I problemi religiosi
Fra XIII e XIV secolo si sviluppa un'intensa attività disciplinatrice che mira a dare ordine al clero e alle strutture della Chiesa veneziana. È del 1296 il concilio di Grado che, seguito dai sinodi di Castello e di Torcello, legifera sulla vita e sui costumi dei chierici (1); risale al periodo di episcopato di Ramperto Polo (1303-1309) il primo nucleo del cosiddetto catasto vescovile di Castello, nel quale si registrarono minutamente le contribuzioni versate al vescovo dalle chiese della diocesi (2); va collocata nei primissimi anni del Trecento la compilazione degli statuti e delle consuetudini del capitolo di S. Marco che regolava l'organizzazione e la vita liturgica del clero della basilica marciana (3). Se si aggiunge che la formula del giuramento di fedeltà e obbedienza richiesta dal vescovo Ramperto ai nuovi preti e ai nuovi diaconi sembra indicare un "impegno di riordino esteso anche all'organizzazione disciplinare della diocesi" (4), Si ha la conferma dello sforzo "normalizzatore" in atto al volgere del secolo nel mondo ecclesiastico lagunare.
Le ragioni sono di carattere generale e locale. L'attuazione dei canoni del IV concilio lateranense (1215) e del Lionese I (1245) e II (1274), che avevano stabilito norme sulla disciplina chiericale, sulla cura d'anime, sull'amministrazione dei patrimoni ecclesiastici (5), a lungo ritardata (6), non era più rinviabile, mentre il processo di unificazione liturgica, assai curato lungo tutto il Duecento (7), andava completato con l'emanazione di un ordinamento interno e la fissazione degli usi del clero del capitolo di S. Marco, tradizionalmente sottratto alla giurisdizione del vescovo. Che poi venisse messo un limite, in quegli anni, al numero di posti disponibili nelle collegiate ha fatto ritenere a qualche storico che, anche nelle strutture ecclesiastiche, in significativo parallelismo col chiudersi degli spazi di accesso agli organismi di vertice della vita politica, fosse in atto una più o meno strisciante "Serrata" (8). D'altro canto, anche sul piano pastorale, la rigidità con la quale si intervenne a colpire un vescovo come Guglielmo I di Iesolo, scomunicato dal patriarca di Grado nel 1293 perché non residente e poi assolto (9), attesta il giro di vite impresso alla disciplina ecclesiastica e alla vita religiosa, manifestato anche con un più vigilato controllo fiscale, diventato così occhiuto da provocare reazioni violente e creare un nuovo "martire", se è vera la tradizione che Ramperto Polo, come era già accaduto, sembra, al vescovo di Padova Bernardo Platone, fu assassinato per la durezza con la quale esigeva il pagamento delle decime papali (10).
I risultati dei tentativi di riorganizzazione di uomini e strutture bisognosi di ordine si concretizzarono in una normativa conciliare e sinodale che, andando oltre i problemi "de vita et moribus clericorum", fissava principi destinati non solo a regolare alcuni aspetti dei riti liturgici, la vita del clero (consueto obbligo della tonsura e dell'abito clericale; proibizione del gioco e del porto d'armi; divieto di tenere concubine) e gli equilibri interni alla Chiesa locale (interdizione alla creazione di leghe per eleggere un nuovo vescovo), ma anche i rapporti con i laici, il diritto matrimoniale, la questione delle decime (11).
Al di là di decreti facilmente rintracciabili anche nella coeva legislazione ecclesiastica, alcune costituzioni del concilio gradense del 1296, come quella in cui si stabiliva che nel canone della messa la preghiera di intercessione menzionasse, con il papa e con il vescovo, anche il doge e si ordinava di pregare "pro bono statu Venetiarum", rinviavano esplicitamente alla realtà locale (12). Con pragmatico patriottismo si sottolineava che in tutto il patriarcato non c'erano altro re o altro principe né altra patria per la cui incolumità e per la cui prosperità rivolgere preci al Signore. Nello stesso tempo però si stava bene attenti a difendere privilegi e prerogative ecclesiastiche nei confronti dei laici e del potere politico, fulminando la scomunica contro chi invadeva o danneggiava i beni della Chiesa e diffidando i chierici dal rivolgersi al tribunale civile (13).
La speranza di potere "in melius reformare" i "presbyterorum mores et actus", nella convinzione che solo dall'esempio di un clero moralmente inattaccabile potesse derivare un miglioramento della vita cristiana, andò tuttavia delusa. D'altronde la stessa concessione fatta ai chierici e ai custodi di una chiesa di abitare in case separate, magari anche assieme a madri, nipoti o cognati, testimonia la rinuncia o quanto meno il declino della vita comune, tradizionalmente considerata un ideale da proporre al clero e uno strumento di riforma ecclesiastica capace di salvaguardare l'"honestas clericorum" e assicurare una credibile presenza pastorale tra il popolo dei fedeli (14).
Per tutto il tardo medioevo si rinnovarono invece le lamentele e i conseguenti interventi di autorità ecclesiastiche e laiche per reprimere gli abusi. Concili provinciali e sinodi diocesani affrontarono ripetutamente il tema della disciplina ecclesiastica. L'assemblea gradense del 1330, ad esempio, si occupò di indulgenze (15), ma con tutta probabilità si interessò anche di problemi connessi con la vita e l'organizzazione monastica, se è vero che il 15 settembre 1330 il vescovo di Castello Angelo Dolfin prese provvedimenti nei confronti delle monache di S. Lorenzo, obbligando fra l'altro la badessa, "iuxta formam Gradensis concilii", a tenere ogni anno un apposito capitolo nel quale rendere note le entrate e le uscite, redigendo a fine anno un rendiconto complessivo dell'amministrazione (16). L'anno precedente lo stesso vescovo convocò un sinodo nel quale riaffermò l'obbligo della residenza e della frequenza ai divini uffici per il clero beneficiato (17). A Torcello nel 1374 si tornò a discutere dell'"honestas" dei chierici, secolari e regolari, condannando l'abitudine di frequentare taverne, di darsi al gioco e alla mercatura, di portare armi, di praticare l'usura, di entrare nei monasteri di monache, le quali, a loro volta, erano fermamente richiamate all'osservanza della clausura (18).
Preoccupate attenzioni per la condotta del clero manifestò a più riprese anche il maggior consiglio (19): liti sempre più drammatiche fra ecclesiastici e laici scossero la vita cittadina, causando l'intervento ripetuto del governo e delle forze dell'ordine (20). La lettera di Gregorio XII del 18 maggio 1407 al vescovo di Castello Francesco Bembo, con la quale il papa fissò limiti alle immunità ecclesiastiche, escludendo da ogni privilegio clericale e assoggettando al foro secolare i numerosi chierici non rispettosi delle norme sull'abito e sulla tonsura sorpresi a compiere reati (21), dimostra, non diversamente dal sinodo dello stesso anno nel quale sembra si intervenisse ancora sulle stesse questioni, che nel volgere di un secolo la situazione del clero restava un problema irrisolto a Venezia come altrove.
Il patriarca di Grado, il vescovo di Castello e il primicerio di S. Marco rimasero, anche nel Trecento, le massime autorità della Chiesa veneziana. Qualunque giudizio si voglia dare sull'importanza della struttura patriarcale, che fu probabilmente superiore a quanto comunemente si crede, è indubbio che, sul piano personale, i patriarchi svolsero una funzione di rilievo e furono figure di spicco della Chiesa trecentesca. La lista dei titolari della sede gradense comprende ministri generali dei frati minori, come il francese Fortanerio Vassalli (1351-1361) e il modenese Tommaso da Frignano (1372-1381); autorevoli prelati in carriera, come l'agostiniano Pietro III Amely di Breme, sacrista, confessore e bibliotecario pontificio, vescovo di Sinigaglia e poi arcivescovo di Otranto e quindi di Taranto, traslato al patriarcato di Alessandria dopo aver retto per un buon numero di anni (1383-1400) la sede di Grado; nobili veneziani formatisi nell'amministrazione dello Stato e nel servizio alla Chiesa in qualità di pievani, arcipreti, vicari generali; vescovi di altre diocesi e di sedi suffraganee e d'Oltremare (22).
In sintonia con le caratteristiche del ceto prelatizio trecentesco, economicamente forte di benefici, provvisto spesso di cultura e dotato di abilità diplomatiche, l'insieme dei patriarchi che guidarono la provincia gradense non mancò di attenzioni per i propri compiti pastorali né di sensibilità verso il problema della decadenza della vita religiosa. I sinodi convocati nel 1321, 1327 e 1330 dal patriarca Domenico (23) e quello probabile tenuto da Tommaso da Frignano nel 1374 (24) la lettera dello stesso anno con la quale Gregorio XI lodò quest'ultimo per l'azione riformatrice intrapresa (25), le visite che tanto Domenico che Tommaso avviarono nei territori della provincia (26) dimostrano che, almeno alcuni patriarchi sentirono la responsabilità del loro compito e vi si applicarono con zelo. È giusto anzi ricordare che il patriarca Francesco II Querini morì il 30 giugno 1372 in concetto di santità, tanto che il senato, dopo la sua scomparsa, con decreto del 29 agosto 1372 decise di incaricare l'ambasciatore a Roma di proporre alla sede apostolica il processo di beatificazione (27).
Mancano ricerche aggiornate su questa figura, come su gran parte della storia religiosa ed ecclesiastica veneziana del Trecento. In attesa di auspicabili approfondimenti non mancano motivi sui quali riflettere riguardo al personaggio, ma anche sulla funzionalità del modello di santità da lui incarnato e proposto per la canonizzazione rispetto alle esigenze del tempo. Ci si può chiedere, ad esempio, in che misura il contesto di devozione francescana nel quale sembra inserirsi la celebrazione del santo, sepolto nella cappella Querini di S. Maria dei Frari accanto al corpo del beato francescano Gentile da Matelica, martirizzato in Mesopotamia nel 1340, si possa riferire, oltre che agli indubbi orientamenti religiosi della famiglia (era stato un Nicolò Querini a portare a Venezia le reliquie del martire) (28), al sostegno di Tommaso da Frignano, suo successore nel governo patriarcale e già ministro generale dei frati minori. Ci si può domandare anche se, nell'esaltare la santità di un patriarca veneziano di Grado, non agissero ragioni di "concorrenza" con il vicino patriarcato di Aquileia che, nella figura del patriarca Bertrando di Saint-Geniès, si gloriava di un nuovo martire (morto in realtà in battaglia nel 1350) e di un nuovo patrono e intercessore della "patria" del Friuli (29), per giunta in tempi di alleanza politica del patriarca aquileiese con il re d'Ungheria e con i Carraresi signori di Padova contro Venezia (30). Certo la quasi simultanea comparsa di due santi patriarchi valorizzava di riflesso le strutture provinciali cui erano preposti e rilanciava il prestigio dell'istituto metropolitico, la cui persistente vitalità è rilevabile nel Trecento anche su un piano più generale (31).
Rispetto alla situazione veneziana si può infine ritenere che il senato appoggiasse volentieri il culto per il defunto patriarca che, diversamente dai vescovi di Castello recentemente segnalatisi per irrequietezza e ostilità al governo veneto, si era distinto per fedeltà e santità di vita (32). In realtà se il carattere periferico e la minore rilevanza delle loro diocesi assegnavano un ruolo relativamente marginale ai vescovi di Cittanova, Iesolo e Caorle e se il maggior peso della diocesi di Torcello, dotata di un buon numero di parrocchie e di monasteri maschili e femminili (33), conferiva ai suoi presuli autorevolezza e prestigio, erano però soprattutto i vescovi di Castello, benché suffraganei di Grado e tenuti al giuramento di fedeltà al patriarca, ad avere di fatto un'autorità pari a quella patriarcale e, comunque, concorrente con essa. Non a caso più che nelle altre sedi si avverte in quella castellana lo spiccato interesse di grandi famiglie del patriziato per la carica vescovile. Su un totale di sessantuno titolari del patriarcato e delle diocesi soggette, ventuno vescovi appartennero nel Trecento a casate veneziane (34). Tra essi la distribuzione all'interno delle singole sedi appare significativa: solo quattro su quattordici nella metropoli gradense, ma otto su dodici a Castello. Con ampi margini di approssimazione (allo stato attuale delle ricerche non è sempre possibile conoscere con esattezza l'origine familiare di questi prelati) nelle altre diocesi la proporzione oscilla tra i tre-quattro su dieci di Torcello, Cittanova e Caorle, ai tre su cinque di Iesolo.
