I programmi figurativi della Chiesa cristiana in Europa (mosaici, pitture, sculture, vetrate, pavimenti, libri)
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La mobilità delle maestranze determina il diffondersi di elementi comuni, sia dal punto di vista iconografico che stilistico, in un ampio settore della cristianità latina. Questo è in gran parte motivato dalle capacità imprenditoriali dei committenti – laici, ma soprattutto ecclesiastici – pronti ad accogliere l’eco del contesto internazionale in cui maturano le avanguardie dei programmi artistici. Determinante è l’impulso di eminenti personalità di uomini di Chiesa, estimatori e profondi conoscitori dei mezzi espressivi, particolarmente attenti alle capacità comunicative delle immagini e dei loro contenuti simbolici.
Il tema centrale delle absidi romaniche è, di norma, la manifestazione di Dio sotto la forma della Maestà nella visione simbolica della fine dei tempi, quale approdo del percorso salvifico del fedele guidato dalla configurazione stessa dell’edificio. Gli elementi che costituiscono questo genere di composizioni si rifanno alle visioni dei profeti dell’Antico Testamento, soprattutto Ezechiele e Isaia. Generalmente il soggetto dominante è il Cristo in gloria nella mandorla luminosa circondato dai quattro simboli degli evangelisti o dalle gerarchie angeliche. È esemplare a questo riguardo la Maiestas Domini offerta dal suddiacono della cattedrale ambrosiana Ariberto da Intimiano nell’abside di San Vincenzo a Galliano (Cantù) nel 1007, con la tradizione visiva della Visione di Ezechiele e il Salmo 118 in una iconografia particolarmente aderente al testo biblico e di altissima forza spirituale. Cristo in piedi nella mandorla di luce è affiancato dagli arcangeli Michele e Gabriele che si fanno interpreti delle preghiere dei fedeli; più in basso i profeti Geremia ed Ezechiele si prostrano ai lati del Salvatore.
Il motivo della figura eretta di Cristo, energicamente protesa oltre la mandorla, discende da prototipi romani, come l’abside dei santi Cosma e Damiano, e romano è lo schema compositivo a cui uniformarsi: nella stessa Roma è di poco anteriore al Mille una replica nella piccola abside della chiesa di Santa Maria in Pallara sul Palatino.
Va rilevata nella decorazione degli edifici sacri dell’Europa l’ampiezza delle varianti, pur all’interno di ricorrenti temi-chiave che obbediscono a un sistema di organizzazione spaziale comune. Alla Maestà può sostituirsi la Traditio Legis a schema ternario, con Cristo tra Pietro e Paolo, composizione che appare senza sostanziali varianti rispetto ai prototipi paleocristiani nelle absidi delle chiese laziali del XII secolo (Sant’Anastasio a Castel Sant’Elia, San Silvestro a Tivoli). La teofania può prendere le sembianze di Cristo in trono accompagnato dalla rappresentazione simbolica degli evangelisti, cioè il Tetramorfo, dai cherubini e dai serafini, in un contesto più marcatamente apocalittico, ben rappresentato nel meridione d’Italia dall’affresco dell’abside di Sant’Angelo in Formis presso Capua, ricostruita e abbellita, fra il 1072 e il 1086, dall’abate Desiderio di Montecassino. In Catalogna e nel nord dei Pirenei si conserva un ingente nucleo di programmi absidali (tra gli altri, quelli di Esterri de Cardós, Sant’Eulalia de Estaon, San Clemente di Taüll, tutti esempi fra XI e prima metà del XII secolo) che associano alla Maestà serafini, cherubini e arcangeli, in una vera e propria materializzazione della presenza di Dio nella chiesa nel momento in cui essa è esplicitamente proclamata dal prefazio del canone della messa. Significativamente due programmi iconografici catalani – Sant Climent e Santa Maria di Taüll – accostano al cherubino e al serafino l’Agnello e il sacrificio di Abele, simboli per eccellenza del sacrificio eucaristico. È addirittura triplice la grandiosa Maiestas Domini nelle tre absidi della cappella del priorato benedettino di Saint-Gilles a Montoire-sur-le-Loire, in Turenna (metà XII sec. ca.), una singolarità che è stata spiegata con la necessità di destinare le absidi a due diverse congregazioni di fedeli, ciascuna delle quali volle avere una Maestà come figurazione centrale.
L’imponente Maestà di Cristo nell’abside della chiesa cluniacense di Berzé-la-Ville (Borgogna), si staglia al centro di un’affollata composizione che affianca i santi Pietro e Paolo a un gruppo di apostoli e altri santi; lo schema potrebbe aver imitato intorno al 1100 la perduta composizione absidale concepita per la chiesa dell’abbazia madre di Cluny, in Borgogna; di certo si può affermare che al suo anonimo pittore appaiono familiari alcuni esempi monumentali di Roma e dell’area laziale, e che la mirabile prova che egli dà nella Cappella dei Monaci è pienamente inserita nel contesto intellettuale e spirituale della Riforma della Chiesa e della liturgia cluniacense, specialmente avvertibile nel tenore ecclesiologico della scena che insiste sull’eredità di Cristo accolta dalla collegialità episcopale che governa la Chiesa.
La Maiestas mariana si vede nell’affresco del catino della basilica patriarcale di Aquileia (1031), ideato nel particolare clima politico favorito dal potente patriarca di origine bavarese Poppone, il quale, forte dell’appoggio dell’imperatore salico Corrado II, favorisce l’infiltrazione di elementi etnici tedeschi e pretende per la sua chiesa l’indipendenza da Roma. Nell’affresco due gruppi di figure si apprestano alla grande mandorla luminosa che racchiude la Vergine con il Bambino in trono, sollevata dai quattro animali apocalittici; fra i santi che si avvicinano al gruppo centrale compaiono lo stesso Poppone con l’imperatore e l’imperatrice Gisella. È più consueta, poiché originata sui prototipi paleocristiani, l’immagine della Vergine regina tra angeli (Saint-Martin de Fenollar, Catalogna, del primo XII secolo, e l’esempio di circa un secolo più tardo di Santa Maria di Forolaudio a Ventaroli, Caserta); mentre potrebbero derivare da una composizione ideata per la perduta abside della chiesa della Natività di Betlemme le versioni incentrate sull’Epifania del Salvatore adorato dai Magi utilizzate in alcuni edifici catalani (San Clemente di Taüll, Santa Maria di Esterri d’Aneu). Il tema della Vergine Hodigitria che campeggia nel mosaico della conca absidale della cattedrale di Torcello (seconda metà XII sec.), stagliato contro una stesura d’oro sfavillante, illustra invece la suggestiva immagine letteraria della Vergine porta salutis, tema esegetico molto diffuso nell’Occidente medievale. La Vergine è infatti qualificata come Theotokos, Madre di Dio, e celebrata nell’iscrizione al centro dell’abside come nuova Eva e “porta della salvezza”: il concetto della porta, già espresso da Ezechiele (44, 1-2), nel commento di sant’Ambrogio viene accostato appunto a Maria Vergine dopo l’Incarnazione.
Il tema dell’Ascensione, ovvero della salita di Cristo al cielo alla presenza degli apostoli dopo la Resurrezione, deriva da una elaborazione orientale diffusa dall’arte bizantina alle zone di diretta influenza culturale. Dopo il peculiare allestimento romano nella basilica inferiore di San Clemente (847-855), con la particolare posizione elevata della Vergine dovuta all’inserimento di una reliquia (probabilmente una pietra proveniente dal Monte degli Ulivi) alla base dell’affresco, lo schema a quanto sappiamo rimane estraneo alle composizioni absidali dell’Urbe mentre è invece accolto con favore nell’orbita territoriale e culturale dell’abbazia di Montecassino, dove una Ascensione dominava verosimilmente l’abside della chiesa abbaziale dell’XI secolo. Rappresentano un’eccezione nel territorio laziale la rara composizione della torre dell’abbazia di Farfa, in Sabina (seconda metà XI sec.), e quella della chiesa di San Pietro a Tuscania, verso il 1093. Il tema prescelto per il rivestimento pittorico della parete d’ingresso è nella grande maggioranza dei casi il Giudizio Finale, uno degli aspetti della visione trionfale di Dio imperante nelle chiese romaniche. Quando appare, verso l’800 a Münster, nei Grigioni, è sulla controfacciata, varcata la soglia della chiesa; tuttavia prima del XIII secolo l’iconografia resta episodica e la collocazione variabile: se assente dalla facciata e dal portale, il Giudizio può essere collocato altrove, su una vetrata istoriata, ad esempio, o all’ingresso dell’abside, come a Clayton, nel Sussex (1100 ca.), o nel refettorio, come era forse nella chiesa abbaziale di Cluny. Per quanto riguarda il contenuto dell’immagine, l’insistenza sul tema della resurrezione della carne è un’introduzione tardiva, mentre è piuttosto frequente nell’età romanica il tema della separazione tra eletti e reprobi.
Nelle grandi sintesi teologiche del XII e XIII secolo il Giudizio si inscrive nella storia della salvezza, scandita dai momenti della Creazione, Caduta e Redenzione. Delle scomparse scene di Giudizio concepite per la facciata interna dell’abbazia di Saint-Pierre a Fleury e Saint-Benoît-sur-Loire, entrambi esempi degli inizi dell’XI secolo, possiamo avere un’idea precisa grazie ai numerosi versi che fungevano da didascalie e che il biografo dell’abate committente, Gauzlin, ha riportato fedelmente. Due grandi visioni di gloria occupavano la maggior parte dello spazio: da un lato l’Adorazione del trono da parte del Tetramorfo e dei Vegliardi, in presenza dei martiri; dall’altro un immenso Giudizio basato sull’Apocalisse (20, 11-15) e su vari altri riferimenti giovannei mescolati e ricomposti da Gauzlin per dare immagine alla visione della fine dei tempi. La funzione religiosa dell’immagine del Giudizio rappresenta un aspetto fondamentale, con valore di ammonimento attuale indirizzato agli individui sebbene si tratti di una realtà futura, come conferma l’iscrizione metrica apposta a margine del Giudizio di Sainte-Foy a Conques.
Il Giudizio non compare in Italia prima della fine dell’XI secolo, se si escludono i pochi frammenti dalla chiesa abbaziale di San Quintino presso Spigno Monferrato, fondata nel 991, dove il Cristo giudice è accompagnato da due angeli e forse dalla Vergine e dal Battista, e in seguito quelli della piccola chiesa di San Vincenzo nella vicina località di Pombia, arricchito da una folla di angeli, apostoli ed eletti. Nella chiesa cimiteriale di San Michele presso Oleggio, Novara (1060 ca.), accanto all’intercessione della Vergine e del Battista si rileva anche la presenza dei tre patriarchi, Abramo, Isacco e Giacobbe con le figure simboliche delle anime strette al petto, un tema che appare per la prima volta in Occidente ma che è già sperimentato nel X secolo in Cappadocia e che si ritrova agli inizi del XII secolo nel Giudizio superstite per ampie porzioni sulla facciata di San Tommaso ad Acquanegra sul Chiese (Mantova).
