiva od omissiva che abbia cagionato uno degli eventi descritti in via alternativa nella definizione di disastro (per un’analisi del significato dell’avverbio abusivamente, cfr. infra, par. 3.1).
C) I primi due eventi hanno ad oggetto ipotesi particolarmente gravi di danneggiamento dell’ambiente, rappresentando una sorta di progressione criminosa rispetto alle forme di danneggiamento dell’ambiente descritte dalla norma sull’inquinamento. Anche il disastro, dunque, come l’inquinamento, può configurarsi a prescindere da qualsiasi valutazione circa gli eventuali effetti pericolosi per la salute umana della compromissione ambientale, ed in ciò sicuramente risiede l’aspetto di maggiore novità della riforma rispetto all’assetto normativo previgente.
L’oggetto materiale, comune ad entrambi gli eventi, non è rappresentato dalle singole matrici ambientali, ma dall’“equilibrio di un ecosistema”, riproponendosi così le difficoltà cui si è già fatto cenno sopra in ordine all’interpretazione di tale espressione. La differenza tra i due eventi consiste nel fatto che il primo descrive una “alterazione irreversibile” di un ecosistema, mentre il secondo una alterazione «la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali».
Per descrivere le ipotesi più gravi di danneggiamento ambientale, il legislatore fa dunque riferimento alla stabilità degli effetti dannosi cagionati ad un ecosistema (il requisito della irreversibilità), o alla particolare difficoltà del ripristino dello status quo ante (il requisito della particolare onerosità dell’eliminazione degli effetti dannosi). Le formule linguistiche certo non brillano per precisione, specie quelle utilizzate per descrivere il secondo evento: se non è facile stabilire quando l’alterazione è “irreversibile”, ancora più arduo è decidere quando e rispetto a quali parametri l’eliminazione degli effetti risulti “particolarmente onerosa”, o che cosa si debba intendere per “provvedimenti eccezionali”. Il tentativo di tipizzazione ci pare in ogni caso apprezzabile, fornendo all’interprete degli elementi, magari non risolutivi, ma comunque preziosi, per identificare le ipotesi talmente gravi di danneggiamento di un ecosistema, da assurgere alla qualifica di “disastro”.
D) Il terzo evento tipico non contiene invece alcun riferimento agli effetti pregiudizievoli per l’ambiente cagionati dalla condotta dell’agente, oggetto di sanzione risultando piuttosto «l’offesa alla pubblica incolumità» che presenti i connotati di particolare gravità descritti dalla norma e relativi alla «estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi» o al «numero delle persone offese o esposte a pericolo».
Si tratta della parte della norma che ha suscitato le maggiori perplessità nei commentatori, ed in effetti la formulazione letterale dell’evento punito presenta non pochi aspetti di difficoltà21. Limitando l’attenzione ai due profili critici che ci paiono di maggiore rilievo, è innanzitutto poco chiaro a cosa intendesse riferirsi il legislatore con l’espressione “offesa alla pubblica incolumità”. Come noto, nelle fattispecie che tutelano tale bene giuridico è solito parlarsi di “pericolo” per l’incolumità pubblica, posto che ciò che si punisce non è il danno arrecato a singole persone determinate, bensì il pericolo cui è stata esposta l’incolumità di una pluralità indeterminata di soggetti. D’altra parte, rispetto ad un bene giuridico collettivo ed a soggettività indeterminata come l’incolumità pubblica, l’offesa non può che consistere nel pericolo per il bene stesso, posto che la concretizzazione del pericolo in veri e propri danni alle singole persone offese non è richiesta dalla norma, configurando se mai il concorso del disastro con i reati contro la persona (omicidio o lesioni personali) di cui sono stati vittime gli esposti al pericolo. In argomento, nel notissimo processo Eternit relativo alla fattispecie di disastro innominato di cui all’art. 434 c.p., la Cassazione ha censurato il tentativo dei giudici di merito di attrarre nella nozione di disastro le morti o le malattie derivate dalla contaminazione ambientale, ritenendo che i margini edittali delle fattispecie in questione (il disastro doloso ex art. 434 è punito meno gravemente dell’omicidio colposo plurimo) non lasciassero dubbi che l’eventuale verificazione delle morti non potesse essere considerata un elemento costitutivo del disastro. Tale valutazione crediamo sia preziosa anche in ordine all’interpretazione del disastro di nuovo conio, dovendosi conclusivamente ritenere che l’espressione “offesa all’incolumità pubblica” non possa essere interpretata nel senso di richiedere la prova che si siano effettivamente verificate delle morti o delle lesioni, bastando, come di consueto nei reati a tutela dell’incolumità pubblica, che tale bene giuridico sia stato esposto a pericolo.
