I Romani e gli animali
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel mondo antico in generale il rapporto della specie umana con gli altri animali è molto più stretto, sia perché gli antichi interagiscono con le altre specie assai più frequentemente, sia perché molto diverso è stato nella storia l’equilibrio ecologico che ha governato le relazioni fra spazi antropizzati (città), semi-antropizzati (campagna coltivata) e natura selvaggia. Per questo motivo le espressioni culturali della civiltà romana, dall’arte alla filosofia, dalla leggenda ai trattati tecnici, dalla divinazione alla medicina e alla farmacopea, pullulano di presenze animali, di figure zoomorfe e teriomorfe chiamate ad operare molteplici funzioni ideologiche, sociali e comunicative.
Il racconto delle origini di Roma, come è noto, ha per protagonisti degli animali. Anzitutto Enea – eroe troiano emigrato nel Lazio e progenitore dei Romani – aveva ricevuto l’ordine di stanziarsi nel luogo in cui avesse trovato una scrofa bianca con 30 porcelli.
La tradizione vuole poi che i futuri fondatori dell’Urbe, i gemelli Romolo e Remo, figli di una vestale e del dio della guerra Marte, siano stati abbandonati sul fiume Tevere e siano riusciti a sopravvivere grazie alle premure di una lupa.
L’aquila, come è noto, è il simbolo dei legionari romani dapprima, poi dell’impero di Roma. Racconta tuttavia Plinio (Nat. hist., X 5) che un tempo gli animali-emblema erano più numerosi; fu Gaio Mario a restringerli alla sola aquila, che “era la prima insegna, ma insieme ad altre quattro: lupi, minotauri, cavalli e cinghiali precedevano le singole file di soldati”. Romolo traccia il solco della nuova città aggiogando due buoi all’aratro, per la verità – precisa il racconto – si tratta di un bue e di una vacca: per questo il solco ne è uscito di forma curva, perché la femmina, collocata verso l’esterno, tirava meno del maschio.
Il bue aratore è rispettato come un preziosissimo compagno di lavoro: "non c’è dubbio che fra gli altri animali il bove debba tenere il posto d’onore, specialmente in una terra che ad esso, come si crede, ha preso il nome, perché “un tempo i Greci chiamavano ’itali’ i tori; e in una città, a costruir le mura della quale maschio e femmina bovi segnarono con l’aratro il cerchio sacro; e [...] perché è ancora oggi il più laborioso compagno dell’uomo nella lavorazione dei campi; per questo gli antichi lo tennero in tanta venerazione, che era considerato delitto da punirsi con la morte [...] l’aver ammazzato un bue” (Columella, L’agricoltura, 6, 2, 11-13; Varrone, La vita di campagna II, 5, 3-4; Cicerone, La natura degli dèi, II 159). Proprio in nome della superiore dignità dei buoi, Columella si oppone alla pratica di metodi inumani nei confronti di quelli fiacchi e recalcitranti ed auspica l’impiego di tecniche inoffensive.
I Romani amano raccontarsi come un popolo di agricoltori e sono ben consci di quanta parte abbia avuto la domesticazione degli animali nello sviluppo di questa civilizzata forma di esistenza. Dice Varrone (La vita di campagna, 2, 1) “è un fatto logico [...] che il più antico stadio di questa vita fosse quello dello stato naturale, quando gli uomini si nutrivano di quello che la terra vergine produceva spontaneamente. Da questo stato si passò al secondo, quello della pastorizia, in cui gli uomini vivevano sia cogliendo per loro uso dagli alberi e dai virgulti selvatici e incoltivati ghiande, corbezzoli, more ed altri frutti, sia, per le medesime necessità, catturando, ingabbiando e addomesticando tutti gli animali selvatici che potevano. Tra questi si crede, non senza ragione, che prime fossero le pecore, sia per la loro utilità sia per la loro mansuetudine. Infatti queste sono per natura le bestie più quiete e le più adatte alla vita dell’uomo. Per il nutrimento esse offrivano latte e cacio; per il corpo vesti di lana e pelli. Infine, nel terzo stadio, dalla vita pastorale si passò a quella della coltivazione dei campi, in cui gli uomini molto conservarono dei due stadi precedenti e tanti progredirono sino ad arrivare all’età nostra”.
