Vedi I 'nuovi italiani' dell'anno: 2012 - 2013
È uno scenario sbalorditivo, quello che gli esperti ci srotolano davanti agli occhi. Nel 2020 l’Italia, da cui un tempo partivano i bastimenti, potrebbe diventare il primo paese d’Europa quanto a numero di immigrati. Già nel 2010 eravamo sul podio continentale, dopo la Germania e poco dietro la Spagna, con i nostri cinque milioni di stranieri residenti. Al ritmo di 250.000 arrivi all’anno, che l’Istat considera realistico, diventeranno sette milioni e mezzo, escludendo gli irregolari. Vero che la Germania già oggi ne conta poco meno di sette milioni, ma questo paese trasforma gli stranieri in cittadini tedeschi a un ritmo superiore a noi, e inoltre per il futuro cerca lavoratori stagionali o manodopera molto qualificata. Le fredde cifre non aiutano a cogliere in pieno la più sorprendente rivoluzione che abbia investito l’Italia repubblicana. Per rendere meglio l’idea, è come se, nel 2010, le quattro più importanti città italiane, Roma, Milano, Napoli e Torino, fossero state interamente abitate da stranieri. Per aggiungere poi alla lista nel 2020 Genova e Palermo, Bologna e Firenze, Bari e Venezia. Ma quando è iniziato ad accadere, tutto questo? E come mai non ce ne siamo quasi accorti? Per comodità, il 1976 viene considerato l’anno di svolta tra esodi e ingressi. Perché consente il riferimento al 1876, anno della prima rilevazione ufficiale sugli espatri, e il calcolo conseguente, ufficializzato dal nostro ministero degli esteri, che nell’arco di un secolo ben 27 milioni di italiani hanno lasciato la penisola in cerca di fortuna all’estero. In realtà, secondo alcune stime, l’inversione di segno sarebbe giunta quattro anni prima, nel 1972, con un saldo positivo di 14.000 arrivi. L’Italia è stata colta di sorpresa, perché i primi immigrati sono arrivati quasi silenziosamente, e in luoghi del tutto appartati. Tra i primi, i pescatori tunisini di Mazara del Vallo, periferici, separati, con il loro lavoro lontano dalla terraferma. Uno di questi, Bezine Hachemi, ha raccontato la sua storia sui giornali: era giunto in Sicilia nel 1969, l’anno dell’‘autunno caldo’, e vi aveva già trovato una decina di paesani. Appartate sono le mura domestiche delle famiglie agiate di Roma e Milano, dove negli anni Settanta approdano le prime colf, dalle Filippine e da Capo Verde. Appartati i campi dove lavorano i primi raccoglitori di pomodori, studenti africani che impegnavano l’estate per mantenersi all’Università. E anche i venditori di stoffe e di pelli che giravano per le spiagge davano un’idea esotica, di lontananza e di separazione. Poi, piano piano, anche l’industria comincia a impiegare lavoratori stranieri: nel novembre del 1977, il periodico Vita Nuova annuncia che a Modena la Fiat ha appena assunto 50 egiziani per le fonderie. Negli anni Ottanta e Novanta l’immigrazione esplode, con la richiesta sempre più diffusa da parte delle imprese e delle famiglie per posizioni che gli italiani non vogliono più occupare. Dall’industria conciaria all’edilizia, dalle pulizie negli uffici e negli alberghi ai servizi di ristorazione, alla cura degli anziani e dei bambini nelle famiglie. Nel primo decennio del nuovo secolo si assiste a una triplicazione delle presenze (nel 2000 gli immigrati erano ‘appena’ un milione e mezzo) e in un solo anno e per giunta di crisi, il 2010, un aumento di 388.000 stranieri iscritti in anagrafe viene registrato dall’Ismu, l’istituto che, assieme alla Caritas, studia con attenzione gli immigrati del nostro paese. Nel tracciare l’identikit degli ‘immigrati all’italiana’ non si sfugge a tre aspetti essenziali: policentrismo geografico, religione prevalente cristiana e lavoro alle dipendenze delle famiglie ben più che in tutti gli altri paesi d’Europa. Lo straordinario allungamento della vita, che pone in primo piano il problema della cura degli anziani e l’endemica carenza di servizi sociali, fanno sì che, a ore o a tempo pieno, circa un milione di straniere vengano già impiegate nel lavoro domestico. Quanto alla religione, i fedeli di Allah sono a stento un terzo e, quanto a provenienza geografica, nella scuola italiana se ne contano ben 180 differenti. Nel primo decennio del 2000, tuttavia, è cresciuta enormemente la presenza dei romeni. Tra iscritti in anagrafe e non sono stimati in 1.200.000 e costituiscono la prima nazionalità degli immigrati in Italia. Rilevante è anche il numero dei titolari di impresa stranieri: 213.000 a maggio del 2010. Persone venute non soltanto a cercare lavoro, ma anche a crearne, mostrando una voglia di integrazione che emerge da tanti altri segnali: ogni anno nascono in Italia quasi 100.000 bimbi stranieri; i matrimoni misti sono triplicati in tre lustri e ormai se ne conta uno ogni sette celebrati; i minori erano già un esercito di un milione nel 2010. Tutto questo pone all’Italia una doppia e complicata sfida: da un lato governare e selezionare i flussi, dall’altro creare solide strutture di integrazione per un processo che è ormai strutturale e contribuisce all’11% del prodotto lordo del nostro paese.