È Castello, dunque, la sede più ambita dalle famiglie veneziane per le quali una dignità ecclesiastica di quel livello non era meno importante di un seggio nei massimi organismi dello Stato. Carriere programmate e veri e propri "cursus honorum" si intravvedono dietro itinerari biografici come quello di un Angelo Correr, culminato con l'ascesa al soglio pontificio (1406) (35) o quello di un Leonardo Dolfin, canonico della cattedrale di Modone, vescovo di Cittanova (1382), di Creta (1387), di Castello (1392) e infine trasferito suo malgrado, per motivi politici, al patriarcato di Alessandria (1401), da dove fece ritorno a Creta di lì a qualche anno (36). Ambizioni frustrate, aspirazioni soddisfatte e raccomandazioni di parenti, capitoli, comunità religiose, cittadinanze si lasciano scoprire, scorrendo gli elenchi delle promozioni alle dignità ecclesiastiche nel Veneto e nelle sedi d'Oltremare negli ultimi decenni del XIV secolo e agli inizi del secolo successivo. Tra il 1361 e il 1390 Giovanni Loredan, primicerio di S. Marco, nonostante gli appoggi politici ed ecclesiastici, concorre invano al patriarcato di Grado e agli episcopati di Modone, Corone, Torcello, Creta, Castello per ottenere infine, solo nel 1391, il vescovato di Capodistria. Per l'episcopato di Chioggia si presenta, tra gli altri, nel 1387, l'abate Ilario Costanzo, nipote di un Nicoletto da Chioggia, postulato dai canonici e per il quale avevano scritto una lettera di raccomandazione il podestà e la comunità di Chioggia. Il già ricordato Leonardo Dolfin, patriarca di Alessandria, candidato alla sede di Padova nel 1406, è definito in quell'occasione dal senato "amico nostro". Nello stesso anno il francescano fra Michele si sottopone alla proba per la diocesi di Dolcigno con la raccomandazione di Marino Caravello capitano di Corfù, mentre il suo concorrente Matteo Vladi da Dolcigno risulta eletto "per canonicos et capitulum". Di Pietro Marcello, Raniero Morosini, Pietro Dandolo e Leonardo Michiel, aspiranti nel 1399 alla cattedra vescovile di Ceneda, si ricordano studi e titoli accademici, ma si sottolineano anche i nobili natali (37).
Sono naturalmente soltanto alcuni esempi tra i molti simili che si potrebbero fare. La solidarietà familiare e l'appartenenza di norma alle dinastie di vertice del patriziato (Dolfin, Morosini, Foscari, Correr, Loredan, Falier, Bembo, per restare alla sede castellana) permetteva probabilmente ai vescovi di resistere in caso di conflitto con il potere politico, in mano ad una ristretta oligarchia di cui essi stessi facevano parte. I vincoli parentali potevano però ritorcersi a danno e coinvolgere interi gruppi famigliari. Quando il vescovo Paolo Foscari, in duro contrasto con il governo veneto per le decime funerarie e la giurisdizione sulla basilica di S. Marco, si rivolse ad Avignone per ottenere la condanna del doge come usurpatore dei diritti della Chiesa, l'autorità civile reagì con ogni mezzo, arrivando a minacciare di esilio perpetuo e confisca dei beni il padre del vescovo e la sua famiglia (38).
Il pericolo di tracciare una storia della Chiesa tutta conflitti e discordie è grande almeno quanto quello di ricostruire un profilo delle vicende ecclesiastiche dai toni apologetici, destinati, più che a dare un contributo di conoscenza storica, a prestare omaggio al mito di Venezia. In realtà anche a non voler considerare la tradizione veneziana di controllo politico delle istituzioni ecclesiastiche e della vita religiosa, di per sé fonte inesauribile di dissidi, è la complessità e la difficile coesistenza di strutture diverse, ciascuna impegnata a rivendicare con forza la propria autonomia anche a dispetto di gerarchie giuridicamente riconosciute (vedi la primazia patriarcale), ad alimentare polemiche e tensioni. Lunga e mai definitivamente risolta fu, ad esempio, la controversia che, nel XIV secolo, oppose il patriarca al vescovo di Castello riguardo alle decime e alla giurisdizione su S. Bartolomeo, antichissima chiesa parrocchiale unita nel 1327 da Giovanni XXII al patriarcato e subito diventata oggetto di contese per l'elezione del titolare e per la riscossione della "quarta decimarum" (39). Rimasta vacante la chiesa nel 1342 per il trasferimento del pievano all'arcivescovato di Ravenna, il delegato apostolico dovette intervenire preventivamente per impedire sul nascere eventuali tentativi del vescovo di Castello di eleggere il nuovo titolare (40). Sei anni dopo si raggiunse a fatica un accordo sulle decime, bloccando ogni rivendicazione vescovile sino all'emanazione della sentenza definitiva. La questione restò tuttavia ancora aperta e, a distanza di un decennio, fu affidata da papa Innocenzo XI al vescovo di Iesolo, mentre nel 1401 Bonifacio IX finì col riservare a sé la giurisdizione sulla chiesa, salvo restituirla l'anno successivo al patriarca (41).
Ricorrente fu anche il contrasto fra primicerio e capitolo di S. Marco da una parte e vescovo castellano dall'altra per le immunità godute dal clero della Basilica marciana. Cappella ducale esente sia dal patriarca che dal vescovo, dotata di un collegio di "cappellani domini ducis", governati da un primicerio confermato, "tamquam membrum ducatus Venetiarum", dal doge stesso, il cui ruolo subì nel corso del Trecento qualche restrizione soprattutto a favore dei procuratori di S. Marco, la Basilica assunse sempre più nel XIV secolo la funzione e il ruolo di chiesa di Stato (42). Ad officiarla era un prestigioso gruppo di pievani e di canonici del capitolo della cattedrale di S. Pietro che, con la loro stessa presenza nella chiesa del doge, assicuravano un raccordo tra élites ecclesiastiche e vertici dello Stato il quale, anche per questa via affermava il proprio controllo sul fior fiore del clero secolare veneziano, provocando la reazione di vescovi, come Paolo Foscari, gelosi custodi delle prerogative e delle giurisdizioni episcopali, o anche di più accomodanti prelati come il vicario vescovile che nel 1377, dopo aver convocato primicerio e canonici di S. Marco per discutere l'eterno problema delle decime, di fronte alle loro proteste e dichiarazioni di esenzione dalla giurisdizione del vescovo, si ritraeva affermando di aver formulato un invito e non un comando (43).
Niente affatto tranquille furono anche le relazioni del patriarca con i vescovi delle altre diocesi suffraganee. I contrasti con il vescovo di Torcello, ad esempio, finirono al centro del concilio gradense del 1321, culminato con la scomunica contro Tolomeo da Lucca, titolare della diocesi torcellana, accusato dal patriarca Domenico di ribellione, offesa alla giurisdizione e alla dignità patriarcale, dissipazione dei beni del vescovato (44), Il rifiuto del vescovo di onorare il giuramento di fedeltà, che l'obbligava annualmente a presentarsi alla sede di Grado nella festa dei SS. Ermagora e Fortunato, di partecipare al sinodo, di pagare cinque soldi l'anno alla Chiesa gradense "pro cathedratico", sembra indicare debolezza, se non proprio impotenza, del patriarca, costretto a sottoporre la sentenza di scomunica del vescovo renitente, e tutta la questione, al giudizio del concilio provinciale. Ma proprio questa vicenda mostra in realtà la persistente tenuta dell'autorità patriarcale, capace non solo di ottenere il consenso e la solidarietà degli altri vescovi suffraganei nel contrasto con uno di loro, ma di piegare alla lunga la resistenza del presule ribelle che, di lì a qualche anno, riconobbe il proprio errore, chiese perdono e fu reintegrato nel governo della diocesi (45). Su un piano più squisitamente religioso si deve anche rilevare che il patriarca Domenico, il quale, fra l'altro, aveva preceduto Tolomeo sulla cattedra torcellana prima di essere elevato al patriarcato gradense, tenne almeno tre sinodi (quelli ricordati del 1321, 1327, 1330) e si trovava in visita alla sua ex diocesi allorché il 28 aprile 1320 riconobbe la legittimità dell'elezione di Maria Zeno a badessa del monastero benedettino di S. Antonio di Torcello contro il vescovo che appoggiava invece Fontana Loredan (46). Nei primi decenni del secolo il controllo gerarchico e la capacità di governo non sembrano dunque sfuggire alle autorità ecclesiastiche veneziane.
Eppure quei decenni erano stati particolarmente difficili. Al quadro politico scosso dalla Serrata del maggior consiglio (1297), dalle congiure di Marino Bocconio (1300) e di Baiamonte Tiepolo (1310), dalla guerra di Ferrara, corrispose una situazione ecclesiastica turbata. Nel 1302 l'interdetto si era abbattuto su Venezia, i cui governanti erano accusati di aver sottratto al vescovo decime a lui spettanti (47). Nuove scomuniche erano state fulminate contro la città nel 1308 e nel 1309, durante la guerra con la sede apostolica per il dominio di Ferrara (48). Nel 1310 ventitré ecclesiastici, tra cui un canonico di Castello, furono condannati a pene varie per aver preso parte alla congiura del Tiepolo (49). E mentre ai vertici del potere politico uno Stefano Giustinian, designato doge, preferì entrare in monastero e farsi monaco, e un Marino Zorzi (1311-1312), nominato in sua vece al dogado, sembra si dedicasse più ad opere di pietà che ad attività di governo (50), rivelando il disagio di un'aristocrazia segnata da serrate e congiure, alla guida della Chiesa di Castello si rafforzò la presenza di vescovi forestieri come Galasso dei conti Albertini di Prato, morto poco dopo l'elezione alla sede castellana e subito sostituito da Clemente V con il fratello Iacopo Albertini (19 giugno 1311) che inaugurò un episcopato turbolento, segnato dalla non residenza, da scelte politiche a favore dell'imperatore Ludovico IV il Bavaro con conseguente scomunica, dall'adesione all'antipapa Niccolò V (51). Mentre l'inquietudine ereticale lambiva la stessa cattedra vescovile, tanto che, nel 1363 un prete già pievano di S. Giovanni in Bragora e vicario generale della diocesi veniva scomunicato per eresia (52), le divisioni all'interno della cattolicità si ripercuotevano pesantemente anche sulla Chiesa veneziana. A qualche decennio di distanza dalla deposizione di Iacopo Albertini, Giovanni IV Piacentini, traslato dalla sede di Orvieto a quella di Castello, si schierò coll'antipapa Clemente VII in opposizione a Urbano VI, venendo premiato dall'uno col cappello cardinalizio e punito dall'altro con la rimozione dalla cattedra castellana (53). In un secolo di "crisi" anche per le Chiese locali la tela troppo consunta, rattoppata da una parte si strappava però dall'altra. Proprio il Piacentini, col quale si era risolto lo spinosissimo problema delle decime, che a lungo aveva drammaticamente diviso Chiesa e Stato (54), finì coll'essere deposto per le sue opzioni nell'età dello scisma a favore dell'antipapa (55).
La divisione non coinvolgeva però solo i vertici della Chiesa universale e locale. Ripercussioni negative vi furono ai più diversi livelli della società. A Venezia, nei primi anni del Quattrocento, anche all'interno delle singole comunità religiose finirono col formarsi opposte correnti. "Nui erimo molto divise et non solamente nui, ma tutto il mondo e specialmente in questa alma et magnifica cità di Venexia". Così scriveva suor Bartolomea Riccoboni, rievocando le conseguenze che nel monastero domenicano del Corpus Domini aveva avuto lo scisma esploso nel 1409 a Pisa con la deposizione di Gregorio XII e l'elezione di Alessandro V (56). E mentre sul piano politico gli schieramenti si bilanciavano, contrastandosi con accese discussioni sulle quali pesava anche il diverso atteggiamento dei pontefici nei confronti della politica di espansione sulla terraferma, gli ambienti conventuali erano turbati da discordie e crisi di coscienza: monache prese dall'incertezza nella cui mente si era insinuato il dubbio, confessori loro consiglieri "li quali fra loro erano divixi", "tutto el mondo e tutti li religiosi e religiose divise insieme". Lo scenario disegnato dalla Riccoboni mostra, senza possibilità di dubbio, che anche nel piccolo mondo di un convento femminile si era consumata la frattura tra fedeli di papa Gregorio XII e seguaci di Alessandro V ed era di conseguenza insorta una "grande tribolation" (57).