Il denaro è definito pecunia, che i Romani connettono significativamente con pecus ("bestiame"): per questa civiltà che ama pensarsi pastorale e agricola, il bestiame costituisce la ricchezza mobile per eccellenza. L’espressione per indicare i beni mobili nel linguaggio giuridico è familia pecuniaque, e della familia fanno parte anche gli animali domestici e il bestiame posseduto (principalmente ovini, bovini, suini, capre, cavalli e asini). L’interesse dei Romani per l’economia rurale si manifesta anche con la produzione di numerosi trattati di agricoltura (Catone, Varrone, Columella) ai quali dobbiamo una discreta quantità di notizie sulle tecniche di allevamento (zootecnia) e sulla medicina veterinaria antiche. Quest’ultima tradizione culturale, inclusa fra le competenze richieste all’agricoltore, ha anche sviluppi autonomi in età imperiale, con la pubblicazione di opere specificamente dedicate alle terapie per buoi, cavalli, muli e altri animali domestici (Le cure dei buoi di Gargilio Marziale; La medicina veterinaria di Palladio e di Pelagonio, la Mulomedicina Chironis e la Mulomedicina di Vegezio).
La presenza di animali nelle tenute agricole non si limita a quelli domestici. Varrone testimonia quante tipologie di allevamento sono presenti nelle villae di età tardo-repubblicana: vi sono uccelliere (ornithones), vivai (vivaria o leporaria) per ogni genere di selvaggina, dai caprioli ai cinghiali, ai daini, ai cervi; non mancano poi vasche (piscinae) per l’allevamento di animali acquatici, come mitili e crostacei, e di pesci. Tali allevamenti possono semplicemente essere destinati a fornire cibo alle mense della villa oppure produrre surplus per mercati esterni. Oltre a pernici, fagiani e colombi, particolarmente pregiata diviene la carne di pavone, che viene perciò venduta a caro prezzo; ma apprezzati sono anche fenicottero, gru e cicogna. L’imperatore Elagabalo pare vada matto per i pappagalli, che dà in pasto ai suoi ospiti e ai leoni. Delle oche si mangia soprattutto il fegato.
Ma a volte tali vivai costituiscono vere e proprie riserve naturali, estesi per parecchi iugeri, in cui il padrone può inscenare spettacoli – un Orfeo che incanta le belve si svolge nella villa dell’oratore Quinto Ortensio, nella campagna lauretina (Varrone, La vita in campagna, III 13, 2-3) – oppure può organizzare battute di caccia insieme agli amici, come fanno molti imperatori – la Domus aurea di Nerone e la Villa Albana di Domiziano avevano probabilmente parchi di questo tipo. In queste riserve vengono talvolta immesse anche belve esotiche per rendere la caccia più eccitante.
In età romana prosegue, per le personalità di rango, la moda ellenistica della caccia grossa. Si racconta che è Scipione Emiliano a importare a Roma la prassi, imparata in Macedonia dopo la battaglia di Pidna, di spendere molto tempo a cacciare piuttosto che segnalarsi con le attività forensi, come facevano gli altri giovani romani (Polibio, XXXI, 29). Nelle epoche successive, il costume macedone è ormai diffuso. Pompeo in Numidia (81 a.C.) fra una battaglia e l’altra va per qualche giorno a caccia di leoni e di elefanti, perché, dice, anche gli animali in Africa devono sapere quanto siano potenti i Romani (Plutarco, Vita di Pompeo, 12). La tradizione proseguirà poi con gli imperatori e la caccia grossa sarà ormai nel I secolo d.C. uno sport aristocratico diffuso. In queste cacce regali il colpo di grazia alla belva è prerogativa esclusiva del sovrano e chiunque voglia andare a caccia di leoni deve prima chiedere il permesso imperiale. Quando un’orca si infila nel porto di Ostia, è l’imperatore Claudio a dirigere le operazioni di cattura (Plinio, Nat. hist., IX 15).