Una grande scena di Giudizio si conserva integralmente sulla controfacciata di Sant’Angelo in Formis, parte del ciclo di affreschi commissionato dall’abate Desiderio di Montecassino. È suddivisa in cinque registri; alla sommità della parete quattro angeli buccinatori sovrastano il registro dedicato ai morti che escono dai sepolcri, in una composizione simile a quella impaginata tre secoli prima a Münster. Il gigantesco Cristo giudice occupa il centro, all’interno della mandorla, affiancato da due arcangeli e da altri nove angeli in rappresentanza delle gerarchie celesti; gli apostoli siedono nella fascia sottostante seduti in gruppi su troni d’oro. Più in basso prendono posto gli eletti e i dannati, sopra la porta della chiesa, dove tre angeli tendono cartigli che ricordano che il tempo è scaduto, (“venite o benedetti dal Padre mio - Andatevene maledetti”). A destra della porta è l’inferno, incarnato da Satana con il traditore Giuda sulle ginocchia e i reprobi nell’abisso; sul lato opposto gli eletti, suddivisi in due zone: i personaggi di alto rango – monaci, vescovi, re e regine – in alto, e la folla dei semplici beati più in basso.
Un elemento che caratterizza l’iconografia italiana del Giudizio è quello dell’esaltazione della croce-trofeo, spesso presentata sopra o davanti un altare, generalmente trasportata da angeli, come ostensione del segno del Figlio dell’uomo. Un esempio proviene dal Giudizio della chiesa di San Carlo di Prugiasco (Canton Ticino), dove la figura di Cristo in piedi con i simboli della Passione, la corona di spine in mano, la lancia e la canna ai lati è acclamato dagli apostoli quale eterno vincitore in una sorta di Adventus. Nella chiesa romana di San Giovani a Porta Latina (1190 ca.), il Cristo troneggia sul globo fra sei arcangeli, sopra una croce posta in connessione con la mensa di un altare su cui poggiano i chiodi della crocifissione. Elementi iconografici simili si trovano in altri esempi pittorici romani, come la cosiddetta Tavola del Giudizio (Città del Vaticano, Pinacoteca), di verosimile datazione allo scorcio dell’XI secolo, nel clima della Riforma, e i frammentari affreschi dell’Immacolata di Ceri, a nord di Roma. Come esempio di fedeltà ai canoni bizantini dell’XI secolo si deve citare invece il grandioso mosaico della cattedrale di Torcello (XI sec. e restauri dopo il 1117, nel corso del XII secolo). Il Giudizio è sovrastato dalla Crocifissione e dall’Anàstasis (la Discesa al Limbo) e occupa un’ampia porzione della retrofacciata, suddivisa in quattro registri delimitati da fasce orizzontali. Sopra la porta, all’interno del terzo registro si svolge la suggestiva scena della pesatura delle anime: il gruppo dei beati è a sinistra; a destra due angeli armati di lance respingono i dannati mentre Satana siede su un trono mostruoso con un bambino sulle ginocchia.
La tematica apocalittica è la grande fonte di ispirazione del Medioevo. Con il rinnovamento carolingio nel IX secolo l’Apocalisse ha trovato una nuova generazione di commentatori che hanno contribuito a far conoscere le Rivelazioni, a imprimerle nella memoria e a inscriverle nel patrimonio iconografico. Del libro di Giovanni vengono utilizzati diversi elementi, spesso fusi tra loro per tradurre in figura la visione simbolica dei tempi futuri. L’Adorazione dei Ventiquattro Vegliardi (Apocalisse 4 e 5), soggetto già apparso nell’arte paleocristiana, vede ora i seniores seduti in trono con in mano i calici, disposti attorno al Cristo, in frequenti illustrazioni miniate (ad esempio il Codice di Beato di Saint-Sever, Parigi, Bibliothèque Nazionale, Lat. 8878) o in scultura (timpano del portale di Saint-Pierre a Moissac, 1120-1130 ca.). Così il tema della Gerusalemme celeste “sposa dell’agnello” (Apocalisse, 21, 2; 22,5), già simboleggiato nei mosaici romani del tempo di Pasquale I, conosce una nuova valorizzazione nella pittura romanica europea. Più complesso lo schema dei dipinti della cappella di Ognissanti nel duomo di Ratisbona, in Baviera (1165 ca.), dove sulla base della liturgia per i Santi e dei commenti patristici si mescolano scene tratte dal settimo libro dell’Apocalisse – i quattro venti trattenuti dagli angeli, l’angelo che sale da Oriente, le tribù di Israele segnate con il sigillo, la schiera degli eletti davanti al trono di Dio – all’immagine del Pantocratore tramandato dai mosaici bizantini. L’influsso della tradizione esegetica è sempre determinante per la formulazione di programmi iconografici basati sulle immagini simboliche evocate dal difficile libro di Giovanni. La cripta della cattedrale di Auxerre ospita una visione del Cristo cavaliere accompagnato dalle schiere angeliche (Apocalisse 19, 11-16), un tema forse da riferire alla propaganda della prima crociata (1096-1109) al tempo del vescovo Humbaud che ne fu acceso sostenitore. Pitture di grande complessità e di straordinaria qualità artistica rivestono il battistero paleocristiano di Novara, rinnovato probabilmente al tempo del vescovo Pietro III; esse si svolgono su tre registri sovrapposti al di sopra delle arcate e del loggiato alla sommità del grande vano ottagonale, accompagnate da un breve apparato didascalico dipinto. Il soggetto è tratto da uno dei brani più drammatici del libro dell’Apocalisse quando, dopo l’apertura del settimo sigillo del Libro del Destino, compaiono in cielo sette angeli con sette trombe ai cui singoli e successivi squilli altrettanti immani flagelli si abbattono sugli uomini (Apocalisse, Capitoli 8-12).
Un ulteriore, ambizioso programma apocalittico a cavallo tra XI e XII secolo si svolge nel complesso benedettino di Civate, non lontano da Como, costituito dalla chiesa dell’abitato, San Calocero, da San Benedetto e da San Pietro al Monte, piccolo santuario arroccato su un picco roccioso. L’ideazione dei cicli pittorici è attribuita al vescovo Arnolfo de’ Capitani – ritiratosi a Civate dopo l’elezione, nel 1093, in seguito ai contrasti con Urbano II – mediante l’utilizzo del Commento all’Apocalisse elaborato dal teologo franco Ambrogio Autperto, monaco e abate di San Vincenzo al Volturno. A San Calocero le scene alludono alla vita, morte e resurrezione di Cristo attraverso il racconto degli episodi biblici che prefigurano i fatti del Nuovo Testamento. Pochi i resti pittorici a San Benedetto, mentre l’articolato programma pittorico di San Pietro, opera di una folta bottega di vario talento ma di stile omogeneo, è perfettamente integrato dalla decorazione in stucco. Il tema delle volte, nelle tre celle in cui è stata suddivisa l’antica abside è la Gerusalemme Celeste secondo la descrizione dell’Apocalisse. Al centro è il Cristo-Agnello in trono; al di sotto l’acqua dei quattro fiumi del Paradiso si divide ai suoi piedi. Le absidi di fianco all’ingresso rappresentano la chiesa degli apostoli, dei martiri, dei santi e degli angeli da una parte; l’accoglienza ai catecumeni da parte di san Marcello dall’altra. Sulla facciata del protiro occidentale, in una lunetta incorniciata da stucco, prende posto la grandiosa composizione della vittoria finale degli angeli sulla bestia apocalittica: all’Eterno troneggiante è sovrapposto l’Agnello fiancheggiato dal combattimento di san Michele e delle legioni angeliche contro il drago apocalittico a sette teste (Apocalisse, 12), da un lato, e dalla donna e il suo bambino che viene sollevato verso l’Eterno stesso.
Da un terzo gruppo di cicli illustrati dell’Apocalisse, fortemente influenzati dai commenti di Ambrogio Autperto, discendono molti libri miniati della Bibbia e gli apparati pittorici di San Severo a Bardolino (fine XI-XII sec.), quelli della chiesa di Sant’Anastasio a Castel Sant’Elia, a Nepi (1120-1130), e di San Quirce de Pedret (Barcellona, Museu d’Art de Catalunya; Solsona, Museo Diocesano), forse opera di un pittore formatosi in Lombardia.
La decorazione pittorica delle navate vede l’applicazione pressoché costante del cosiddetto sistema tipologico in cui un evento dell’Antico Testamento è giustapposto a scene del Nuovo Testamento per mostrare come uno prefiguri l’altro, in un parallelismo sperimentato dai Padri della Chiesa primitiva e già noto all’arte paleocristiana e a volte replicato nel periodo carolingio. Il modello seguito deriva dalla decorazione delle basiliche di San Pietro e San Paolo a Roma, ideata da Leone Magno alla metà del V secolo; questo schema prefissato consente lo svolgimento di ampi cicli disposti su uno o due registri sulle pareti della navata: così a Sankt Georg a Oberzell (Reichenau), Sant’Angelo in Formis, Santa Maria Immacolata a Ceri (Roma). Specialmente a Roma e nel territorio laziale, nel XII secolo, si moltiplicano le rivisitazioni del canone stabilito dalla basilica ostiense: il ciclo di San Giovanni a Porta Latina ne è la derivazione più organica. Accanto alla concordanza tra i due Testamenti, il tema dell’Alleanza conosce formulazioni piuttosto complesse nel corso del XII secolo: Cristo appare come nuovo Adamo, colui che sulla croce ha stretto il patto della Nuova Alleanza, già istituita da Dio con Noè (Genesi 9, 8-17). In questo senso è stato interpretato il ciclo testamentario di Bagüés, in Aragona, quale espressione del concetto di redenzione attuato da Cristo per mezzo della croce.
