I programmi figurativi della cristianita in Oriente
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nell’Impero romano d’Oriente l’arte sacra assolve alla funzione ben precisa di elevare lo spirito dell’uomo verso la realtà divina, aiutandolo nel processo di liberazione dalla sua natura materiale. Questo fine, che è anche lo scopo ultimo della vita umana, si concretizza in tutte le forme artistiche: dall’architettura alla pittura, dall’arte applicata alla scultura. Tuttavia l’avvento del periodo iconoclastico tra l’VIII e il IX secolo condizionerà in modo determinante la storia, la religiosità, la cultura bizantine e del mondo ortodosso con la condanna dell’arte figurativa sacra, colpevole di idolatria.
“Il fedele che contempla la rappresentazione della vita di Cristo nella chiesa è santificato, benedetto, ricolmato di gioia e l’immagine silenziosa gli offre un modello da imitare”. Così Giovanni Damasceno sembra riassumere quello che è stato considerato il fine supremo dell’esistenza dell’uomo bizantino: il superamento della natura materiale e peccaminosa e l’aspirazione al divino. Non solo la fede nella discesa di Cristo sulla terra colma di letizia e speranza il cuore del credente bizantino, ma anche la partecipazione al rituale ecclesiastico dà adito a ciò, consentendogli già durante l’esistenza terrena la comunione con Dio; attraverso la preghiera può accostarsi a Lui elevando la sua anima. Se il culto è per i bizantini il principale anello di congiunzione fra il mondo terreno e l’aldilà, l’arte, nella misura in cui ne è parte integrante, deve adempiere la stessa funzione: “Vidi l’immagine di Dio e la mia anima fu salva”. Allo stesso modo delle Scritture e della liturgia, ma in una maniera più immediata ed emotiva, l’immagine conduce il fedele verso la sua realizzazione spirituale. Bisanzio, come vedremo, sa elaborare uno stile proprio assorbendo in eguale misura sia il sensualismo antico, che le primitive tendenze espressionistiche dell’Oriente. Conservando sostanzialmente l’antropomorfismo ellenistico, Bisanzio lo arricchisce di un nuovo contenuto spirituale che esprime l’essenza del cristianesimo orientale. A Bisanzio l’arte cessa di essere oggetto di una percezione puramente sensoria, quale è stata quella del mondo antico e si trasforma in uno strumento potente d’influenza religiosa, destinato ad allontanare il credente dal mondo materiale per introdurlo a quello trascendentale. Al seguito dell’ufficializzazione del cristianesimo quale religione di Stato e della nomina di Costantinopoli a capitale dell’impero romano d’Oriente, la Chiesa accoglie quasi interamente il linguaggio dell’arte classica associandosi inevitabilmente al glorioso passato romano e ai tempi in cui l’imperatore, diretto predecessore del basileus bizantino, domina il mondo. Non essendoci pervenute a Costantinopoli decorazioni figurative parietali cristiane databili ai secoli IV e V, è opportuno spingerci verso la regione centrale dell’Impero d’Oriente per trovare i principali mosaici bizantini di epoca alta. Salonicco, la seconda città dell’impero, il centro artistico ed intellettuale più importante dopo Costantinopoli per tutto il Medioevo, conserva alcune tra le più antiche testimonianze musive, dove le aspirazioni cristiane e bizantine si alleano armoniosamente con le forme della bassa antichità. Nella Rotonda di San Giorgio (la rotonda-mausoleo di Galerio trasformata in chiesa tra la fine del IV e l’inizio del V sec.) il sommo della cupola accoglieva Cristo trionfante tra gli apostoli e i profeti, mentre sotto martiri oranti campeggiavano sullo sfondo di architetture ellenistiche. La continuità di rapporto con la tradizione classica è evidente anche nella struttura compositiva e nel naturalismo che pervade il mosaico absidale di Hosios David, eseguito verso la fine del V secolo: un Cristo, giovane e imberbe, glorificato entro un grande clipeo siede sull’arcobaleno e leva la mano destra nel segno del trionfo, affiancato dai simboli degli evangelisti, mentre Ezechiele e Abacuc assistono alla teofania in atteggiamento di reverente timore.
