I problemi della rappresentanza politica
La rappresentanza politica intercorre con diverse modalità fra una società nelle sue varie articolazioni – territoriali, professionali, culturali, religiose ed etniche – e coloro che occupano cariche, più o meno elettive, in assemblee e governi. Rappresentare politicamente significa agire in nome, al posto e per conto di qualcuno in cariche dotate di potere politico decisionale. La rappresentanza politica deve essere correttamente interpretata come ‘delega’, con ampi spazi per il rappresentante di decidere i suoi comportamenti e di esprimere i suoi voti, piuttosto che come ‘mandato’ imperativo (vietato dall’art. 67 della Costituzione italiana) e vincolante. D’altronde, qualsiasi mandato imperativo in situazioni caratterizzate da alta complessità e imprevedibilità delle problematiche e degli avvenimenti, come si rileva già in questi primi anni del 21° sec., finirebbe per irrigidire e paralizzare sia i procedimenti decisionali, sia la stessa capacità di rappresentare società che cambiano.
Almeno su un punto sembra esservi concordanza di opinioni nel contrasto fra i molti sostenitori della delega e i relativamente pochi fautori del mandato. Rispetto agli inizi del 20° sec., i cittadini non soltanto delle democrazie sono in grado di esercitare un potere di pressione non indifferente nei confronti dei loro rappresentanti, comunicando informazioni e preferenze. Più problematico è stabilire quanto ascolto in realtà ottengano questi flussi di informazioni e pressioni. Tuttavia, le maggiori possibilità di partecipazione politica contribuiscono a ridisegnare limiti, compiti, attività ed effetti della rappresentanza politica stessa. Anzi, il ridisegno, ulteriormente influenzato dai processi della globalizzazione, è tuttora in corso. La rappresentanza che interessa maggiormente è quella che viene prodotta attraverso le competizioni elettorali. In generale, i rappresentanti, che in questa discussione considereremo essere gli eletti a cariche nelle assemblee politiche, possono sentirsi vincolati da una delega o da un mandato ricevuto oppure ritenersi i fiduciari dell’elettorato, loro o del loro partito, godendo di notevole discrezionalità. Più raramente, i rappresentanti saranno e si sentiranno ‘rappresentativi’ soltanto perché assomigliano al loro elettorato o gruppo di riferimento, ovvero perché ne condividono alcune o molte caratteristiche sociali e sociologiche.
La rappresentanza come rispecchiamento non è conseguibile nelle democrazie che, costitutivamente, debbono affidarsi a procedure elettorali. Il rispecchiamento è praticamente impossibile in società che cambiano. La richiesta che il Parlamento sia lo ‘specchio’ del Paese, se intesa nel senso della rappresentatività sociologica, non può essere accolta. Se, invece, si riferisce al rispecchiarsi delle preferenze, delle esigenze, degli interessi di un Paese (quello ‘reale’) nel Parlamento (quello ‘legale’), potrà essere soddisfatta dai partiti che, nella competizione per ottenere consenso elettorale e cariche per i loro rappresentanti, dovrebbero mirare a una piena comprensione delle domande dell’elettorato e alla migliore rappresentanza possibile. Tuttavia, l’elemento quasi sicuramente più problematico della rappresentanza politica nelle democrazie contemporanee, compresa quella italiana, è dato proprio dal fatto che lo ‘specchio’ riflette una politica nella quale, tranne le ammirevoli eccezioni di alcuni Paesi e di alcuni partiti, le donne hanno un limitatissimo accesso alle assemblee dette rappresentative. Nonostante, spesso, altri gruppi minoritari risultino variamente sottorappresentati, dovrebbe essere palese che l’assenza del punto di vista delle donne inficia in maniera molto seria la possibilità di avere una visione complessiva dei problemi sociali, delle esigenze e delle preferenze da rappresentare.
Affidato, come vuole la tradizione liberale, al puro esito delle competizioni elettorali, il problema della rappresentanza delle donne non ha finora trovato soluzione. Per questo si sono cercati correttivi sotto forma di ‘quote’, di percentuali predefinite, di obiettivi numerici da raggiungere, tutti discutibili e nessuno risolutivo. Ovviamente, se le donne elettrici volessero ‘rispecchiarsi’ nel loro Parlamento dovrebbero imporre candidature femminili e poi, che è quanto di rado avviene, preferire l’elezione in Parlamento delle donne invece degli uomini. Saggiamente, però, le elettrici non votano riflettendo una semplice appartenenza di genere, ma individuando chi sembra in grado di rappresentare le loro esigenze e le loro preferenze. In un certo senso, il voto delle donne è la migliore smentita della validità della richiesta di rispecchiamento come modalità di rappresentanza.
La rappresentanza politica perseguita e conseguita attraverso procedimenti elettorali è strettamente collegata con la responsabilità, vale a dire che i rappresentanti dovranno rispondere dei loro comportamenti, delle loro azioni, inazioni e cattive azioni di fronte agli elettori nella successiva tornata elettorale. Pertanto, è nell’interesse dei rappresentanti stessi mantenere il contatto con le mutevoli preferenze della loro società poiché, in caso contrario, altri verranno premiati dal consenso degli elettori per la maggioranza dei quali, evidentemente, la problematica della rappresentanza delle donne non è ancora ritenuta essenziale. Potrebbe anche essere che gli interessi che i rappresentanti devono articolare e suscitare, conoscere e capire, aggregare e trasformare in decisioni non abbiano necessariamente un segno di genere e che, dunque, perseguire la rappresentanza di genere finisca per distorcere processi rappresentativi fondati su una o più concezioni di interessi generali, sociali, persino ‘di classe’. In sintesi, appare essenziale sottolineare e mantenere sempre nella più alta considerazione come la rappresentanza politica si esprima in decisioni prese con responsabilità dagli eletti che, tenendo conto delle preferenze dell’elettorato, intendono, per quanto possibile, rispondervi e soddisfarle.