L’altro punto critico riguarda il fatto che, ad una lettura letterale della disposizione, parrebbe che quando vi è un pericolo per la pubblica incolumità, il disastro si configuri a prescindere dall’accertamento di alcuna compromissione ambientale; l’ultima definizione di disastro fornita dalla norma configurerebbe insomma una inedita forma di “disastro sanitario”, che punisce il pericolo per l’incolumità pubblica indipendentemente dal fatto che tale pericolo sia o meno la conseguenza di un danno all’ambiente. Un tale esito, sicuramente irragionevole considerato lo stesso attributo di “ambientale” che la norma associa al disastro, non ci pare peraltro imposto dal tenore letterale della disposizione. È vero infatti che la norma non afferma esplicitamente che il pericolo per la pubblica incolumità debba derivare da un danno all’ambiente, ma nell’indicare gli indici di rilevanza del pericolo essa fa riferimento alla “rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione”, parendo dare per implicito che una compromissione ci deve essere stata; il disastro ambientale risulta integrato, indipendentemente dal pericolo per l’incolumità pubblica, quando il danno ambientale ha le caratteristiche di uno dei primi due eventi (l’alterazione irreversibile o la cui eliminazione richiede provvedimenti eccezionali), oppure quando il danno ambientale è di minore gravità, ma vi è un pericolo per l’incolumità pubblica22. Insomma, a noi pare che di fronte ad una norma sicuramente scritta male perché imprecisa ed equivoca, l’interprete debba comunque sforzarsi di trovare un’interpretazione che, senza tradire il dato letterale, conduca ad esiti ermeneutici ragionevoli: ed il richiedere che, affinché si configuri il disastro ambientale, il pericolo per la pubblica incolumità sia sempre mediato da una compromissione ambientale, ci pare l’unica soluzione ragionevole sotto il profilo logico e sistematico.
E) Per quanto riguarda l’elemento soggettivo, presentando al riguardo la norma le medesime caratteristiche del delitto di inquinamento, rinviamo alla parte ivi relativa (§ 2.1, lett. D).
F) A differenza dell’inquinamento, che costituisce a tutti gli effetti una nuova incriminazione, il nuovo disastro ambientale ha un ambito di applicazione in larga misura coincidente con quello attribuito dalla giurisprudenza alla figura del “disastro innominato” di cui all’art. 434 c.p. Il legislatore mostra di avere presenti i profili di possibile interferenza tra la vecchia e la nuova figura di disastro ambientale; ed infatti, proprio per evitare il rischio, paventato nel corso dei lavori parlamentari, che l’introduzione della nuova figura di reato risulti in qualche modo d’intralcio ai processi già in corso di svolgimento per il disastro innominato (primo fra tutti, il processo all’Ilva di Taranto), la formulazione del nuovo reato si apre con la clausola «fuori dai casi previsti dall’art. 434».