Nel VI secolo, in un tempo in cui si aspira a ricostituire l’Impero romano nella sua integrità politica e spirituale, Giustiniano, proclamandosi “legge vivente e rappresentante di Dio in Terra”, elabora un’ideologia monarchica di tipo teocratico, tendente ad unificare nelle mani dell’imperatore autorità religiosa e potere politico. L’estesa propaganda volta ad accrescere la gloria dell’imperatore, il consenso intorno alla sua persona ed all’istituzione imperiale, è da Giustiniano protratta nel programma artistico di cui si fece promotore, destinato a suggestionare sia gli intellettuali che la folla. Ne sono un esempio eloquente i perduti mosaici della Chalké, la porta-vestibolo che introduceva al palazzo imperiale, che celebravano la renovatio imperii giustinianea con al centro le figure di Giustiniano, Teodora e della schiera senatoria, affini a quelli del presbiterio di San Vitale a Ravenna. Di età protobizantina ci sono giunti unicamente i mosaici pavimentali, frammentari, dei porticati di un peristilio del Grande Palazzo imperiale, attribuiti al VI secolo. Le vivaci figure, esempi aulici di quell’arte profana che fioriva presso la corte imperiale bizantina, nella resa plastica e nel raffinato uso del colore si collocano in continuità sia con la cultura figurativa ellenistica che con l’impressionismo tardoantico ancora vitali nella capitale giustinianea. La piena adesione degli ambienti elitari costantinopolitani alla cultura ellenistica, è confermata dallo straordinario codice ora a Vienna del De materia medica di Dioscoride (Med. Gr. I), eseguito durante il primo decennio del VI secolo su commissione di Anicia Giuliana. Il Dioscoride è uno tra i più sontuosi manoscritti scientifici illustrati protobizantini, oltre ad essere il primo documento conosciuto della pittura aulica della capitale.
Dopo la sua stabilizzazione, il cristianesimo necessita di un’arte che incarni i principali dogmi religiosi, che diventi strumento di propaganda cristiana e che pertanto abbia un contenuto programmatico, didascalico e precettistico. Le forme tendono sempre più all’astrazione, esprimendo gli ideali trascendenti del cristianesimo orientale. I bizantini del VI secolo si volgono all’impressionismo, in quanto sistema pittorico più immateriale, per ottenere la massima spiritualità dai soggetti rappresentati. L’immagine e la Chiesa stessa operano parallelamente, mirando alla trasfigurazione dell’uomo al fine di permettergli di elevarsi fino a Dio. Il rituale liturgico rappresenta non solo la vita terrena di Cristo, ma l’intera storia della Salvezza, dall’incarnazione alla redenzione, muovendo da una dimensione terrena ad una divina, così come il programma decorativo delle chiese, nel nostro caso specifico del VI e VII secolo, il quale conserva ed esplica al meglio il significato e l’importanza dell’arte, appunto, nella concezione bizantina della Salvezza. La chiesa è considerata fin dagli inizi come un microcosmo che riproduce il Regno di Dio, ed ugualmente percepita come l’immagine dei principali loca sancta di Gerusalemme. Non dimentichiamo che proprio al VI secolo risale il celebre pavimento musivo di Madaba in Transgiordania, raffigurante una mappa della Terrasanta con le principali città e monumenti, testimone di come, fin dai primi secoli, il territorio palestinese avesse acquisito particolare valenza legata proprio ai luoghi cristologici. A tale proposito è opportuno menzionare, inoltre, una particolare categoria di oggetti di devozione popolare appartenenti alla cultura siro-aramaica, le ampolle della Terrasanta, le cui decorazioni non erano che riflessi dei programmi figurativi delle chiese e testimoni delle relative varianti iconografiche presenti nel Vicino Oriente cristiano. Il gruppo più importante che ci è giunto è formato da quelle del tesoro della cattedrale di San Giovanni a Monza e dagli esemplari frammentari di San Colombano a Bobbio, databili al VI secolo e decorati con croci, episodi della vita di Cristo o con la Theotokos, in maestà entro clipeo e con iscrizioni in lingua greca che incorniciano l’immagine centrale.