La relazione con l’ambiente della Riforma della Chiesa costituisce un punto di riferimento di primaria importanza per molta parte della pittura europea, per quanto riguarda le scelte iconografiche e lo sviluppo dei programmi decorativi. A Roma, gli affreschi risalenti alla fine dell’XI secolo nell’attuale basilica inferiore di San Clemente sono considerati il proclama pittorico del movimento. Il soggetto principale è il racconto agiografico di san Clemente papa, primo successore di Pietro al soglio pontificio. Accanto alla storia del santo titolare della basilica prendono particolare risalto le Storie di sant’Alessio, accompagnate da un corredo epigrafico che rende individuabili persone e fatti relativi alla vita esemplare dell’homo Dei, in tutto rispondente agli ideali della Chiesa rinnovata. D’altro canto, la stessa valorizzazione del culto di san Clemente indica l’accento posto dal partito riformatore al tema dell’autorità morale del successore di Pietro. Il programma della Sala capitolare della Trinità di Vendôme (1096 ca.), con la scena dell’investitura di san Pietro in cattedra, non potrebbe essere inteso ignorando il diretto coinvolgimento del committente – l’abate Goffredo di Vendôme, cardinale della Chiesa Romana – alle iniziative riformistiche. Goffredo è un creatore di immagini al pari degli abati Desiderio di Montecassino e Suger di Saint-Denis, ed è un deciso sostenitore del pontefice durante la Lotta per le Investiture. Il ciclo narrativo è imperniato sul tema delle apparizioni del Cristo Risorto e vede l’inserimento della particolare scena in cui Cristo conferisce all’apostolo la sua Missione di pastor ed episcopus sulla base del testo di Giovanni (21, 15-19), forse ispirato da Ivo di Chartres, autore di un sermone composto proprio per questa festa liturgica. Il ciclo probabilmente comprendeva scene di Passione e l’episodio della pesca di Tiberiade (Matteo, 8, 24), in cui si può vedere un’ulteriore trasfigurazione simbolica della Chiesa come Barca (si pensi alla ripresa del tema da parte di Giotto nel mosaico della Navicella per il portico Vaticano), importante per l’accento posto sul principio di unicità dell’episcopato, primato pontificio e idea di Roma caput Ecclesiae. A Roma in quegli anni il tema del papa assiso frontalmente in trono come un sovrano temporale è rappresentato nei perduti affreschi commissionati a Roma da Callisto II per l’anticamera dell’oratorio di San Nicola nel palazzo lateranense. Anche gli affreschi del priorato cluniacense di Coombes, in Inghilterra, sono altrettanto rivelatori della volontà dei committenti ecclesiastici di allinearsi alle tendenze romane: il dipinto dell’arco trionfale della chiesa replica infatti lo schema romano della Traditio legis allo scopo di valorizzare la figura di san Pietro primo vescovo.
Una composizione ternaria che richiama tanto la Traditio legis et clavium quanto la Deesis, per la presenza di Maria e del Battista a lato della mandorla con il Cristo stante, domina anche l’abside della chiesa di San Pietro a Carpignano Sesia, Novara, databile al decennio 1150-1160 ca. L’iscrizione che scorre tra il catino e il tamburo absidale riporta versi oggi frammentari riferiti al commento del Cantico dei Cantici di Beda il Venerabile, che propone l’accostamento fra la Sposa-Chiesa e la Vergine. Il culto mariano, venato di significati ecclesiologici ispirati alla Riforma gregoriana, è particolarmente esaltato dall’ordine benedettino riformato di Cluny, a cui la chiesa di Carpignano Sesia è affiliata.
Proprio verso il terzo decennio del XII secolo si assiste alla messa a punto dell’iconografia dell’Ecclesia, che scaturisce dalla volontà di comunicare con programmi decorativi il richiamo all’autorità della Chiesa e alla sua preminenza nella storia della salvezza. La personificazione dell’Ecclesia in trono è rappresentata sulla cupola del presbiterio di Prüfenning (1120-1150), presso Regensburg, insieme alla scena di san Pietro in cattedra che porge le spade del sacerdotium e del regnum a un vescovo e a un re.
Un allestimento figurato che conosce nel clima della Riforma svariate recensioni iconografiche è quello che vede la contrapposizione della Chiesa e della Sinagoga, in connessione alla figura della Vergine in trono. La chiesa di Sant Pere de Sorpe (Barcellona, Museu Nacional d’Art de Catalunya) è dominata nell’abside da una Maiestas mariana che esalta l’Incarnazione e sottintende il ruolo di Maria Mediatrice. Dal trono della Vergine sorgono due alberi: a sinistra un tronco vigoroso dalla chioma abbondante, accompagnato da un’iscrizione che identifica la rappresentazione allegorica dell’Ecclesia; a destra è invece un tronco privo di radici i cui rami assumono l’aspetto di un candelabro a sette bracci. La decorazione di Sorpe insiste sul tema della Chiesa che fiorisce in confronto al deperimento della Sinagoga, concetto che ben chiarisce i termini della polemica antigiudaica serpeggiante nei circoli colti degli uomini di Chiesa specialmente con l’avvicinarsi delle crociate: un esempio contemporaneo è dato da una miniatura dell’Enciclopedia di Lamberto di Saint-Omer, il Liber Floridus (Gand, Bibl. Univ. ms. 1125) con la schematica rappresentazione su due pagine dell’Arbor bona Ecclesia e dell’Arbor mala Sinagoga, un contesto iconografico ripreso anche sui portali e fondato sulla parabola del sermone sulla montagna secondo i Vangeli di Matteo (3, 10; 7, 17-19) e Luca (3, 9; 6, 44).
A questi soggetti si collega l’Albero di Jesse (Isaia 11, 1), tema assai frequente nel repertorio iconografico del XII secolo, in special modo ricorrente su miniature e vetrate, poiché il simbolismo vegetale consente di mostrare come, attraverso la Vergine, prende forma la successione ascendente dalla genealogia dell’Antico Testamento a quella del Nuovo, alla cui sommità germoglia il Fiore-Cristo. L’immagine più rappresentativa e straordinaria dal punto di vista artistico derivata da questi sottili concetti domina l’abside della basilica superiore di San Clemente a Roma (secondo decennio del XII sec.). Al centro di un mosaico sfolgorante d’oro la croce di Cristo tra Maria e Giovanni Battista si innalza su un rigoglioso cespo d’acanto i cui girali spiraliformi avvolgono il catino: l’albero-croce si innalza verso il cielo, diffonde i suoi rami fino agli astri e fruttifica in paradiso. L’Albero della Vita qui è figura della croce fiorita che genera la Vite della Chiesa, a sua volta intesa come simbolo del Paradiso. Il tema Chiesa-Vite trova la sua fonte nella Bibbia (Isaia 5, 5-6; Matteo 21, 33-41; Giovanni 15, 1-8) e si contrappone nell’esegesi del tempo all’albero disseccato dell’Antica Legge: l’albero dei buoni frutti è simbolo della Chiesa e di coloro che, vivendo in essa, diventano alberi buoni e buoni frutti.
Un’incontestabile autorità in seno alla Chiesa e nella diffusione dei principi della Riforma viene esercitata dagli abati delle grandi signorie monastiche benedettine. Desiderio di Montecassino, abate tra il 1058 e il 1086, poi papa con il nome di Vittore III è una figura di spicco nelle relazioni politiche tra il papato e i Normanni; si dimostra un equilibrato interlocutore dell’imperatore bizantino e un solerte sostenitore di Gregorio VII nella lotta contro l’imperatore Enrico IV. Egli estende l’influenza della sua abbazia contribuendo potentemente all’edificazione di una cristianità omogenea nell’Italia centro-meridionale; è inoltre una figura esemplare di abate costruttore e patrono delle arti. Perduto il monumento che più di ogni altro rappresentava l’espressione di massima fioritura intellettuale e spirituale dell’ordine benedettino, l’abbazia di Montecassino, la testimonianza più significativa del suo infaticabile operato è offerta nella Chronica del monastero scritta a partire dal 1090 dal testimone oculare di quell’intensa stagione artistica e culturale, Leone Marsicano. Montecassino è per l’XI secolo il più grande cantiere artistico attivo nel sud della penisola.
Anche se la decorazione musiva e marmorea è realizzata da maestranze greche e alessandrine chiamate a rivitalizzare tecniche di cui l’Occidente ha perso l’esperienza e la pratica, la vocazione complessiva dell’opera può dirsi occidentale, frutto dell’esaltazione del monachesimo latino e della partecipazione di Desiderio agli ideali della Riforma. Il cronista esprime la sua meraviglia di fronte ai mosaici e alla perfezione delle opere realizzate in tutti i materiali più preziosi; registra i versi composti da Alfano di Salerno per celebrare l’abside e la volta centrale. La cerimonia di consacrazione presenziata da Alessandro II nel 1071 si svolge alla presenza di tutti i potenti dell’epoca, ecclesiastici e laici, latini, longobardi e normanni. L’abbazia importa pregiati manufatti artistici da Costantinopoli; al contempo esporta tecniche, programmi iconografici e tipologie narrative ben oltre i vasti confini della signoria abbaziale; tracce “desideriane” si riscontrano nel nord Italia (nel ciclo benedettino del refettorio dell’abbazia di Nonantola presso Modena) e, in Francia, nella Saint-Denis dell’abate Suger recatosi in visita a Montecassino nel 1123: sono probabilmente inserzioni cassinesi la porta bronzea e il timpano mosaicato in facciata nel prestigioso edificio parigino. Come è noto, pochissimo sopravvive alla perdita causata dal terribile sisma del XIV secolo e dagli eventi bellici del secondo conflitto mondiale. La decorazione parietale di Sant’Angelo in Formis, dove Desiderio è ritratto nell’abside in veste di donatore accanto a san Benedetto (ma l’effigie del santo è ridipinta su uno strato precedente, forse sovrapposta a quella del finanziatore dell’impresa, il normanno Riccardo I, principe di Capua e conte di Aversa), documenta il gusto e le scelte artistiche del patrono. Il programma della navata è incentrato su episodi del Vecchio e Nuovo Testamento ispirati ai modelli delle basiliche apostoliche romane.
La ripresa della tecnica musiva avvenuta a Montecassino è presto propagata nelle aree di influenza cassinese, affinché chiese non romane sembrassero romane. A Salerno, l’arcivescovo Alfano è il promotore della nuova cattedrale costruita e abbellita con il sostegno finanziario del normanno Roberto il Guiscardo, conquistatore della città nel 1076. L’arco absidale conserva frammenti del rivestimento musivo esteso in origine anche all’abside.
A Roma i pontefici tornano a scegliere il medium espressivo del mosaico per le decorazioni absidali, grazie alla presenza di maestranze altamente specializzate nella realizzazione di stesure monumentali di grande complessità iconografica. Si è già accennato allo sfolgorante catino dominato dalla croce fiorita della basilica superiore di San Clemente. Il mosaico di Santa Maria in Trastevere è patrocinato da Innocenzo II, chiamato al soglio pontificio dal 1130, ma in possesso della carica solo dal 1138, alla morte del suo avversario, l’antipapa Anacleto II. La posizione preminente nel catino è assunta dall’inedita immagine dell’Incoronazione della Vergine, tema aperto a grandi sviluppi nei portali delle cattedrali gotiche. Anche se non rinuncia completamente agli elementi della tradizione paleocristiana, il programma è sostanzialmente nuovo e rappresenta la traduzione in termini figurati di un ampio settore della speculazione teologica del XII secolo incentrato sul culto della Vergine in chiave ecclesiologica. La Vergine troneggia anche nel mosaico di Santa Maria Nova (1165-1167), secondo la consueta composizione che la vede in trono con il Bambino in grembo, ma accompagnata da apostoli incorniciati da arcatelle. L’iscrizione alla base della calotta che celebra Maria come regina della terra, ricettacolo del Signore, ne valorizza ancora una volta la posizione preminente nell’ambito di un programma absidale.