In questo quadro chi immagina una Chiesa veneziana sempre succube nei confronti dello Stato e, anche per il Trecento, un clero patriottico e una tranquilla integrazione di vertice tra autorità ecclesiastiche e governo veneto deve ricredersi. La rivendicazione al doge della piena "iurisdictio super clericos" fu l'aspirazione di un doge cronista come Andrea Dandolo (58), ma senza negare il concreto dilatarsi nel corso del secolo degli spazi di controllo dei poteri laici sulla Chiesa e sulla vita religiosa (59), bisogna riconoscere all'episcopato veneziano, in particolare a quello uscito dalle fila delle grandi famiglie dell'aristocrazia, una volontà di resistenza superiore a quella di molti vescovi della terraferma, incapaci di esprimere anche solo barlumi di autonomia rispetto ai regimi politici dominanti (60). Nulla, ad esempio, sembra suggellare come pietra tombale ogni idea di "libertas Ecclesiae" più della decisione di riservare al senato la nomina del vescovo di Castello, inaugurata il 27 agosto 1336 col vescovo Nicolò I Morosini e proseguita col successore Paolo Foscari, eletto dal senato il 5 aprile 1367 (61). Eppure nessun vescovo del Trecento difese più aspramente i diritti del clero e della Chiesa veneziana e fu più duramente in contrasto col governo veneto. E se l'appello del Morosini a Innocenzo VI in nome della "libertas Ecclesiae" può apparire strumentale, in quanto riferito all'accusa rivolta a lui e ad altri ecclesiastici di non irreprensibili costumi (62), la determinazione con la quale il Foscari cercò di affermare la giurisdizione vescovile sul capitolo di S. Marco, simbolo del potere dogale, protetto da esenzioni e privilegi (63), è pari all'energia con la quale Leonardo Dolfin, approdato nel 1392 alla sede di Castello, non volle ricevere l'investitura temporale dal doge (64).
Ma, soprattutto, il Morosini e il Foscari si rivelarono autentici mastini nel rivendicare i diritti della Chiesa sulle decime mortuarie, cioè la tassa sui beni del defunto pagata al vescovo dagli esecutori testamentari. Sempre al centro di contrasti, questo tipo di prelievo divenne oggetto di aspro conflitto in occasione della peste del 1348. L'altissima mortalità indusse i governanti a far sospendere nel luglio il pagamento perché non finisse in mano ecclesiastica gran parte della ricchezza dei cittadini. La reazione del vescovo Morosini fu quanto mai decisa ("tempore huius presentis episcopi Veneciarum [...> multe differentie et questiones [...> orte sunt", si lamentava il senato) e diede origine ad una lunga controversia, proseguita con asprezza dal Foscari, centrata sull'obbligatorietà o meno della decima, sulla quantità del risarcimento che le autorità civili avrebbero dovuto versare per il passato a causa del mancato pagamento, sull'entità della somma annua che, al posto della decima, intendevano pagare in futuro (65). Ci vollero quasi trent'anni per raggiungere un compromesso che, comunque, negava il carattere obbligatorio della decima (66). Lo scontro rese d'altra parte evidente la precarietà degli equilibri fra potere laico e potere ecclesiastico e, incrinando ogni solidarietà fra Chiesa e "Stato", gettò su sponde opposte clero e popolo. La rottura, maturata nel clima tragico creato dal diffondersi della peste, fu così grave che il vescovo giunse a diffidare il clero dall'amministrare la penitenza, l'eucarestia e gli altri sacramenti a chi non avesse versato le decime e ad escludere dai sacramenti stessi anche gli eredi, i commissari e i tutori del defunto (67). E se da una parte egli sembrava voler approfittare della situazione di emergenza per avanzare in termini radicali e ultimativi le proprie rivendicazioni, il governo veneto dalla sua coglieva la palla al balzo per affermare una volta per sempre la natura di puro contributo volontario e devoto della decima che pure, durante il dibattito in senato, qualcuno, riecheggiando i testi conciliari, aveva dichiarato essere di Dio (68).
Ma, al di là dei pur importanti contenuti della controversia, che richiamano una materia sempre scottante e sempre all'ordine del giorno nell'ambito delle contese giurisdizionalistiche che contraddistinsero i rapporti tra Chiesa e "Stato" nel basso medioevo veneziano, val la pena di rilevare come, in tutta la vicenda, emerga un protagonista influente e alla fine decisivo, cioè il papa: invocato dal senato in quanto autorità in grado di risolvere la questione, destinatario per questo di varie ambascerie, arbitro prudente e autorevole presso la cui curia Venezia teneva a mantenere alta la propria credibilità (69). In realtà la tendenza a stabilire un rapporto preferenziale con il papato, a ricercare intese ed accordi nell'intento di ricondurre a disciplinamento le libertà delle Chiese locali, non è un orientamento individuabile solo nella politica di principati e repubbliche del Quattrocento (70), ma un indirizzo che ha precedenti già nel XIV secolo e appare manifestamente in atto nella Venezia trecentesca, dove, scavalcando le autorità ecclesiastiche veneziane e spesso contro di esse, i governanti tentarono di frequente il dialogo diretto con la curia romana e ne ricercarono l'appoggio per la soluzione di problemi interni. Nel 1302, ad esempio, la vertenza tra il vescovo Bartolomeo Querini e il governo veneto sempre per problemi di decime, dopo l'interdetto lanciato da Bonifacio VIII sulla città, si era conclusa con il raggiungimento di un compromesso con la Chiesa romana e con una sconfitta per la Chiesa veneziana (71). Se il governo aveva infatti revocato i decreti relativi ai beni ecclesiastici, aveva però ottenuto in cambio il trasferimento del Querini alla sede di Novara (72). Sul finire del secolo di fronte al rifiuto di Leonardo Dolfin di ricevere l'investitura del vescovato dal doge, questi domandò al papa la rimozione del presule che difatti nel 1401 passò alla sede patriarcale di Alessandria (73).
D'altra parte l'instaurarsi dal 1363 del sistema delle probae ecclesiastiche, cioè la ballottazione in senato dei candidati aspiranti ai benefici ecclesiastici e la raccomandazione presso la curia papale di chi aveva ottenuto il numero maggiore di voti (74), stabiliva un collegamento diretto fra governo veneto e papato che tagliava fuori del tutto la Chiesa locale. È vero che quella procedura tendeva non solo ad escludere, per quanto possibile, gli estranei, ma anche a ridurre la libertà di scelta del pontefice con l'indicazione di un unico candidato, tuttavia è indubbio che essa rafforzava il controllo del potere politico sulle dignità ecclesiastiche (75), senza che alla Chiesa veneziana rimanessero molte possibilità di autonome scelte e una qualche capacità di farle valere.
Fra i possibili elementi di tensione e di scontro che potevano insorgere fra clero e autorità civili è da porre anche lo stretto controllo che, a partire dalla seconda metà del Duecento, il governo veneto attuò nei confronti dell'espansione di enti e patrimoni ecclesiastici. A varie riprese si proibì di erigere chiese, monasteri e ospedali senza licenza del maggior consiglio e del senato e si posero divieti all'uso di lasciare fondi in perpetuo alla Chiesa (76). Le proibizioni non impedirono peraltro la crescita numerica degli insediamenti religiosi. Se all'inizio del Trecento le parrocchie erano settanta e nel 1325 il totale delle chiese raggiungeva il numero di centoventuno unità (77), nel corso del secolo una ventina di nuove chiese, per lo più di ordini religiosi antichi e nuovi, venne ad arricchire il panorama già fitto dei luoghi di culto. Giunsero a Venezia o vi rafforzarono la loro presenza eremitani, minori, predicatori, gerosolimitani, serviti, camaldolesi, antoniani, umiliati, gesuati, eremiti di S. Girolamo (78). Contemporaneamente nei primi decenni del secolo aumentò, a quel che sembra, il numero dei religiosi nei conventi anche in ragione del prestigio di alcune comunità. I carmelitani, ad esempio, che un tempo erano soltanto sedici, raggiunsero nel 1320 il numero di cinquanta (79).
Diversamente da altre città anche vicine come Padova, dove era rara la presenza di esponenti dell'aristocrazia tra il clero curato, la carica di "plebanus", cioè di parroco, era ambita anche dai membri del patriziato e del popolo "grande" (80). Studi recenti hanno confermato che, pur essendo eterogenea la composizione sociale del clero parrocchiale, su quattrocentottantotto preti delle parrocchie, nel periodo compreso tra il 1297 e il 1423, centoundici (il 22,7%) appartenevano probabilmente alla nobiltà (81). Si tratta di dati approssimativi, tuttavia, pur con tutte le necessarie cautele, la stima in base alla quale circa un quarto dei pievani era di origine patrizia appare sufficientemente attendibile (82). Sul piano individuale personaggi come il cardinale Morosini, già pievano di S. Angelo, Tommaso Tiepolo pievano di S. Martino (1350), Giovanni Zane pievano di S. Luca (1350), Paolo Foscari pievano di S. Pantaleone (1366), poi vescovo di Corone (1366) e di Castello (1367), Francesco Querini pievano di S. Maria Formosa (1340) e in seguito vescovo di Capodistria (1349) e di Creta, quindi patriarca di Grado (1367), dimostrano che la carica di "plebanus" rimaneva uno sbocco o anche l'inizio di una prestigiosa carriera ecclesiastica pure per i figli di famiglie eminenti della società veneziana (83). Resta però da sapere (e allo stato delle ricerche non è possibile dare risposte esaurienti) sino a che punto i pievani esercitassero il loro ministero. Casi come quello del patriarca Andrea Dotto, pievano di S. Giovanni Decollato (1318) e poi di S. Martino, chiesa parrocchiale che tenne in commenda sino alla morte (84), o di Domenico Gaffaro, vescovo di Cittanova (1347), che nel 1365 ebbe pure in commenda il pievato di S. Basso (85), fanno sorgere legittimi dubbi sull'effettivo impegno pastorale dei "plebani".