In quanto microcosmo, la cupola simboleggia il cielo e sovente è decorata con una croce, d’oro o gemmata, simbolo del trionfo del Salvatore che annuncia anche la sua Seconda Venuta (Mt. 24, 30), oppure dal monogramma di Cristo, o ancora dall’agnello, vietato in seguito dal concilio Quinisesto (692). L’abside davanti alla quale si svolge l’ufficio eucaristico è un riflesso del mondo intelligibile, il luogo della teofania, pertanto vi si rappresenta l’essenziale del dogma. Di provenienza costantinopolitana per alcuni, siriana per altri, i maestri operanti per committenza sul mosaico absidale del Monastero di Santa Caterina sul Sinai (565-566 ca.), raffigurarono sulla calotta absidale la Trasfigurazione. Nel VI-VII secolo, Cristo appare circondato da angeli, apostoli, santi, simile a un regnante in trono tra i dignitari della sua corte. Significativo al riguardo il mosaico di fine VI secolo nel crisotriclinio del Grande Palazzo, che, collocato al di sopra del trono dell’imperatore, raffigurava Cristo in gloria in veste di supremo reggitore dell’impero cristiano.
Dopo il concilio di Efeso (431) che riconobbe Maria come Theotokos, cioè Madre di Dio, Ella è talvolta rappresentata con il Bambino nella conca absidale. Così in due chiese cipriote, nella Panagia Kanakariá di Lythrankomi (VI sec.) dove è seduta in trono e tiene il Bambino nell’asse del proprio corpo, e nella Panagia Angeloktistos a Kiti (VI o VII sec.) dove la Madre tiene il Bambino sul suo braccio sinistro secondo il tipo dell’Odighitria. Fra gli altri mosaici che celebrano la Vergine sulla calotta absidale ricordiamo quelli della basilica Eufrasiana di Poreč (Parenzo), dove Maria troneggia con il Bambino, mentre Cristo assiso sul globo dell’universo in mezzo ai dodici apostoli è raffigurato al di sopra, sull’arco trionfale. La navata, invece, considerata immagine del mondo sensibile e terrestre, era adornata con scene dell’Antico e del Nuovo Testamento, disposte cronologicamente. In epoca preiconoclasta, si sceglievano soprattutto gli avvenimenti evangelici che venivano interpretati come teofanie o vittorie di Cristo, quali per esempio la Natività, la Visitazione, il Battesimo, la Trasfigurazione, l’Ascensione, e più raramente i cicli dei miracoli e della passione. A tale proposito ricordiamo il ciclo evangelico dei Santi Apostoli a Costantinopoli eseguito al tempo di Giustino II, e del quale Costantino Rodio e Nicola Mesarite ci hanno lasciato delle descrizioni approssimative. Anche gli affreschi della Chiesa Rossa di Peruštica in Bulgaria, datati al VII secolo, documentano lunghi cicli narrativi includendo sia scene dell’Antico e del Nuovo Testamento, che scene agiografiche.