Nel territorio italiano, i due poli dell’ondata bizantina che si espande in Europa nella seconda metà del XII secolo sono rappresentati da autentici innesti bizantini nella Venezia dei dogi e nella Sicilia dei Normanni. Nella città lagunare, maestranze provenienti dalle terre dell’Impero d’Oriente realizzano la complessa macchina iconografica della grande cupola nel mezzo del transetto della basilica di San Marco, con l’Ascensione di Cristo in alto, gli apostoli e la Vergine al di sotto e le allegorie delle Virtù che corrono lungo la base, tra le finestre.
Il normanno Roberto il Guiscardo completa nel 1071, con la presa di Bari, l’ultimo atto di tormentosa serie di conflitti che segna convenzionalmente l’epilogo della lunga dominazione di Bisanzio nelle regioni del meridione d’Italia. La conquista normanna della Sicilia è iniziata dal Guiscardo nel 1061 e compiuta trent’anni dopo dal fratello Ruggero I, detto al termine dell’impresa il “Gran Conte di Sicilia”. La capitale del regno è stabilita a Palermo, già grande centro urbano ed efficiente centro amministrativo sotto i musulmani e ora immagine emblematica della fusione di stili e tradizioni arabo-bizantine mirabilmente amalgamati in una sintesi che non avrà eguali in tutto l’Occidente. Durante i regni di Ruggero II, Guglielmo I e Guglielmo II, la Sicilia vede uno straordinario impegno costruttivo e ornamentale tradotto in maniera eclatante dalle ingenti stesure musive realizzate da maestranze giunte dall’Impero d’Oriente, destinate a caratterizzare gli ambienti della Cappella Palatina a Palermo, il coro della cattedrale di Cefalù, la chiesa palermitana di Santa Maria dell’Ammiraglio detta la Martorana, e gli enormi spazi della cattedrale di Monreale (1172), concepita da Guglielmo II come luogo di sepoltura per sé per i suoi successori. A questi vanno aggiunti i mosaici degli ambienti profani quali ad esempio la “stanza normanna” o “di re Ruggero”, un ambiente che i mosaici hanno avvolto in un tappeto d’oro sfavillante costellato di raffigurazioni di piante rare, animali esotici e del bestiario medievale. Sono inoltre da ricordare i partiti ornamentali dei soffitti della Cappella Palatina, di schietta matrice islamica, e della cattedrale di Cefalù (quest’ultimo in frammenti). La committenza esclusivamente regia – con l’eccezione della Martorana, edificata e decorata a spese dell’ammiraglio del regno, il greco-siriaco Giorgio di Antiochia (1143) – guardava a Bisanzio come modello artistico capace di rappresentare lo splendore del potere regio.
I Normanni del Nord, a circa cinquant’anni dalla conquista dell’Inghilterra (1066), commissionano cicli pittorici quali quelli di Coombes e di Clayton, nel Sussex, in cui compaiono cicli cristologici, agiografici e apocalittici accompagnati da iscrizioni didascaliche. Queste opere conservano reminiscenze della pittura anglosassone e influssi ottoniani, anche se dal punto di vista stilistico è ormai pienamente maturato il linguaggio romanico, saldo, solido, monumentale che ha nel ricamo di Bayeaux (Musée de la Tapisserie) uno dei documenti più emblematici (1080 ca.). Perduto il ciclo del Glorious Choir della cattedrale di Canterbury (1109-1126) descritto con parole entusiaste da Guglielmo di Malmesbury come un insieme di pavimenti marmorei, vetrate, pitture e soffitti a cassettoni, distrutto da un incendio nel 1174, nella stessa Canterbury la cappella di St Gabriel, con scene dell’infanzia di Cristo e di san Giovanni Battista e visioni apocalittiche sulla volta, rivela la complessità e la superba qualità del programma iconografico destinato all’importante edificio. Le pitture della cappella del Santo Sepolcro nella cattedrale di Winchester, con scene della Passione, ormai sullo scorcio del XII secolo denotano il ricorso a iconografie fortemente bizantineggianti e la prossimità stilistica sia con la Bibbia di Winchester che con i mosaici di Monreale (1183-1189).
I manoscritti carolingi costituiscono un riferimento imprescindibile per la produzione libraria che fiorisce nei territori dell’Impero germanico con la dominazione degli Ottoni (936-1002). Alla guida di Egberto vescovo di Treviri dal 977, questa città diventa uno dei centri più importanti della riforma conventuale del X secolo, i cui principi sono precocemente accolti dal monastero di San Massimino, da cui parte la missione di sant’Adalberto. Egberto è cappellano e cancelliere di Ottone II, arcivescovo, mecenate e zelante riformatore. Il Salterio nel Museo di Cividale del Friuli (cod. 136) è un caposaldo del gruppo miniatorio che va sotto il nome dello scriba o miniatore Ruodprecht. Pochi anni dopo (985 ca.) viene realizzato il Codex Egberti, un evangeliario conservato a Treviri (Stadtbibliothek, ms. 24) che reca il ritratto del committente fra due monaci. Alla confezione di questo codice prende parte un sommo artista anonimo, il Maestro del Registrum Gregorii, forse il Johannes italicus o Johannes pictor lombardo, autore di perduti affreschi nel duomo di Aquisgrana. Il nome gli deriva dalle due miniature di superba qualità pittorica un tempo appartenenti all’Epistolario di Gregorio Magno, commissionato da Egberto dopo il 983: l’imperatore Ottone II riceve l’omaggio delle quattro province dell’impero (Chantilly, Musée Condé) e san Gregorio allo scrittoio (Treviri, Stadtbibliothek, ms. 24), pagina, questa, la cui misura classica conferma la conoscenza della contemporanea pittura romana ad affresco e mosaico da parte del Maestro.
I manoscritti tradizionalmente attribuiti allo scriptorium di Reichenau sul lago di Costanza rappresentano i capolavori dell’arte ottoniana, che crea il Libro delle Pericopi come raccolta di testi dei Vangeli non in sequenza ma ordinati secondo le esigenze del calendario della Chiesa e della liturgia. Questi libri richiedevano un nuovo tipo di illustrazione, costituita da elaborati cicli pittorici adattati dai modelli paleocristiani che trasmettono in eredità alle miniature ottoniane anche i numerosi dettagli narrativi di cui sono arricchite (ad esempio l’Apocalisse di Bamberga, Staatsbibliothek, Bbl. 140; il Libro delle Pericopi di Enrico II, München, Bayerische Staatsbibliothek, Clm 4452).
Il centro più fecondo della miniatura ottoniana in Italia è Milano, dove si forma uno stile autonomo rispetto ai prodotti d’Oltralpe. Il gruppo di codici lombardi giunto a noi è in gran parte costituito da sacramentari legati ai vescovati di Arnolfo II a Milano e Warmondo a Ivrea. Proprio perché si tratta di sacramentari, non troviamo in essi i principi narrativi degli evangeliari nordici. La raffigurazione maggiore è quella della Crocifissione, dove la croce forma la “T” iniziale delle parole Te igitur che aprono il Canone eucaristico. Il vescovo Warmondo di Ivrea potenzia lo scrittorio locale facendo ricorso a miniatori della zona e milanesi, introducendovi tre superbi manoscritti miniati resi necessari dalle innovazioni liturgiche e dall’importanza assunta dalla cattedrale: il Cerimoniale (Ivrea, Biblioteca Capitolare, cod. IV), il Benedizionario (cod. XVIII) e il Sacramentario (cod. LXXXVI) che porta il suo nome e per il quale lo stesso vescovo ha composto titoli in versi. Il capolavoro della scuola milanese è ritenuto il breviario dell’arcivescovo Arnolfo II, un codice (Londra, British Library, ms. Egerton 3763) di formato molto piccolo, che racchiude una successione di delicate immagini di santi ispirate a icone, tracciate con inchiostro bruno: l’arcivescovo ha una conoscenza diretta dell’arte di Bisanzio, avendo preso parte alla delegazione inviata nella metropoli a trattare il matrimonio di Ottone III con una principessa bizantina. L’abate Gauzlin di Saint-Benoît-sur-Loire commissiona per il re di Francia un lezionario purpureo noto come Evangeliario di Gagnières (Parigi, Bibliothèque Nazionale de France, Lat. 1126), nel quale si fondono gli aspetti bizantini della miniatura milanese e gli intrecci del repertorio ottoniano. Al pittore lombardo Nivardo si ascrive l’illustrazione dello splendido sacramentario dedicato per l’incoronazione del figlio maggiore di Roberto il Pio, nel 1017, nella cattedrale di Beauvais (Malibu, J. Paul Getty Museum).
Nell’Italia centro meridionale, l’abbazia di Montecassino al tempo degli abati Teobaldo e Desiderio raggiunge l’apice della sua produzione. Al tempo di Teobaldo lo scriptorium monastico produce il codice miniato dell’enciclopedia (De originibus rerum) dell’abate di Fulda Rabano Mauro (Montecassino, Archivio dell’Abbazia, ms. Casin. 132), opera considerata lo specchio del sapere medievale. La trascrizione in 22 libri numerati che ne viene data a Montecassino realizza il capolavoro dell’epoca, illustrato con un’inesauribile riserva di motivi iconografici nelle oltre 300 miniature in stile vivace, descrittivo, che danno l’accesso a creazioni presto uscite dai confini della biblioteca per aggiungere immagini al repertorio dei pavimenti musivi e alla scultura. I grandi abati cassinesi sostengono iniziative nel campo della promozione artistica vaste quanto eccezionalmente raffinate; si fanno ritrarre con san Benedetto nelle scene di dedica che introducono i volumi più preziosi dello scriptorium abbaziale. L’abate Desiderio vuole essere ricordato come bibliofilo e restauratore nella dedica di un sontuoso lezionario (Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 1202, c. 2r): nella brillante miniatura a tutta pagina libri e chiese si ammassano attorno ai due protagonisti, l’abate stesso e il fondatore. All’apice della miniatura cassinese, il lezionario contiene una serie di illustrazioni narrative relative alle Vite di san Benedetto, san Mauro e santa Scolastica che hanno strette analogie con i superstiti episodi della vita di san Benedetto dipinti sulle pareti della basilica inferiore di San Crisogono a Roma (metà XI sec.).
