I popoli delle steppe e lo spazio mediterraneo: Unni, Avari, Bulgari
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
I popoli nomadi che, muovendo dalle steppe dell’Asia centrale, raggiungono l’Europa centrale tra IV e VI secolo, appaiono marginali rispetto ai grandi processi di fusione etnico-culturale del periodo romano-barbarico. Unni e Avari riescono a fondare grandi imperi, destinati però a sparire velocemente. Solo i Bulgari (e più tardi i Magiari) si insediano stabilmente nello spazio europeo.
A metà del VI secolo lo storico goto Giordane ricorda la leggenda sulla nascita degli Unni: v’erano delle streghe tra i Goti in cammino dalla Scandinavia alla Crimea; il re dei Goti ordinò di cacciarle dal popolo. Furono abbandonate in una terra di desolazione, dove si accoppiarono con gli immondi spiriti del deserto.
È questa la leggendaria origine della feroce razza degli Unni: “che dapprima vagò per le paludi: pochi, tetri, gracili, quasi simili all’uomo, riconoscibili per qualcosa che somigliava al linguaggio umano” (Getica, 24).
Giordane è la memoria storica dei Goti. Scrive in latino, nella lingua di Roma: la sua scelta è un segno concreto dello straordinario processo di assimilazione che caratterizza l’età romano-barbarica in Europa tra V e VIII secolo. Dopo secoli di convivenza sulla frontiera, infatti, i Germani invadono l’impero e ne conquistano le regioni d’Occidente. Ma una comune volontà conduce Romani e barbari all’incontro, all’osmosi sociale e religiosa, all’unità politica. Come testimonia Giordane, gli Unni sono fuori da questo processo. Queste popolazioni – come poi gli Avari, i Bulgari, e i Magiari – provenivano dalle remote steppe dell’Asia centrale: spazi dilatati, selvaggi, dove la natura domina gli uomini accentuandone la barbarie.
A differenza dei Germani, gli Unni sembrano sentire molto debolmente l’attrazione per Roma, per la vita urbana, la cultura scritta, la certezza delle leggi, il cristianesimo. Paghi delle loro tradizioni, preferiscono rimanere marginali per conservare la propria identità, i culti e le usanze degli avi tramandate per secoli nella steppa.
E sono percepiti tanto dai Romani quanto dai Germani come marginali e lontani, quindi feroci e pericolosi: i “barbari dei barbari”, in una gradazione infinita di abbrutimento del genere umano. Questo giudizio è già nelle Res gestae di Ammiano Marcellino. Lo storico descrive, ad esempio, il rapporto strettissimo tra gli Unni e i loro cavalli. Si tratta di un binomio profondamente barbarico, una promiscuità inquietante tra uomini e animali che caratterizza l’intera testimonianza. È possibile che una fonte dello schizzo etnografico di Ammiano sia un nobile goto sfuggito combattendo alla prigionia degli Unni e profugo alla corte di Teodosio I. Ammiano, infatti, scrive a ridosso di eventi terribili.
Negli anni Settanta del IV secolo, gli Unni si abbattono inaspettati sulle genti goto-alane insediate lungo il Mar Nero, in Crimea e nelle regioni del basso Danubio. Nel volgere di pochi anni gli invasori massacrano e sottomettono le popolazioni sul loro cammino. Non si spostano subito sui territori conquistati tra Balcani e Carpazi, ma vi impongono una dura egemonia. In trappola, con le spalle al fiume, i Goti Tervingi, abitanti a ridosso della frontiera romana sul Danubio, impetrano l’aiuto di Roma. Piuttosto che cadere schiavi degli Unni chiedono di passare in massa il fiume: l’imperatore Valente acconsente e nei primi mesi del 376 avviene il trasferimento. Si tratta di un evento epocale che nell’arco di 40 anni porta i Goti a insediarsi stabilmente in Aquitania, dopo la battaglia di Adrianopoli (378) e dopo il sacco di Roma (410). Senza dubbio gli Unni causano la momentanea rovina della frontiera danubiana. E, con una sorta di “effetto domino” tra popolazioni in fuga per il loro arrivo, i veloci guerrieri delle steppe spingono i popoli che vivevano a ridosso del Reno – Vandali, Burgundi, Suevi – contro Roma. Narrano le cronache che la notte del 31 dicembre 406 queste popolazioni attraversarono il fiume gelato: la frontiera romana del Reno (fondata nell’età di Augusto) è violata, e mai più ristabilita.