Dalle fonti apprendiamo quanto fosse varia ed estesa la tematica della pittura monumentale costantinopolitana preiconoclastica. Nel caso della chiesa giustinianea di Santa Sofia, uno degli edifici sacri più importanti della capitale bizantina, la decorazione inizialmente era totalmente aniconica, preannunciando quello che sarebbe stato di lì a poco il programma decorativo iconoclastico: motivi floreali, girali, stelle, motivi geometrici e croci rivestivano uniformemente le superfici parietali e quelle delle volte. Un repertorio ornamentale che sembra essere stato concepito come complementare negli effetti a quello dell’impiego dei marmi, a prefigurare cioè una visione di paradeisos, luogo di salvezza. Solo successivamente con Giustino II le immagini antropomorfiche verranno introdotte a decoro della chiesa. Il mosaico parietale figurato con soggetto cristiano è tuttavia documentato nella capitale da un importante brano musivo scoperto nella chiesa bizantina divenuta in seguito la Kalenderhane Camii. Datato fra il tardo VI e l’inizio del VII secolo, rivela ancora una volta la vitalità delle tendenze figurative di matrice ellenistica. Sovente venivano rappresentati negli edifici di culto, sulla base delle numerose dispute cristologiche che imperversarono ovunque nell’impero fin dai primi secoli cristiani, e soprattutto in Oriente dove proliferarono in vere e proprie eresie, anche la serie di concili ecumenici che, da quello di Nicea (325) che dichiarava il Figlio consustanziale al Padre, a quello di Calcedonia (451) che definiva il Cristo come “unico in due nature”, divina e umana, andavano definendo la dottrina religiosa. Così nella chiesa della Natività di Cristo a Betlemme (680-724) sei concili vennero raffigurati sulla parete meridionale. Tale scelta che richiama, tra l’altro, il dogma fondamentale sulla natura di Cristo si spiega facilmente in una chiesa costruita sul luogo della sua nascita. Architetture dipinte allusive a modelli di chiese si susseguono, intervallati da un sontuoso decoro vegetale che consiste in vasi sovrapposti ornati da fiori e foglie stilizzati, motivo, questo, diffusosi anche in ambiente musulmano, e in particolare sia nella Cupola della Roccia a Gerusalemme (691), che nella Grande Moschea di Damasco (705-711). In genere il ciclo dei concili raffigura delle riunioni di vescovi capeggiate dall’imperatore, come si vedeva già nel VII secolo nel palazzo imperiale e nell’VIII secolo nel piccolo edificio del Milion collegato al Palazzo Sacro.
A Salonicco, la basilica di San Demetrio si distingue, invece, per uno specifico programma decorativo composto in gran parte di ex voto, successivi alla prima metà del VII secolo. I più antichi pannelli musivi della serie dedicati a san Demetrio, come quello in cui il santo taumaturgo è rappresentato nella posa dell’orante e venerato da due committenti (fine VI - inizio VII sec.), recano testimonianza di un’attiva scuola locale in cui traspare ancora un forte rimando alla tradizione ellenistica, e di una tipologia assai prossima alla pittura d’icona. Questo proprio quando l’uso devozionale, liturgico e cerimoniale del dipinto sacro su tavola si diffonde e si radica nell’immaginario collettivo. L’icona, immagine sensibile mediante la quale l’uomo appunto si innalza alla divina contemplazione, diviene guida degli eserciti, agendo come presenza protettrice nella difesa delle città, intervenendo con azioni taumaturgiche nel quotidiano, trasmettendo ai fedeli e alle comunità segni e messaggi divini. Il monastero giustinianeo di Santa Caterina sul Sinai ha conservato il più notevole gruppo di icone di datazione anteriore alla controversia sulle immagini. Alcuni di questi dipinti su tavola, databili ai secoli VI e VII, sono attribuiti a maestri costantinopolitani, altri a produzione locale siro-palestinese. Insieme con le icone coeve ritrovate in Egitto e appartenenti all’ambito copto dello sviluppo dell’arte cristiana e con un gruppo di icone romane, quelle del Sinai costituiscono la documentazione più antica di un genere di pittura devozionale destinato ad avere ampia diffusione nella cultura bizantina, e nella fattispecie in epoca comnena (1059-1204), conformemente a quella che sarà poi la nuova spiritualità proiettata ad una privatizzazione maggiore della liturgia. Eredi della ritrattistica funeraria e imperiale ellenistico-romana e dipinte a encausto su tavole lignee, tra le principali icone del Sinai si ricordano quelle che ritraggono il Cristo Pantokrator, l’apostolo Pietro, oppure la Vergine in trono affiancata da santi e angeli.