Rappresentanza di partito e di gruppo
A lungo, nelle democrazie occidentali, Italia compresa, i partiti sono stati, ancorché non gli attori esclusivi, certo i protagonisti della rappresentanza politica. Tutte le democrazie sono diventate tali grazie alla capacità dei partiti di garantire competizione e possibilità di scelta fra programmi, idee e persone con l’obiettivo di rappresentare la società e, grazie al ruolo di governo affidato quasi esclusivamente agli esponenti di partito (party government), di guidarla lungo il percorso programmatico prescelto. Dal canto loro le società occidentali si sono a lungo sentite rappresentate in modo adeguato dai partiti e dai loro corrispondenti sistemi di partito anche grazie a una struttura relativamente semplice. Tuttavia, non va dimenticato che, se da un lato l’ideale della rappresentanza politica era costituito dalla competizione fra partiti e fra gruppi, ovvero dal pluralismo, dall’altro, in alcuni regimi democratici tutt’altro che irrilevanti, si era venuta affermando nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale una diversa, seppure non incompatibile con il pluralismo competitivo, modalità di rappresentanza degli interessi: il cosiddetto neocorporativismo. Comunque, non è venuto mai meno il tentativo di una pluralità di gruppi delle più varie tipologie di influenzare la rappresentanza politica esprimendo interessi specifici e facendo eleggere candidati che ne fossero portatori. Questo fenomeno, presentatosi in misura diversa nei vari sistemi politici, a seconda sia del grado di diversificazione socioeconomica, sia delle capacità associative, sia della legittimità accordata, è stato chiamato gruppi di interesse, gruppi di pressione (che segnalano la modalità con la quale i gruppi operano sui rappresentanti) e, più di recente, lobby. Le valutazioni sono divise per quel che concerne il rapporto fra rappresentanza politica e rappresentanza di interessi. Secondo alcuni studiosi, le attività dei gruppi e delle lobby frammentano la rappresentanza politica e rendono difficilissima la produzione di decisioni che rispondano a interessi generali, al cosiddetto bene comune. Secondo altri studiosi, i gruppi e le lobby sono non la causa, quanto piuttosto l’effetto della frammentazione sociale e le loro attività sono utili a integrare in maniera efficace e non altrimenti possibile la rappresentanza politica. Grazie all’espressione (in particolar modo quando è palese, trasparente, pubblica) delle domande di cui sono portatori, tutti i gruppi, in tal modo, danno il proprio contributo alla definizione condivisa e accettabile, ma pur sempre mutevole, del bene comune che è l’esito di un procedimento di ricomposizione della pluralità degli interessi più vicino alle preferenze complessive di qualsiasi società nella quale tutti i gruppi abbiano, al tempo stesso, la possibilità e il diritto di esprimersi liberamente.
Nell’ambito della visione elaborata dal pluralismo competitivo sono presenti due varianti. La prima ritiene che tutti gli interessi esistenti in una determinata società abbiano regolarmente e sempre la possibilità di tradursi in gruppi e di influenzare così la rappresentanza e i processi decisionali; la seconda sostiene che in tutte le società alcuni gruppi godono di vantaggi associativi, politici, di legittimità per le loro azioni, mentre altri partono comunque svantaggiati, quando non vengono, addirittura, costantemente trascurati e ignorati. In realtà, anche i più avveduti tra gli studiosi del pluralismo hanno fin dall’inizio sottolineato come sia molto improbabile che qualsiasi rappresentanza degli interessi riesca a contemplare uguali punti di partenza, offrire uguali opportunità di accesso, garantire uguale influenza sugli esiti per ciascuno e per tutti i gruppi. È noto, inoltre, che nei sistemi economici di tipo capitalistico (gli unici nei quali si siano affermati regimi democratici e di libera competizione fra gruppi) esiste una propensione favorevole agli interessi degli imprenditori e dei produttori a scapito dei lavoratori che tenteranno di farsi rappresentare dai sindacati. Più di recente è emersa la consapevolezza che la linea distintiva rilevante corre fra interessi di natura socioeconomica – più facili da organizzare, far valere e rappresentare – e interessi definibili come diffusi, indubbiamente più difficili da organizzare e da rappresentare. Si tratta dei diritti, civili e umani, in particolare delle categorie più svantaggiate, a partire dai bambini, le donne, gli anziani, i profughi e, certamente, su un altro piano, dei diritti dei consumatori. Tuttavia, sono sorte diverse associazioni in difesa di questi diritti, ben determinate a portare avanti le loro battaglie nonostante i molti ostacoli che ne ritardano visibilità e influenza.
Dal canto loro, gli studiosi del neocorporativismo non hanno avuto difficoltà a notare che in alcune democrazie solidamente strutturate, sia in termini istituzionali sia in termini partitici, aveva fatto la sua comparsa un modello di rappresentanza degli interessi che, pur non sovrapponendosi alla rappresentanza politica e non cancellandola, era riuscito a influenzarla nei suoi tessuti profondi e a ridefinirla in maniera significativa. Più precisamente, nei Paesi scandinavi, così come, per es., in Austria e in Svizzera, erano emersi triangoli virtuosi di rappresentanza degli interessi che comprendevano il partito al governo (generalmente di sinistra, socialdemocratico e molto rappresentativo politicamente), il sindacato (in prevalenza unitario, con un alto numero di iscritti) e le grandi associazioni imprenditoriali. Le più importanti decisioni venivano prese attraverso trattative all’interno di questo rapporto triangolare ed erano poi sottoposte all’approvazione dei rispettivi parlamenti nei quali il partito socialdemocratico godeva di una maggioranza oppure ne costituiva l’asse portante. Nella misura in cui quelle società erano solidamente organizzate entro grandi gruppi e in cui il processo decisionale partitico-parlamentare funzionava rispondendo alle esigenze e alle preferenze sociali, i modelli neocorporativi sono stati in grado di garantire per lungo tempo un’efficace rappresentanza politica complessiva.
