I partiti politici
Già fra i membri dei parlamenti inglesi dello scorcio del Seicento, alcuni si dicevano appartenere ai whigs (in genere proprietari terrieri o a questi legati); altri ai tories (in genere membri dell’aristocrazia di corte). Ma non si poteva dire che si trattasse di partiti nel senso moderno della parola, organizzati, duraturi e occupanti insieme la gran parte dei seggi di un parlamento. Di partiti di questo tipo si può incominciare a parlare a partire dagli anni Settanta del 18° sec., sia per l’importanza della loro presenza attiva nel Parlamento britannico sia per la prima definizione teorica che ne fu data. In quegli anni il potere effettivo era stato sottratto all’élite aristocratica e concentrato nelle mani del monarca, il quale lo esercitava attraverso una persona da lui designata (il «favorito»), sostenuto da una maggioranza parlamentare pervasivamente corrotta dal denaro delle casse reali. Un gruppo di parlamentari che si opponeva a questo stato di cose, guidato dal marchese di Rockingham, decise di unirsi, più o meno formalmente, in un partito. Il proposito era quello di non accettare che il monarca scegliesse lui il governo, usasse la corruzione per formare la maggioranza e rendesse in tal modo impossibile un’opposizione coerente e duratura. A questo si voleva contrapporre l’organizzazione di un partito capace di imporre fedeltà e unità di voto ai suoi membri. Si dà il caso che tra i cosiddetti Rockingham Whigs, in posizione di consigliere, o segretario, di Rockingham, militasse colui che sarebbe diventato uno dei maggiori pensatori liberali del suo tempo, E. Burke. E fu questi che, dall’esperienza di quelle vicende, teorizzò la natura dell’istituzione «partito». Benché la realtà di partito cui Burke si riferiva fosse ovviamente molto diversa da quella che più tardi si sviluppò, è interessante coglierne sin dagli inizi alcuni elementi che le davano senso: la formazione di una solidarietà collettiva capace di indurre i dirigenti politici a resistere alle lusinghe del potere reale, e quindi a mantenere la lealtà di partito anche in periodo di opposizione (questo appariva l’elemento caratterizzante); un’idea comune della costituzione (essenzialmente un governo scelto dal Parlamento e non dal sovrano); e quindi un programma di azioni di governo da realizzare sul breve periodo.
Da questa genesi quasi sommessa, si formò nei decenni successivi il sistema di partito più duraturo che la storia delle democrazie liberali conosca, quello britannico. Intorno agli anni Trenta dell’Ottocento, praticamente tutti i membri del Parlamento britannico erano iscritti o al partito conservatore o a quello liberale. La diffidenza verso i partiti, però, permase a lungo in Gran Bretagna e più ancora negli Stati Uniti. Nei dibattiti costituzionali vengono chiamati «fazioni», considerati focolari di divisione e pericolosi per il buon funzionamento del regime democratico. Fino agli anni Venti dell’Ottocento, la mira degli uomini politici americani era quella di realizzare una forma di governo dove potesse esistere un solo partito. Del resto, nella stessa Francia della grande Rivoluzione, i partiti erano visti con sospetto come potenziali pericoli per l’unità dello Stato perché alteranti un rapporto diretto tra governo e cittadini, e furono banditi a lungo. Fu solo con la formazione della Terza repubblica negli anni Settanta dell’Ottocento, che i partiti finirono per diventare i protagonisti della politica.
Questa resistenza ad accettare l’istituzione «partito», durata così a lungo nei Paesi – Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia – che sono stati all’origine delle prime forme del regime liberaldemocratico, si spiega con l’ambiguità delle concezioni riguardanti le funzioni dell’istituzione «partito» nello Stato democratico: il compito dei partiti è quello di rendere possibile ai cittadini di scegliere tra politiche alternative, o invece quello di organizzare il consenso dei cittadini nei confronti di una determinata politica una volta che essa è stata decisa dal governo eletto? Nel primo caso, si presume che al momento del voto gli elettori siano in grado di valutare lo stato della divisione degli interessi sociali ed economici reali, e come questa venga rispecchiata dai programmi dei partiti; e inoltre, anticipando le combinazioni possibili che si sarebbero sviluppate, una volta al governo, tra i rappresentanti dei vari interessi interni o esterni ai partiti, prevedere quali conseguenze quei programmi avrebbero comportato. Ne deriva che, considerando le scarse possibilità di presentare programmi di governo facilmente interpretabili dagli elettori nelle loro molteplici conseguenze, la pratica di farli scegliere dagli elettori quali presentati al momento del voto, ha un’alta probabilità di essere ingannevole.
Nel secondo caso, il compito dei partiti è visto come strumento di organizzazione del consenso al governo. I programmi governativi vengono allora più o meno apertamente negoziati dai partiti «dopo» il risultato delle elezioni. Il processo di designazione dei rappresentanti da parte delle strutture di partito (attraverso i congressi o le elezioni primarie o altri modi) diventa la fase più rilevante della scelta elettorale. E gli elettori che hanno difficoltà a interpretare i possibili effetti dei programmi, scelgono non tra programmi, bensì tra candidati che ispirino loro fiducia o per la posizione che occupano nello spettro delle ideologie presenti nel sistema; o per ciò che può venire conosciuto o intuito della loro esperienza amministrativa; o per la loro posizione morale, se nota.