Sulla scia dei mosaici ciprioti, menzionati precedentemente, e attribuiti a maestranze siriane, anche tre famosi codici purpurei, assegnati al VI secolo, possono integrare il quadro della produzione pittorica nel Mediterraneo orientale: il Codex Purpureus di Rossano Calabro, il Codex Sinopensis e la Genesi di Vienna. Opere di raffinata esecuzione, destinate quasi certamente a usi cerimoniali, attestano uno dei molteplici aspetti del trasferimento del sistema simbolico antico all’arte religiosa cristiana: appare verosimile l’associazione del colore della porpora al verbo evangelico, annuncio del Regno di Dio, e non sorprende la fedeltà alla tradizione tardoromana nell’eleganza e scioltezza del disegno, nell’uso del colore e nell’armonia delle proporzioni. Un distacco dalle matrici antiche, invece, nelle proporzioni delle figure e nella gamma cromatica più accesa, è percepibile in un importante e giustamente celebre manoscritto eseguito in Siria nel 586, l’Evangeliario di Rabbula, che insieme con la Bibbia siriana datata al VI-VII secolo (Parigi, Bibliothèque Nationale, Syr. 341), rivela quelle che sarebbero state le caratteristiche iconografiche e stilistiche della pittura parietale figurativa siriana andata completamente distrutta.
Fin dai primi secoli i programmi iconografici orientali sono influenzati dalle creazioni della Siria e della Palestina e soprattutto da Gerusalemme in epoca paleocristiana e paleobizantina, discostandosi pertanto da quelli della capitale costantinopolitana. In queste regioni superficialmente ellenizzate, con radicate tradizioni artistiche precristiane di origine asiatica o mesopotamica, la componente classica dello stile bizantino è meno sensibile. Nel corso dei primi quattro secoli del cristianesimo, in Oriente predominano, infatti, motivi ornamentali geometrici prodotti di un’arte popolare orientata più verso l’elemento decorativo che pare simboleggiare l’azione di forze astratte e sovrumane. Solo successivamente, sotto la pressione di una chiesa centralizzata, queste tendenze popolari verranno soppiantate dall’immagine antropomorfica. Il programma più diffuso nell’abside in Oriente è quello della visione teofanica, e nello specifico quella di Dio secondo i profeti dell’Antico Testamento: Cristo è circondato da tutti i segni che simboleggiano la sua gloria, al momento del suo trionfo che si realizza nella Seconda Parousia (apparizione del Cristo giudice). Nel registro inferiore dell’abside, invece, la Vergine orante affiancata dagli apostoli ricorda che l’Ascensione annuncia proprio la Seconda Venuta. Tale programma absidale lo si trova ad esempio nella cappella n. 17 di Bawit (Egitto) del VII secolo, in Cappadocia nella chiesa di San Giovanni a Çavuşin (VII-VIII sec.) e in Georgia in un mosaico frammentario di epoca preiconoclasta proveniente dalla cattedrale di Cromi. Sulle pareti trovano posto lunghe teorie di santi, in quanto protettori dei luoghi e intercessori, ed è specifico dei programmi figurativi orientali, la tipologia dei santi cavalieri raffigurati come trionfatori, come anche le scene della visione di sant’Eustachio, il ciclo dei miracoli di san Giorgio e le vite di alcuni santi, più diffusi qui che non altrove.
