I nuovi mostri della commedia italiana
Il trionfo al box office dei film di Zalone non ha niente in comune con la commedia italiana degli anni Sessanta e Settanta. Non c’è più critica dei costumi: oggi vogliamo ridere di qualcosa che non ci faccia male.
Per un classico gioco del destino, i primi mesi del 2016 hanno proposto in rapida sequenza 2 fatti simbolici per la storia del cinema italiano: da una parte il record di incassi conquistato da Quo Vado?, il nuovo film di Checco Zalone; dall’altra, la morte di Ettore Scola, uno dei padri nobili della commedia italiana. Difficile non provare ad accostare le 2 cose per trarne qualche ragionamento storico sullo sviluppo di un genere che è uno dei più caratteristici della cinematografia nazionale. Oggi come oggi, infatti, la commedia resta il genere largamente dominante sul mercato, avendo relegato in un angolo i film drammatici o d’autore e avendo spazzato via un sistema dei generi (per esempio il poliziesco, o l’erotico) che pure nei decenni passati aveva avuto uno spazio non indifferente sul mercato. Non ci si lasci ingannare dai successi di Paolo Sorrentino, che resta una fortunata eccezione: un suo film vale, al box office, meno di un decimo di Zalone. Uno di Matteo Garrone incassa 30 volte meno.
Numeri a parte, la cosa più interessante è fare un ragionamento di sostanza: e cioè, cosa è cambiato dai tempi della commedia italiana classica a oggi? Un dato stilistico e contenutistico balza subito agli occhi: è del tutto scomparsa la cattiveria. Se il cinema degli Scola, dei Risi e dei Monicelli era quello dei ‘mostri’ e dei ‘brutti, sporchi e cattivi’, quello di Zalone e della sterminata serie di comici (più che attori) che come lui provengono dalla televisione è un cinema consolatorio, fatto di individui ordinari nei quali lo spettatore – invece di vedersi nello specchio deformato degli indimenticabili personaggi di Sordi, Manfredi, Tognazzi, Gassman – si identifica. È una mutazione antropologica del concetto di risata. Il cinema degli anni Sessanta/Settanta era un cinema di critica dei costumi, spesso con storie dal finale amarissimo, in cui il protagonista veniva pressoché regolarmente sconfitto: o se vinceva, era per confermare la mostruosità del suo carattere. Perfino in un film ‘semplice’ come I soliti ignoti, il finale in cui Gassman, ladro fallito, finisce a lavorare in cantiere porta con sé un’ironia sferzante e paradossale rispetto ai valori della società. Ecco, il problema è proprio questo: le storie della commedia classica usavano personaggi che illuminavano tratti salienti della società che li esprimeva, facevano parte di un paesaggio storico organico. I protagonisti delle storie di oggi sono invece degli individui oppressi dal mondo esterno, dei ‘poveracci’ che rappresentano l’isolamento caratteristico della nostra epoca, in cui tutti si sentono in balìa di forze più grandi di loro stessi. Ridere dei mostri di Gassman e Tognazzi era come alzare uno specchio nel quale riconoscere i propri vizi ed esorcizzarli con uno sghignazzo; ridere con Zalone è la consolazione offerta dall’identificarsi in personaggi che, come quasi tutti, risultano ampiamente inadeguati al mondo che li circonda. Quando parliamo di personaggi, poi, dobbiamo considerare con attenzione il termine.
Mentre 40 anni fa i protagonisti della commedia italiana erano attori multiformi e straordinari, quelli di oggi sono personaggi in quanto rappresentano se stessi, o meglio l’identità del ‘tipo’ che si sono creati negli anni, a cominciare – quasi sempre, come si è detto – dagli sketch televisivi con cui sono diventati famosi. In questo senso si spiega anche un fenomeno come quello de I soliti idioti, che apparentemente, con la loro ‘scorrettezza politica’, sembrano confutare questa lettura. In realtà la confermano: le maschere degli anni Sessanta, nel cinema di Mandelli e Biggio, si sono trasformate in veri e propri mascheroni antirealistici, perché solo nella chiave del grottesco è possibile ancora ridere.
Infatti, quando il duo ha buttato quei panni per girare, dopo 2 film inguardabili dal punto di vista cinematografico, un terzo, ossia La solita Commedia. Inferno, che invece era più che accettabile per qualità della realizzazione, sono andati incontro a un clamoroso flop. Al di là di improbabili confronti stilistici tra ieri e oggi (e anche al netto di un fenomeno curioso: nonostante qualcuno pretenda che Zalone sia inviso agli intellettuali, su di lui converge una sorprendente unanimità di consensi), il fatto su cui riflettere è il seguente: è mutata la motivazione della risata perché è mutato quello che la gente si aspetta quando compra un biglietto del cinema.