Se le intenzioni del legislatore storico erano senza dubbio quelle appena riferite, la formulazione della clausola di riserva si rivela da un punto di vista tecnico quanto mai infelice. Se infatti, come sembra dire tale clausola, il nuovo disastro non si applica tutte le volte in cui i fatti accertati integrino anche gli estremi del vecchio disastro, la nuova fattispecie è destinata a trovare scarsissima applicazione, considerato come tutte le ipotesi riconducibili alla terza accezione di disastro ambientale (l’offesa alla pubblica incolumità) rientrino nella nozione di disastro innominato accolta dalla giurisprudenza (che, come abbiamo già visto, ritiene configurarsi il delitto di cui all’art. 434 c.p. ogniqualvolta si verifichi una contaminazione ambientale pericolosa per la salute pubblica).
Il nuovo “disastro ambientale” di cui al n. 3 della definizione legale è in realtà, e sia pure non in senso tecnico, una figura speciale23 del “disastro innominato”, in cui l’elemento specializzante è rappresentato dalla contaminazione ambientale che ha prodotto il pericolo per la pubblica incolumità. La soluzione sicuramente più coerente con la sistematica della riforma è quindi ritenere che, quando l’offesa alla pubblica incolumità è stata determinata da una compromissione ambientale, si applichi la nuova norma, mentre il vecchio disastro rimanga applicabile quando il pericolo è derivato da un evento distruttivo, che non abbia causato un danno all’ambiente. Il tenore della clausola pare in verità esprimere un concetto diverso, ma per evitare una irragionevole riduzione dell’ambito applicativo della nuova disposizione, la riserva va intesa, assecondando le intenzioni del maldestro legislatore, nel senso che l’art. 434 c.p. continua ad applicarsi, ove non ricorrano gli estremi della nuova fattispecie.
Quanto poi ai processi in corso per il disastro innominato, ed a prescindere dalla inutile clausola di riserva, il problema dell’applicabilità del nuovo disastro si risolve alla luce dei criteri generali di cui all’art. 2 c.p. In termini edittali, la nuova norma è più grave della precedente, e quindi in linea di massima si applicherà solo ai disastri successivi alla sua entrata in vigore. L’eccezione a tale regola generale si configura quando i fatti ricadano nell’ambito della misura premiale prevista all’art. 452 decies c.p.24: in tali ipotesi, la nuova disciplina è nel suo complesso più favorevole al reo, e dunque si applicherà in via retroattiva ai sensi dell’art. 2 co. 4 c.p25.
Per concludere faremo qualche breve cenno ad alcune questioni, relative ad entrambi i reati in esame, che ci paiono di particolare interesse, in quanto saranno sicuramente oggetto di discussione nei futuri procedimenti per i nuovi reati.
3.1 La clausola “abusivamente”
Sia la norma sull’inquinamento, che quella sul disastro, puniscono chiunque abbia “abusivamente” cagionato uno degli eventi rispettivamente descritti in ciascuna delle due fattispecie. Sul significato da attribuire a tale avverbio si registra una ampia varietà di posizioni tra i commentatori. Non sono diverse solo le qualificazioni dogmatiche (clausola di illiceità speciale26 o elemento costitutivo della condotta27), ma ciò che più conta, diverso è il significato sostanziale che ciascun autore attribuisce all’espressione in esame. Secondo l’opinione più radicale la presenza di tale avverbio avrebbe un effetto dirompente sulla struttura della norma, arrivando ad impedire il configurarsi del reato ogniqualvolta la condotta che ha cagionato il disastro fosse coperta da un’autorizzazione amministrativa, in quanto in presenza di un tale provvedimento l’attività dannosa non potrebbe essere definita come “abusiva”28; secondo invece la tesi più riduttiva, l’avverbio abusivamente avrebbe soltanto la funzione di richiamare il giudice alla verifica, comunque imposta dai principi generali in tema di imputazione oggettiva e di colpa, che l’attività da cui è derivato il danno non rientrasse nel novero di quelle di cui è nota la pericolosità ma che sono comunque consentite, entro i parametri stabiliti dalla legge, in considerazione della loro rilevanza socioeconomica (l’area del cd. rischio consentito)29.