È possibile interpretare, quindi, le grandi invasioni-migrazioni (Völkerwanderungen) della prima metà del V secolo come un disperato tentativo dei Germani di sottrarsi al giogo degli Unni: dopo anni di convivenza sulle frontiere, queste genti fuggono in massa verso lo spazio mediterraneo ed entrano nell’impero aprendosi la strada con le armi. Ben presto l’universo instabile di tribù disperse sul territorio tra Reno e Danubio appare, infatti, sostituito da un’entità statale centralizzata sotto il dominio delle aristocrazie unniche; il primo trattato tra Rua, re degli Unni, e i Romani è del 422.
Nel 445 Attila, nipote di Rua, uccide suo fratello Bleda e diviene unico sovrano degli Unni. Si parla giustamente di Impero degli Unni, contrapposto sul piano militare e diplomatico all’impero romano e ai suoi alleati (foederati) di stirpe germanica.
E tuttavia, la presenza di questa potenza politica, centralizzata e unitaria, non rappresenta per Roma unicamente motivo di preoccupazione. Senza dubbio la capacità unna di mettere in campo potenti armate spaventa i Romani, tanto in Oriente quanto in Occidente, e li costringe a pericolose guerre e trattati umilianti. Acquistare a peso d’oro la pace diviene l’unica alternativa alla guerra e i governi imperiali ricorrono senza esitazione a questa prassi: Teodosio II accetta di triplicare in breve tempo il tributo. Ma nonostante gli altissimi costi, la diplomazia con gli Unni ha i suoi vantaggi.
In primo luogo per la stabilità internazionale. La presenza di due grandi potenze nello spazio europeo della prima metà del V secolo, Romani e Unni, è un dato concreto. Se i Romani raggiungono un accordo con il re degli Unni, possono essere sicuri che i patti saranno osservati pure dagli altri barbari sottoposti al loro governo: la pax Hunnica, infatti, si fonda sulla completa sottomissione dei popoli vinti, e nessuno avrebbe osato sfidare l’autorità di Attila.
D’altra parte, v’è pure un risvolto sul piano personale. Coloro che mostrano esperienza nella diplomazia con gli Unni, o hanno guadagnato la loro amicizia, assumono prestigio e autorità nell’impero romano. Si trasformano in mediatori preziosi, che sfruttano questa posizione per vantaggio personale. Ezio, supremo comandante militare, al governo d’Occidente fino al 454, è il personaggio che trae maggiori benefici dalla sua familiarità con gli Unni. Era stato loro ostaggio in gioventù: ne conosce la lingua, gli usi, gli uomini; si impone come comandante nel 425, alla testa di migliaia di Unni che aveva personalmente condotto all’interno dell’impero; anni dopo, per mezzo degli Unni schiaccia con incredibile durezza i Burgundi, ribelli contro l’impero; e dopo la sua morte, nel 454, due unni, ufficiali della sua guardia del corpo, lo vendicano massacrando il suo assassino, Valentiniano III.
Tuttavia anche Ezio rimane impotente quando Attila cambia politica. Il prestigio del re appare direttamente legato alla sua capacità di imporsi sui Romani; del resto, i tributi romani servono pure a rinsaldare i legami di dipendenza con i grandi aristocratici del regno.
A ridosso degli anni Cinquanta del V secolo, le pretese di Attila nei confronti dell’Oriente aumentano. Teodosio II paga senza esitazione per evitare la guerra; ma il suo successore Marciano si rifiuta di consegnare il tributo e accetta la sfida inviando truppe al confine. L’incognita di una guerra con l’Oriente romano induce Attila a cercare altrove occasioni di vittoria e bottino. Si volge dunque all’Occidente romano, ma l’offensiva unna è preceduta da un prologo imbarazzante per l’impero.
Nel 450 l’Augusta Onoria, figlia di Galla Placidia, sorella e nipote dei due imperatori romani, aveva gettato scandalo sulla famiglia imperiale, perché colta in flagrante da occhi indiscreti con il suo amante, Eugenio, un suo servitore.