In una prospettiva più generale, non riguardante soltanto il clero ma complessivamente le comunità e le strutture di base della cura d'anime, c'è da aggiungere che, secondo alcuni studiosi, nel Trecento avrebbe inizio un sia pur lento processo di disaggregazione dell'unità parrocchiale, culminato nel Quattrocento con l'allargamento a più ampi circuiti di quartiere e di città dei punti di riferimento religiosi. L'analisi della vita e delle dinamiche sociali di una parrocchia di media grandezza come S. Barnaba, dalle caratteristiche utili a rappresentare un modello medio, ha indotto la Crouzet-Pavan a sottolineare il progressivo dissolversi del senso di appartenenza e il venir meno delle solidarietà parrocchiali nella pratica devota e nei comportamenti religiosi, particolarmente evidente, ad esempio, nelle preferenze manifestate dai testatori e nelle forme dell'associazionismo devoto (86). Sulla stessa linea interpretativa Dennis Romano, studiando la società veneziana del Trecento, è giunto alla conclusione che, alla fine del medioevo "i legami tradizionali come quello di quartiere si affievolirono nel momento in cui patrizi e popolani adottarono un punto di vista più ampio, centrato sullo Stato e sulla città invece che sulla parrocchia o il quartiere" (87). Nell'esame dei luoghi e dei ruoli della sacralità nella società veneziana ha notato anche la maggiore forza di attrazione esercitata da monasteri e confraternite (88). Certo se poniamo attenzione a vicende come quelle della minuscola parrocchia di S. Lucia, che nel 1444, ridotta ad una ventina di piccole famiglie, assistita da un vecchio parroco malato, incapace di custodire degnamente il corpo della santa titolare della chiesa, fu annessa al prestigioso monastero femminile domenicano del Corpus Christi, fondato negli anni Settanta del Trecento sul territorio parrocchiale per una comunità benedettina di monache e poi diventato dal 1394-1395 il centro spiritualmente più vivo della riforma domenicana in Venezia (89), dobbiamo riconoscere un reale processo di decadenza delle strutture parrocchiali a vantaggio di altri centri di vita religiosa. Tuttavia ogni generalizzazione sarebbe fuori luogo. Proprio l'analisi degli atti testamentari, che in questo tipo di ricerche sembra essere particolarmente produttiva, ha mostrato, ad esempio, che nel microcosmo popolare di una parrocchia come S. Eufemia, abitata prevalentemente da artigiani e piccoli mercanti, prima della peste era saldo il legame dei fedeli con la propria chiesa, con i suoi preti, con ecclesiastici appartenenti alle nove congregazioni del clero, mentre meno presenti all'orizzonte devoto dei testatori erano gli ordini mendicanti (90). Lo studio di trecentotrentatré testamenti di parrocchiani di S. Giacomo dell'Orio ha del resto evidenziato la persistente vitalità della figura del "patrinus", confessore e padre spirituale che guidava il fedele nella vita di pietà e di Chiesa e godeva della riconoscenza postuma di chi a lui si era affidato per conforto spirituale, ma spesso anche per aiuto pratico (91). Uno stretto rapporto di fiducia col prete si stabiliva anche per la sua funzione di notaio, collega di minuscole imprese commerciali, procuratore, prestatore di piccole somme, in un quadro di piena integrazione nella comunità (92).
Le solidarietà parrocchiali, visibilmente operanti nella prima metà del secolo, subirono peraltro un duro colpo in occasione della peste. L'immagine che il clero veneziano diede di sé in quella circostanza non fu edificante. Tardi biografi hanno esaltato la figura del beato Giovanni, parroco di S. Giovanni Decollato, erroneamente ritenuto esponente della famiglia Olini, presentandolo come indefesso pastore, infiammato d'amore verso i poveri e zelante nel prestare assistenza agli appestati in occasione di un'epidemia identificata con quella del 1348 (93). Ma si tratta di un personaggio evanescente, sul quale ben poco si sa (94), di fronte al quale si staglia l'immagine del vescovo Morosini, "durus" nel respingere le richieste di accordo del governo in materia di decime, e quella dei suoi preti che, per non trasgredire ai suoi ordini, rifiutano i sacramenti ai morenti non in regola con il pagamento, provocando sconcerto nei cives, "plurimum et merito conturbati, considerantes presentis mortis casum terribilem et amarum" (95). Costretto a scegliere tra due obbedienze e due "paure" (quella verso il vescovo e quella verso l'autorità civile) il clero si schierò col primo, mostrandosi compatto, per quel che è dato sapere, nel seguire la strada indicata dal presule.
Benché sia davvero difficile misurare il peso di simili atteggiamenti nel creare disaffezione e rottura di antiche solidarietà, non si può negare che eventi come la peste e, su un diverso piano, la sospensione nel 1379 della festa delle Marie per la guerra di Chioggia e poi la sua ripresa con modalità nuove che ridimensionavano il ruolo prima preponderante delle contrade nell'organizzazione dei festeggiamenti (96), abbiano potuto raffreddare il senso di appartenenza ad una comunità parrocchiale e la fiducia nel suo clero.
Tradizionalmente più incisivi sul terreno religioso e meno coinvolti nelle diatribe relative alle decime sembrano invece essere gli ordini mendicanti che, nel corso del XIV secolo, aumentano di numero coll'arrivo dei servi di Maria (97) e, ormai integrati nella vita cittadina, sono utilizzati per attività diplomatiche, missioni anche di carattere commerciale, consulenze di varia natura (98). Il prestigio di cui godevano è attestato dai provvedimenti in loro favore. Molte "partes" del maggior consiglio sono infatti dedicate a elemosine, a riduzioni daziarie, alla concessione di privilegi piccoli e grandi per i conventi in cambio di preghiere "pro toto comuni et populo Veneciarum" (99). È però significativo che, a partire dal terzo decennio del secolo, le parti del maggior consiglio a loro riguardo diradino sino a scomparire: un riflesso della diminuita importanza del maggior consiglio - è stato giustamente detto (100) - ma anche del diverso atteggiamento dello Stato verso ordini ormai lontani dal primitivo slancio evangelico (101) e, soprattutto nel caso dei frati minori, percorsi da tensioni pauperistiche e dilacerati da profondi contrasti.
La contrapposizione fra ideali di rigorosa e intransigente povertà e scelte dell'ordine orientate verso un'osservanza formale della regola e verso una pratica attenta soprattutto alle necessità di inserimento nelle società locali e nelle vivaci economie cittadine si alimentò di accesi dibattiti teorici e sfociò nella condanna papale contro i sostenitori della povertà assoluta di Cristo e degli Apostoli con conseguenze talora drammatiche (102). Condannato come eretico il 3 giugno 1337, fu consegnato al braccio secolare e mandato al rogo a Venezia il minorita Francesco da Pistoia, accusato di avere pertinacemente affermato, contro la costituzione pontificia Cum inter nonnullos del 12 novembre 1323, che Cristo e i suoi discepoli non avevano posseduto nulla, né in proprio né in comune (103).
Ma anche in ambienti meno scossi da inquietudini eterodosse e tuttavia sensibili al richiamo della carità e della vita povera, proprio quando sembrava declinare in certi settori dell'ordo fratrum minorum l'impegno di testimonianza del Vangelo, cominciarono a manifestarsi ripensamenti e a prendere forma iniziative ispirate a zelo di misericordia e spirito di servizio agli ultimi.
Attorno al 1340 per calli e per canali si levò la voce di fra Pietruzzo d'Assisi, francescano, a invocare "pietà" per l'infanzia abbandonata in favore della quale aveva iniziato a costruire un pio loco (104). Originario della città umbra aveva guidato nei primi passi sulla via degli studi il grande giurista Bartolo da Sassoferrato che ricordò il suo primo maestro, ancora in vita, con parole di stima e di intenso affetto, lodandolo come uomo esperto, leale, di mirabile santità e bontà e attribuendogli il merito di avergli fornito, con un magistero rigoroso e durevole, le basi solide per la sua successiva, brillante carriera di studente di diritto civile a Perugia, sotto la guida di Cino da Pistoia, e poi a Bologna ove a ventun anni si era addottorato (105). Questo frate, "qui vocabatur frater Petrus de Assisio", ma a Venezia era chiamato "frater Petrus" o "Petrucius Pietatis", mostrò di preferire alle dispute teologiche l'azione, svolta con intraprendenza, fantasia e forse un pizzico di istrionismo. Nel 1343 otteneva dal senato 50 lire per proseguire i lavori iniziati per la costruzione dell'ospedale (106); l'anno seguente, considerando che le nutrici, i neonati e i servitori dell'ospedale ormai edificato non avevano vino ma "acetum potentem", che faceva perdere il latte alle balie, chiedeva di poter andare elemosinando vino fra le imbarcazioni che lo trasportavano e lo mettevano in vendita (107); nel 1345, poiché i mercanti tedeschi insistevano nel pregarlo di celebrare i divini uffici nel loro fontego, implorò il permesso di costruire un piccolo altare che il maggior consiglio gli concesse di innalzare a patto che fosse mobile, "de una sola tabula" e che tutto si facesse "ad beneplacitum dominationis" (108).
L'ascendente del religioso e il suo personale prestigio si percepiscono in dichiarazioni come quella di Andrea Malipiero che nel testamento dell'8 settembre 1346 lasciava a "fra Petruzo de l'ospedhal de li fantolini de sen Zane Bragola" 5 lire, subordinando invece il lascito ad un eventuale successore del frate al fatto che "se portase ben de li fantolini" (109). Ma appunto per evitare che l'iniziativa restasse legata alla sua persona e rischiasse di naufragare dopo la sua morte, Pietruzzo chiese il permesso nello stesso anno al maggior consiglio di dar vita ad una "scolam bonarum personarum" (110). A questa confraternita, in seguito divisa in due distinti sodalizi di uomini (S. Francesco) e di donne (S. Maria dell'Umiltà) fu affidato il compito di amministrare l'ospedale. Il giuspatronato ducale, sancito nel 1353, quando si decise che la priora di S. Maria, eletta dalla scuola, dovesse essere confermata dal doge, diede stabilità all'istituto, la cui direzione, non senza resistenze da parte del sodalizio maschile, finì coll'essere assunta dalla confraternita delle donne (111).
Non sappiamo le ragioni che avevano spinto Pietruzzo a Venezia, ma certamente, nei fatti, egli rappresentò la risposta in positivo, in chiave di religione delle opere, al radicalismo pauperistico di spirituali e fraticelli presenti anche in terra veneziana e combattuti con il tragico strumento del rogo, ma anche evidentemente contrastati con le parole e con le opere di pietà.
"Se patrem et filium reputat paupertatis et servum", dicevano di Pietruzzo i membri del maggior consiglio (112). Amata, discussa, tradita, la povertà restava anche nel Trecento il banco di prova di ogni francescano e la fonte alla quale attingere energie di rinnovamento. Dei tre maggiori conventi di frati minori - S. Francesco di Mazzorbo (poi del Deserto), S. Maria dei Frari e S. Marco della Vigna - quest'ultimo, col titolo mutato in S. Francesco, sembra essere stato nella seconda metà del Trecento, l'incunabolo di un nuovo modo di essere della comunità francescana e di un nuovo modo di concepirla da parte dei fedeli (113). Un avvenuto ritorno a pratiche rigoriste si avverte sul finire del secolo attraverso la testimonianza preziosa di fonti testamentarie contenenti lasciti come quello di Maria Contarini, la quale, destinando al "locus" della Vigna 10 ducati d'oro da spendere nell'acquisto di beni necessari ai frati specificava, il 23 luglio 1399, di far così "perché li non tocha deneri" (114). Non diversamente da lei qualche mese prima il doge Antonio Venier manifestava la propria benevolenza "ai frari menori de Sen Francesco de la Vigna, observando la vita i fa al prexente", lasciando a ciascuno 10 ducati (115). Con simili espressioni nel luglio del 1392 sua nuora Petronilla aveva beneficato con 400 ducati d'oro il convento di S. Domenico di Castello dei frati predicatori "vivando in oservantia como vive al presente" (116). In realtà il doge Venier e sua nuora erano tra i maggiori sostenitori dell'osservanza domenicana e tra i più vicini a quel Giovanni Dominici che, con l'appoggio del ministro generale dell'ordine dei frati predicatori Raimondo da Capua, sullo scorcio del secolo aveva introdotto l'osservanza regolare nei conventi lagunari, cominciando da S. Domenico di Castello e proseguendo con S. Domenico di Chioggia e con i SS. Giovanni e Paolo (117). Uno stesso ambiente di devoti sosteneva il movimento osservante sbocciato all'interno di ordini diversi. Da parte sua il governo veneto sembrava disposto a favorire i tentativi di quanti si adoperavano per risalire la china di una pratica religiosa mediocre, risanando nello stesso tempo edifici e riorganizzando patrimoni.
La fondazione dell'ospedale della Pietà ad opera di un frate che con le sue attività caritative dava una risposta alle inquietudini pauperistiche serpeggianti all'interno del suo ordine e veniva contemporaneamente incontro ad attese e a bisogni concreti della società, era stata forse la più interessante iniziativa ospedaliera del Trecento, ma non l'unica. A riprova che il problema dell'infanzia abbandonata gravava pesantemente sulla coscienza di uomini di governo sensibili, sta nel 1312 l'iniziativa del doge Marino Zorzi che nel testamento stabilì l'acquisto di un pezzo di terra dove fondare chiesa e convento per dodici frati domenicani con unito un ospizio riservato ad orfani abbandonatie (118). Più in generale esigenze di assistenza in una città di mare, emporio mercantile, crocevia di traffici internazionali come Venezia e presenza di una popolazione di poveri e bisognosi di ogni genere che, dopo la metà del secolo, tendeva ad aumentare per il ripetersi delle epidemie di peste, rendono spiegabile la moltiplicazione dei centri ospedalieri. Dei cinquantatré ospedali di fondazione medioevale esistenti a Venezia alla metà del Cinquecento uno risaliva al XII secolo, quattro al Duecento e ben tredici al Trecento (119).