Il tema è estremamente complesso, e meriterebbe ben maggiore approfondimento di quanto ci è qui concesso. Volendo abbozzare una posizione, a noi pare che sia anzitutto da escludere, anche alla luce della giurisprudenza relativa ad altri reati in cui compare la clausola in questione, che la presenza di un’autorizzazione valga di per sé ad impedire che il disastro possa dirsi abusivamente cagionato: se, ad esempio, l’autorizzazione è stata concessa in violazione dei requisiti di legge, o addirittura se emerge che essa è il frutto di un patto corruttivo, ben potrà il giudice penale ritenere l’attività abusiva, anche se formalmente autorizzata30.
Il vero problema si pone nei casi in cui l’attività, oltre ad essere autorizzata, sia anche conforme alle prescrizioni normative: se il gestore dell’attività era a conoscenza del fatto che tali prescrizioni, magari in ragione della loro obsolescenza, non potevano più reputarsi adeguate a garantire l’ambiente, può comunque configurarsi la responsabilità penale a titolo di colpa, anche in mancanza di alcuna violazione formale della disciplina amministrativa di settore? Rispetto a tale questione, che come noto è da tempo al centro di un vivace dibattito in dottrina come in giurisprudenza, non ci pare che l’avverbio in questione risulti risolutivo. L’espressione è talmente generica, da poter essere agevolmente interpretata in senso ampio, come contrasto della condotta con le diverse norme di rango primario che a livello nazionale ed europeo individuano nell’ambiente un interesse fondamentale, da coloro che non intendano subordinare la reazione penale per l’evento dannoso all’individuazione di precise disposizioni normative violate da parte della condotta causativa dell’evento; oppure in senso più rigoroso, come necessità che tale condotta sia illecita rispetto a precise prescrizioni normative, da chi intenda riconoscere alla legge la possibilità di creare spazi di rischio consentito ove l’eventuale causazione di danni all’ambiente è comunque penalmente irrilevante.
Ci troviamo di fronte ad un temachiave dell’attuale scena penalistica, con l’esempio del caso Ilva a mostrare come il contemperamento tra le esigenze di tutela dell’ambiente e della salute e le esigenze della produzione possa costituire materia per un confronto anche aspro tra potere esecutivo e legislativo da un lato, e magistratura penale dall’altro. Ciò che è in discussione è la stessa visione della legittimazione e dei limiti di intervento del giudice penale a tutela dell’ambiente, e non ci pare francamente prevedibile che rispetto alla soluzione di una questione di portata così generale la giurisprudenza vorrà attribuire un ruolo decisivo alla presenza nelle nuove fattispecie dell’avverbio in esame.
3.2 Il momento consumativo del reato
La sentenza della Cassazione nel caso Eternit, che con il suo clamore mediatico aveva fornito una spinta decisiva all’introduzione dei nuovi delitti ambientali, aveva disposto l’annullamento della sentenza di condanna per disastro innominato doloso della Corte d’appello di Torino in quanto aveva ritenuto che la cessazione delle attività produttive nel lontano 1986 segnasse la fine del momento consumativo del reato di disastro, e lo stesso fosse di conseguenza da lungo tempo prescritto. Proprio l’individuazione del momento consumativo del disastro aveva quindi rappresentato il tallone d’Achille delle sentenze di merito: i tentativi del Tribunale e della Corte d’appello di ritenere il disastro ancora in fase di consumazione o in ragione del perdurare della contaminazione pericolosa per la salute (la sentenza di primo grado) o del “fenomeno epidemico” rappresentato dalle morti da amianto (la sentenza di secondo grado), erano stati entrambi censurati dalla Cassazione, secondo cui la cessazione dell’attività inquinante individuava il dies a quo della prescrizione del reato di disastro.