Di estrema importanza è, nell’arte bizantina e, in generale, nell’arte cristiana, il ruolo degli arredi sacri. Stretto è a Bisanzio il connubio fra arte e spazio liturgico, in un rapporto fondato ancora principalmente sull’accentuazione della luminosità e preziosità come mezzi di visualizzazione della divina maiestas. Della stessa pietas imperiale, e dell’arte orafa costantinopolitana, ne è una testimonianza diretta la stauroteca cruciforme, dorata e decorata con gemme e con l’immagine della coppia sovrana, reliquiario per un frammento del Sacro Legno della Croce donato da Giustino II a papa Giovanni III. Accanto a manufatti come questo, altri importanti ritrovamenti documentano una parte almeno dell’insieme di arredi liturgici di chiese cristiane d’Oriente in età protobizantina. Alcuni rinvenimenti del secolo scorso hanno reso possibile ricostruire la composizione dell’originario tesoro denominato ora di Kaper Koraon, un complesso di 56 oggetti liturgici appartenuti alla chiesa siriana di San Sergio, tra cui le due patene dette di Stuma e di Riha, che recano entrambe punzoni di Giustino II e la scena della Comunione degli apostoli. Sempre alla metà del VI secolo risale il cosiddetto Tesoro di Sion, opere di argenteria di uso liturgico quali croci, patene, incensieri, che esemplificano l’espandersi nell’oreficeria dei soggetti cristiani associati al repertorio decorativo di derivazione antica: il piatto aniconico del vescovo Paterno del 518 circa, ora a San Pietroburgo, con iscrizione latina, decorato con un grande chrismon accompagnato dalle lettere alfa e omega e un fregio a tralci abitati lungo il bordo; un altro piatto, conservato sempre all’Ermitage, decorato con una croce gemmata accompagnata da due angeli; una grande brocca di uso liturgico di manifattura siriana di fine VI inizio VII secolo ornata con busti entro clipei del Cristo, della Vergine, di angeli e santi alternati ad eleganti motivi vegetali. Ampia e documentata appare anche la produzione di suppellettili sacre in altri metalli non preziosi, croci e incensieri a decorazione figurata o meno, soprattutto vari tipi di utensili per l’illuminazione come il disco di lampadario bronzeo (polykandelon) rinvenuto a Gortyna (Creta). Anche nei preziosi rilievi in avorio le tematiche cristiane, rese secondo il linguaggio della tradizione antica e dell’arte di impronta aulica, sono diffuse con relativa ampiezza. Di straordinaria qualità il dittico di Berlino, con il Cristo tra i santi Pietro e Paolo su una delle valve, e la Theotokos con il Bambino in trono onorata da due angeli sulla seconda, e la celebre placchetta con l’arcangelo del British Museum, entrambi attribuiti a produzione costantinopolitana di metà VI secolo. Altri oggetti sacri eburnei vanno ricordati, tra i quali pissidi di diverso stile e di varia qualità, con scene vetero e neotestamentarie: Daniele e i leoni (Washington, Dumbarton Oaks Collection); scene della vita di Cristo (Parigi, Musée de Cluny; Rouen, Musée des Beaux Arts). Ma la più importante fra le opere di intaglio in avorio di uso liturgico è la cattedra di Massimiano conservata al Museo Arcivescovile di Ravenna, il solo esempio pressoché completo di trono eburneo giuntoci dal VI secolo.
L’età di transizione del VII e dell’VIII secolo preiconoclastico testimonia assai bene la complessa coesistenza di tendenze tardoantiche e di esigenze iconografiche e stilistiche volte a una maggiore cristianizzazione. Ciò che la numismatica lascia intravedere è confermato ampiamente da un buon numero di oggetti preziosi, prodotti delle arti suntuarie, espressioni di tutta una serie di aspetti della produzione artistica e del gusto di una committenza elevata, legata agli ambienti di corte. Due principali gruppi di piatti e altro vasellame d’argento finemente figurati a sbalzo furono rinvenuti nell’isola di Cipro. Da uno dei due tesori di Lambousa (Kyrenia, Cipro) proviene infatti un’eccezionale serie di nove piatti con scene della vita di Davide, databili tra gli anni 613 - 629/630. Un’accurata tecnica esecutiva che nonostante la natura religiosa dei soggetti attinge i propri mezzi di espressione dal più raffinato repertorio ellenistico, nel quale s’innestano deliberate citazioni e riferimenti tardoantichi, in particolare da lavori di età teodosiana (le due scene di Davide al cospetto di Saul e del matrimonio di Davide sono ambientate nella medesima aulica composizione architettonica presente nel missorium argenteo del 388 di Teodosio I il Grande). Proseguendo nel VII secolo, due importanti testimonianze di arte imperiale erano date da un ciclo di scene commemorative fatte realizzare da Eraclio alcuni affreschi celebrativi eseguiti in San Demetrio a Salonicco, come la scena dell’adventus mutila (in gran parte ridipinta) che, insieme con quella del popolo rifugiato nella basilica per un attacco slavo, commemorava l’entrata in città di Giustiniano II.