Non è nostro compito tracciare una storia ospedaliera veneziana, è tuttavia opportuno ricordare che, oltre agli aspetti sanitari, economico-sociali, politici, insediativi, gli "hospitalia" medioevali, solo tardivamente legati ad una programmazione "statale", ma piuttosto concessi con la pratica della beneficenza privata, erano innanzitutto luoghi di esperienza religiosa, centri di vita penitenziale, nuclei di sperimentazione organizzativa di attività caritative ispirate al Vangelo (120).
Su questo sfondo si muove un personaggio come Giovanni Contarini, un laico sposato che finì la vita sacerdote. Nel 1364 aveva aiutato un gruppo di monache veneziane, trasferitesi a Treviso nel 1340 e costrette a rimpatriare a causa della guerra, a reinserirsi nell'ambiente veneziano, acquistando per loro un terreno nella parrocchia dei SS. Ermagora e Fortunato, a condizione che una parte fosse destinata alla sepoltura dei poveri (121). L'esercizio assiduo della carità, arricchito dalla scelta sacerdotale, fu il suo modo di essere cristiano, in sintonia con quella religiosità delle opere che nel Trecento sembra contraddistinguere l'impegno di molti esponenti dell'aristocrazia veneziana. Per i poveri il Contarini impiegò risorse ed energie, fondando nel 1378 un ospedale dedicato a s. Giobbe, nel "confinio" di S. Geremia, che presto crebbe col sostegno della beneficenza pubblica e privata, ospitando povera gente, immigrati, chierici in cerca di sistemazione, pellegrini di Terrasanta in attesa di imbarco, ma diventando anche col tempo
a conferma dello strettissimo nesso tra opere assistenziali ed esperienze religiose - uno dei centri maggiori del francescanesimo osservante (122).
La necessità di far fronte ai problemi posti dallo sviluppo della società nelle sue componenti più deboli (poveri, emarginati, infermi) ed esposte alle alterne fortune delle congiunture economiche e delle vicende politico-militari di Venezia si intrecciava d'altra parte con le inquietudini religiose e il malessere spirituale di quella società e del patriziato che la governava, coinvolgendo a fondo anche le donne. Significativa è, al riguardo, la storia della fondazione di S. Andrea de Zirada nel 1329 ad opera di alcune nobildonne (Francesca Correr, Elisabetta Gradenigo, Maddalena Malipiero, Elisabetta Soranzo) che ottennero di erigere nell'estrema parte della città chiamata Cao de Zirada un oratorio e un ospizio per dedicarsi all'accoglienza e all'assistenza di persone povere e bisognose (123). L'ideale della povertà, vissuta in proprio e assistita nel prossimo, era ancora capace di ispirare scelte di vita evangelica. Ma proprio queste conversioni, in anni in cui si inaspriva la repressione dei movimenti pauperistici e del dissenso religioso fondato su un'interpretazione radicale della povertà di Cristo (nel 1337, come si è visto, fu accusato di eresia e mandato al rogo il minorita Francesco da Pistoia) (124), destarono sospetti e interessate denunce. Le nobildonne, dette le "Cristiane Sancti Andree de Zirada", avevano ottenuto l'assenso della parrocchia di S. Croce, nel cui territorio si erano insediate, e la licenza del vescovo Angelo Dolfin, ma si levò contro di loro l'accusa da parte delle vicine monache francescane del convento di S. Chiara di utilizzare l'ospedale per riunioni di beghine (125). Ne nacque una controversia alla fine vittoriosa per le "Cristiane", che nel frattempo si erano viste intimare dal vescovo, evidentemente sospettoso, di non riunire nell'ospedale la "damnatam sectam beguinarum", la cui "coadunatio" rappresentava un grave pericolo per la salvezza dell'anima (126). Vinte le ultime resistenze, le nobildonne poterono procedere nella realizzazione del loro progetto caritativo e ascetico "tanquam solicite vigilatrices circa opus misericordie ad curam pauperum Christi et tanquam respuentes pompam terrenam" (127).
Ma la trasformazione dell'ospedale in monastero e l'evoluzione del gruppo religioso informale delle "Cristiane" di S. Andrea de Zirada in comunità monastica, del resto prevista come possibilità sin dall'inizio, e realizzatasi nel 1346 con l'assunzione dell'abito agostiniano (128), mette in risalto il consueto esito di tante esperienze religiose, nate al di fuori degli ordini, ma poi, per la forza della tradizione, le prescrizioni canoniche e le pressioni esterne, incanalatesi nell'istituzione (129). Il giuspatronato dogale e il regime di esenzione dalla giurisdizione del vescovo di Castello, concessi nel 1346 (130), confermano d'altra parte l'interesse specifico del governo veneto per un'iniziativa nata dal seno del patriziato e proseguita a livelli sociali e religiosi di vertice. Il monastero continuò infatti ad ospitare donne di alto lignaggio e la comunità a condurre esemplare vita religiosa, tanto che il vescovo di Castello, emanando nel 1383 alcune costituzioni relative alla riforma dei monasteri femminili, vi aggiunse una dichiarazione con la quale esentava dall'obbedienza ai decreti le monache di S. Andrea, essendo esse "in perpetua clausura et observantia" (131).
Quelle costituzioni, fatte pubblicare nella cattedrale di Castello la prima domenica di Quaresima del 1383 dal vescovo Angelo Correr (132), denunciano l'esistenza di problemi disciplinari nel mondo monastico femminile. Certo è che di lì a qualche giorno, ampliando l'iniziativa vescovile, intervenne papa Urbano VI, che il 30 aprile affidò al patriarca di Grado l'incarico di provvedere, nelle diocesi di Castello, Torcello e Chioggia, alla riforma di "quam plurima monasteria monialium" (133) appartenenti a tutti gli ordini, compresi i mendicanti, nei quali si conduceva vita dissoluta, si lasciavano entrare chierici ed ecclesiastici secolari e regolari, si commettevano "enormia crimina et sceleratos excessus" (134). Al di là delle espressioni enfatiche del linguaggio cancelleresco, genericamente ripetitivo nel denunciare abusi e irregolarità, è indubbio che, a Venezia come altrove, la crisi del monachesimo e l'inquietudine serpeggiante in monasteri e conventi erano un fenomeno reale. Anche giovani comunità, come quella femminile del Corpus Christi, fondata ufficialmente, dopo un periodo di incubazione, nel 1375 e posta sotto la "religio, regula et ordo beati Benedicti" (135), in una ventina d'anni avevano esaurito lo slancio iniziale e potevano riacquistare vigore solo grazie a drastiche riforme, simili a quella che Giovanni Dominici attuò proprio nel monastero del Corpus Christi, trasformandolo, tra il 1394 e il 1395, in convento di monache domenicane (136).
D'altro canto non era solo il monachesimo femminile a versare in uno stato di gravi difficoltà morali e materiali. Nel 1374 Gregorio XI aveva scritto una lettera al patriarca di Grado, lodandolo per aver avviato nella sua provincia la visita, resa necessaria dalla situazione di rilassamento disciplinare delle persone ecclesiastiche di entrambi i sessi, coinvolte "in multiplicis dissolutionis vitiis" e per questo da sottoporre a correzione e riforma (137). Le preoccupazioni per il disordine e il degrado di comunità e strutture erano condivise anche dal governo veneto, impegnato a sostenere, nell'interesse stesso dello Stato, un rinnovamento monastico ormai indifferibile. Soprattutto dopo la guerra di Chioggia (1378-1381) prese forma, a quel che sembra, un ampio piano di riordinamento, prima perseguito forse solo episodicamente (138), che, ispirato dalle autorità civili veneziane e appoggiato da Roma, si sviluppò fra Tre e Quattrocento, prima che Ludovico Barbo, dopo la conquista veneziana della Terraferma, desse avvio al movimento di riforma di S. Giustina di Padova (139). Se in una parte del 13 ottobre 1390, che riguarda S. Maria della Carità, vi sono chiari riferimenti alla necessità di impedire che i monasteri di Venezia e del Dogado, a causa dell'attribuzione ad estranei della commenda andassero in rovina (140), in un'altra del 20 gennaio 1391 l'urgenza di un risanamento generale è chiaramente denunciata dal senato che, nel prendere provvedimenti, si richiama ad una ricca tradizione di interventi per salvare "monasteria et loca ecclesiastica sub [...> ducatu situata, edificata per antecessores [...> cum tanta devotione et de propriis facultatibus" (141). Individuata la causa della decadenza nelle spogliazioni operate da molti, nel regime della commenda, nei diversi modi attraverso i quali i pastori avevano cercato solo di asportare "redditus et proventus", non preoccupandosi di assicurare a quei "loca" governo e celebrazione dei divini uffici (142), il senato decideva di eleggere tre "sapientes" che avrebbero dovuto esaminare la situazione di tutti i monasteri del Dogado da Grado a Cavarzere, "providere de conservatione et bono statu eorum" e fare una relazione, accompagnata da consigli, da sottoporre al doge e al senato (143). L'anno seguente per realizzare il progetto di riforma si decise di scrivere al papa, ai cardinali e ad altri (144) e il 28 giugno 1395 Bonifacio IX, in risposta alle richieste del doge Angelo Venier "et comunitatis Veneciarum", incaricava l'abate di S. Giorgio Maggiore ed il priore di S. Salvatore di procedere, assieme a due nobili designati dal governo veneto, alla visita dei monasteri, tranne i conventi degli ordini mendicanti, e di provvedere al loro riordinamento (145). Mentre in questa fase il patriarca di Grado e le autorità ecclesiastiche locali non sembrano svolgere un ruolo significativo, papato e autorità civili procedono di comune accordo nel tentativo di portare ordine nei monasteri entro un ambito già da tempo individuato nei suoi confini geografici e politici che, anche in seguito, resterà l'area interessata da provvedimenti di riforma indipendenti e precedenti rispetto alle iniziative riformatrici di Ludovico Barbo (146). La riforma mirava ad un riequilibrio globale del sistema monastico e coinvolgeva tanto le persone quanto le strutture materiali e gli assetti patrimoniali. Fatti salvi i benefici esistenti e assicurata una congrua pensione ai religiosi che risiedevano nei monasteri, i proventi dei monasteri dovevano essere messi a disposizione e impiegati per il restauro degli edifici e la riorganizzazione dei patrimoni (147). Fu forse allora, o comunque in quegli anni, che si creò, per il coordinamento degli interventi, quell'"officium monasteriorum" di cui restano tracce documentarie nel primo Quattrocento (148).
Edifici in rovina, conventi desolati, comunità in crisi sono testimonianze di difficoltà materiali e di disorientamento spirituale le cui cause, molteplici e fra di loro intrecciate, concorrono, anche nella Venezia della fine del XIV e degli inizi del XV secolo, a suscitare attese di rinnovamento e tensioni traumatiche o anche ripiegamenti intimistici, rifugio nelle devozioni, militanza penitenziale incanalata nei terzi ordini (149). Il ripetersi assillante delle epidemie di peste che imponeva con insistente crudezza la riflessione sulla brevità e la precarietà della vita, se non determinava certo favoriva l'emergere del tema della morte nella spiritualità e nella cultura del tardo medioevo (150) e sollecitava l'incremento delle opere di misericordia in favore degli ammalati e il potenziamento delle attività connesse con il suffragio e i riti funebri. Ordini mendicanti e confraternite religiose appaiono particolarmente impegnati in questa direzione. D'altronde, per quanto riguarda queste ultime, il controllo soffocante esercitato, a partire dal secondo decennio del secolo, dal consiglio dei dieci lasciava poco spazio ad attività diverse dall'assistenza ai poveri e agli infermi e dalla sepoltura ai defunti. A partire dal 1312 il divieto dei raduni notturni fu ripetutamente confermato (151); nel 1340 si proibì di dar vita a qualsiasi nuovo sodalizio senza il consenso dei dieci (152); sei anni dopo giunse il divieto di superare il numero di iscritti previsto per ogni confraternita (153); dal 1368 la partecipazione dei Battuti alla annuale processione notturna del Venerdì santo, prima negata, fu concessa, ma assoggettata a preventiva licenza dei dieci che subordinavano al loro permesso anche l'elezione di nuovi confratelli (154). Nel 1401, infine, si prescriveva di sottoporre all'esame dei dieci qualsiasi variazione statutaria, concludendo un processo di progressiva riduzione di ogni spazio di autonoma iniziativa dei pii sodalizi, progressivamente trasformati in un organismo uniforme e compatto, strettamente controllato e al servizio dello Stato (155).