Le nuove norme pongono, sotto lo specifico profilo ora in esame, problemi molto simili a quelli che si sono posti nel procedimento Eternit a proposito del disastro innominato. Tutte le fattispecie qui in considerazione (il disastro ex art. 434 c.p. da un lato, i nuovi delitti di inquinamento e di disastro ambientale dall’altro) sono infatti fattispecie d’evento, in cui l’evento tipico consiste in un fenomeno dai contorni temporali dilatati e poco nitidi. Pensiamo ai diversi eventi che delineano la tipicità delle nuove fattispecie, dalla compromissione o dal deterioramento tipici per l’inquinamento, o all’alterazione irreversibile o particolarmente onerosa da eliminare che compongono il disastro: come nel caso dell’immutatio loci costitutiva del disastro innominato, l’evento tipico è costituito da fenomeni di cui non è agevole fissare precisi limiti temporali, ma che sicuramente non sono riducibili ad un accadimento istantaneo. Può il permanere dell’evento tipico del reato rilevare ai fini della fissazione del momento consumativo, anche quando la condotta da cui l’evento deriva è stata interrotta? La Cassazione, rispetto al disastro innominato, ha fornito risposta negativa a tale interrogativo, affermando che la fase consumativa si esaurisce con il cessare della condotta; considerata la prossimità strutturale dei nuovi delitti rispetto a quello su cui si sono espressi i giudici di legittimità, ci pare che tale conclusione debba essere tenuta in considerazione anche al fine della fissazione del momento consumativo dei reati di nuovo conio31.
Rispetto poi ai problemi di “denegata giustizia” che l’adozione di tale criterio di calcolo del termine prescrizionale ha posto in evidenza nel caso Eternit, per i nuovi reati il legislatore, memore proprio di tale vicenda, ha previsto il raddoppio degli ordinari termini di prescrizione32; la nuova fattispecie di disastro ambientale si prescrive in trent’anni, e se fosse stata applicabile nel caso Eternit, il termine prescrizionale non sarebbe decorso anche adottando il criterio della cessazione dell’attività.
1 In favore della scelta di tale collocazione, che «contribuisce ad una maggiore stigmatizzazione in chiave general-preventiva dei comportamenti puniti», cfr. in particolare ex multis, Siracusa, L., La legge 22 maggio 2015, n. 68 sugli “eco delitti”: una svolta “quasi” epocale per il diritto penale dell’ambiente, in www.penalecontemporaneo.it, 9.7.2015, 5.
2 Per una riflessione sulla pretesa irragionevolezza, in una visione esclusivamente ecocentrica, delle elevatissime pene comminate dalle nuove norme, cfr. peraltro Telesca, M., Osservazioni sulla l. n. 68/2015 recante “Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente”: ovvero i chiaroscuri di una agognata riforma, in www.penalecontemporaneo.it, 17.7.2015, 8.
3 L’art. 3 della direttiva impone agli Stati di incriminare una serie di condotte che «provochino o possano provocare il decesso o lesioni gravi alle persone o danni rilevanti alla qualità dell’aria, alla qualità del suolo o alla qualità delle acque, ovvero alla fauna ed alla flora».
4 Per un commento a tale provvedimento, cfr. per tutti Ruga Riva, C., Il decreto legislativo di recepimento delle direttive comunitarie sulla tutela penale dell’ambiente, in www.penalecontemporaneo.it, 8.8.2011.
5 Per una ricognizione delle fonti normative ove ricorrono tali espressioni, cfr. Molino, P., Novità legislative: legge n. 68 del 22 maggio 2015, recante “Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente, relazione dell’Ufficio del massimario della Corte di Cassazione datata 29.5.2015, disponibile in www.penalecontemporaneo.it, 3.6.2015, 4.
6 La figura generale di danneggiamento di cui all’art. 635 c.p. prevede, tra le altre condotte tipiche, anche quella di deterioramento.