Sarà proprio l’accanita controversia sulle immagini sacre ad attraversare l’VIII secolo e la prima metà del IX, caratterizzando in modo determinante la storia, la religiosità, la cultura bizantine e del mondo ortodosso. La lotta contro l’arte sacra figurativa, da alcuni accusata di idolatria, ebbe inizio pubblicamente con un atto autocratico altamente simbolico dell’imperatore Leone III Isaurico, cioè la rimozione dell’icona del Cristo dalla porta Chalké del Grande Palazzo e la sua sostituzione con una croce. E proprio una miniatura del Salterio Khludov (metà IX sec.) riassume al meglio questa agitata temperie figurativa, raffigurando due iconoclasti che scialbano un’immagine del Cristo. Durante la crisi iconoclasta (726-843) da un lato è accertata la continuità di un’arte figurativa imperiale strettamente indirizzata verso il genere celebrativo e commemorativo, dall’altro l’arte religiosa ritorna a repertori simbolici e decorativi di matrice in parte paleocristiana: ai motivi geometrici, fitomorfi e zoomorfi, ed all’emblema prediletto della croce, simbolo della vittoria di Costantino e del trionfo imperiale sul paganesimo. Della prima, a livello monumentale non ci è giunto nulla, solo sommarie descrizioni, e forse un’eco in miniature molto anticheggianti come quella con il carro del sole e lo zodiaco della Geografia di Tolomeo (Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat. Gr. 1291). Quanto alla seconda, il documento artistico di maggior rilievo attualmente superstite è rappresentato dalla croce musiva in Sant’Irene a Costantinopoli. E la croce ricompare in dipinti provinciali della Cappadocia assegnati al periodo iconoclastico, e accompagnata in qualche caso da iscrizioni di natura ideologica. Quanto ai motivi decorativi ricordati dalle fonti, alberi, uccelli, motivi floreali stilizzati e altro, la loro diffusione è ben attestata in Cappadocia, ad esempio ad Hagios Basilios nei pressi di Mustafapaşa o nella chiesa funeraria nota come Kapılı Vadısı Kilisesi a Karacaören nei dintorni di Ürgüp. Ma li si ritrova ancora in San Nicola di Hagios Nikolaos (Creta) oppure in piccole chiese dell’isola di Naxos, come a Sant’Artemio di Stavros, a San Giovanni il Teologo di Adisaroù, a Santa Kiriakí, la cui abside mostra due pannelli affrescati separati da bande di colore con uccelli e pesci su fondo bianco, accompagnati da rosette e racemi. Analoghi repertori ispirano manoscritti miniati iconoclasti, come due evangeliari di San Pietroburgo (Gr. 53 e Gr. 219, datato 835), o il celebre codice dello Pseudo Dionigi l’Areopagita nel quale l’illustrazione venne totalmente eliminata.
L’11 marzo 843, prima domenica di Quaresima, l’imperatrice Teodora accompagnata dal patriarca Metodio attraversa la capitale bizantina in processione trionfale, per la riconsacrazione simbolica delle sacre immagini. In Santa Sofia un solenne rituale liturgico proclama ufficialmente la restaurazione e la restituzione del culto delle icone. Questo dovette imprimere dunque, dalla metà del IX secolo, un impulso notevole all’arte religiosa nella capitale e nei territori imperiali bizantini, tanto in termini di rinnovamento degli apparati decorativi di edifici preesistenti, quanto di decorazione di architetture religiose di nuova costruzione. La relativa uniformazione e codificazione dei programmi decorativi va delineandosi tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo, quando il cosiddetto “programma mediobizantino” mostrerà di imporsi un po’ ovunque nei territori imperiali e nelle terre limitrofe, in concomitanza con il consolidamento politico dell’impero.