Più svincolate dal potere politico appaiono invece le nove congregazioni del clero secolare, che, sorte in parte nel XII e in parte nel XIII secolo, raggiunsero appunto nel Duecento il numero di nove (156): S. Luca (1105), S. Angelo (1105), S. Ermacora, S. Maria Formosa e S. Maria Mater Domini (tutte intorno al 1123-1172), S. Silvestro (1184), S. Paolo (1228), S. Canciano (1248-1253), S. Salvatore (1291-1293). Guidate da un "prepositus" o da un "archipresbyter", assistito da decani, legate ad altrettante chiese cittadine, accoglievano ecclesiastici secolari, provenienti da ogni parte della città, che si iscrivevano liberamente all'una o all'altra, ma sin dal XII secolo restavano aperte anche ai laici, i quali, in cambio di donazioni, partecipavano ai beni spirituali dei sodalizi (157).
Se si può pensare che essi fossero nati dal bisogno del clero secolare di riunirsi per pregare assieme, prestarsi vicendevole aiuto spirituale e materiale e fraterna correzione, predisporre dignitose esequie e suffragi per una ristretta cerchia di confratelli defunti, ben presto il fine della salvezza da conseguire non soltanto attraverso la "fraternitatis caritatisque dilectio", ma anche "per orationum seu sacrifitiorum suffragia" (158) divenne elemento preponderante nelle congregazioni veneziane. L'assistenza ai malati iscritti alle associazioni, l'organizzazione delle esequie e i suffragi assorbivano gran parte dell'attività dei sodalizi che nel corso del Trecento acquisirono crescente importanza e visibilità. Lo attestano l'aumento dei lasciti testamentari, da collegare peraltro anche alla crescente diffusione della pratica testamentaria, e le rivalità, in tema di funerali e di offerte funerarie, con gli ordini mendicanti. La matricola di S. Maria Formosa ricorda esplicitamente, a questo proposito, il rifiuto, opposto alla congregazione dai frati, di celebrare le esequie nelle chiese dei mendicanti, nel caso che il corpo di un confratello di una delle associazioni fosse stato sepolto nel cimitero conventuale (159). In realtà le attività connesse con riti funebri e suffragi, tradizionale terreno di controversia tra chiese parrocchiali e altre chiese, erano fondamentali per il clero secolare che, tramite le congregazioni, che escludevano dall'iscrizione i regolari (160), recuperava un ruolo altrimenti minacciato, anche in questo settore, dai frati degli ordini mendicanti. Le congregazioni assunsero sempre più la veste di corpo specializzato, delegato a svolgere la funzione primaria di mediazione tra vivi e morti, moltiplicando le possibilità di far fronte alla crescente domanda di suffragio e assicurando per questa via ai propri iscritti una considerevole fonte di entrate economiche. Mentre alla fine del medioevo altre mansioni tradizionali dei chierici veneziani, come l'esercizio del notariato, venivano proibite (161) e il cemento parrocchiale sembrava allentarsi e sciogliersi in una dimensione più ampiamente cittadina (162), ove gli ordini religiosi riformati, le Scuole di devozione, le cerimonie della religione civica diventavano i fuochi della religiosità, il clero secolare trovava sempre più nella preghiera di suffragio, nell'organizzazione dei riti funebri, nella cura d'anime non solo dei vivi ma anche dei defunti una funzione assorbente e remunerativa.
1. I decreti del concilio provinciale, svoltosi a Grado il 13 luglio 1296, furono pubblicati nel sinodo diocesano di Torcello tenutosi il 20 agosto dello stesso anno; v. in Johannes Dominicus Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, I-XXXI, Graz 1961: cost. XXIV, coll. 1163-1172. È probabile che venissero resi pubblici anche nel sinodo di Castello, pure riunito nel 1296: cf. Vittorio Piva, Il patriarcato di Venezia e le sue origini, I-II, Venezia 1938-196: II, p. 235.
2. Flaminio Corner, Ecclesiae Venetae antiquis monumentis nunc etiam primum editis illustratae ac in decades distributae, I-XVIII, Venetiis 1749: decas XVI, 2, pp. 241-251; per la datazione del catasto v. Bianca Betto, Il capitolo della basilica di S. Marco in Venezia: statuti e consuetudini dei primi decenni del sec. XIV. In appendice: Un confronto con il capitolo della cattedrale di S. Pietro di Castello fino al sec. XVI, Padova 1984, pp. 220-221.
3. B. Betto, Il capitolo della basilica, pp. 19, 28, 31-33.
4. Ibid., p. 221.
5. Conciliorum oecumenicorum decreta, a cura di Giuseppe Alberigo-Giuseppe A. Dossetti-Perikle P. Joannou-Claudio Leonardi-Paolo Prodi, Bologna 19733, pp. 227-331. Con riferimento ai canoni del Lateranense quarto e alla loro attuazione in Italia v. l'importante saggio di Michele Maccarrone, "Cura animarum" e "parochialis sacerdos" nelle costituzioni del IV Concilio lateranense (1215): applicazioni in Italia nel sec. XIII, in AA.VV., Pievi e parrocchie in Italia nel basso Medio Evo (sec. XIII-XV). Atti del VI Convegno di storia della Chiesa in Italia (Firenze, 21-25 sett. 1981), I, Roma 1984, pp. 81-195.
6. Nei precedenti sinodi di Castello si era trattato della "quartam quarte decime" che il vescovo doveva distribuire ai poveri (I229); del libro ordinario nel quale fissare il culto liturgico (1250 circa); del disciplinato svolgimento dei riti e della giusta ripartizione delle offerte tra i sacerdoti (I 288), secondo le prescrizioni di un concilio patriarcale di Grado tenuto tra il 1255 e il 1271. Non ci si era invece occupati dell'"honestas vitae" dei chierici (Paolo Sambin, Uno dei più antichi sinodi della diocesi veneziana, 1288, in Id., Studi di storia ecclesiastica medioevale, Venezia 1954, pp. 65-74). Non si può tuttavia dedurre dall'assenza di una normativa sulla moralità e sulla condotta pubblica e privata dei chierici la mancanza nel clero veneziano dei fenomeni di degenerazione e malcostume denunciati un po' ovunque, in quell'epoca, dalle stesse autorità ecclesiastiche. Su un piano generale appaiono opportuni al riguardo gli inviti alla cautela di M. Maccarrone, "Cura animarum" e "parochialis sacerdos", p. 140.
7. V. n. precedente, con riferimento, in particolare, al problematico sinodo del 1250 e a quello del 1288.
8. Giovanni Battista Gallicciolli, Delle memorie venete antiche profane ed ecclesiastiche, II, Venezia 1795, nr. 1146.
9. V. Piva, Il patriarcato, I, p. 146.
10. Ibid., II, p. 237, con rinvio a G.B. Gallicciolli, Delle memorie venete, nr. 591. Come per Ramperto Polo incertezze esistono anche sulla morte per assassinio del vescovo di Padova Bernardo (Francesco Scipione Dondi dall'Orologio, Dissertazione ottava sopra l'istoria ecclesiastica padovana, Padova 1815, pp. 21-22).
11. J.D. Mansi, Sacrorum conciliorum, coll. 1163-1172.
12. Ibid., cost. V, col. 1166.
13. Ibid., costt. XXVII-XXVIII, col. 1170.
14. Ibid., costt. XII-XIV, coll. 1167-1168. Sulla crisi della vita comune e della collegialità del clero soprattutto delle chiese pievane nel basso medioevo v. Cinzio Violante, Ricerche sulle istituzioni ecclesiastiche dell'Italia centro-settentrionale nel medioevo, Palermo 1986, p. 474.
15. J. D. Mansi, Sacrorum conciliorum, cost. XXV, col. 881.
16. F. Corner, Ecclesiae venetae, decas XIII, 2, p. 120.
17. V. Piva, Il patriarcato, II, p. 238.
18. Ferdinando Ughelli, Italia sacra sine de episcopis Italiae et insularum adiacentium, V, Venetiis 17202, coll. 1402-1406.
19. Fernanda Sorelli, L'atteggiamento del governo veneziano verso gli ordini mendicanti. Dalle deliberazioni del maggior consiglio (secoli XIII-XIV), in AA.VV., Esperienze minoritiche nel Veneto del Due-Trecento. Atti del convegno nazionale di studi francescani (Padova, 28-30 settembre 1984), "Le Venezie Francescane", n. ser., 2, 1985, pp. 42 e 47 n. 65 (pp. 37-47).
20. Giorgio Cracco, Società e Stato nel Medioevo veneziano (secoli XII-XIV), Firenze 1967, p. 376 n. 3.
21. F. Ughelli, Italia sacra, coll. 1287-1288.
22. Per questa lista rinvio a V. Piva, Il patriarcato, I, pp. 115-121, dove si troveranno le notizie qui accennate, raccolte in sintetici profili dei patriarchi e dell'attività da loro svolta nella metropoli gradense, da accogliere con prudenza, dato il carattere compilativo, anche se assai utile, dell'opera.
23. J. D. Mansi, Sacrorum conciliorum, cost. XXV, coll. 651-656, 881-882; V. Piva, Il patriarcato, I, pp. 116-117; Giorgio Fedalto, La diocesi nel medioevo, in Patriarcato di Venezia, a cura di Silvio Tramontin, Padova 1991 (Storia religiosa del Veneto, 1), p. 81 (pp. 47-90).
24. G. Fedalto, La diocesi nel medioevo, p. 81. Tracce di questo sinodo si possono rinvenire nella lettera papale qui di seguito citata.
25. F. Corner, Ecclesiae venetae, decas IV, pp. 123-124.
26. Ibid., e per la visita effettuata dal patriarca Domenico
nella diocesi di Torcello cf. più avanti, testo corrispondente alla n. 46.
27. V. Piva, Il patriarcato, I, p. 119; Silvio Tramontin, B. Francesco Quirini, in Giovanni Musolino-Antonio Niero-Silvio Tramontin, Santi e beati veneziani. Quaranta profili, Venezia 1963, pp. 168-173.
28. V. Piva, Il patriarcato, I, p. 119 n. 1, e su Gentile da Matelica v. Niccolò Del Re, Gentile da Matelica, beato, in Bibliotheca sanctorum, VI, Roma 1965, coll. 165-167.
29. V., al riguardo, Andrea Tilatti, Principe, vescovo, martire e patrono: il beato Bertrando di Saint-Geniès patriarca d'Aquileia († 1350), "Rivista di Storia e Letteratura Religiosa", 27, 1991, pp. 413-444.
30. Paolo Sambin, La guerra del 1372-73 tra Venezia e Padova, "Archivio Veneto", ser. V, 38-41, 1946-1947, pp. 1-76, in partic. pp. 46-47.
31. Per qualche osservazione su questo tema mi permetto di rinviare al mio contributo nella rassegna su Vescovi e diocesi in Italia dal XIV alla metà del XVI secolo: interventi di Ovidio Capitani, Arnold Esch, Antonio Rigon, "Rivista di Storia della Chiesa in Italia", 46, 1992, pp. 185-190 (in partic. pp. 187-189).
32. Sui contrasti fra Paolo Foscari e il governo veneto v. più avanti, § 5.
33. Al sinodo del 1374 presero parte il rappresentante della cattedrale e quelli di dieci parrocchie, due abbazie, due priorati, diciannove monasteri maschili e femminili, un ospedale (F. Ughelli, Italia sacra, coll. 1402-1406, e cf. V. Piva, Il patriarcato, I, p. 326).