E non potrebbe essere altrimenti, dato ciò che è successo in termini di sviluppo dei mezzi di comunicazione negli ultimi 40 anni. Oggi il cinema è ‘solamente’ un luogo di intrattenimento, sprovvisto di quell’autorevolezza bigger than life che lo ha caratterizzato per più di un secolo. Lo dicono i numeri del box office, in picchiata da decenni a favore di altre forme di visione dei film (home video, TV, download), ma lo dice anche la qualità della fruizione, come può testimoniare chiunque frequenti un multiplex. Nessun moralismo o rimpianto in questo, sia chiaro: sono i tempi che cambiano. Però questo fatto rende appunto impossibile fare un confronto tra Zalone e Scola in termini cinematografici: ci si può solo limitare a osservare che la morte dell’autore di Una giornata particolare segna il punto e a capo definitivo, anche sotto il profilo anagrafico (era l’ultimo dei grandi ancora in vita), di una stagione storica. Se ne è aperta un’altra in cui i termini di discussione sono del tutto diversi.
Questa è una riflessione che ci aiuta a capire anche l’altro grande successo della stagione: Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese, campione di incassi e anche insignito del David di Donatello come miglior film. Da un certo punto di vista, Perfetti sconosciuti sembrerebbe il classico erede di quella ‘commedia impegnata’ di cui abbiamo lamentato la scomparsa. Solo che, da un altro, il film di Genovese non è affatto una commedia, anche se è stato presentato come tale. Al di là del giudizio finale che se ne può dare è abbastanza evidente che la struttura di Perfetti sconosciuti è oggettivamente schizofrenica. È costruito sui classici schemi della commedia teatrale rispettando unità di luogo e di tempo, ed è tutto concentrato sull’idea di mettere un gruppo di persone in una situazione claustrofobica dentro la quale si avvia un tipico gioco al massacro. Per farlo, Genovese ha una trovata particolarmente brillante: quella di giocare sull’ossessione del telefonino che è una realtà condivisa a livello di massa. E quindi la prima mezz’ora di film serve a presentare i personaggi e a innescare il meccanismo dei segreti custoditi nei cellulari: e in questo senso funziona effettivamente come una commedia tradizionale.
Poi, però, subito dopo prende una direzione completamente diversa e sfocia in una parte centrale di puro melodramma in cui non si ride quasi più: salvo poi, per dover chiudere una partita drammaturgica assai complicata, sfociare in un finale irrealistico in cui tutto torna come prima ma senza una spiegazione soddisfacente. Per capire meglio di cosa sto parlando provate a pensare a un film come Carnage di Roman Polański, che ha lo stesso andamento, ma in cui la risata – anche dura, anzi soprattutto dura – è continua e regolare.
In realtà, la fortuna del film sta proprio in questo suo essere imperfetto: perché una volta assolta la funzione della risata ‘identificatoria’ nella prima parte (e cosa c’è oggi in Italia di più identificatorio del telefono cellulare?), Perfetti sconosciuti offre poi al pubblico, in particolare al pubblico meno giovane, un tipo di discorso filmico che ormai incontra raramente e che – se il film offrisse solo quello – probabilmente rifiuterebbe. Il che rivela il momento di schizofrenia caratteriale di noi come popolo: vogliamo ridere con qualcosa che non ci faccia male, ma della rappresentazione di quel ‘male’ sentiamo ancora la necessità.
Solo che è cambiato tutto lo schema di riferimento tra pubblico, autori e produttori. Di conseguenza assistiamo al paradosso di un film che mette d’accordo critica e pubblico non per i suoi pregi, ma per i suoi errori.