7 Cfr. per primo Molino, P., Novità legislative, cit., 5.
8 Per un primo tentativo di individuazione di tali criteri, cfr. Ruga Riva, C., I nuovi ecoreati – Commento alla legge 22 maggio 2015, n. 68, Torino, 2015, 11.
9 Secondo Ruga Riva, C., I nuovi, cit., 5, si tratta di «una tautologia, più che (di) una definizione».
10 In Bell, A. H. Valsecchi, A., Il nuovo delitto di disastro ambientale: una norma che difficilmente avrebbe potuto essere scritta peggio, in www.penalecontemporaneo.it, 21.7.2015, 6, si riporta la definizione contenuta nell’all. 1 del d.p.c.m. del 27.12.1988 (contenente norme tecniche per la redazione degli studi di impatto ambientale), secondo cui gli ecosistemi sono «i complessi di componenti e fattori fisici, chimici e biologici tra loro interagenti ed interdipendenti, che formano un sistema unitario ed identificabile (quali un lago, un bosco, un fiume, il mare)»: per quanto utile come punto di riferimento normativo, è chiaro che tanto la collocazione topografica della norma, che il suo rango sublegislativo, non consentono di attribuire a tale definizione valore cogente in sede penale.
11 iprendendo ad esempio la nozione fornita da uno dei primi commentatori, per ecosistema deve intendersi «l’insieme degli organismi viventi (comunità), dell’ambiente fisico circostante (habitat) e delle reazioni biotiche e chimicofisiche all’interno di uno spazio definito della biosfera»: così Molino, P., Novità legislative, cit., 6.
12 In questo senso cfr. per tutti Ruga Riva, C., I nuovi, cit., 3
13 In dottrina, per una prima applicazione dei criteri delle Sezioni Unite alla materia ambientale, cfr. Ruga Riva, C., Dolo e colpa nei reati ambientali, in www.penalecontemporaneo.it, 19.1.2015, 18.
14 Utilizza quest’espressione Siracusa, L., La legge, cit., 37.
15 Sottolinea questo aspetto Molino, P., op. cit., 22.
16 Art. 452 ter c.p.: «Se dai fatti di cui all’art. 452 bis deriva, quale conseguenza non voluta dal reo, una lesione personale, ad eccezione delle ipotesi in cui la malattia ha una durata non superiore ai venti giorni, si applica la pena della reclusione da due anni e sei mesi a sette anni; se ne deriva una lesione grave, la pena della reclusione da tre a otto anni, se ne deriva una lesione gravissima, la pena della reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva la morte, la pena della reclusione da cinque a dieci anni. Nel caso di morte di più persone, di lesioni di più persone, ovvero di morte di una o più persone e lesioni di una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per l’ipotesi più grave, aumentata sino al triplo, ma la pena della reclusione non può superare gli anni venti».
17 Per questa osservazione, assai comune tra i primi commentatori, cfr. per tutti Parodi, C.Gebbia, M.Bortolotto, M.Corino, V., I nuovi delitti ambientali (l. 22 maggio 2015, n. 68), Milano, 2015, 27.
18 In Ruga Riva, C., I nuovi, cit., 21, si fa notare come la pena massima di 20 anni, prevista per le ipotesi di morte o lesioni di più persone, è inferiore a quella che sarebbe risultata applicabile sulla base del concorso del delitto di inquinamento con quello di omicidio colposo plurimo (6+15=21 anni).
19 C. cost., 6.8.2008, n. 327, ove la Corte conclude la motivazione affermando che «è tuttavia auspicabile che talune delle fattispecie attualmente ricondotte, con soluzioni interpretative non sempre scevre da profili problematici, al paradigma punitivo del disastro innominato – e tra esse, segnatamente, l’ipotesi del cosiddetto disastro ambientale (…) – formino oggetto di autonoma considerazione da parte del legislatore penale, anche nell’ottica dell’accresciuta attenzione alla tutela ambientale ed a quella dell’integrità fisica e della salute, nella cornice di più specifiche figure criminose» (par. 9 del considerato in diritto).