Tra i partiti modesti e inadeguati, dei quali abbiamo appena descritto l’emergere nella prima metà del sec. 19°, e quelli che occupano la scena politica odierna, le differenze appaiono evidenti a chiunque. Dato lo spazio a nostra disposizione sarà impossibile descrivere l’evoluzione, del resto non lineare, dei mutamenti che hanno caratterizzato questo sviluppo. Più utile sarà invece mettere in luce i fenomeni che si possono ritenere alle radici di questi mutamenti.
1. Il primo fenomeno che influì sulla forma dei partiti e sulla natura delle loro funzioni, va cercato negli effetti che la crescita dell’economia europea e nordamericana ha avuto sui luoghi di lavoro (le grandi fabbriche) e sui luoghi di abitazione (le grandi città) con la conseguente formazione di una nuova classe di lavoratori e la loro entrata nel sistema politico attraverso l’espansione del suffragio. È in quel periodo che si formarono i cosiddetti partiti organizzati di massa, orientati da precise ideologie: quella cattolica, soprattutto in Germania a partire dagli anni Sessanta del sec. 19° e quella socialista una decina di anni dopo. A sinistra del Partito socialista si costituì, dopo la Prima guerra mondiale, il Partito comunista, appoggiato essenzialmente dall’Unione Sovietica; mentre a destra si svilupparono vari tipi di partiti nazionalisti, che presero poi il potere in Italia, Germania e Spagna, e in alcuni dei nuovi Stati usciti dalla dissoluzione degli imperi dell’Europa orientale. Si affermò così in Europa, e successivamente anche nei Paesi del Terzo mondo, quella profonda distinzione ideologica volta a interpretare in maniera contrapposta – socialista o nazionalista – le speranze di trasformazione politica della società scaturite dal grande processo di sviluppo industriale e urbano dei secc. 19° e 20°. I maggiori partiti assumono allora la funzione socializzante di accompagnare e orientare nei loro nuovi ruoli di cittadini dello Stato rappresentativo, le masse di popolazione cui l’allargamento del suffragio aveva offerto nuova voce. Emergono quindi diverse ideologie, che, a volte con l’intensità di vere e proprie fedi religiose, creano una cultura parallela a quella ufficiale. Fanno eccezione gli Stati Uniti, in cui i partiti di massa pur si formarono, ma in cui le continue ondate di immigranti e la persistenza delle divisioni etniche che ne derivarono, impedirono l’affermarsi di una solidarietà di classe a livello nazionale.
2. Altra circostanza che modificò la funzione dei partiti fu l’espansione dell’intervento dello Stato nel campo delle politiche pubbliche. L’elargizione di benefici, che aveva rappresentato una componente importante dell’attività dei partiti fra la popolazione, viene ora presa in carico dallo Stato. Come conseguenza i partiti si attrezzano secondo le tecniche di una burocrazia parallela a quella dello Stato, riorientando in questo senso la preparazione dei loro dirigenti. Più che ampliare gli originari rapporti con la popolazione, ne intessono di nuovi con la burocrazia dello Stato e con le dirigenze delle imprese economiche, ricuperando così la funzione clientelare, che durante il precedente periodo era stata sostituita dai vincoli nati nella solidarietà ideologica. Contemporaneamente, a lato dei partiti, si sviluppano i gruppi di pressione, rappresentanti interessi specifici, spesso operando attraverso partiti diversi, in quanto più attrezzati di questi nell’ottenere i desiderati interventi legislativi. In simile avvicinamento, istituzionale o tacito, di organi di governo, gruppi di interesse e partiti, questi ultimi – con maggiori risorse di prima, per i finanziamenti e dello Stato, e dei contributori privati – sembrano ritagliarsi il compito di formare, selezionare, disciplinare e, quando necessario, far comunicare trasversalmente gran parte della classe dirigente destinata ai posti di governo, abbandonando invece quella che era stata per molti decenni l’opera di socializzazione ideologico-programmatica dei cittadini.
3. Infine, l’espansione dei mezzi di comunicazione pubblica, soprattutto nei primi anni del giornalismo, sembrava aiutare e orientare la propaganda dei partiti. Ma successivamente, con la diffusione della radio e della televisione, molte delle funzioni informative che sembravano essere proprie dei partiti, vengono assorbite da questi media.
Concludendo con le vicende recenti, si può osservare che la politica si professionalizza e i partiti presentano programmi che, se dettagliati e specifici, appaiono di difficile interpretabilità; se, invece, elementari e «gladiatori», si limitano a espressioni di propaganda condensata. Ne deriva che i temi che acquistano rilevanza di discussione pubblica tendono a essere quelli che sollevano problemi morali sui quali si presume che ogni persona sia naturalmente competente (divorzio, aborto, matrimoni omosessuali, testamento biologico, questa o quella tecnica genetica ecc.). Il rapporto tra governati e governanti prende la forma di un dialogo tra la popolazione e capipopolo, i quali mirano poi a porsi, in maniera più o meno durevole, al di sopra della stessa classe partitica. La fiducia al popolo è chiesta di volta in volta, o in nome di riforme settoriali, apparentemente rivoluzionarie, ma poi inevitabilmente, per gli interventi di poteri dispersi, ridotte a livello di negoziati particolari; o in nome di una comune, ma inverificabile, concezione della buona vita civile.
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