Dallo scrittorio della cattedrale di Benevento, la capitale del principato, provengono i due rotuli illustrati del Pontificale, cioè il formulario per l’ordinazione sacerdotale, del vescovo Landolfo I (Roma, Biblioteca Casanatense, ms. 724 B.I. 13) e della Benedictio Fontis che contiene le formule di preghiera per la benedizione dell’acqua battesimale (Roma, Biblioteca Casanatense, ms. 724 B.I. 13 II); i due rotoli raccolgono scene relative al cerimoniale e altre tratte dalle Sacre Scritture sotto forma di commentario illustrato. Questi rotoli di pergamena, composti da fogli cuciti insieme e quasi sempre illustrati, rappresentano l’invenzione più significativa dell’Italia meridionale nel campo della produzione libraria illustrata. Si tratta di un genere totalmente nuovo, sia per forma che per destinazione e tipologia ornamentale. Ne sono superstiti poco più di trenta, tranne due tutti prodotti tra il X e il XIV secolo nell’area culturale di influenza longobardo-cassinese. Ventotto su trentadue rotoli sono Exultet, così chiamati dal canto esultante del preconio pasquale con il quale il diacono annuncia il compimento del mistero della Resurrezione durante la veglia del sabato santo, mentre si compie il rito dell’offerta del cero. Vi sono inserite scene illustrative dai colori sgargianti, talora lungo i bordi e nelle lettere iniziali del canto, visibili ai fedeli al momento dello srotolamento dall’ambone, mentre lo scritto è orientato verso l’officiante (a partire dall’Exultet 1 di Bari: Archivio del Capitolo Metropolitano). Il ciclo figurativo è variabile e fa riferimento a scene di storia sacra – quasi tutte tratte dal Nuovo Testamento – oppure storico-celebrative, cerimonie liturgiche, ritratti di contemporanei (papi, vescovi, sovrani, principi e conti) e allegorie (la Terra, la Mater ecclesia). La scena delle api, in riferimento alla loro partenogenesi, simboleggia la verginità di Maria e ricorre in tutti i rotoli, sia pure con varianti.
Tra la metà dell’XI e la metà del XII secolo nasce invece a Roma una tipologia libraria che è espressione del processo di unificazione dottrinale promosso dalla Chiesa di Roma nel momento di massima elaborazione spirituale e concettuale della riforma gregoriana. L’esigenza di imporre il sacro libro della Bibbia riportato alla sua purezza originale e reso omogeneo nell’allestimento conduce alla creazione di una Bibbia di formato eccezionalmente grande, detto atlantico, studiata preliminarmente nei minimi dettagli, dalla recensione del testo al sistema di scrittura, alla sobria decorazione delle lettere miniate. Sono circa un centinaio le Bibbie di tal genere conservate, principalmente prodotte a Roma e presto diffuse in tutta l’Europa cristiana, vero caposaldo della cultura libraria dell’Europa romanica che accoglie e sviluppa l’eredità carolingia (i modelli per le edizioni romane sono i codici di Tours) e che va visto in relazione all’azione riformatrice, alla ripresa dell’attività degli scriptoria monastici e talvolta al contributo di laici particolarmente influenti alla donazione di testi sacri. L’apparato iconografico è inizialmente limitato al frontespizio tra i due Testamenti e a poche altre intrusioni narrative, mentre negli esemplari più maturi (Bibbia di Santa Cecilia, Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. Lat. 587; Bibbia del Pantheon, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 12958; Bibbia della Biblioteca Medicea Laurenziana, Laur. Edili 125-126) si sviluppano le iniziali figurate o le più ampie vignette. Tuttavia la componente decorativa più caratterizzante è rappresentata dalle monumentali iniziali geometriche che aprono ciascun libro, introducendo nel testo un elemento di alto valore artistico. Le Bibbie italiane rappresentano un veicolo di rinnovamento spirituale nei paesi europei e presto migrano verso il nord, con flussi scanditi nel tempo, nell’Italia settentrionale e nei centri d’Oltralpe, secondo una distribuzione che dobbiamo pensare in larga scala anche soltanto in base ai pochi frammenti superstiti, e senza trascurare il fatto che in diversi altri casi le Bibbie si confezionano localmente sui modelli italiani.
Il repertorio geometrico italiano trapassa nello stile delle diversificate correnti regionali del Nord Europa: così avviene nel sontuoso codice della Vita Martialis confezionato a Limoges alla fine dell’XI secolo (Parigi, Bibliothèque Nationale, Lat. 5296 A) e nel gruppo di opere che è emanazione delle feconde botteghe operanti per l’abbazia di Cluny al culmine del suo splendore durante il governo di san’Ugo. La produzione dello scriptorium cluniacense agli albori del XII secolo è in stretta relazione con lo stile delle contemporanee opere pittoriche, essenzialmente note attraverso il ciclo di Berzé-la-Ville, e sotto l’influsso di modelli di origine o estrazione romana. La maturità espressiva di eredità romana della produzione libraria cluniacense è valutabile soltanto attraverso pochi manufatti, come il lussuoso manoscritto dell’Ildefonsus della Biblioteca Palatina di Parma (cod. 1650) e il Lezionario di Cluny (Parigi, Bibliothèque Nationale, Nouv. Acq. Lat. 2246), che presenta un’illustrazione a piena pagina della Pentecoste il cui schema avvalora il primato della Chiesa di Roma attraverso l’allineamento frontale delle figure di Cristo e san Pietro.
Ben prima della conquista dell’Inghilterra da parte dei Normanni (1066) i contatti tra le due regioni sono già frequenti: in Normandia era particolarmente apprezzata la miniatura della scuola di Winchester, altissimo prodotto artistico dell’Inghilterra anglosassone. I libri realizzati in questo stile, inviati da oltre Manica, esercitano grande influenza su pittura e scultura locali. Nelle abbazie di Fécamp, Jumièges e Mont-Saint-Michel matura un’arte originale che inventa le grandi iniziali ispirate a motivi animalistici della tradizione franca, agli intrecci di influenza celtica e all’ornamentazione naturalistica di origine romano-bizantina. Dal capolettera ornato che serviva a segnare, oltre la valenza decorativa, le varie parti di uno scritto, i miniatori normanni operano il passaggio all’iniziale istoriata, dove prendono vita in mezzo al fogliame creature di fauna naturale o fantastica e figure umane. Il decennio 1090-1110 segna l’apogeo della miniatura normanna, il cui stile si diffonde rapidamente in Inghilterra, dove Guglielmo I attira nella sua cerchia le autorità religiose più elevate dell’epoca. I Normanni aggiornano le biblioteche dei centri monastici inglesi portando testi patristici e commentari biblici copiati in monasteri della patria, decorati con iniziali fantasiose. Le locali fondazioni benedettine si pongono immediatamente all’avanguardia nella produzione dei libri e nell’illustrazione, oltre che nel perseguimento dell’erudizione. I monasteri di St Albans, Canterbury, Winchester, producono salteri, commenti alle Scritture e una serie di grandi Bibbie abbondantemente illustrate, con iniziali arabescate e scene in forma narrativa sull’intera pagina. I caratteri tipici dell’illustrazione normanna si rintracciano tuttavia proprio nella predilezione per le iniziali miniate, nelle quali figure umane, animali e vegetali, adattati alla forma delle lettere, si piegano a creazioni fantastiche. Una pittura di carattere narrativo si ha invece nel corso del XII secolo: l’esempio più importante di tale nuovo sviluppo è rappresentato dal Salterio di St Albans (Hildesheim, St. Godehardskirche), che contiene 42 illustrazioni a piena pagina e oltre 200 iniziali a soggetto narrativo, dipinte poco dopo il 1123 in colori ricchi e vividi. Ancora apertamente bizantino è lo stile della Bibbia di Bury (Cambridge, C.C.C., 2), dipinta nel 1135 per l’abbazia di Bury St Edmunds nel Suffolk da maestro Hugo, priore e sacrista ma anche scultore e fonditore, riconosciuto autore delle valve bronzee del portale principale dell’abbazia.
A Winchester, durante gli anni dell’abbaziato del vescovo Enrico di Blois, fratello di re Stefano, vengono eseguiti codici di grande importanza, quali ad esempio il Salterio di Winchester, miniato prima del 1161 (Londra, British Library, Cott. Nero C. IV), e la Bibbia di Winchester (Cathedral Library), del 1150-1180, imponente libro completo delle Sacre Scritture e dei libri apocrifi redatto da uno scriba su oltre 400 fogli di pergamena costellata da numerose iniziali, che vede all’opera nell’arco di 20 anni sei pittori, due dei quali con una diretta conoscenza dei mosaici siculo-normanni.
In Italia i Normanni introducono libri attraverso le fondazioni benedettine alleate nell’opera di latinizzazione del meridione d’Italia greco-ortodosso e musulmano. Ma i testi non sono solo sacri: una versione illustrata delle Metamorfosi di Ovidio (Napoli, Biblioteca Nazionale, ms. IV F 3) è realizzata probabilmente a Bari tra la fine dell’XI e gli inizi del XII secolo con gli accenti espressivi di un romanzo cavalleresco medievale, da un artista che si misura con l’attualizzazione del testo classico. L’impulso dato da Ruggero II al settore librario è scientifico e intriso di cultura araba: lo dimostrano il Diletto di chi brama girare il mondo di Edrisi o il Liber de locis stellarum di al-Sūfi (Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal, ms. 1036), nelle cui illustrazioni le figure della mitologia astronomica si trasformano in personaggi di chiara impronta orientaleggiante.
La Sicilia normanna appare isolata rispetto alle inclinazioni diffuse nel continente, mentre invece è aperta alle più varie tendenze europee e mediterranee. Un manufatto emblematico della circolazione a vasto raggio di stili e tradizioni è la superba Bibbia di San Daniele del Friuli (metà XII secolo: Civica Biblioteca Guarneriana, ms. 3) che sembrerebbe da attribuire alla Terrasanta, anche se non sono mancate proposte dalla Sicilia alla stessa Costantinopoli latina. Agli scambi continui, comunque, tra il regno normanno-siculo, il continente e il Mediterraneo vanno ascritte le affascinanti mescolanze stilistiche che caratterizzano, fra lo scadere del XII secolo e l’iniziale XIII, gli scriptoria siciliani di Palermo/Monreale e di Messina, quest’ultimo retto dall’arcivescovo inglese Richard Palmer.
L’enclave romanica della diocesi di Liegi compresa nella cornice dell’impero conosce nel XII secolo un prodigioso sviluppo artistico, specialmente rappresentato dalle opere manoscritte: ne è esempio principe la Bibbia in due volumi confezionata dagli scribi Goderan e Ernest e dipinta da quattro diversi artisti nel 1097 per l’abbazia di Stavelot (Londra, British Library). Le illustrazioni della Bibbia di Floreffe sulla Mosa (Londra, British Library, Add. ms. 17738), verso il 1160, mostrano spunti iconografici di chiara costruzione teologica, come l’Allegoria della vita contemplativa evocata attraverso il tema delle tre virtù teologali e dei sette doni dello Spirito Santo messi in diretto parallelo alle tre figlie e ai sette figli di Giobbe.
Un capitolo tra i più interessanti della storia del libro del Medioevo occidentale è rappresentato dalla produzione negli scriptoria della congregazione cistercense, nata al volgere del secolo XI dall’azione riformatrice di Robert de Molesme, propugnatore di un austero dettato spirituale cui dà nuovo impulso san Bernardo di Clairvaux, colui che trasforma l’ordine in una forza veramente nuova nel panorama monastico occidentale, imponendo a una fitta rete di abbazie madri e filiazioni presto sorte in tutta Europa l’osservanza integrale della Regola di san Benedetto, in linea con le istanze rigoristiche e pauperistiche della Chiesa riformata di Roma. Nello scriptorium dell’abbazia madre di Cîteaux, in Borgogna, si elaborano codici con sobri e raffinati inserti pittorici nelle iniziali figurate di ascendenza inglese: sono esempi ormai maturi di questo stile la Bibbia intitolata al terzo abate dell’ordine, Stefano Harding e la versione dei Moralia in Job di Gregorio Magno (entrambi a Digione, Bibliothèque Municipale), quest’ultimo uno dei massimi prodotti della miniatura del XII secolo. I severi principi ispiratori di san Bernardo si riflettono in ogni ambito della creatività cistercense: nella miniatura la disciplinata eleganza conduce in seguito alla formulazione di iniziali in uno stile monocromo aniconico ed essenzialmente vegetale che è la perfetta espressione delle istanze di sobrietà tradotte sul piano estetico con la riduzione ad minimum: l’eliminazione, cioè, del superfluo, affinché del messaggio non rimanga che l’essenza.
