I pugni in tasca
(Italia 1965, bianco e nero, 107m); regia: Marco Bellocchio; produzione: Enzo Doria per Doria Cinematografica; sceneggiatura: Marco Bellocchio; fotografia: Alberto Marrama; montaggio: Aurelio Mangiarotti [Silvano Agosti]; scenografia: Rosa Sala; costumi: Gisella Longo; musica: Ennio Morricone.
In una inerte provincia piacentina quattro fratelli vivono con la madre cieca in una vecchia villa. Augusto, il maggiore, conduce una vita normale anche se ipocrita e triste, Leone è handicappato, Ale soffre di epilessia ed è molto legato a Giulia, che ha una particolare predilezione per Augusto. Ale progetta di eliminare i familiari facendoli precipitare con l'automobile in una scarpata, ma il giorno in cui decide di attuare il suo disegno viene distolto dall'eccitazione per la guida. Le ristrettezze economiche e la passività di Augusto, che oppone agli entusiasmi di Ale l'infermità della madre, ostacolano la realizzazione dei suoi sogni e lo inducono a eliminare almeno quest'ultima. Durante il funerale il giovane confessa il delitto a Giulia, e il falò nel quale vengono gettati gli oggetti appartenuti alla madre si trasforma in una specie di festa. L'incontro con una prostituta e l'interesse che cerca di suscitare in una ragazza non servono a fare uscire Ale dal suo stato di scontentezza e di solitudine. Quando uccide Leone affogandolo nella vasca da bagno, Giulia, sconvolta, cade lungo le scale e rimane invalida, diventando così il nuovo bersaglio del fratello. Augusto vorrebbe lasciare la casa, ma Ale lo ricatta rivelandogli la verità sulla morte dei congiunti. Durante uno dei suoi ricorrenti stati di esaltazione, mentre volteggia ascoltando La Traviata, viene colto da un violento attacco epilettico. Giulia, nonostante le sue invocazioni di aiuto, lo lascia solo con la morte.
I pugni in tasca, autofinanziato dall'esordiente Marco Bellocchio, rifiutato dalla Mostra di Venezia, venne comunque presentato in quel contesto in una proiezione marginale. Il film provocò un ampio dibattito, divenendo il simbolo di una nuova generazione e di una sua 'immaturità' come rivendicazione di diversità. Qualcuno ha voluto attribuire a I pugni in tasca un valore di rottura nella storia del cinema analogo a quello di Ossessione, pur mancando di quel retroterra culturale di opposizione e di fronda che aveva preparato quest'ultimo. Bellocchio traduce con rigore e distacco una dimensione al tempo stesso tragica e grottesca, per la quale sono stati ricordati Renoir e Buñuel, ma anche Bresson, Monsieur Verdoux di Chaplin (1947) e À bout de souffle di Godard, mentre il regista dichiara di amare il Visconti di La terra trema (1948) e di Senso.
Bellocchio non solo riscatta la dimensione patologica in cui sono immersi i personaggi (criticata come giustificazione di comportamenti altrimenti inaccettabili), ma rende questo rifiuto della razionalità (che per Pasolini segna un passaggio generazionale) il rifiuto di riconoscersi in un modello di vita, un attacco al potere, una manifestazione pura del desiderio di vivere. Pur costruendo il film su un materiale autobiografico (la sua provincia, la sua casa a Bobbio, i suoi mobili), Bellocchio dimostra la sua maturità e autosufficienza, come notava Italo Calvino, nel dichiarare esplicitamente i limiti di una rivolta individuale e nell'indicare come questo ribellismo presupponga già una presa di distanza dai suoi oggetti: come Bellocchio preciserà nel corso di uno scambio epistolare con Pasolini, che oppone l'insostenibilità di un valore civile del dare scandalo, anche se malato Ale "è responsabile delle proprie azioni e dei propri vizi, i suoi obiettivi criminali sono già bersagli innocui, scontati, inerti, prima che arrivi lui a spingerli con la forza di un dito in una fossa che già da molto prima doveva ospitarli".
La famiglia ‒ una famiglia senza padre, luogo essenziale del discorso di Bellocchio ‒ appare come "microcosmo simbolico" (G.P. Brunetta) dei processi di trasformazione sociale in atto negli anni Sessanta, rispetto ai quali essa gioca un ruolo di impedimento e di autodistruzione. È la metafora della malattia, dell'incesto ma anche del perbenismo di Augusto, è il bersaglio della lucida, folle, gioiosa ribellione di Ale alla ricerca di un'affermazione di sé che lo porterà a perdersi a causa della sua inadeguatezza. Come la villa, il paesaggio, dalle montagne dell'Appennino alla valle del Trebbia e alla città di Piacenza, è a sua volta elemento claustrofobico, il cui torpore apparente nasconde la debolezza e la violenza. È il rovesciamento della prospettiva romantica dei versi leopardiani recitati dalla voce di Ale: egli non è prigioniero della provincia, ma ne è "l'incarnazione più lucida" (S. Bernardi).
La lezione neorealista è ancora una volta, come per altri autori della nuova generazione, presente ma 'distante': gli accenti viscontiani (il melodramma come eccesso liberatorio), ma anche rosselliniani (il suicidio di Edmund, che ha ucciso il padre per liberarsi di quella che il maestro nazista ha chiamato inutile bocca da sfamare, come liberazione dalle visioni intollerabili di quella Germania anno zero) sono qui letteralmente rovesciati nello psicodramma, che struttura il film divenendo metodo di lavoro, e nella morte: essa arriva a interrompere una catena di orrori dove gli incontri non sono solo impossibili ma anche inutili, e dove il sarcasmo e la poesia svelano allo spettatore complice tutta la potenza del falso. Più volte premiato, il film, che denuncia una forte caratterizzazione onirica, cercherà una sua conclusione 'ideale' quasi venti anni dopo in Gli occhi, la bocca (1982).
Interpreti e personaggi: Lou Castel (Ale), Paola Pitagora (Giulia), Marino Masè (Augusto), Pierluigi Troglio (Leone), Liliana Gerace (la madre), Jeannie Mac Neil (Lucia), Mauro Martini (bambino), Gianni Schicchi (Tonino), Alfredo Filippazzi (dottore), Gianfranco Cella (ragazzo alla festa), Celestina Bellocchio (ragazza alla festa), Stefania Broglio (cameriera), Irene Agnelli (Bruna), Sandra Bergamini, Lella Bertante.
M. Ponzi, Il gesto di Alessandro, in "Filmcritica", n. 161, ottobre 1965.
M. Kustow, I pugni in tasca, in "Sight & Sound", n. 1, Winter 1965/66.
L. Pellizzari, I pugni in tasca, in "Cinema nuovo", n. 179, gennaio1966.
G.B. Cavallaro, Marco Bellocchio ha detto tutto in una sola volta, in "Cineforum", n. 52, febbraio 1966.
T. Chiaretti, Il film italiano più coraggioso e nuovo degli ultimi anni, in "Cinemasessanta", n. 57, marzo 1966.
J.A. Fieschi, Le haut-mal, in "Cahiers du cinéma", n. 179, juin 1966.
G. Gow, Fists in the Pocket, in "Films and filming", n. 10, July 1966.
S. Bernardi, Marco Bellocchio, Firenze 1978.
Sceneggiatura: I pugni in tasca, a cura di G. Gambetti, Milano 1967.