Da alcune significative ricerche comparate (Organizing interests in Western Europe, ed. S. Berger, 1981, trad. it. 1983; The politics of inflation and economic stagnation, ed. L.N. Lindberg, C.S. Maier, 1985), è risultato che i modelli neocorporativi avevano anche saputo affrontare con successo la crisi degli anni Settanta, prodotta da una combinazione, che avrebbe potuto essere dirompente, di crescente inflazione ed elevata disoccupazione. Invece, alcune democrazie, in particolare quelle con la struttura di classe alquanto frammentata, con sistemi multipartitici estremi e sindacati divisi e conflittuali (come, per es., la situazione italiana e, in misura minore, quella francese e quella inglese), hanno mostrato enormi difficoltà nell’uscire dalla morsa ‘inflazione-disoccupazione’. In Gran Bretagna la soluzione si è trovata in una drastica riduzione del potere dei sindacati e in un loro scompaginamento. In Francia, è stato l’apparato statale di stampo tecnocratico a farsi carico di interessi nazionali ovvero, in altri termini, del bene comune. In Italia, invece, sono state ripetutamente ricercate soluzioni non dissimili da quelle neocorporative, ma la mancata collocazione governativa del maggiore partito di sinistra, ovvero il Partito comunista, unitamente alla persistente divisione delle tre confederazioni sindacali, hanno impedito qualsiasi passaggio concreto a pratiche neocorporative.
Ciò rilevato, già dalla metà degli anni Ottanta i modelli neocorporativi sono entrati, proprio là dove si erano maggiormente affermati e sembravano consolidati, in una fase di ridefinizione e anche di ridimensionamento. Secondo alcuni studiosi (in partic. M. Olson, The rise and decline of nations, 1982; trad. it. 1984), i modelli sociopolitici nei quali i grandi gruppi organizzati esercitano notevole potere di azione e, soprattutto, di interdizione sulla rappresentanza politica impediscono l’innovazione e, quindi, sono destinati a bloccare le possibilità di evoluzione delle rispettive società e dei loro sistemi politici. La tesi di Mancur Olson è controversa, ma l’avvento al governo in alcuni Paesi, in special modo anglosassoni, a lungo sedi privilegiate del pluralismo competitivo alquanto ossificatosi, dei cosiddetti neoconservatori ha significato anche il tentativo, per lo più riuscito, di eliminare i poteri di veto delle corporazioni il cui radicamento apparisse di sostanziale ostacolo al cambiamento socioeconomico e operasse come diaframma nei confronti della rappresentanza politica di nuovi interessi e di nuove preferenze. Quanto ai modelli neocorporativi, non sono affatto scomparsi del tutto, ma la loro trasformazione ha comportato effetti significativi sul sistema complessivo della rappresentanza politica e degli interessi: una maggiore difficoltà dei processi decisionali e una minore stabilità delle esperienze di governo, non soltanto specificamente di quelle socialiste/socialdemocratiche.
In Europa, laddove i partiti di sinistra potenzialmente di governo non avevano acquisito potere significativo, i processi decisionali erano sempre stati più complessi poiché poggiavano su società maggiormente frammentate, su organizzazioni sindacali in competizione fra loro, su associazioni imprenditoriali poco inclini alla collaborazione in quanto incerte sulla capacità dei partiti di governo, in qualche modo necessitati a cercare e a offrire ciascuno una rappresentanza di nicchia piuttosto che di sintesi, meno in grado di mantenere le loro promesse a breve e lungo termine. Erano anche processi decisionali volubili, ossia mutevoli a seconda dei cambiamenti di alcuni gruppi sociali. A partire dagli anni Ottanta, il fenomeno della frammentazione sociale e della diversificazione delle domande che ne deriva ha investito quasi tutti i sistemi politici democratici e, di conseguenza, i partiti hanno incontrato maggiori difficoltà nell’offrire e garantire una rappresentanza politica efficace e convincente. Sembra, tuttavia, che i partiti conservatori abbiano potuto contare su una maggiore omogenità del loro seguito politico-elettorale e quindi abbiano risentito in misura minore delle sfide della rappresentanza contemporanea. Non è stato questo, però, il caso della Democrazia cristiana italiana, la cui forza elettorale dipendeva anche dalla diversificazione sociale, economica e culturale del suo elettorato che, alla fine, ha portato alla disgregazione del partito. Attualmente, quasi tutti i numerosi e frequenti sondaggi di opinione e le più approfondite ricerche accademiche rivelano che i partiti e il loro ceto politico sono diventati sostanzialmente autoreferenziali, inclini a rappresentare soltanto quegli interessi che garantiscano loro rielezione e riconquista del potere politico. Di qui, un altro visibile e misurabile fenomeno che, a seconda dei Paesi, va sotto nomi diversi: disincanto, malessere, disaffezione nei confronti della politica.
I fattori esplicativi, qualche volta vere e proprie cause delle difficoltà incontrate dalla rappresentanza politica a partire dalla metà degli anni Ottanta, sono comprensibilmente numerosi, ciascuno dotato di una sua incomprimibile rilevanza autonoma. Probabilmente, però, il problema più evidente è costituito dalla fluidità, dalla frammentazione, dalla diffusione e, spesso, anche dalla confusione degli interessi dei cittadini. Rappresentare politicamente la nuova complessità con un minimo di continuità è diventato, non soltanto per i partiti autoreferenziali, spesso appesantiti dai loro apparati, ma anche per i vari gruppi, a loro volta esposti al particolarismo e alla differenziazione, un compito di enorme ma inevitabile difficoltà.
Le difficoltà dopo la quiete
Riprendendo il discorso dalla erosione e dal declino dei modelli neocorporativi, il primo fattore esplicativo è dato dal successo di quelle modalità di rappresentanza politica che erano state in grado di garantire crescita materiale e, spesso, anche culturale, in termini di competenze e consapevolezza. Il partito socialdemocratico al governo aveva saputo produrre decisioni concordate sia con le organizzazioni sindacali, le quali potevano differire nel tempo vantaggi rilevanti per i loro iscritti in termini salariali, di posti di lavoro e di riqualificazione professionale, sia con le associazioni imprenditoriali, le quali, a loro volta, potevano contare sulla sicurezza degli investimenti e dei profitti a fronte di stabili impegni dei governi e dei sindacati. Interi settori sociali si sentivano, e di fatto erano, soddisfacentemente rappresentati e tutelati, anche in maniera dinamica, vale a dire proiettando le loro aspettative nel futuro, nel medio periodo. Pertanto, non era nell’interesse di nessuno, fintantoché la crescita proseguiva, venire meno agli accordi raggiunti con il neocorporativismo.