L’espressione più alta della sensibilità plastica del periodo ottoniano (936-1002) seleziona i suoi modelli nelle sedi più aristocratiche della creatività medievale, cioè nelle arti suntuarie: è tendenzialmente polimaterica, con una preferenza per il bronzo nel caso di manufatti di elevata committenza, come ben dimostrano l’esperienza pratica assimilata nel campo delle arti fusorie dal vescovo Bernardo di Hildesheim e le opere dallo stesso commissionate per la chiesa abbaziale di Sankt Michael (oggi nel duomo di Hildesheim), vale a dire le valve della porta bronzea e la colonna istoriata con storie cristologiche, memore delle colonne coclidi viste a Roma dallo stesso Bernardo, concepita in funzione di candelabro pasquale.
Gli stucchi rappresentano la soluzione decorativa, di origine tardoantica, cui si ricorre con larghezza a nord delle Alpi (citiamo in proposito gli stucchi del Santo Sepolcro di Gernrode, in Sassonia) e specialmente nell’Italia settentrionale (ad esempio nella chiesa di Santa Maria Maggiore a Lomello e a Civate, presso Como). Il settore della plastica architettonica che riceve nuovo grande impulso nella fase che anticipa il romanico è quello dei capitelli, che talora vede all’opera artefici bizantini (come quei greci operarii che realizzano la serie dei capitelli della Cappella Palatina di Padeborn) per elementi in marmo o pietra che imitano il classico motivo dell’acanto oppure elaborano maschere e figure variamente atteggiate. Intorno all’anno Mille nei territori dell’impero appaiono precoci elementi figurati su portali e facciate, ad esempio a Colonia, in San Pantaleone, dove si pongono nicchie con figure derivate da modelli di statuaria romana o tardoantica, e Ratisbona, dove le figure in altorilievo rappresentanti il Cristo in trono tra sant’Emmerano e san Dionigi decorano il portale della chiesa abbaziale di Sankt Emmeram (1048-1060).
In origine anche le fonti di ispirazione della scultura normanna sulle due sponde della Manica sono i preziosi manufatti dell’arte suntuaria, mentre è scarsamente sentito l’interesse per il rilievo plastico. Sono i grandi abati di origine italiana, Guglielmo da Volpiano, Lanfranco di Pavia, Anselmo d’Aosta, a introdurre nella cerchia dei duchi di Normandia e nei grandi cantieri delle abbazie di Bernay, degli inizi dell’XI secolo, e di Caen della seconda metà, i principi di uno stile ispirato all’antichità, in grado di suscitare attenzione per le manifestazioni scultoree. Alcuni capitelli istoriati del deambulatorio della cattedrale di Rouen o del transetto di Mont-Saint-Michel sono probabilmente opera di scultori itineranti già attivi nei cantieri di Tolosa e Compostela. Quando è ormai completata la conquista dell’Inghilterra (1066), nelle terre oltre Manica comincia lo sviluppo dell’apparato decorativo delle membrature architettoniche, che rapidamente diventa propenso all’esuberanza e sperimenta una decorazione a intrecci che fonde elementi del bestiario fantastico. L’amalgama di forme anglo normanne scandinave e forse estremo orientali illustra la ricchezza degli apporti artistici e l’ampiezza degli scambi con altri popoli europei, all’origine dello straordinario eclettismo dei Normanni.
L’evoluzione dell’arte romanica segue le riforme religiose promosse dai monasteri benedettini, e in modo particolare dall’ordine cluniacense, negli insediamenti dell’Italia settentrionale, della Provenza, della Catalogna e nelle valli del Rodano e della Saona. La scultura, si è detto, fa la sua comparsa sui capitelli, con i primi soggetti narrativi in cui si riconoscono scene tratte dall’Apocalisse, come accade nel grande centro abbaziale di Saint-Benoît-sur-Loire, già Fleury, costruita dall’abate Gauzlin nell’anno Mille, riformata da Cluny e divenuta un fiorente centro di vita e di insegnamento monastico. In alcuni casi i temi ispiratori derivano dal repertorio dei codici miniati: i capitelli del coro dell’abbaziale di Cluny mostrano delicate figure allegoriche cesellate tra le foglie d’acanto, mentre nel deambulatorio (1088-1095) la serie dei capitelli insiste sui temi del paradiso terrestre, sui toni della musica, sulle stagioni, sul tempo divino e sul tempo terreno.
Nella Linguadoca e soprattutto nella capitale, Tolosa, gli sviluppi della scultura romanica si seguono nella collegiata di Saint-Sernin, dove la lastra d’altare scolpita reca la firma di Bernardus Gelduinus, autore anche dei capitelli della tribuna del transetto e di sette grandi rilievi marmorei in cui l’artefice reintroduce gli archetipi figurati paleocristiani. Il cantiere si prolunga fino al primo ventennio del XII secolo, quando viene posto in opera il portale noto come Porte Miègeville, ormai pienamente evoluto, con l’Ascensione di Cristo nella lunetta, la teoria degli apostoli sull’architrave, le figure stanti di san Pietro e san Giacomo. L’opera di Gelduinus prelude alle grandi realizzazioni plastiche realizzate per il santuario di Compostela, a riprova della profonda influenza sulla scultura esercitata dalle vie di pellegrinaggio; nel 1112 sono in opera i due portali, alle estremità dei transetti: sul lato nord la Porta Francigena, in gran parte distrutta, e sul lato sud la Porta de las Platerías. La decorazione scultorea segue le membrature architettoniche delle colonne di marmo scolpite con coppie di figure in sovrapposizione e altre ancora applicate agli stipiti e ai pennacchi. Su una via di pellegrinaggio, sebbene non sulla rotta principale, si pone anche l’abbazia di Santo Domingo di Silos (Castiglia) nel cui chiostro lastre scolpite raffigurano, tra l’altro, Cristo sulla via di Emmaus effigiato come un pellegrino diretto a Santiago de Compostela.
L’urgenza di una comunicazione diretta di immagini simboliche e nuovi temi porta a configurare la facciata come una sorta di frontespizio aperto che si avvia a contenere elementi enciclopedici, iconografie di antico repertorio cristiano (ad esempio la grandiosa visione della Seconda venuta di Cristo sul timpano dell’abbaziale di Moissac), leggende trasmigrate da fonti culturali diverse. A Notre-Dame-la-Grande a Poitiers, ad esempio, la decorazione plastica delle facciate dilaga sull’intera parete, all’interno di numerosi archi con figure e rilievi. Il portale centrale è fiancheggiato da due nicchie e al di sopra scorre sotto forma di fregio una delle più antiche raffigurazioni dell’Albero di Jesse.
Il contributo italiano allo sviluppo della scultura romanica può dirsi estremamente significativo, con decise differenze tra nord e sud. Nel meridione, sotto il dominio dei Normanni, la scultura risente decisamente dell’influenza bizantina; in pietra o marmo essa resta subordinata all’architettura e dimostra i suoi principali referenti nei prodotti delle arti suntuarie che attraverso gli empori di Amalfi e Salerno giungevano negli scali pugliesi. La scultura monumentale propone una fantastica popolazione di animali, dapprima concentrati attorno a colossali capitelli a due zone e, in seguito, moltiplicati sui portali e sulle finestre monumentali, là dove in funzione apotropaica di difensori dello spazio sacro si trovano leoni ma anche buoi o elefanti, come nella finestra absidale di San Nicola di Bari. Più rare le figure antropomorfe, che quando appaiono sono avvinte o schiacciate da ibride creature mostruose; del tutto episodico il ricorso ai soggetti biblici o evangelici.
Talora compaiono figure direttamente derivate dai racconti dell’epopea normanna, con scontri tra cavalieri ricomposti su capitelli a stampella (come nel chiostro di Santa Sofia a Benevento) o una scena tra crociati e Saraceni incastonata fra tralci snodati sull’architrave del Portale dei Leoni nella basilica di San Nicola a Bari. I grandi portali fungono da cornice monumentale a solenni epigrafi dedicatorie: quello principale della cattedrale di San Nicola esaltando il valore dell’Eucarestia si trasforma in uno strumento di affermazione dei principi della Riforma della Chiesa.
Nell’Italia settentrionale è la corrente comasca a imporsi sul finire dell’XI secolo, dando vita a elaborati motivi di ispirazione aniconica fondati su intrecci, fogliami, motivi zoomorfi e inclusioni antropomorfe che già appartengono al mondo fantastico della miniatura e che appaiono a Sant’Abbondio a Como (1080 ca.), Sant’Ambrogio a Milano (1090 ca.) e nel più maturo esempio di San Michele a Pavia (1130 ca.).
In Emilia Romagna si esplica l’attività di Wiligelmo, attivo nell’arco di un trentennio, dalla fine dell’XI al terzo decennio del XII. La sua formazione è da considerare alla luce del programma ideologico unitario della Riforma della Chiesa, nel clima determinato dalla lotta per le investiture e dai preparativi della prima crociata (1096-1099). Collaboratore di Lanfranco alla fabbrica del duomo di Modena (1099-1120), Wiligelmo ne scolpisce il fregio per la facciata con le storie della Genesi tratte dai passi iniziali del Libro, dalla Creazione di Adamo a Noè. Poste su un fregio continuo suddiviso in quattro pannelli esse occupano il frontespizio dell’edificio come una sorta di rotulo didattico o di frontespizio di Bibbia miniata, nei quattro campi a lato del portale. Esse mostrano il percorso dal peccato alla salvezza, con specifico riferimento alla Chiesa/Arca di Noè che incarna il principio salvifico. Il sacrificio di Caino e il suo castigo risuonano come un monito contro fatti contemporanei legati alla chiesa locale (ad esempio i sacerdoti che hanno prestato fede all’imperatore e allo scismatico vescovo di Ravenna). Le quattro lastre con la Genesi si aggiungono a un nutrito insieme di sculture, soltanto in parte attribuibile a Wiligelmo, destinato a incidere sull’intero corpo di fabbrica. Alcuni soggetti traggono ispirazione da episodi contemporanei – il viaggio di san Geminiano per mare verso Oriente allude alla crociata e al rapporto con l’imperatore di Bisanzio – e repertori favolistici, come il ciclo di Artù. Il racconto della Chanson de geste, a opera di Wiligelmo a Modena e di Nicolò nel protiro del duomo di Verona (1140 ca.), proietta da allora sul portale, in chiave cristiana, le imprese epiche del racconto profano.