Continua inoltre in quest’epoca la fascinazione per gli animali esotici e gli spettacoli di ammansimento. Gli elefanti, prima sconosciuti ai Romani, avevano fanno enorme impressione durante le guerre contro Pirro d’Epiro (III secolo a.C.) e da quel momento destano l’entusiasmo dei Romani per la loro forza e maestà. La meraviglia provata di fronte a questi animali, che i Romani vedono per la prima volta, è resa esplicita dal nome che essi danno agli elefanti: Lucas bos, "bue di Lucania", assimilandoli così a un animale ben più noto agli abitanti del Lazio. Pompeo, che per le esibizioni fastose aveva una certa propensione, vorrebbe che proprio quattro elefanti africani trainino il carro nel suo trionfo (79 a.C.), ma le porte della città si rivelano troppo strette e deve ripiegare sui cavalli (Plutarco, Vita di Pompeo, 14). Augusto è solito organizzare esibizioni straordinarie di qualunque meraviglia arrivi in città dal mondo, per farne godere i cittadini: fa esporre un rinoceronte presso i Saepta, una tigre su una scena e un serpente di 50 cubiti nel Comizio (Svetonio, Vita di Augusto, 43). L’impressione destata da questo tipo di visioni deve essere violenta e animali così pericolosi, sebbene legati o trattenuti da gabbie (caveae, claustra) o recinti (saepta), devono suscitare molta impressione nel pubblico che accorre per vederli. Nel corso dell’espansione dei domini romani, sempre più numerose sono le specie esotiche importate dalle province, alcune delle quali divengono in media e tarda età imperiale presenze ormai familiari, come nel caso di pavoni, pappagalli e alcune specie di pesci (fra cui, per esempio lo scarus: Macrobio, Saturnali II, 12). Il gatto (feles) – felino che i Romani conoscono come predatore selvatico – viene introdotto nella sua variante domestica sull’esempio egizio, etrusco e magnogreco, e finisce per sostituire progressivamente la donnola (mustela) nella funzione di cacciatore di topi nelle case romane.
In età imperiale il gusto per l’inconsueto si spinge fino a organizzare esibizioni circensi di leopardi o tigri o cinghiali aggiogati come muli, di tori che portano sul groppone bambini e acrobati, di elefanti che si inchinano davanti all’imperatore o che effettuano goffi movimenti di danza (Marziale, I 104, V 31; Marziale, Sugli spettacoli, 17; Seneca, L’ira, II 31; Plinio, Nat. hist., VIII 4). Queste esibizioni costituiscono spesso intermezzi giocosi fra sezioni cruente degli spettacoli gladiatorii.
Non meno diffusa è la moda di tenere in casa come pets animali selvatici e pericolosi: orsi, leoni, serpenti e ogni genere di ferae (Seneca, L’ira, II 31; Plinio, XI 163) al punto che lo stato romano interviene per limitare il possesso di animali feroci da parte di privati (Digesto 21, 1, 40-42). Il crescere di numero delle specie mansuetizzate rende anzi difficile e incerta la distinzione tra animali domestici e selvatici. La prima conseguenza è l’incertezza della tutela contro i danni procurati da questi animali, perché la legge prevede responsabilità del proprietario solo nel caso degli animali domestici: si rende perciò necessaria l’estensione della disciplina relativa agli animali domestici anche a quelli ammaestrati.
Ma il fascino più potente è quello esercitato dalle belve osservate mentre dispiegano tutta la loro ferocia. Negli eventi spettacolari chiamati venationes (secondo la tradizione inaugurate da Fulvio Nobiliore nel 186 a.C.) la caccia assume una nuova funzione: non attività sportiva volta ad esercitare corpo e spirito dei giovani aristocratici, ma spettacolo di svago per la popolazione, che vi assiste dagli spalti del circo o dell’anfiteatro. Che tali spettacoli siano da subito molto popolari e che coinvolgano animali feroci è indicato fra l’altro dalla notizia di Plinio (Nat. hist., VIII 64) secondo cui il senato tenta a un certo punto di vietare l’importazione di belve, ma una legge proposta da Gnaeus Aufidius (forse il tribuno della plebe del 170 a.C.) e votata dall’assemblea abolisce tale divieto.
Il livello del divertimento, in uno spettacolo come questo, deve misurarsi con la quantità di animali abbattuti – anche perché è probabile che la carne delle bestie uccise sia oggetto di una distribuzione gratuita al pubblico presente – e con il virtuosismo venatorio dei protagonisti. Augusto si vanta di aver fatto ammazzare 3500 animali selvatici durante i giochi da lui organizzati (Res gestae Divi Augusti XXI). Famose sono le esibizioni venatorie dell’imperatore Commodo, che si fa chiamare Ercole Cacciatore – nel corso delle quali abbatte con colpi spettacolari ogni genere di animale come erbivori, uccelli, struzzi, ippopotami, elefanti, tigri (Dione Cassio, LXXIII 18-20).