I due sventurati vengono puniti: Eugenio è torturato e ucciso, e la giovane principessa promessa a un anziano senatore, fedele alla dinastia. Offesa e furente, Onoria invia un suo eunuco, con un anello di fidanzamento, ad Attila, chiedendo aiuto e promettendogli di diventare sua moglie. Il re approfitta subito dell’occasione: in virtù dell’anello considera cosa fatta il suo fidanzamento con Onoria, e pretende come dote di nozze l’annessione della Gallia romana al suo impero. La spinosa faccenda è sistemata dal deciso intervento di Valentiniano III ed Ezio: Onoria e i suoi complici ricevono una durissima punizione, e le richieste di Attila sono respinte.
Dunque non rimane che la guerra per soddisfare le ambizioni del re. Attila si getta sull’impero d’Occidente trasformandosi nel “Flagello di Dio”, una sorta di punizione divina per i peccati dei Romani.
Nel 451 gli Unni invadono la Gallia del Nord. Ezio reagisce con prontezza e chiama all’appello tutte le forze disponibili contro gli Unni. Lo scontro decisivo avviene presso Troyes, nella battaglia dei Campi Catalaunici (luglio 451): sul campo, all’esercito degli Unni si contrappone un’armata composta dai Romani e dai loro alleati dei regni barbarici. L’odio tra Germani e Unni, mai sopito dall’epoca delle prime invasioni, si sfoga terribile in questa giornata. A sera, raccontano le cronache, gli Unni lasciano il campo con gravi perdite, ma tra i caduti della parte romano-barbarica vi è anche il re dei Visigoti, Teodorico. L’anno dopo Attila ritenta l’invasione dell’Occidente. Nella primavera del 452 un esercito unno si abbatte sulla pianura padana, saccheggiando città e campagne. La reazione di Ezio e dell’Italia non tarda: perfino il papa Leone I Magno prende parte all’ambasceria romana che convince Attila (insieme ad una epidemia e alle difficoltà militari) ad abbandonare le sue mire e far ritorno nel regno.
Tanti fallimenti indeboliscono Attila: la fragilità del regno unno, fondato sul terrore e sulla coercizione militare, appare evidente dopo la morte del sovrano. Attila muore nel 453, la notte successiva ai festeggiamenti del suo terzo matrimonio.
I figli del re sono costretti a fronteggiare una rivolta dilagante delle popolazioni sottomesse, soprattutto germaniche. Nel 455, presso il fiume Nedao, una coalizione di ribelli vince gli Unni. Numerose popolazioni germaniche – Eruli, Gepidi, Ostrogoti (quelli del grande Teodorico) – riconquistano con le armi la propria libertà, mettendosi subito in marcia verso le frontiere del mondo romano. L’impero degli Unni si dissolve. La parabola del loro dominio sull’Europa centrale e i Balcani si conclude con la stessa velocità delle loro fulminee incursioni che seminavano terrore e distruzione nei territori dello spazio mediterraneo.
A distanza di circa un secolo, gli Avari ricostituiscono un impero centralizzato e potente sui territori già appartenuti agli Unni. Anche gli Avari sono originari delle steppe dell’Asia centrale, vicini per stirpe agli Unni.
Dal punto di vista culturale, gli Avari condividono nel giudizio di Romani e Germani pari estraneità e condizione marginale; e, come gli Unni, destano angoscia e terrore. Le prime notizie sui contatti degli Avari con lo spazio mediterraneo rimandano a un’ambasceria alla corte di Giustiniano con l’offerta di alleanza militare (558). Ben presto i Romani d’Oriente hanno modo di conoscere sulla loro pelle le capacità militari della cavalleria avara, abilissima nel combattimento con armi da getto e nelle manovre sul campo di battaglia grazie all’uso della staffa (strumento che viene da loro introdotto in Europa).
Nel 568 sotto il comando del loro supremo capo, il Khagan Baian (562-602), gli Avari si insediano nel bacino dei Carpazi, sottomettendo le popolazioni locali e costringendo una parte dei Germani a muoversi verso Occidente (tra questi anche i Longobardi).
Nei decenni successivi molti altri popoli, Slavi e Germani, entrano come sudditi nel vasto impero avaro, che – come già quello degli Unni – mostra uno spiccato carattere multietnico. Contemporaneamente gli Avari si volgono verso la frontiera romana, aumentando le scorrerie nella regione balcanica, ricca di prospere città e operose campagne.