20 Cass. pen., sez. I, 19.11.2014 (dep. 23.2.2015), Schmidheiny, in www.penalecontemporaneo.it, 24.2.2015.
21 In Ruga Riva, C., op. cit., 34 si parla ad esempio di «una descrizione dell’evento al tempo stesso tortuosa ed opaca», mentre in Bell, A.H. Valsecchi, A., Il nuovo delitto, cit., 6 si definiscono i problemi interpretativi relativi a tale evento «ancora più drammatici» di quelli riguardanti le altre parti della norma.
22 Cfr. in particolare in questo senso Ruga Riva, C., I nuovi, cit., 34
23 Non può parlarsi di specialità in senso stretto (o unilaterale), perché la norma che si pretenderebbe generale (il disastro innominato) contiene almeno un elemento strutturale (l’evento distruttivo, che la giurisprudenza estende alla contaminazione ambientale, ma certo non può essere a quest’ultima ridotto) estraneo alla fattispecie speciale; e d’altra parte, la pretesa norma speciale contiene elementi (la contaminazione ambientale irreversibile, punibile anche in mancanza del pericolo per la pubblica incolumità) estranei alla tipicità della pretesa norma generale.
24 «Ravvedimento operoso – Le pene previste per i delitti di cui al presente titolo (...) sono diminuite dalla metà a due terzi nei confronti di colui che si adopera per evitare che l’attività delittuosa venga portata a conseguenze ulteriori, ovvero, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado,provvede concretamente alla messa in sicurezza, alla bonifica e, ove possibile, al ripristino dello stato dei luoghi, e diminuite da un terzo alla metà nei confronti di colui che aiuta concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella ricostruzione del fatto, nell’individuazione degli autori o nella sottrazione di risorse rilevanti per la commissione dei delitti».
25 Per questa conclusione cfr. ancora Ruga Riva, C., I nuovi, cit., 27.
26 È la tesi prevalente: cfr. tra gli altri Bell, A.H. Valsecchi, A., op. cit., 12 e Ruga Riva, C., I nuovi, cit., 9.
27 In questo senso cfr. in particolare Siracusa, L., op. cit., 17, che proprio in ragione della presenza dell’avverbio in esame qualifica il disastro come reato a condotta vincolata.
28 Il critico più acceso della formula in questione è stato senz’altro Amendola, che sul punto si è confrontato con Ruga Riva in un serrato scambio di opinioni sulla rivista online www.lexambiente.it, (cfr. gli interventi di Ruga Riva, del 23.6.2015 e del 6.7.2015, e le repliche di Amendola del 26.6.2015, e del 13.7.2015).
29 Per la tesi della sostanziale inutilità della clausola, cfr. in particolare Bell, A.H. Valsecchi, A., op. cit., 13, secondo cui clausole di antigiuridicità espressa del tipo di quella in esame «altro non fanno se non ricordare l’ovvio, ossia che il fatto tipico costituisce reato solo se non è imposto o facoltizzato da un’altra norma dell’ordinamento».
30 Per alcuni riferimenti alla giurisprudenza relativa al reato di cui all’art. 260 t.u.a. («attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti»), dove ricorre la formula in esame, cfr. Palmisano, S., Delitti contro l’ambiente, quand’è che un disastro si può dire abusivo, in www.lexambiente.it, 26.3.2015.
31 Per alcune interessanti riflessioni sul momento consumativo dei nuovi reati, cfr. in particolare Parodi, C. Gebbia, M. Bortolotto, M. Corino, V., I nuovi delitti, cit., 31.
32 Per una critica di tale scelta, che conduce a tempi di prescrizione ritenuti eccessivi, cfr. tuttavia Vergine, A.L., I nuovi delitti ambientali: a proposito del d.d.l. n. 1345/2014, in Ambiente&Sviluppo, 2014, 6, 449.