34. Traggo queste cifre e quelle che seguono dagli elenchi di V. Piva, Il patriarcato, I, pp. 115-121, 136-138, 146-149, 167-170, 322-326; II, pp. 235-243; per una aggiornata cronotassi di patriarchi e vescovi della provincia gradense nel periodo qui considerato v. Maria Pia Pedani, Cronotassi dei patriarchi di Grado, di Venezia e dei vescovi delle diocesi lagunari, in La Chiesa di Venezia tra medioevo ed età moderna, a cura di Giovanni Vian, Venezia 1989, pp. 235-246.
35. V. ora su di lui Dieter Girgensohn, Kirche, Politik und adelige Regierung in der Republik Venedig zu Beginn des 15. Jahrhunderts, I, Göttingen 1996, pp. 143-170 (e v., inoltre, la voce "Gregor XII" del fittissimo indice).
36. V. Piva, Il patriarcato, II, p. 243.
37. Cf. Celestino Piana - Cesare Cenci, Promozioni agli ordini sacri a Bologna e alle dignità ecclesiastiche nel Veneto nei secoli XIV-XV, Quaracchi 1968, pp. 318-319 e 326-359 (con riferimento agli anni 1363-1410), in partic. pp. 339, 343 n. 2, 349-350, 354-355
38. V. Piva, Il patriarcato, II, p. 240; Giuseppe Cappelletti, Storia della Chiesa di Venezia dalla sua fondazione sino ai nostri giorni, I, Venezia 1849, pp. 369-370.
39. F. Corner, Ecclesiae venetae, decas I, pp. 315-357.
40. Ibid., pp. 334-337.
41. Ibid., pp. 338-348.
42. B. Betto, Il capitolo della basilica, pp. 21-49 (in partic. pp. 34-36, 45-49), 195-209.
43. Ibid., pp. 241-242.
44. J. D. Mansi, Sacrorum conciliorum, cost. XXV, coll. 651-656.
45. Ibid., coll. 651-652; V. Piva, Il patriarcato, I, p. 324.
46. Sul periodo di episcopato torcellano di Domenico v. V. Piva, Il patriarcato, I, p. 323, e sulla sua attività di patriarca pp. 116-117. Per la questione relativa all'elezione della badessa di S. Antonio di Torcello, che pure vide contrapporsi il vescovo Tolomeo al patriarca Domenico, cf. Flaminio Corner, Ecclesiae Torcellanae antiquis monumentis nunc etiam primum editis illustratae, Venetiis 1749, pp. 160-164; inoltre Marina Vianello, Il monastero benedettino di S. Antonio di Torcello dalle origini al XV secolo, tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Facoltà di Magistero, a.a. 1967-1968, pp. 62-71.
47. G. Cracco, Società e Stato, p. 368 n. 2.
48. Id., Un "altro mondo". Venezia nel Medioevo dal secolo XI al secolo XIV, Torino 1986, pp. 115-116.
49. Ibid., pp. 117-118 (e bibliografia ivi citata).
50. Ibid., p. 119.
51. Conradus Eubel, Hierarchia catholica Medii Aevi, Monasterii 19132; p. 171; V. Piva, Il patriarcato, II, pp. 237-238.
52. G. Cracco, Un "altro mondo", p. 142.
53. V. Piva, Il patriarcato, II, p. 241; C. Eubel, Hierarchia catholica, p. 171.
54. Cf. § seguente (in particolare la n. 66).
55. Fu privato della cattedra vescovile da Urbano VI e dovette allontanarsi da Venezia. Il 12 luglio 1385 fu creato cardinale col titolo di S. Ciriaco dall'antipapa Clemente VII (C. Eubel, Hierarchia catholica, p. 171 n. 10; V. Piva, Il patriarcato, II, p. 241).
56. Bartolomea Riccoboni, Cronaca del Corpus Domini, in B. Giovanni Dominici, Lettere spirituali, a cura di Maria Teresa Casella-Giovanni Pozzi, Freiburg (Schweiz) 1969, p. 276.
57. Ibid., pp. 275-277; e per le divisioni negli ambienti politico-ecclesiastici veneziani cf. Germano Gualdo, Frammenti di storia veneta nei sommari dei registri perduti di Alessandro V (1409-1410), in AA.VV., Miscellanea Gilles Gérard Meersseman, I, Padova 1970, pp. 408-412 (pp. 397-481).
58. Andreae Danduli Chronica per extensum descripta a. 46-1280 d.C., a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, 1, 1938-1958, p. 143, e cf. G. Cracco, Società e Stato, p. 452.
59. Per la crescente ingerenza in un settore particolare, ma assai importante della vita religiosa come l'associazionismo laicale v. più avanti, testo corrispondente alle nn. 151-155.
60. V. in proposito i dettagliati saggi di Gian Maria Varanini, Signoria cittadina, vescovi e diocesi nel Veneto: l'esempio scaligero, e di Laura Gaffuri-Donato Gallo, Signoria ed episcopato a Padova nel Trecento: spunti per una ricerca, in Vescovi e diocesi in Italia dal XIV alla metà del XVI secolo. Atti del VII Convegno di storia della Chiesa in Italia (Brescia, 21-25 settembre 1987), a cura di Giuseppina De Sandre Gasparini-Antonio Rigon-Francesco Trolese-Gian Maria Varanini, II, Roma 1990, rispettivamente pp. 869-921, 923-956.
61. F. Corner, Ecclesiae venetae, decas XVI, 2, pp. 40, 43-44; G. Cappelletti, Storia della Chiesa di Venezia, p. 348; V. Piva, Il patriarcato, II, pp. 239-240.
62. V. Piva, Il patriarcato, II, p. 240.
63. B. Betto, Il capitolo della basilica, pp. 35, 241-242.
64. G. Cappelletti, Storia della Chiesa di Venezia, pp. 383-385.
65. V. per tutto questo Bianca Betto, Decime ecclesiastiche a Venezia fino al sec. XIV e motivi di contrasto fra il vescovo e la città, "Archivio Veneto", ser. V, 113, 1979, pp. 23-54 e per la citazione latina cf. l'Appendice, doc. 1, p. 51.
66. La vertenza si trascinò sino al 1376, anno di morte del vescovo Paolo Foscari. Il successore Giovanni Piacentini si rimise alle decisioni del governo veneto e, con il consenso papale, accettò al posto delle decime, la somma annua di 5.500 ducati d'oro (B. Betto, Decime ecclesiastiche, p. 29).
67. Ibid., pp. 52-53.
68. Esponendo un suo progetto di soluzione della vertenza Niccolò Lion, durante la seduta del 4 giugno 1349, faceva notare che era pericoloso intromettersi nelle questioni riguardanti le decime "quas Dominus in se proprie reservavit" (ibid., p. 43). È qui evidente il richiamo implicito alla normativa fissata, ad esempio, nella costituzione 54 del IV concilio lateranense: "Cum autem in signum universalis dominii, quasi quodam titulo speciali, sibi Dominus decimas reservaverit" (Conciliorum oecumenicorum decreta, p. 260) e ripresa nella costituzione 11 del concilio gradense del 1296: "Rationali providentia duximus statuendum ut ad solutionem decimarum praedialium omnes universaliter teneantur [...> quoniam ipsas sibi Dominus in signum universalis dominii reservavit" (J. D. Mansi, Sacrorum conciliorum, cost. XXIV, col. 1167).
69. Per le diverse fasi della controversia e il vario ricorso al papa v. B. Betto, Decime ecclesiastiche, pp. 23-54.
70. Per gli stretti rapporti di casate principesche e aristocrazie di governo con Roma alla fine del medioevo e nella prima età moderna cf. Giorgio Chittolini, Stati regionali e istituzioni ecclesiastiche nell'Italia centrosettentrionale del Quattrocento, in Storia d'Italia, Annali, 9, La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all'età contemporanea, a cura di Id.-Giovanni Miccoli, Torino 1986, pp. 147-193, in particolare pp. 157-158. Con riferimento alla signoria scaligera nel Trecento e alle esperienze maturate in Verona e Vicenza Gian Maria Varanini, a conclusione del suo lungo saggio su Signoria cittadina, vescovi e diocesi nel Veneto (cit. sopra n. 60), osserva tuttavia che "nel caso scaligero l'attitudine del governo signorile ad istituire un controllo serrato e diretto sulle istituzioni ecclesiastiche locali [...> si orientò a prescindere in buona misura, nei fatti, dalla mediazione (non decisiva né per la concretizzazione né per la formalizzazione/istituzionalizzazione del controllo) della e nella curia papale: più che una mediazione è una ratifica post factum che si ricercherà" (p. 921).
71. Cf. G. Cracco, Società e Stato, p. 368 n. 2.
72. Ibid.
73. G. Cappelletti, Storia della Chiesa di Venezia, pp. 383-385.
74. C. Piana-C. Cenci, Promozioni agli ordini sacri, pp. 315-325.
75. Ibid., pp. 316 n. 3 e 319.
76. V. Piva, Il patriarcato, II, p. 142.
77. V. i dettagliati elenchi riportati ibid., pp. 139-145.
78. Ibid., pp. 163-179, 184-186.
79. Cf. G. Cracco, Società e Stato, p. 376 n. 3.
80. Dennis Romano, Patrizi e popolani. La società veneziana nel Trecento, Bologna 1993, pp. 142-145; per Padova cf. Antonio Rigon, Clero e città. "Fratalea cappellanorum", parroci, cura d'anime in Padova dal XII al XV secolo, Padova 1988, pp. 94-97, 150-155, 237-238.
81. D. Romano, Patrizi e popolani, p. 142.
82. Ibid.
83. Ibid., e per Paolo Foscari: V. Piva, Il patriarcato, II, p. 240.
84. V. Piva, Il patriarcato, I, p. 118.
85. Ibid., p. 137
86. Elisabeth Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse". Espaces, pouvoir et société à Venise à la fin du Moyen- Âge, I, Rome 1992, pp. 567-606.
87. D. Romano, Patrizi e popolani, pp. 22-23.
88. Ibid., pp. 154-165.
89. Per la storia della parrocchia di S. Lucia in quest'epoca e la sua annessione al monastero del Corpus Christi è da vedere il bel lavoro, rimasto purtroppo inedito, di Maria Ricci, Il monastero del Corpus Christi di Venezia fra Tre e Quattrocento (con una silloge di trentadue documenti inediti), tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1982-1983, pp. 105-119.
90. Cf. Lucia Lanzilao, Testamenti del notaio Giovanni Cattaneo (1319-1348). Aspetti della società veneziana del Trecento, tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1984-1985, in partic. pp. LXVII-LXXXVI.
91. D. Romano, Patrizi e popolani, pp. 148-149.
92. Ibid., pp. 149-154.
93. Cf. Antonio Niero, B. Giovanni (Olivi), in Giovanni Musolino - Antonio Niero - Silvio Tramontin, Santi e beati veneziani. Quaranta profili, Venezia 1963, pp. 165-167; v. anche dello stesso autore Pietà ufficiale e pietà popolare in tempo di peste, in AA.VV., Venezia e la peste 1348/1797, Venezia 1979, p. 287 (pp. 287-293).
94. Si v. in proposito ibid.
95. Cf. B. Betto, Decime ecclesiastiche, p. 53.
96. E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse", pp. 527-566, in partic. pp. 554-561.
97. Flaminio Corner, Notizie Storiche delle chiese e monasteri di Venezia e di Tortello tratte dalle chiese Venete e Torcellane, Padova 1758 (riprod. anast. Bologna 1990), pp. 290-297.
98. Cf. F. Sorelli, L'atteggiamento del governo veneziano, pp. 39-41.
99. Ibid., p. 40.
100. Ibid., pp. 41-42.
101. Ibid., p. 42.
102. V. la chiara sintesi tracciata da Roberto Lambertini-Andrea Tabarroni, Dopo Francesco: l'eredità difficile, Torino 1989, pp. 101-128.