Tuttavia, a un certo punto, anche per ragioni di concorrenza internazionale, è apparso in modo chiaro che alcuni settori crescevano più di altri, ma anche che gli imprenditori e i lavoratori più produttivi erano costretti, dalle regolamentazioni fondamentali del neocorporativismo, alla moderazione salariale. Lo scontento dei lavoratori, da un lato, e la disponibilità degli imprenditori, dall’altro, ad accettare richieste di salari e di condizioni di lavoro che andavano oltre i limiti previsti, prevedibili e accettabili nel quadro degli accordi neocorporativi, ne ridussero prima la validità e ne produssero poi una significativa erosione. Con l’uscita dagli accordi neocorporativi dei settori più avanzati, l’intero modello era destinato a entrare in crisi. Un secondo fattore del declino dei neocorporativismi è costituito da un graduale, ma effettivo e all’apparenza irreversibile mutamento dei valori socioeconomici di alcuni gruppi sociali. Se, per lungo tempo la preminenza era stata data, in special modo da parte dei lavoratori dipendenti, a valori quali il salario e la sicurezza, definiti materialisti, dalla seconda metà degli anni Settanta, le nuove generazioni hanno cominciato a preferirvi valori postmaterialisti, quali la libertà di parola e l’autorealizzazione (R. Inglehart, The silent revolution, 1977; trad. it. 1983). Ai valori materialisti poteva essere data una risposta neocorporativa e, comunque, la maggior parte delle esigenze e delle preferenze per determinate politiche economiche e della sicurezza erano facilmente ‘rappresentabili’ e risolvibili in sede politica, anche dai partiti moderati e di centro. Invece, i valori postmaterialisti non soltanto richiedevano un riorientamento delle modalità di rappresentanza politica, ma hanno finito per porre una sfida senza precedenti soprattutto ai sindacati e ai partiti di sinistra. Abituati a rappresentare ceti sociali (o, se si vuole, classi) abbastanza compatti per condizioni di lavoro e di vita e per esigenze sociali e preferenze politiche, i sindacati non sono riusciti a mettersi in sintonia con le nuove richieste e hanno cominciato a perdere iscritti, mentre i partiti di sinistra perdevano elettori che non si sentivano più adeguatamente rappresentati. In maniera estrema, mentre i padri continuavano ad aderire a valori materialisti, i figli e, fenomeno piuttosto nuovo, le figlie avevano acquisito valori postmaterialisti che sindacalisti e politici di professione di mezz’età non riuscivano neppure a capire nella loro concretezza e corposità. Le tensioni relative a quali valori dovessero essere effettivamente rappresentati si sono tradotte in conflitti interni e in immobilismo di rappresentanza per timore di scontentare iscritti, elettori, simpatizzanti. Sono stati soprattutto i grandi partiti socialdemocratici, socialisti, laburisti, dalla Scandinavia alla Germania, dalla Gran Bretagna all’Austria (e, in buona misura, anche il Partito comunista italiano) a essere investiti dall’inaspettata onda generazionale e culturale del postmaterialismo. Quest’onda ha toccato in maniera relativamente marginale, invece, alcuni partiti socialisti dell’Europa meridionale, in particolare spagnoli, tornati sulla scena democratica proprio e soltanto alla fine degli anni Settanta, ma anche portoghesi e greci, dove il livello di sviluppo socioeconomico non aveva ancora prodotto risorse tali da incrementare le inzialmente basse percentuali di postmaterialisti. D’altro canto, in Francia nel 1971 la stessa onda postmaterialista ha impresso una forte spinta alla costruzione di un rinnovato Parti socialiste su una diffusa rete di club, certamente luoghi di valori postmaterialisti, e con l’afflusso di personale politico e sindacale culturalmente pronto alle nuove sfide che, di converso, ha portato all’inizio dell’inarrestabile declino del più operaista dei partiti comunisti, quello francese.
Complessivamente, è stata la sinistra a dover fare i conti con la diversificazione spesso molto ampia, se non addirittura conflittuale, delle esigenze, delle preferenze e degli interessi dei nuovi ceti da rappresentare. Inevitabilmente, i problemi irrisolti hanno comportato un elevato costo elettorale con una serie di sconfitte subite un po’ ovunque nelle democrazie occidentali tanto che, sconfortati, delusi e depressi, non pochi intellettuali di sinistra hanno promosso e organizzato convegni dal titolo (What is left?) rivelatore, più che di una complessa varietà di situazioni, del loro stato d’animo. L’interrogativo stava a indicare non soltanto che la sinistra aveva perso, ma che si stava essa stessa perdendo tanto che, a stare a quelle incaute e affrettate previsioni, forse, non ne era rimasto nulla.
La consapevolezza dell’erosione, non della scomparsa, della classe operaia e del venire meno della sua compattezza si è manifestata in special modo fra i laburisti inglesi che hanno formulato la loro Terza via (Third way, sicuramente interpretabile come una nuova strategia di rappresentanza politica), ma anche fra i socialdemocratici tedeschi alla ricerca di un ‘nuovo centro’ (Neue Mitte). Qualcuno ha addirittura sostenuto che la coalizione dell’Ulivo in Italia ha anticipato i tempi, vincendo le elezioni del 1996, mentre i laburisti guidati da Tony Blair e i socialdemocratici capeggiati da Gerhard Schröder, alleato con i Verdi di Joschka Fischer, sono tornati al governo rispettivamente nel 1997 e nel 1998. Tuttavia, un conto è la risoluzione, quantomeno parziale e temporanea, seppure importante e significativa, dei problemi di rappresentanza politica a opera di alcuni grandi partiti socialdemocratici e laburisti; altro conto, decisamente diverso, è la risoluzione complessiva e duratura, almeno per i tempi della politica, dei problemi di rappresentanza politica nelle democrazie occidentali.