Negli anni Ottanta del VI secolo cadono molte delle più importanti fortezze bizantine sul Danubio, e fino al 626 la potenza avara cresce a scapito della pace nell’Oriente romano. Insieme a bande di Slavi (loro sudditi, dotati tuttavia di relativa autonomia), gli Avari seminano il panico nei Balcani: tornano in patria carichi di bottino, mentre gli Slavi al loro seguito tendono a insediarsi in maniera stabile nei territori romani. In altre occasioni, la diplomazia bizantina riesce ad evitare la guerra sborsando ingenti quantità d’oro, e il prestigio del Khagan s’accresce in proporzione al bottino e ai tributi.
All’inizio del regno di Eraclio la pressione avara sui bizantini aumenta costantemente. Nel 626 gli Avari decidono di stringere d’assedio la stessa Costantinopoli, d’intesa con l’armata persiana.
Il grande assedio del 626 rappresenta una svolta epocale: 80 mila guerrieri avari si gettano per cinque settimane all’assalto della città; ma è un massacro: le possenti mura e la tenace resistenza bizantina fiaccano gli attacchi, e la spedizione si risolve in un disastro. L’impero avaro non si risolleverà mai più dalla sconfitta del 626. Enormi le conseguenze politiche: in primo luogo, sui rapporti con i popoli sottomessi; ma pure sull’assetto sociale del regno: l’indagine archeologica dei corredi funerari dalla metà del VII secolo in poi mostra come in seguito alla disfatta gli Avari si trasformino da formidabili guerrieri in agricoltori. A partire dall’VIII secolo l’Impero bizantino non ha più da temere gravi minacce, e le preoccupazioni arrivano piuttosto dai popoli slavi, liberi dal giogo avaro. Anche ai confini occidentali del loro impero gli Avari conservano pace e stabilità con i popoli confinanti: Longobardi, Bavari, Franchi. Il re di questi ultimi, Carlo Magno, sul volgere dell’VIII secolo aggredisce gli Avari e in pochi anni ne distrugge l’impero. Lo spazio degli Avari nel bacino dei Carpazi viene spartito tra Franchi e Bulgari e l’esperienza multietnica e multiculturale del loro impero termina per sempre.
L’umiliazione degli Avari sotto le mura di Costantinopoli nel 626 provoca conseguenze enormi sull’area balcanica. I popoli slavi sottoposti al giogo avaro si ribellano e conquistano la libertà con le armi.
Nella regione tra il Mar Caspio e il Mar Nero il principe dei Bulgari, Kuvrat, s’affranca dal controllo degli Avari, anche con il sostegno dei Bizantini. A partire dalla metà del VII secolo i Bulgari iniziano la marcia verso sud. Sono un popolo di nomadi delle steppe, formato da gruppi di stirpe turco-mongola: la parola in antico turco bulgha significa appunto mescolanza. Al loro arrivo sul delta del Danubio, il processo di etnogenesi diviene più complesso: il ceppo nomade si unisce infatti ai popoli slavo-traci abitanti la regione; e nel volgere di pochi decenni i nomadi si assimilano alla cultura slava. Verso la fine del secolo, le fonti bizantine registrano la presenza di una potente entità barbarica sul confine danubiano: il regno dei Bulgari. Come già gli Unni, e poi gli Avari, anche i nomadi Bulgari concludono la loro migrazione a ridosso dello spazio mediterraneo. Ma il loro destino appare ben diverso: ai Bulgari è riuscita l’impresa di fondare un regno e una “nazione” slavo-bulgara che dura nel tempo.
L’Impero bizantino tenta a più riprese di eliminare il regno bulgaro avversario: Costantino V li attacca per nove volte per terra e per mare; l’imperatore Niceforo I, mentre si trova sul punto di annientarli, cade con il suo esercito in un’imboscata: il re bulgaro Krum ordina di fare del suo teschio una coppa, nella quale soleva bere al cospetto dei suoi boiari. Se le armate imperiali falliscono nel tentativo di sottomettere i Bulgari a Bisanzio, la creazione di un’intesa stabile riesce invece alla diplomazia del patriarca di Costantinopoli Fozio. Nell’864 il re dei Bulgari, Boris, si converte all’ortodossia greca, assumendo il nome Michele, come il suo padrino di battesimo, l’imperatore Michele III. Pur mantenendo la sua autonomia e la sua forza interna, il regno entra nell’ecumene cristiana bizantina: cristiani e ormai del tutto slavizzati, i Bulgari sono alla fine del loro lungo viaggio iniziato nelle steppe dell’Asia centrale.