Nicolò è la personalità artistica che si impone nel secondo quarto del XII secolo, forse con un inizio nel campo della miniatura, non escludendo la sua conoscenza della scultura tolosana. Egli firma quattro monumenti capitali della scultura romanica dell’Italia settentrionale, vale a dire il Portale dello Zodiaco della Sacra di San Michele in val di Chiusa (Torino), delle cattedrali di Ferrara e Verona e della chiesa veronese di San Zeno Maggiore. Si forma in seno alla bottega di Wiligelmo operando a Modena e nella cattedrale di Piacenza una ingegnosa e sensibile ripresa di modelli francesi, ad esempio il tema delle statue-colonna. Il San Giorgio della lunetta del portale maggiore di San Zeno di Verona rappresenta il primo monumento equestre a carattere monumentale del romanico italiano; il vescovo Zeno sulla lunetta del portale dell’omonima chiesa veronese è anch’egli affiancato da cavalieri e fanti; i paladini Orlando e Oliviero (il primo identificato dall’iscrizione Durindarda incisa sulla spada) vengono rappresentati sempre a Verona sul protiro della cattedrale (1139 ca.) ma anche ai lati del Portale dei Mesi di Ferrara. Un corredo epigrafico di contenuto retorico, moraleggiante e didattico fornisce ulteriore supporto alla concettosità dei programmi scultori, celebrando infine i committenti e l’artefice attraverso l’apposizione di dediche e firme.
La scultura francese è molto più strettamente legata ai temi dell’architettura, a partire dai primi esempi di decorazione plastica dei portali che si pongono come premesse di ciò che nel secolo successivo viene sviluppato nei più grandi insiemi del genere in Europa. La Porte des Comtes (1080 ca.) nel transetto meridionale di Saint-Sernin a Tolosa mostra un articolato programma iconografico per lo più concentrato sui capitelli delle colonnine degli strombi e alludente ai temi contrapposti di dannazione e redenzione; anche il sostegno posto a metà dell’architrave diventa campo per la decorazione plastica. I programmi comprendono le apparizioni del Signore, unite talora a riferimenti all’Apocalisse e al Giudizio Finale, in altri casi in forma di teofanie che riassumono l’ordine del cosmo. Tali scene si ergono sui grandi timpani di Vézelay (1125-1130), Saint-Lazare d’Autun (1120-1130, o 1130-1140) o di Saint-Pierre a Moissac (1120-1135). Sulla facciata della cattedrale di Saint-Lazare di Autun, all’interno di una profonda nicchia, i segni dello Zodiaco si alternano ai Lavori dei mesi, come nel protiro centrale della cattedrale di Piacenza, dove la raffigurazione zodiacale, insieme ai Venti, al Sole, alla Luna, borda l’arcata della volta inferiore.
Alla metà del XII secolo la monarchia francese crea e impone in Europa il nuovo modello di cattedrale, principale espressione della Chiesa docente in rapporto alla cristianità nonché edificio in cui si addensano le valenze estetiche dettate dalla speculazione teologica. L’edificio cardine di tale sviluppo è la ricostruzione dell’atrio e del coro della chiesa di Saint-Denis attuata nel breve giro di anni (1135 ca. - 1145) sotto la guida dell’abate Suger, consigliere di Luigi VI e suo reggente negli anni della seconda crociata (1147-1149), e da lui commentata in testi che sono alla base della decifrazione dei contenuti teologici delle cattedrali di questo periodo. Il progetto di Suger coniuga l’esigenza di ornare degnamente la casa di Dio – a partire dal portale, luogo fisico dell’introitus – alla necessità di organizzare tale ornato secondo uno schema distributivo funzionale alla migliore individuazione da parte dell’osservatore. Chiarezza dell’ornato e sottigliezza del dettaglio scaturiscono dal buon funzionamento del cantiere, inteso come una grande macchina collettiva che vede la stretta connessione tra committente-architetto e scultori. I tre portali della facciata di Notre-Dame di Chartres risalgono al periodo compreso tra 1145 e il 1155 e vanno considerati come un unitario complesso decorativo, con un programma molto articolato concepito dai dotti maestri della scuola della cattedrale di Chartres, in particolare quel Teodorico che ricopre a lungo l’incarico di cancelliere della scuola. Negli strombi si innalzano le statue-colonna con le figure dei precursori di Cristo, la cui vita è illustrata sui capitelli e sui timpani delle porte laterali, dall’Infanzia, a destra, all’Ascensione a sinistra. La Vergine, patrona della cattedrale, troneggia nella zona superiore del timpano dell’Infanzia, nei cui archivolti è simboleggiata la conoscenza intellettuale, mentre il Calendario e la Vita quotidiana appaiono su quelli del portale di sinistra. Nella lunetta centrale, Cristo e la sua Chiesa trionfano nella visione dell’Apocalisse.
In Provenza la scuola romanica emerge nel terzo quarto del XII secolo con i rappresentativi esempi di Saint-Gilles-du-Gard e del chiostro di Saint-Trophime ad Arles. Ne traspare una forte dipendenza dall’arte romana e contemporaneamente una stretta relazione con la scultura prodotta in Italia in particolare da Benedetto Antelami. Questi firma per la Deposizione della cattedrale di Parma (datata nel 1178 dallo sculptor Benedictus, detto Antelami), murata nel braccio destro del transetto ma in origine parte di un più articolato complesso di sculture. Anche Antelami agisce all’interno di un composito quadro operativo che prevede l’apporto di maestranze: lo dimostra lo stile dei tre capitelli superstiti con le storie della Genesi e del Libro dei Re connessi all’insieme di cui faceva parte la Deposizione, caratterizzati da una forma particolare, con figurette inquadrate da edicole da doppie arcature, che si trova già impiegata nel Portale dei Re di Chartres, cui rimanda anche il pittorico gusto del modellato. Ciò rende plausibile la permanenza di Benedetto nell’Ile-de-France intorno al 1172-1173, e la conoscenza diretta della nuova “enciclopedia dell’immagine” formatasi nell’ambito della produzione dei grandiosi portali promossa dai sovrani di Francia e dall’abate Suger. Allo scadere del secolo Antelami e la sua bottega danno vita al corredo scultoreo del battistero di Parma (1198), citando il portale occidentale di Chartres nell’elaborare il tema della Presentazione al Tempio della lunetta interna, mentre la stessa figura di Maria Mediatrice fra terra e cielo del portale settentrionale riprende le analoghe figure di Chartres e di Notre-Dame. Il battistero appare strettamente fasciato da rilievi improntati questa volta a una totale uniformità esecutiva. Sono da ascrivere al programma di Benedetto le sei lunette dei portali interni ed esterni, per le quali egli si avvale di pochi aiuti rielaborando le esperienze francesi in uno stile sublimato e aulico che evoca i principi della scultura romana imperiale. Nelle scelte iconografiche attuate nel battistero è stata letta una cosciente adesione al programma che avversa l’eresia Catara dilagante nel sesto decennio del XII secolo, mediante l’insistenza sul tema della divinità di Cristo e sul tema del Giudizio, la remissione dei peccati attraverso le opere di misericordia e la dannazione per coloro che non si pentono. Gli stessi temi sembrano riferibili a una invenzione narrativa messa a punto con precise funzioni antiereticali anche nel programma del portale della cattedrale di Borgo San Donnino (Fidenza).
Un ambito privilegiato per le espressioni plastiche dell’età romanica è il chiostro degli ambienti monastici, luogo destinato allo svolgimento di particolari temi iconografici: scene vetero e neotestamentarie, bestiari, episodi mitologici e profani, rappresentazioni ispirate ai principi della regola monastica, normalmente distribuiti sui capitelli e sulle parti interne dei sostegni angolari. Le testimonianze più precoci si hanno nelle regioni attraversate dalle vie di pellegrinaggio verso Compostela, vale a dire l’Aquitania e i Pirenei. Il chiostro di Saint-Pierre a Moissac (1085-1100 ca.) presenta un folto insieme di capitelli istoriati oltre alle rappresentazioni a figura intera di apostoli disposti sui pilastri d’angolo degli ambulacri, esempio tra i più antichi di una tipologia di scultura ornamentale che si diffonde nella Francia meridionale con qualche ripresa (Santo Domingo de Silos) in Castiglia. Nei chiostri francesi della seconda metà del XII secolo si inaugura il modello della statua-colonna desunto dai portali protogotici. Lo stile provenzale, tramandato dalle sculture del chiostro di Saint-Trophime ad Arles, trova echi fino alla Sicilia normanna nei chiostri di Cefalù (1160 ca.) e Monreale (1180 ca.). Il gusto cosmopolita delle sculture siculo-normanne ha contatti con l’ambiente crociato della Terrasanta (cantiere della basilica del Santo Sepolcro) e coinvolge contemporaneamente la Toscana, la Provenza, il Roussillon e l’arco costiero che va fino alla Catalogna. A Monreale oltre duecento colonnine marmoree a fusti lisci o decorati con incrostazioni musive o, ancora, scolpiti con motivi vegetali popolati da putti e animali, sorreggono altrettanti capitelli a coppia, caratterizzati da un predominante ornamento vegetale stilizzato arricchito dai più vari inserti figurati, ma anche dai più rari capitelli istoriati con il ciclo dei mesi e la dedica del monastero da parte di Guglielmo II, oppure da episodi del Vecchio e Nuovo Testamento disposti senza apparente ordine consequenziale e, forse, come è stato suggerito, per questo assimilabili a esempi di valenza simbolica o moraleggiante.
L’Europa delle cattedrali produce vetro colorato istoriato in vasta scala, in ragione dell’elevata specializzazione dei procedimenti tecnici e in relazione agli sviluppi dell’architettura gotica, che prevede finestrati ampi, molto più adatti ai sottili e lucenti diaframmi policromi di quanto non fossero le aperture degli edifici romanici.