Rappresentanza e partecipazione
Quando la partecipazione viene declinata come sistema per far valere direttamente i propri interessi e le proprie preferenze, entra in contrasto con qualsiasi modalità e qualsiasi pratica di rappresentanza. È noto che, unitamente alla comparsa e alla diffusione dei valori postmaterialisti, ma, probabilmente anche per questo, fra gli anni Sessanta e Settanta, non soltanto in Occidente, vi è stata un’esplosione, che va sotto il nome di Sessantotto, di richieste di nuove e più incisive forme e modalità di rappresentanza, ma in special modo di partecipazione che, talvolta, mirava al recupero o, addirittura, all’instaurazione di forme di democrazia diretta. Nella misura in cui la democrazia partecipata e partecipativa voleva anche essere una democrazia diretta a sostituzione della democrazia rappresentativa, veniva cancellata qualsiasi problematica relativa alla rappresentanza politica. Nell’epoca della democrazia di massa, l’impraticabilità della democrazia diretta, certamente nota alla maggioranza di coloro che, anche in Italia, ne facevano un’arma polemica, non è venuta meno neppure tenendo conto delle opportunità eventualmente offerte e predisposte dalla democrazia elettronica (e-democracy) che, semmai, costituisce un’aggiunta mirata di strumenti utilizzabili dalla cittadinanza nelle democrazie rappresentative. Comunque, le richieste di maggiore e più incisiva partecipazione chiamavano in causa soprattutto i partiti e, curiosamente, in maniera quasi del tutto marginale, i sindacati, per quanto fossero, e rimangano, certamente organizzazioni più burocratizzate, nonché i meccanismi e le strutture di rappresentanza.
La partecipazione politica ha come obiettivi sia quello di influenzare l’elezione di rappresentanti e governanti, sia quello di esprimere esigenze e preferenze delle quali rappresentanti e governanti dovranno tenere conto, pena, nei casi più limpidi, la loro mancata rielezione. Qui, nient’affatto incidentalmente, la rappresentanza politica si incrocia con la responsabilità (accountability): i rappresentanti debbono promettere quanto sono in grado di mantenere, anche se gli imperativi della campagna elettorale entrano spesso in contrasto con gli imperativi del governare che impongono di tenere conto di vecchie e nuove compatibilità. Anche questo contrasto fa parte a pieno titolo della problematica delle difficoltà, non soltanto contemporanee, della rappresentanza. In effetti, non è possibile offrire una soddisfacente rappresentanza democratica se i rappresentanti, senza correre alcun rischio, sono liberi di non rendere conto delle loro azioni, inazioni e cattive azioni.
Il vero e permanente lascito del Sessantotto è che tutte le società occidentali hanno scoperto di potersi mobilitare. Molti cittadini si sono impadroniti di un repertorio di azioni collettive attraverso le quali esprimere le loro preferenze e il loro dissenso, le loro esigenze e il loro scontento, i loro interessi e la loro insoddisfazione. Non ne è seguita una mobilitazione permanente poiché è stato sperimentato anche un, forse inevitabile, riflusso, ma l’interpretazione più convincente (A.O. Hirschman, Shifting involvements. Private interest and public action, 1982; trad. it. Felicità privata e felicità pubblica, 1983) descrive l’alternarsi di cicli di coinvolgimento ciascuno dei quali, peraltro, lasciava i partecipanti più attenti alle dinamiche sociopolitiche e più consapevoli delle loro possibilità (e impossibilità). Naturalmente, la politica dei movimenti sociali o collettivi male si presta a situazioni nelle quali la rappresentanza politica e di interessi risulta essere fondamentalmente opera dei partiti e delle istituzioni. I movimenti appaiono sfidare entrambi proprio sul piano della rappresentanza, ma le loro capacità e persino le loro volontà di sostituzione sono costituzionalmente carenti. La rappresentanza politica può sembrare inadeguata ai ‘movimentisti’, ma la sfida alle organizzazioni partitiche e alle istituzioni politiche non è di per sé sufficiente a produrre aggiustamenti adeguati o trasformazioni durature senza, seguendo la lezione di Max Weber, un’effettiva istituzionalizzazione.
La mobilitazione intensa e qualche volta estesa dei movimenti è stata, al tempo stesso, effetto e causa dell’aumento delle domande sociali, di una vera e propria loro impennata, di una rivoluzione delle aspettative crescenti a fronte delle quali le istituzioni di rappresentanza sono state quasi travolte e le istituzioni di governo sostanzialmente paralizzate, mentre, in pratica, i governi sono entrati in un periodo di instabilità. Allora, per sintetizzare tutti questi fenomeni congiunti, causa di ‘frustrazioni crescenti’, si è parlato di crisi di governabilità derivante, in special modo, dall’eccesso, dal sovraccarico (overload) di domande sollevate dall’esplosione della partecipazione politica. La risposta teorica più famosa a questa preoccupante crisi, formulata dal politologo Samuel P. Huntington (M. Crozier, S.P. Huntington, J. Watanuki, The crisis of democracy, 1975; trad. it. 1977), è stata spesso, talvolta volutamente, fraintesa. Laddove lo slancio della partecipazione politica eccede le capacità delle autorità di rappresentanza e di governo di rispondervi, appare necessario, comunque auspicabile, contenere e ridurre la partecipazione oppure, in alternativa, potenziare le istituzioni di rappresentanza e di governo, con l’avvertenza che il secondo percorso è chiaramente più lento, più difficile e più accidentato del primo.
Nonostante le indicazioni di Huntington, interpretate in modo errato o colpevole, a lungo la strategia dell’istituzionalizzazione, vale a dire della costruzione di istituzioni e del loro potenziamento come modalità per affrontare le problematiche della rappresentanza politica, è stata trascurata, dimenticata, messa ai margini. Nel frattempo, hanno proliferato movimenti sociali di varie dimensioni, durata, volontà di articolazione e aggregazione di interessi. Nessuno di loro, peraltro, ha mostrato particolare incisività, esibendo spesso maggiori capacità ‘espressive’ che ‘strumentali’, orientate allo scopo. Nessuno di loro, salvo quelli che, come i Verdi, hanno assunto forma e funzione di partito, ha saputo rivitalizzare la rappresentanza politica o trasformarla.