Negli anfiteatri e nei circhi gli animali non vengono coinvolti solo in cacce. Ci sono anche lotte di bestie contro bestie, combattimenti di uomini (chiamati bestiarii) contro belve feroci, nonché esecuzioni di condannati a morte fatti sbranare da belve affamate (damnationes ad bestias). Il centro focale di questi eventi sembra proprio essere l’esibizione della ferocia dell’animale, sia che essa sia destinata a scatenarsi su una vittima predestinata (come nel caso delle esecuzioni capitali), sia che trovi degno antagonista in un uomo armato o in una belva di pari rango. Significativa, in questo senso, la descrizione di Seneca, che parla di un toro e un orso legati insieme e incitati a massacrarsi a vicenda, per finire poi uccisi da un confector, che dà loro il colpo di grazia (Sull’ira, 3, 43, 2). Questo tipo di eventi sono tipici della programmazione mattutina e pare riscuotano un certo successo, di poco inferiore ai duelli dei gladiatori. Anche i supplizi capitali condotti per mezzo di belve carnivore possono raggiungere livelli di raffinata perversione oggi difficilmente immaginabile. Accade per esempio che il condannato sia costretto a indossare i panni di un personaggio mitologico e a far diventare la propria morte una specie di spettacolo teatrale. Così pare avvenga per esempio a un uomo costretto a fare la fine di Prometeo, appeso e lasciato in balia di una belva: sola differenza, che invece di essere divorato da un’aquila, viene fatto a pezzi da un orso (Marziale, Sugli spettacoli, 9). A volte donne condannate alle belve vengono stuprate da asini o tori, in quest’ultimo caso per inscenare il mito di Pasifae (Marziale, Sugli spettacoli, 6; Apuleio, Metamorfosi, X 23-34).
Magistrati e, in seguito, imperatori dedicano il massimo della loro munificentia all’importazione di bestiae dentatae e di Africanae per compiacere il popolo di Roma, e Strabone lamenta che, a forza di catturare belve per i giochi romani, la Numidia è stata deprivata della propria fauna selvatica (Strabone 2, 5, 33). I costi della cattura divengono sempre più alti e, di conseguenza, anche i prezzi pagati per le belve aumentano. Gli animali trasportati, inoltre, devono essere assai più numerosi di quelli necessari per lo spettacolo, dal momento che moltissime di queste povere bestie muoiono durante il trasferimento. Se sopravvivono al trasporto, esasperate dalla condizione di cattività e dagli stenti, questi animali causano spesso incidenti. Racconta Plinio (Nat. hist., XXXVI 40) che lo scultore magnogreco Pasitele (attivo a Roma nell’età di Pompeo) si reca un giorno ai Navalia, il porto militare sul Tevere, dove c’erano delle ferae Africanae, evidentemente sbarcate da poco in città e destinate a qualche esibizione. Va lì apposta per ritrarre un leone dal vivo, ma nel mentre che lo osserva, da una gabbia vicino una pantera riesce a liberarsi e l’artista corre un grave pericolo.
Il coivolgimento di animali nella divinazione a Roma è particolarmente frequente. La presa degli auspici prevede l’osservazione del volo o l’analisi del canto di certi uccelli (alites sono chiamati quelli di cui si ritiene significativo il movimento, oscines quelli dei quali si valorizza il canto). Nell’aruspicina, arte ereditata dagli Etruschi, si scrutano le viscere delle vittime. Ma sugli animali si fa conto anche per altri tipi di pronostico. Una spedizione militare, per esempio, non parte senza le gabbie di polli sacri (pulli), dal cui modo di becchettare il cibo si deduce l’opportunità o meno di un’impresa – se rifiutano di mangiare, per esempio, il presagio è negativo; se si avventano sul cibo con foga (tripudium) è invece assai favorevole. Lo sperimenta il console Claudius Pulcher, che adirato per il cattivo segno – i polli non piluccavano e, dunque, era sconsigliabile attaccare battaglia – gettò le bestiole in mare: “se non vogliono mangiare, allora che bevano!” disse. E perse catastroficamente contro i Cartaginesi nelle acque di Trapani (Cicerone, Sulla natura degli dèi, II 3). Ma anche comportamenti strani delle bestie (capre che mettono la lana, galli che diventano galline e viceversa, animali selvatici avvistati in città) sono considerati prodigia, potenziali "segni" di realtà nascoste, da valutare con attenzione per non mancare di raccogliere un avvertimento. Gli auspici chiamati pedestria sono in particolare quelli ricavati dall’apparizione per via di animali terrestri (Paolo-Festo 287, 1-2 Lindsay quae dabantur a vulpe, lupo, serpente, equo ceterisque animalibus quadrupedibus) come un lupo che attraversi la strada da destra e con la bocca piena (buon segno), una cagna o una volpe incinta (praegnas canis, feta vulpis), o un serpens che tagli la strada al viaggiatore.