Tuttavia è proprio negli edifici romanici della Francia e della Germania che la vetrata istoriata si sviluppa, evidentemente non soltanto in rapporto con l’architettura. La diffusione di questa particolare tipologia ornamentale delle chiese va ricercata in primo luogo nella capacità di divulgare efficacemente programmi iconografici rispondenti al dettato del committente colto, possibilmente pianificati con il concorso del patrono laico e comunque essenzialmente rivolti al pubblico dei fedeli. Lo sforzo di elaborazione creativa compiuto nel XII secolo stabilisce formule valide per il futuro, imponendo grandi personaggi per le finestre alte (re biblici, patriarchi, apostoli, santi), composizioni di impianto monumentale ispirate agli episodi salienti del Nuovo Testamento, la successione di storie evangeliche, agiografiche o le concordanze fra Antico e Nuovo Testamento impaginate entro vetrate a medaglione. Un soggetto privilegiato è quello della Vergine, frequentemente rappresentata nelle scene della vita, morte e incoronazione; la sua immagine, in ambito francese, non di rado è simbolicamente identificata con il trono di Salomone. Immancabile è l’Albero di Jesse (Isaia 11, 1-3), motivo che conosce un grande sviluppo a partire dall’XI secolo, strettamente associato al concetto di monarchia terrena e celeste, e inteso come albero dell’ascendenza aristocratica di Cristo: significativamente l’abate Suger di Saint-Denis destina a questa figura la vetrata assiale del coro. Gli impaginati delle vetrate circolari a forma lobata o a rosa possono ospitare gli onnipresenti soggetti enciclopedici dell’arte romanica, temi solo apparentemente profani giacché rientrano nel discorso generale sul Creato, sull’uomo e sul suo destino nell’ambito della storia della Salvezza. Altri spunti derivano dalla cultura contemporanea e dagli eventi politici. Le crociate, le lotte contro le eresie, la polemica antisemita, il primato della Chiesa, della sede arcivescovile o dell’autorità imperiale, le vicende relative alle traslazioni delle reliquie sono tutti soggetti recepiti e prontamente registrati nei programmi iconografici, tanto più nell’arte vetraria, che non è meno soggetta, rispetto ad affreschi e mosaici, alle inclinazioni dei committenti e dei patroni e alle funzioni di propaganda da essi suggerite.
Malgrado le perdite e le manomissioni subite nel tempo, quanto rimane delle vetrate istoriate di Saint-Denis rappresenta il nucleo più ricco e rappresentativo dell’arte vetraria del XII secolo, con un sicuro ancoraggio cronologico alla fabbrica patrocinata dall’abate Suger tra il 1140 e il 1147. Quanto egli evoca attraverso i suoi scritti consente di cogliere nel programma decorativo la potente azione creatrice della sua forte personalità politica e spirituale: l’originalità del messaggio iconografico, la scelta della costosa e difficile materia, l’ambizione di raggiungere risultati di preziosa raffinatezza fino ad allora propri delle arti suntuarie, il reperimento delle migliori maestranze che l’intero orizzonte latino potesse offrire. Il risultato doveva tenere in massima considerazione l’estetica della materia e il culto della luce, fondato su basi religioso-filosofiche. L’eco è immediatamente percepita in Francia, nella cattedrale di Chartres (1150-1155) e nell’eccezionale gruppo delle vetrate di Le Mans, Angers, Vendôme e Poitiers. La grandiosa vetrata della Crocifissione di Poitiers, probabilmente dono di Enrico II il Plantageneto ed Eleonora d’Aquitania tra il 1162 e il 1175, è un’espressione di puro horror vacui accompagnato ai più potenti accordi cromatici che si potessero all’epoca ottenere. Al tramonto del XII secolo i tre piani sovrapposti di finestre invetriate con il tema della Gerusalemme Celeste nell’abbaziale di Saint-Remi di Reims (1162-1181) sviluppa in senso ormai gotico e monumentale le premesse regionali.
Tra i primi esempi di vetrata rinvenuti in Inghilterra si pongono i superstiti pannelli con serie iconografiche che comprendono il Giudizio universale e vite di santi fatti eseguire dall’arcivescovo Roger di Pont-l’Evêque per la cattedrale di York, che mostrano elementi comuni con gli analoghi manufatti prodotti nel nord della Francia ma anche stretti rapporti con le arti suntuarie e le miniature inglesi. Il gruppo delle vetrate del coro e del transetto orientale della cattedrale di Canterbury, datato al 1176-1180, costituisce l’insieme più cospicuo conservato oltre Manica, realizzato sotto la guida di un capomastro francese, Guillaume de Sens, e dell’inglese William.
In Germania Gherlacus è l’artefice delle vetrate dell’abbazia premostratense di Arnstein an der Lahn (ora a Münster, Westfälisches Landesmuseum) che si firma e si ritrae mentre prega il Signore invocato come rex regum; restano alcuni pannelli relativi a cicli della Vita di Mosè e del patriarca Jesse, oltre alla scena di Cristo tra i sette doni dello Spirito Santo, espressi in un linguaggio fitto di motivi riempitivi.
Un caso peculiare nell’ambito dell’intera produzione vetraria europea è rappresentato dalla negazione dell’esuberanza iconica e coloristica propria di questo particolare medium artistico da parte degli abati cistercensi. Anche la vetrata rispecchia il rigorismo proprio dell’ordine, fedele al dettato di san Bernardo: la superficie vitrea resta così bianca, decorata a grisaille con sottili trame di motivi fitomorfi stilizzati o geometrici, monocrome e perfette, perché tracciate secondo rigorosi rapporti matematici modulari, soprattutto rispondenti al principio della facilità operativa e della disciplinata bellezza.
La maggior parte delle immagini raffigurate sui rivestimenti musivi pavimentali è riconducibile a tre grandi filoni tematici: raffigurazioni testamentarie, illustrazioni dal repertorio enciclopedico geografico o cosmogonico e motivi tratti dalle raccolte dei bestiari.
Nel primo caso si tratta di immagini di personaggi biblici che prefigurano il Nuovo Testamento: Adamo ed Eva, Giona, Sansone, Davide. L’esempio tra i più significativi è senza dubbio quello che proviene dall’iconografia destinata alla zona absidale del duomo di Otranto (1163-1165), dove figure dei precursori di Cristo insieme ad animali reali e fantastici entro medaglioni, partecipano a una grandiosa messa in scena pianificata in ogni dettaglio sulla base di fonti cristiane e profane, occidentali bizantine e arabe, sui Vangeli canonici e apocrifi, il Physiologus latino, il Romanzo di Alessandro e la narrazione delle gesta di re Artù.
Nel secondo gruppo tematico si trovano personificazioni dei mesi dell’anno e dei segni dello zodiaco, delle quattro stagioni, dei punti cardinali, dei venti, dei pianeti, degli elementi o delle arti liberali: è esemplare il caso del duomo di Aosta (XII secolo), dove domina all’interno di un grande campo circolare la visione cosmografica dominata dalla personificazione dell’Anno con il Sole e la Luna, i dodici Mesi e i Fiumi del paradiso. Nel mosaico di San Salvatore a Torino troviamo una delle prime mappae mundi medievali, resa con un cerchio inscritto in un quadrato, circondata dalle figurazioni dei venti, dell’oceano, delle isole e degli animali che riassumono le diverse specie, quasi citazioni letterali dalle Ethymologiae e dal De natura rerum di Isidoro di Siviglia.
Quanto alle composizioni basate sui bestiari, siamo nel campo di raffigurazioni di ampio utilizzo, per lo più tratte da raccolte enciclopediche e favolistiche che collezionano esempi di utili messaggi didattici, allegorici e moralizzanti, su cui molto si basa anche l’omiletica medievale. Già gli insegnamenti morali di sant’Ambrogio incitavano a glorificare l’onnipotenza del Creatore che ha dato vita alla grande varietà degli animali la cui condotta istruisce l’uomo; nel pieno Medioevo anche l’accentuazione del dato fantastico può essere messa in relazione alla volontà di ammirare l’infinita opera creatrice di Dio. A Ganagobie, nell’alta Provenza, il più vasto mosaico medievale della Francia (1122-1126) presenta presso il coro teorie di animali reali e fantastici, alcuni dei quali richiamano i segni dello zodiaco, mentre nelle absidi laterali l’eterna lotta del Bene contro il Male, che simboleggia il cristiano alle prese con le forze sataniche, è sintetizzata nelle scene di cavalieri combattenti, uno contro un drago, l’altro in atto di trafiggere un satiro.
All’infuori delle grandi tematiche figurative vi è poi una corrente che continua a privilegiare le stesure aniconiche e geometrizzanti già sperimentate per la loro sobria efficacia ornamentale nell’alto Medioevo, la cui area di diffusione è in particolar modo il litorale adriatico. Nella laguna veneta si produce una serie omogenea di pavimenti sia a mosaico che in opus sectile (tarsie di lastre marmoree policrome), sebbene con una predominanza della prima sulla seconda tipologia. Il pavimento più importante, anche se molto restaurato, è da riconoscere nel rivestimento a diversi pannelli figurati esclusivamente con soggetti animali che associa il mosaico all’opus sectile nella basilica di San Marco.
Non di rado il corredo epigrafico che accompagna le immagini rende testimonianza del ruolo dell’artista e del suo committente, secondo una consuetudine antica, tramandata tanto nell’Occidente romano quanto (e soprattutto) nell’Oriente bizantino. Il mosaico di Aqui, oggi nel Museo di Torino, è donato dal vescovo Guido (1067); a Otranto lo straordinario pavimento celebra il dono di Gionata, arcivescovo della città, e la realizzazione del prete Pantaleone del quale si dice che ha superato degnamente l’idea iniziale; nella chiesa del priorato francese di Ganagobie viene specificato che il priore Bertrand è il committente dell’opera mentre Pierre Trutbert – forse l’operarius, il soprintendente ai lavori – ne sollecita l’esecuzione.
Una situazione del tutto peculiare caratterizza Roma e le aree di stretta influenza culturale, dove è prevalente il gusto della decorazione in opus sectile e il ricorso al marmo rimane imprescindibile per l’immagine retrospettiva dello splendore romano; così nell’Urbe, ma anche in Campania, sotto l’influenza degli abati di Montecassino, e nella Sicilia dei sovrani normanni. Per la navata centrale si utilizzano dischi di porfido imperiale uniti tra loro da anelli, a sottolineare il percorso processionale che conduce il fedele dalla facciata all’abside; il punto di incrocio fra la navata e il coro è segnato da una grande rota porfiretica e poi prosegue con una seconda fila di cerchi. È verosimile supporre che la nuova concezione romana del tessellato marmoreo abbia una funzione nella coreografia liturgica: nella grande rota porfiretica della navata di San Pietro in Vaticano, durante il cerimoniale dell’incoronazione imperiale, si fermano in preghiera lo stesso futuro imperatore e un cardinale vescovo; così nella cerimonia dell’incoronazione papale il pontefice prega super rotam pavimenti. Alla specifica tipologia dell’opus sectile medievale è collegato il fenomeno del recupero e della rilavorazione del materiale antico. A Montecassino le maestranze bizantine chiamate dall’abate Desiderio realizzano un pavimento con motivi ad andamento centripeto servendosi dei marmi policromi che lo stesso abate si procura a Roma. A Roma l’esempio più precoce può forse scorgersi nella chiesa di Santa Cecilia in Trastevere (1073 ca.), di cui lo stesso Desiderio è cardinale e promotore di interventi di ripristino; di fatto, a partire dal pontificato del riformatore Pasquale II si fa un utilizzo dell’opus sectile in larga scala e con risultati di sorprendente maturità stilistica, come dimostrano le navate dei Santi Quattro Coronati e di San Clemente. La continuità delle botteghe romane specializzate nella rilavorazione del marmo si mantiene fino al XIII secolo, dando luogo alla cospicua serie di opere dette “cosmatesche”, dal nome di una delle diverse famiglie di marmorari dell’Urbe.