Nel corso degli anni Novanta, anche in concomitanza con la democratizzazione di molti sistemi politici, ha fatto il suo ingresso sulla ribalta della riformabilità un denso e significativo dibattito concernente l’importanza e la qualità dei sistemi elettorali i cui meccanismi traducono preferenze e voti in seggi e cariche. In estrema sintesi, è possibile e plausibile sostenere che i sistemi elettorali maggioritari danno soluzione ai problemi della decisione politica e i sistemi proporzionali offrono, invece, la soluzione migliore alla rappresentanza politica, di esigenze, preferenze, interessi? Naturalmente, la variabile interveniente è costituita dai partiti e dai sistemi di partito. La visione tradizionale ha di solito sostenuto che i sistemi maggioritari, associati con sistemi bipartitici, restringono la rappresentanza degli interessi che riescono a pervenire in Parlamento; i sistemi di rappresentanza proporzionale, quasi per definizione, allargano le maglie della rappresentanza parlamentare e politica. Se le cose stessero davvero così, la verifica sarebbe alquanto facile. Ci si aspetterebbe che tutti i sistemi politici nei quali si vota con sistemi elettorali proporzionali non abbiano sperimentato, grazie alla facilità di accesso al Parlamento per una molteplicità di gruppi, nessuna crisi di rappresentanza politica, mentre i sistemi politici nei quali si vota con sistemi elettorali maggioritari dovrebbero, a causa delle ridotte possibilità di accesso al Parlamento, registrare i livelli più alti sulla scala della crisi di rappresentanza politica. In questo ragionamento e in queste facili correlazioni si cela un vizio di fondo: pensare che la rappresentanza politica e di interessi debba necessariamente e inesorabilmente ‘passare’ quasi soltanto attraverso i partiti e approdare sempre in Parlamento.
Palesemente, però, le cose non stanno in questo modo, da un lato, poiché, per es., i Paesi anglosassoni, tutti caratterizzati da sistemi elettorali variamente maggioritari, non mostrano affatto una crisi di rappresentanza politica, mentre molti dei Paesi che utilizzano sistemi elettorali proporzionali, Italia compresa, manifestano l’esistenza di una crisi alquanto seria; dall’altro, perché molte associazioni e gruppi riescono a trovare rappresentanza adeguata nella burocrazia e addirittura nei governi. Comunque, in generale, non è in nessun modo possibile affermare che il sistema elettorale proporzionale, pur tenendo conto delle molte versioni esistenti e praticate, costituisca un affidabile antidoto alla crisi di rappresentanza politica ovvero, aprendo spazi alla frammentazione degli interessi, delle domande, delle preferenze, finisca per configurarsi come la causa principale di quella crisi. Con tutta probabilità, altri fattori più sottili, più incisivi e più significativi entrano in gioco. Tuttavia, potrebbe essere, come ha sostenuto G. Bingham Powell (2000) a conclusione di una sua esplorazione, che, complessivamente, i sistemi proporzionali siano in grado di far circolare meglio nel sistema della rappresentanza politica una pluralità di interessi e di tenerne conto nei processi decisionali.
Società e classe politica
Se la rappresentanza politica è una relazione fra una società e la sua classe politica che agisce in nome di e al posto dei rappresentati, allora è indispensabile approfondire l’analisi della società, che si esprime anche attraverso la sua capacità di dare vita a una molteplicità di gruppi, e della classe politica. Soltanto in questo modo appariranno evidenti gli eventuali problemi della rappresentanza politica nelle democrazie contemporanee. Probabilmente, il fenomeno nuovo più visibile nelle democrazie occidentali è quello del declino delle organizzazioni sindacali e delle associazioni di vario tipo, economiche, sociali, culturali, religiose. Non soltanto, infatti, non esistono più classi sociali strutturate e consapevoli (in Italia, peraltro, sempre attraversate da distinzioni particolaristiche), ma all’interno di ciascuna associazione emergono differenziazioni significative che impediscono l’affermarsi di realtà di carattere generale e più ampio, e che si spingono fino a chiedere rappresentanza politica specifica. La perdita di capitale sociale influisce anche sulla possibilità di garantire rappresentanza politica stabile. In tutte le società occidentali si è assistito a importanti procedimenti di differenziazione strutturale fino a pervenire al limite estremo che Zygmunt Bauman (2000) ha definito, in maniera probabilmente esagerata, società ‘liquida’, cogliendone la destrutturazione, ma anche evidenziando le enormi difficoltà di una eventuale ricomposizione.
È difficile dire quanto solidamente strutturate fossero le società occidentali prima e dopo la Seconda guerra mondiale. Più facile è rilevare come potessero essere e siano state di fatto ristrutturate e poi ‘rappresentate’ politicamente dal loro sistema di partiti. Se, effettivamente, si sono prodotte notevoli e numerose differenziazioni sulla scia dello sviluppo socioeconomico, le società occidentali potrebbero avere perso ancoraggi associativi relativamente duraturi e consistenti cosicché rappresentarne esigenze, preferenze e interessi è diventata un’operazione di alta ingegneria culturale prima ancora che politica. E il declino, in quantità e in qualità, del capitale sociale (Putnam 2000) contribuirebbe a complicare qualsiasi tentativo di rappresentanza politica e a renderlo di difficilissima traduzione operativa. Il lato positivo di questo processo di cambiamento potrebbe essere individuato in una crescente autonomia di rappresentanza individuale. Molti cittadini, interessati alla politica, informati in merito e desiderosi di influenzare le scelte dei loro rappresentanti, partecipano direttamente senza farsi ‘mediare’ da gruppi e partiti. A loro volta, non più protetti dai loro declinanti partiti, i rappresentanti diventano più sensibili a questa microarticolazione di interessi. Molto, poi, dipenderà dalla effettiva capacità di rappresentare e di dare risposte soddisfacenti a una pluralità di microinteressi articolati da cittadini convinti delle loro capacità politiche.