I capolavori degli anni d’oro
- I soliti ignoti, 1958, di Monicelli con V. Gassman, M. Mastroianni, R. Salvatori, Totò
- Il vedovo, 1959, di Risi con A. Sordi e F. Valeri
- Tutti a casa, 1960, di L. Comencini con A. Sordi e S. Reggiani
- Risate di gioia, 1960, di Monicelli con Totò, A. Magnani, B. Gazzara
- Divorzio all’italiana, 1961, di P. Germi con M. Mastroianni, D. Rocca, S. Sandrelli, L.Trieste
- Il federale, 1961, di L. Salce con U. Tognazzi
- Una vita difficile, 1961, di Risi con A. Sordi e L. Massari
- La ragazza con la valigia, 1961, di V. Zurlini con C. Cardinale
- Il sorpasso, 1962, di Risi con V. Gassman e J.-L. Trintignant
- Ieri, oggi, domani, 1963, di V. De Sica con S. Loren e M. Mastroianni
- I mostri, 1963, di Risi con U. Tognazzi e V. Gassman
- I complessi, 1965, di L.F. D’Amico, Risi, F. Rosi con N. Manfredi, U. Tognazzi, A. Sordi
- Io la conoscevo bene, 1965, di A. Pietrangeli con S. Sandrelli, N. Manfredi, E.M. Salerno, U. Tognazzi
- Signore & signori, 1965, di P. Germi con V. Lisi e G. Moschin
- L’armata Brancaleone, 1966, di Monicelli con V. Gassman, E.M. Salerno, G.M. Volonté
- La ragazza con la pistola, 1968, di Monicelli con M. Vitti
- Straziami ma di baci saziami, 1968, di Risi con N. Manfredi e U. Tognazzi
- Il medico della mutua, 1968, di L. Zampa con A. Sordi
- Alfredo Alfredo, 1972, di P. Germi con D. Hoffman, S. Sandrelli, C. Gravina, D. Del Prete
- Lo scopone scientifico, 1972, di L. Comencini con A. Sordi, S. Mangano, B. Davis, J. Cotten
- Mimì metallurgico ferito nell’onore, 1972, di L. Wertmüller con G. Giannini e M. Melato
- C’eravamo tanto amati, 1974, di Scola con V. Gassman, N. Manfredi, S. Sandrelli
- Amici miei, 1975, di Monicelli con U. Tognazzi, G. Moschin, Ph. Noiret, A. Celi
- Brutti, sporchi e cattivi, 1976, di Scola con N. Manfredi
- Un borghese piccolo piccolo, 1977, di Monicelli con A. Sordi, V. Crocitti, R. Valli
- Una giornata particolare, 1977, di Scola con S. Loren e M. Mastroianni
I maestri: Monicelli, Risi, Scola
■ Mario Monicelli (Viareggio 1915 - Roma 2010)
Autore di film autenticamente nazional-popolari, capaci di catturare il consenso del pubblico e al tempo stesso di essere specchio critico del costume e della politica, ha puntato sul tratteggio dei personaggi e sulla scelta degli attori. Nelle sue opere lo stile caustico e cinico tipico della commedia all’italiana si fonde con uno sguardo critico nei confronti dei valori dominanti e con un umorismo vivo, graffiante, originale. Nel corso della sua lunga carriera, spesso in coppia con Steno, uno degli sceneggiatori più ricercati, grazie alla capacità di adattarsi a generi diversi e di lavorare velocemente e con estrema perizia, ha diretto i più grandi attori italiani e ha concepito l’impegno politico come una precisa scelta morale.
■ Dino Risi (Milano 1916 - Roma 2008)
Regista e sceneggiatore cinematografico e televisivo, dotato di un’ironia sferzante e di un’istintiva facilità di mestiere, ha diretto opere divenute capisaldi dell’intrattenimento popolare anche con l’aiuto di sceneggiatori del livello di Ennio De Concini, Rodolfo Sonego, Bernardino Zapponi, Ettore Scola, Ruggero Maccari, Age e Scarpelli. Imitato dagli innovatori di Hollywood, oggetto di culto da parte della raffinata cinefilia francese, è unanimemente riconosciuto come uno dei maestri della commedia italiana, specchio di un paese di cui ha tramandato lo spirito vitalistico e irresponsabile in anni cruciali della sua storia.
■ Ettore Scola (Trevico, Avellino, 1931 - Roma 2016)
Sceneggiatore, regista e produttore cinematografico è stato protagonista della grande stagione della commedia all’italiana, contribuendo a spingerla in direzione di una lettura politica della storia nazionale e dedicandosi poi a una produzione cinematografica di taglio europeo, ottenendo all’estero (soprattutto in Francia) significativi riconoscimenti. È stato autore di un cinema di sceneggiatura, perfezionato grazie soprattutto all’assidua collaborazione con Ruggero Maccari, e negli anni Settanta, con Age e Scarpelli. Attento nel ricostruire, attraverso ambienti e dialoghi, precisi periodi storici, è stato ottimo direttore di attori.