103. Paolo Marangon, Il pensiero ereticale nella Marca Trevigiana e a Venezia dal 1200 al 1350, Abano Terme 1984, p. 55.
104. Su questo personaggio, che meriterebbe una specifica indagine, sono sempre di grande utilità le ricerche di Bartolomeo Cecchetti, Documenti risguardanti fra Pietruccio di Assisi e lo spedale della Pietà, "Archivio Veneto", 30, 1885, pp. 141-147, e di Leone Ranzato di Chioggia, Cenni e documenti su fr. Pietro d'Assisi O.F.M. (fr. Pietruzzo della Pietà), 1300-1349, "Archivum Franciscanum Historicum", 8, 1915, pp. 3-11.
105. V. l'elogio di Bartolo al maestro in L. Ranzato di Chioggia, Cenni e documenti, p. 4.
106. B. Cecchetti, Documenti, p. 142.
107. Ibid., p. 143.
108. Ibid., pp. 143-144.
109. Ibid., p. 147.
110. Ibid., p. 144.
111. Ibid., pp. 144-147 (in partic. p. 145), e v. anche F. Corner, Notizie storiche, pp. 162-64; L. Ranzato di Chioggia, Cenni e documenti, pp. 6-10.
112. B. Cecchetti, Documenti, p. 142.
113. Cf. Francesco Ferrari, Il francescanesimo nel Veneto dalle origini ai reperti di S. Francesco del Deserto. Appunti per una storia della provincia veneta dei frati minori, Bologna 1990, pp. 305-306.
114. Ibid., p. 325.
115. Ibid., p. 316.
116. Fernanda Sorelli, La santità imitabile. "Leggenda di Maria da Venezia" di Tommaso da Siena, Venezia 1984, p. 81.
117. Ibid., pp. 72-84, in partic. pp. 80-81.
118. Samuele Romanin, Storia documentata di Venezia, III, Venezia 1855 (rist. anast. Venezia 1973), p. 67; sul testamento di Marino Zorzi v. anche Reinhold C. Mueller, The Procurators of San Marco in the Thirteenth and Fourteenth Centuries: a Study of the Office as a Financial and Trust Institution, "Studi Veneziani", 13, 1971, p. 199 (pp. 105-220).
119. Brian Pullan, La politica sociale della Repubblica di Venezia (1500-1620), II, Gli Ebrei veneziani e i Monti di Pietà, Roma 1982, Appendice II, pp. 719-724.
120. V. in proposito i saggi raccolti nel volume Esperienze religiose e opere assistenziali nei secoli XII e XIII, a cura di Grado G. Merlo, Torino 1987.
121. F. Corner, Notizie istoriche, pp. 324-325.
122. Ibid., pp. 283-288; inoltre, sempre di F. Corner, Ecclesiae venetae, decas XIV, pp. 77-110, e Emmanuele A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, VI, Venezia 1853 (riprod. anast. Bologna 1970), pp. 529-530.
123. Sempre utile il profilo che delle origini e delle successive vicende del monastero traccia F. Corner, Notizie istoriche, pp. 393-398; di grande interesse è inoltre la documentazione raccolta da Doriana Ricapito, Il monastero veneziano di S. Andrea de Zirada dalla fondazione come ospizio (1329) ai privilegi di Martino V (1424). Con un'appendice di 17 documenti inediti, tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Facoltà di Magistero, a.a. 1970-1971, Appendice, pp. 128-254.
124. V. sopra il testo corrispondente alla n. 103.
125. Per la denominazione "Cristiane Sancti Andree de Zirada" v., ad esempio, il documento del 18 giugno 1337: "Cum coram nobis Marco de Mugla et Andrea Quirino iudicibus publicorum, tercio nostro socio, scilicet domino Marco de Musto infirmo, comparuerit Badinus de Garçonibus, procurator dominarum Ysabete Gradonico, Francisce Corario, Magdalene Maripetro et Ysabete Superancio, vocate Cristiane Sancti Andree de Zirada [...>" (D. Ricapito, Il monastero veneziano di S. Andrea de Zirada, Appendice, doc. VIII, p. 174); per l'accusa di ospitare riunioni di beghine cf. ibid., p. 13 e Appendice, doc. V, p. 155; inoltre F. Corner, Ecclesiae venetae, decas I, pp. 191-195, in partic. p. 193.
126. F. Corner, Ecclesiae Venetae, decas I, p. 193; D. Ricapito, Il monastero veneziano di S. Andrea de Zirada, p. 13.
127. Cf. il documento del 5 maggio 1330 con il quale i giudici del Piovego confermano la licenza accordata dal maggior consiglio alle nobildonne Francesca Correr, Elisabetta Gradenigo e Maddalena Malipiero "pia dispositione dicte Cristiane", di poter ampliare in larghezza e lunghezza il terreno posto nella contrada S. Croce "in capite cirade", dove intendono edificare una chiesa e un ospedale per i poveri (D. Ricapito, Il monastero di S. Andrea de Zirada, Appendice, doc. III, p. 142).
128. Nella licenza concessa alle donne, nel dicembre 1329, di edificare l'ospedale con altare in onore di s. Andrea, il vescovo di Castello dichiara che, se le abitatrici del luogo lo avessero desiderato, l'ospedale si sarebbe potuto trasformare in monastero sotto una regola approvata dalla Chiesa (F. Corner, Ecclesiae Venetae, decas I, pp. 189-190; D. Ricapito, Il monastero di S. Andrea de Zirada, p. 7, e pp. 41-46 per la trasformazione in monastero, a proposito della quale v. anche p. 168 dell'opera del Corner appena citata).
129. V., ad esempio, Antonio Rigon, A Community of Ferrale Penitents in Thirteenth-Century Padua, in Women and Religion in Medieval and Renaissance Italy, a cura di Daniel Bornstein-Roberto Rusconi, Chicago-London 1996, pp. 28-38.
130. F. Corner, Ecclesiae Venetae, decas I, pp. 203-209.
131. Ibid., p. 215.
132. Ibid.
133. Ibid., decas IV, pp. 124-125.
134. Ibid.
135. Ibid., decas I, pp. 150-151; e per l'esistenza del monastero almeno dai primi mesi del 1373 v. M. Ricci, Il monastero del Corpus Christi, p. 8 e Appendice, doc. 1, pp. 154-155.
136. M. Ricci, Il monastero del Corpus Christi, pp. 17-21; F. Sorelli, La santità imitabile, p. 74.
137. F. Corner, Ecclesiae venetae, decas IV, p. 123-124.
138. F. Sorelli, La santità imitabile, pp. 71-85.
139. Sul Barbo e sulla riforma da lui promossa in S. Giustina di Padova la bibliografia è abbondante, basti qui il rinvio a Giovanni Battista Francesco Trolese, Ludovico Barbo e S. Giustina. Contributo bibliografico; problemi attinenti alla riforma monastica del Quattrocento, Roma 1983, e a Riforma della Chiesa, cultura e spiritualità nel Quattrocento veneto. Atti del Convegno per il VI centenario della nascita di Ludovico Barbo (1382-1443). Padova, Venezia, Treviso 19-24 settembre 1982, a cura di Giovanni Battista Francesco Trolese, Cesena 1984.
140. "Cum locus noster Sancte Marie de la Caritate, sicut notum est, alias fuerit datum in commendam per sanctissimum dominum papam [...> et, sicut notum est, iste commende sunt dande ecclesiis et monasteriis nostris et terre nostre quantum plus esse potest, quia loca et monasteria nostra et ducatus nostri per istum modum vadunt in ruynam et in desolationem et utile sit bona hora providere super hoc [...> vadit pars pro bono monasterii et loci nostri Sancte Marie de la Caritate, quod possint scribi littere domino pape, cardinalibus et aliis quibus videbitur in illa forma que videbitur ducali dominio, ita quod ipse locus non detur amplius in commendam cum tanto damno monasterii et loci nostri predicti" (A.S.V., Senato, Deliberazioni miste, reg. 41, c. 114 [c. 116>). Accenna a questa pars F. Sorelli, La santità imitabile, p. 77 n. 30. Colgo l'occasione per ringraziare la collega Sorelli per questa segnalazione e per le altre utili indicazioni che gentilmente mi ha fornito.
141. A.S.V., Senato, Deliberazioni miste, reg. 41, c. 123v (c. 126v).
142. Ibid.
14.3. Ibid.
144. F. Sorelli, La santità imitabile, p. 77.
145. Flaminio Corner, Supplementi ad ecclesiis venetas et torcellanas antiquis documentis nunc etiam primum editis illustratas, Venetiis 1749, pp. 153-154.
146. Analizzando una bolla del 20 gennaio 1410 con la quale Alessandro V invita Girolamo, abate benedettino dei SS. Gregorio, Ilario e Benedetto a prendere accordi con i concittadini di Venezia scelti dal doge per la riforma dei monasteri maschili del Ducato, il Gualdo osservò che questo progetto era appunto "indipendente e precedente rispetto all'azione riformatrice (cui diede nome il monastero padovano di S. Giustina) felicemente promossa e attuata da Ludovico Barbo"; rilevò anche che l'iniziativa più che "da un meditato proposito del papa pisano", eletto da pochi mesi in pieno scisma, doveva partire dallo stesso governo veneto che poneva a fianco dell'abate alcuni consiglieri designati dal doge (G. Gualdo, Frammenti di storia veneta, pp. 436-438, e 466, nr. 50). Analogamente il Paolo Sambin, studiando la riforma del monastero di S. Giorgio Maggiore attraverso i decreti emanati da Girolamo Betaulo, abate del monastero dei SS. Gregorio, Ilario e Benedetto, in attuazione del piano concordato tra Alessandro V e Venezia, si domandò se l'azione rinnovatrice non fosse dovuta all'"iniziativa e alla decisione del governo veneziano": L'abate Giovanni Michiel († 1430) e la riforma di San Giorgio Maggiore di Venezia, in AA.VV., Miscellanea Gilles Gérard Meersseman, I, Padova 1970, pp. 514-515 e 526-530 (pp. 483-545). In realtà quanto detto mostra che da alcuni decenni le autorità civili, in collaborazione soprattutto con la sede apostolica, erano impegnate in un tentativo di rinnovamento monastico con modalità del tutto simili a quelle indicate da Alessandro V e che la riforma di S. Giorgio Maggiore si inserisce in un solco già da tempo tracciato.
147. F. Corner, Supplementa, pp. 153-154.
148. P. Sambin, L'abate Giovanni Michiel, pp. 514-515.
149. F. Sorelli, La santità imitabile, pp. 77-78, 82-83; Giorgio Cracco, Dai santi ai santuari: un'ipotesi di evoluzione in ambiente veneto, in Id.-Andrea Castagnetti-Silvana Collodo, Studi sul Medioevo Veneto, Torino 1981, pp. 27-42.
150. Alberto Tenenti, Il senso della morte e l'amore della vita nel Rinascimento, Torino 1989, pp. 30-61.
151. Lia Sbriziolo, Per la storia delle confraternite veneziane: dalle deliberazioni miste (1310-1476) del Consiglio dei Dieci. Le scuole dei Battuti, in AA.VV., Miscellanea Gilles Gérard Meersseman, II, Padova 1970, p. 716 (pp. 715-763).
152. Ibid., pp. 716-717.
153. Ibid., p. 717.
154. Ibid., p. 718. Già nei provvedimenti del 1366 (per i quali v. la n. precedente) era prevista l'approvazione del consiglio dei dieci per l'elezione annuale dei confratelli da sostituire ai defunti.
155. Ibid., p. 724.
156. Bianca Betto, Le nove congregazioni del clero di Venezia (sec. XI-XV). Ricerche storiche, matricole e documenti vari, Padova 1984, pp. 25-41.
157. Ibid., p. 32.
158. Le espressioni sono tolte dal proemio della matricola della congregazione di S. Maria Formosa (1405-1407): ibid., p. 347.
159. Ibid., pp. 353-354.
160. Per un quadro generale, comprendente anche le congregazioni veneziane, v. Antonio Rigon, Le congregazioni del clero urbano in area veneta (XII-XV sec.), in AA.VV., Le mouvement confratennel au Moyen Âge. France, Italie, Suisse, Rome 1987, pp. 343-360.
161. Cf. Giorgio Cracco, "Relinquere laicis que laicorum sunt". Un intervento di Eugenio IV contro i preti-notai di Venezia, "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", 3, 1961, pp. 179-189.
162. E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse", pp. 567-616.