Tuttavia, appare più probabile che le contemporanee tendenze alla scarsa associabilità e alla mutevolezza delle preferenze rendano di più difficile praticabilità e comprensione il lato dell’entrata, per così dire, della rappresentanza politica. Pertanto, quelle tendenze servono anche a spiegare, almeno in parte, l’insoddisfazione per la mancata rappresentanza degli interessi e delle esigenze che i cittadini esprimono nei confronti dei loro rappresentanti, i quali sembrano interessarsi soltanto alla rielezione per poi abbandonarli. Dal momento che le democrazie contemporanee sono democrazie di partito e i loro governi sono esemplari di party government, allora la rappresentanza politica, nei suoi aspetti tanto positivi quanto negativi, deve essere esplorata anche e, forse, soprattutto con riferimento ai mutamenti sperimentati dai partiti. Naturalmente, qui interessano soltanto quei mutamenti che riguardano più propriamente la rappresentanza politica.
Oltre la rappresentanza dei partiti
Come ha ampiamente elaborato la letteratura specialistica, i partiti del passato, che fossero di ‘rappresentanza individuale’ o ‘di massa’, erano vitalmente interessati a offrire rappresentanza politica e si attrezzavano in modo tale da raggiungere adeguatamente i loro referenti. Che facessero leva su comitati elettorali oppure avessero una presenza territoriale diffusa, quei partiti erano capaci, non soltanto di raccogliere voti, ma di porsi in ascolto delle domande sociali. Sembra che molto di tutto questo sia cominciato a cambiare con l’avvento della televisione come strumento fondamentale di comunicazione fra i partiti, i loro dirigenti e gli elettorati. La quasi totalità dei partiti esistenti nelle democrazie occidentali ha perso iscritti, i quali, trasformandosi in ‘attivisti’, diventavano il tramite vivace fra dirigenti ed elettori, attuali e potenziali, e ha ridotto, se non quasi completamente abbandonato, la sua presenza territoriale. Fanno parzialmente eccezione quei partiti che, come in Gran Bretagna, sono organizzati su base di collegio uninominale (constituency parties). Per raggiungere un elettorato poco organizzato e dalle mutevoli preferenze, talvolta persino convinto di potersela cavare da solo senza intralci politici e quindi assolutamente poco propenso alla partecipazione politica, molti partiti hanno rafforzato il ruolo visibile della loro leadership fino a, in qualche caso, diventare evidentemente partiti del leader. Di conseguenza, è il leader del partito che offre rappresentanza politica (per quanto vaga e imprecisata possa essere e lui stesso desideri che rimanga, per non legarsi le mani) centrata sulla sua affidabilità, sulla sua competenza, sulla sua biografia, sulle sue qualità personali. Talvolta, è proprio il contesto, presidenziale e bipartitico, che favorisce questa evoluzione nel senso della rappresentanza leaderistico-personalistica; in altri casi, che invece si configurano come contesti parlamentari e multipartitici, emergono ostacoli. Non per questo, però, vengono meno le tendenze e sono abbandonati i tentativi di personalizzazione, neppure nel frammentato sistema partitico italiano, anche se alcuni partiti offrono la loro classica rappresentanza di nicchie sociali, economiche, religiose, etniche, e altri, invece, si affidano al loro leader dotato di qualità mediatiche.
Assecondare oppure contrastare le tendenze che dislocano il problema della rappresentanza politica verso l’alto (vale a dire lo mettono nelle mani dei governanti e delle loro decisioni, qualche volta con scivolamenti di tipo populista), oppure verso il basso (vale a dire lo riconsegnano a una società, alle sue articolazioni territoriali), costituisce il dilemma di molti sistemi politici. Infatti, qualora la rappresentanza politica venga consegnata ai governanti che si riterranno autorizzati a rispondervi con le loro decisioni, ne risulterà investita la qualità stessa della politica, ovvero la sua capacità di fornire visioni e prospettive anche quando risolve problemi di salute e di pensioni, di lavoro e di istruzione, di protezione e risanamento dell’ambiente. La costruzione dei welfare states è stata certamente una grande, efficace e feconda operazione di rappresentanza di interessi e politica. Con una ristrutturazione della rappresentanza politica, si porrà in modo estremo anche il compito dell’accountability. I rappresentanti dovranno appoggiare i loro governanti e poi limitarsi a spiegare e giustificare quanto fatto dai governi i quali, a loro volta, non sufficientemente informati dai loro rappresentanti, faranno affidamento sui sondaggi per conoscere le preferenze dei cittadini e per valutare quanto le loro risposte risultino soddisfacenti per le esigenze di quei cittadini? La frequenza dei cambiamenti di governo risulterà essere la conseguenza delle capacità di rappresentanza e dell’assunzione di responsabilità dei vertici governativi e, al tempo stesso, ne costituirà la misura.
La presidenzializzazione della leadership politica si rivela fenomeno inerentemente fragile, ma non per questo destinato a non durare. Sembra, peraltro, che i politici non al governo siano riusciti un po’ dappertutto a proteggersi contro la perdita del seggio, almeno questo ‘isolamento’ è rilevato dalle elevate percentuali di rielezione, intorno all’80-90%, dei detentori delle cariche nelle assemblee rappresentative. Se alla stabilità nelle cariche di rappresentanza aggiungiamo i privilegi di cui tanto i rappresentanti quanto i governanti godono, allora diventa facile capire come la crisi di rappresentanza venga vista dai cittadini: come distacco dei rappresentanti dalle condizioni reali di vita dei loro elettori e come disinteresse per le loro esigenze. Non sorprendentemente, l’incapacità dei rappresentanti di capire le esigenze e le preferenze dei cittadini si accompagna alla inadeguatezza delle risposte che offrono o che, più spesso, neppure riescono a offrire.
Ciononostante, talvolta, nel fuoco della competizione politica, possono emergere classi politiche, vere e proprie squadre secondo la versione della democrazia competitiva formulata da Joseph A. Schumpeter, che giungono al successo elettorale e politico poiché individuano con acume gli interessi da rappresentare, li articolano, li aggregano in programmi, li traducono in legislazione. Certamente, tra gli anni Cinquanta e Sessanta la classe dirigente gollista riuscì in questa grande operazione di rappresentanza. È probabile che il New labour di T. Blair giunse al governo in Gran Betagna nel 1997 avendo ridefinito gli obiettivi della rappresentanza per l’elettorato britannico. Sono esempi relativamente rari che, però, testimoniano un punto importante: la crisi di rappresentanza politica può trovare una soluzione grazie all’impegno della classe politica.
Quanto alla società sono prevedibili due fenomeni. Il primo è che riesca a riappropriarsi di non pochi spazi occupati dalla politica e che lo faccia in maniera tale da ridurre il flusso di domande di rappresentanza politica. ‘Meno Stato e più mercato’ è uno slogan superficialmente attraente, ma è parziale e, in sostanza, insoddisfacente poiché Stato e mercato hanno bisogno l’uno dell’altro. ‘Meno Stato e più società’ sarebbe uno slogan più efficace nella prospettiva di una società che si proponga di risolvere in autonomia i suoi problemi e le sue contraddizioni. Ovviamente, la precondizione è che riesca a uscire dallo stato di ‘liquidità’. In questa prospettiva sono emerse, ovvero hanno fatto la loro comparsa, alcune modalità di rappresentanza politica che sembravano appartenere al passato. In non pochi contesti, il localismo, vale a dire la propensione a rappresentare interessi specifici e ristretti, ha fatto la fortuna politica dei cosiddetti notabili.
Dagli anni Ottanta in poi, in particolare, in alcune democrazie europee, vecchie e nuove, sono prepotentemente emerse richieste di rappresentanza territoriale e, in certa misura, etnica. Si è parlato di ‘costruzione di identità’. Non conta tanto, però, il sostrato storico-culturale di queste identità (i cui due estremi sono forse costituiti, da un lato, dalla Catalogna, dotata di lingua e cultura specifiche, dall’altro, dalla cosiddetta Padania, una ‘invenzione’ politica), quanto la loro capacità di acquisire consenso e sostegno e di chiedere rappresentanza politica. Nella misura in cui la rappresentanza politica liberale non riesce ad accogliere e accomodare, anche ridefinendole e trasformandole, le esigenze territoriali ed etniche, e nella misura in cui queste esigenze proliferano, gli elementi di crisi diventano visibili e non facilmente sopprimibili. Certamente, una volta ridimensionato lo spazio della politica (e dello Stato), minori saranno le aspettative dei cittadini e minori le loro critiche. Tuttavia, non deve essere trascurato che la società è, in special modo quando vengono meno le regole poste dalla politica, luogo di produzione di disuguaglianze che rischiano di diventare non tollerabili.
Il secondo fenomeno consiste, per l’appunto, nel fatto che una società che, a causa della sua ‘liquidità’, non sappia darsi nuove, per quanto flessibili, modalità di associazione, finirà per trovarsi costantemente in situazioni di squilibri di rappresentanza correndo addirittura il rischio della sua dissoluzione.
Oltre la rappresentanza?
Società ‘liquefatte’, partiti frammentati, politica personalizzata, la rappresentanza politica è in crisi poiché, anche qualora riuscisse ad aderire alla sua società, incontrerebbe enormi problemi decisionali. Un mondo globalizzato sembra esigere da ciascuno degli attori statali, ma non soltanto da loro, decisioni rapide che possano condensarsi in soddisfacenti sintesi politiche; gli attori statali, però, sono schiacciati da fenomeni di unificazione sovranazionale che, al tempo stesso, complicano la rappresentanza e offuscano la trasparenza. Se non saranno i partiti gli organismi capaci di produrre decisioni e sintesi e se persisteranno le difficoltà delle istituzioni di governo, l’onere si sposterà, da un lato, sulle leadership politiche personalizzate, dall’altro, ovunque siano esistenti e disponibili, sulle procedure referendarie. Entrambe sono soluzioni plausibili, già sperimentate unitamente alla ricerca di riforme dei meccanismi e delle strutture istituzionali (come si è vanamente tentato dagli anni Ottanta nel contesto italiano). Per periodi di tempo non troppo lunghi, come hanno dimostrato le esperienze di Margaret Thatcher e di T. Blair in Gran Bretagna, le leadership personalizzate sono in condizioni di supplire una efficace rappresentanza politica. Un discorso simile va di certo esteso anche a Silvio Berlusconi e alle sue modalità di rappresentanza esplicitamente presentata come non politica.
Quanto alle procedure referendarie che, in Italia, si sono moltiplicate lungo un arco più che trentennale, paradossalmente, sembrano servire sia ai governanti per scaricare sui cittadini tematiche che altrimenti non saprebbero risolvere e della cui soluzione non vorrebbero portare l’onere, sia ai cittadini per imporre il loro punto di vista. In entrambi i casi, la rappresentanza viene superata e sono l’idea e la pratica della democrazia, come dialogo orientato alla persuasione e alla formazione di decisioni almeno in parte condivise, a esserne seriamente colpite. ‘Saltare’ la rappresentanza politica può non condurre al migliore dei mondi possibili. Anche per questo, il caso italiano presenta elementi di qualche gravità. La combinazione di una rappresentanza quasi in sostanza basata su un’identificazione territoriale, come è quella deliberatamente offerta dalla Lega Nord, con la formazione di due grandi partiti contenitori, quali sono, sul versante del centrodestra, il Popolo della libertà, e su quello del centrosinistra il Partito democratico, si è accompagnata alla scomparsa, causata anche dai meccanismi elettorali, della Sinistra Arcobaleno, confuso tentativo di collegare vecchie sigle partitiche. Rimane in questo modo del tutto aperto il problema, altrove risolto in maniera moderatamente efficace da partiti grandi e con profonde radici nelle tradizioni socialiste e democristiane dell’Europa, di offrire una rappresentanza soddisfacente, capace di sintesi, a una società frammentata e inquieta.
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