I Romani e l'arte greca: originali e copie
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’incessante richiesta di opere d’arte greca da parte delle élite romane non può essere soddisfatta dalle prede di guerra. Botteghe di scultori si specializzano nell’esecuzione di copie dei capolavori greci. Dato che gli originali sono in massima parte andati perduti, queste copie sono preziose per la ricostruzione della storia dell’arte greca; ma spesso non si tratta di riproduzioni fedeli, quanto di variazioni e citazioni.
Già in età ellenistica, soprattutto a partire dal II secolo a.C., il mondo greco inizia a considerare l’arte espressa dalla polis del V e IV secolo come l’apogeo della propria esperienza artistica. I capolavori creati dai grandi maestri di allora sono ormai riconosciuti come modelli insuperabili, e i sovrani dei nuovi stati vogliono che anche le loro capitali ne esibiscano di altrettanto mirabili. Se non è possibile impadronirsi dei preziosi originali come bottino di guerra, né acquisirli col danaro o altri strumenti di pressione diplomatica, essi commissionano ad abili artisti delle copie. Così i re di Pergamo fanno copiare la celeberrima Atena Parthenos di Fidia, la statua di culto del Partenone di Pericle ad Atene, con lo scopo evidente di raccogliere l’eredità culturale di quella che era stata la città guida della grecità.
Ma copie di capolavori di età classica vanno ad abbellire anche ricche dimore private: intorno alla fine del II secolo a.C. il proprietario di una casa di Delo commissiona la replica del famoso Diadoumenos di Policleto, il grande maestro argivo del V secolo a.C. Questo revival classicistico – il primo della storia dell’arte occidentale – appare agli occhi di un critico dell’epoca, Apollodoro di Atene, come una vera e propria “resurrezione” dell’arte, dopo la “morte” sopravvenuta con il primo ellenismo (evidentemente troppo lontano, a suo giudizio, dal sublime equilibrio dell’età aurea dell’arte greca).
Tale discorso retrospettivo, che inizialmente rimane interno alla civiltà greca, viene successivamente fatto proprio da Roma, quando nel corso della sua espansione imperialistica sottomette tutti gli stati ellenistici nel bacino del Mediterraneo. A questo punto non ci sono più diverse città in concorrenza fra loro, ma una sola capitale del mondo, che può attingere a piene mani alla totalità della storia artistica e culturale greca. I generali vittoriosi abbelliscono l’Urbe con un’incredibile quantità di opere d’arte razziate in Grecia e in Oriente, ma la conoscenza diretta di quei capolavori “in cattività” innesca nell’élite romana un processo di acculturazione che la porta a desiderare di riempire di statue e pitture greche non solo i templi e gli altri edifici pubblici, ma le loro stesse case. E per quanto cospicuo possa essere il bottino di guerra che, ad ogni nuova conquista, affluisce a Roma, esso non basta a saziare la ormai smodata fame d’arte della sua classe dirigente. Parecchi artisti greci seguono a Roma i nuovi padroni, e si mettono al loro servizio creando nuove opere d’arte alla maniera dei maestri dell’età classica; ma ancora più numerosi sono quelli che ad Atene, a Delo e in altri centri dell’Asia Minore operano in botteghe che si specializzano nella copia o nell’adattamento più o meno libero di capolavori del passato ad uso dei nobili romani, i quali competono ora tra loro anche su questo piano.
Si fanno anche delle liste delle opere migliori (nobilia opera), che diventano quindi “canoniche”. In qualche caso le copie sono riproduzioni esatte. Certe botteghe, come quella scoperta a Baia, sul golfo di Napoli, hanno a loro disposizione un assortimento di calchi in gesso e di matrici in argilla prese direttamente sugli originali. La pratica della duplicazione mediante calco è attestata anche dalle fonti (Luciano parla di una certa statua nell’agorà di Atene che era perennemente coperta di pece perché continuamente gli scultori ne prendevano il calco). In altri casi gli artisti operano col procedimento “per punti”, trasferendo sul marmo una serie di misure prese con appositi strumenti sull’originale (e si ha la sensazione che talvolta il segno di questi punti sia intenzionalmente lasciato visibile, come per garantire il committente che si tratta di una copia assolutamente fedele). Ma se guardiamo alla totalità delle statue che sono normalmente ritenute delle copie bisogna ammettere che la stragrande maggioranza di esse ha poche probabilità di essere la riproduzione esatta, punto per punto, di un originale.
Di molti capolavori, per la loro collocazione particolare, sarà indubbiamente stato molto difficile o addirittura impossibile prendere calchi e misure precise; e poi il passaggio dal bronzo al marmo, vale a dire a un materiale diverso per peso specifico e resistenza, rende inevitabili degli adattamenti (come puntelli e sostegni di vario tipo, necessari per ragioni di statica). Perfino quando il modello era in marmo, e collocato all’aperto, come nel caso delle Cariatidi dell’Eretteo, le copie che possediamo non sono mai identiche all’originale. È corretto allora continuare a chiamarle copie?
In realtà quello del rapporto tra originali e copie è un problema molto complesso, ed è cruciale per la storia dell’arte classica, dal momento che delle creazioni dei grandi maestri della Grecia, celebrate dagli scrittori antichi, solo una percentuale ridottissima è sopravvissuta fino ai giorni nostri. La Storia dell’arte nell’antichità di Winckelmann, che a metà del Settecento rappresentò per l’arte antica quello che il sidereus nuncius galileiano aveva rappresentato per l’astronomia, è inficiata in realtà proprio dalla scotomizzazione di quel problema. Si è soliti ripetere che Winckelmann rimase sempre ignaro del fatto che la quasi totalità delle sculture antiche allora conosciute non fossero originali greci. Ma non è proprio così. Più che ignoranza, fu rimozione.
Già i Richardson, padre e figlio, in una fortunatissima guida per viaggiatori del Grand Tour del 1720, constatando l’esistenza di più statue antiche simili fra di loro avevano concluso che doveva trattarsi di altrettante copie di originali perduti. Winckelmann conosce benissimo le argomentazioni dei Richardson, ma si guarda bene sia dallo svilupparle che dal contestarle. Semplicemente le ignora. E tuttavia è ben consapevole dello scheletro celato nel suo armadio di studioso; tanto che, arrivato all’ultima pagina della Storia dell’arte, si lascia scappare questa frase: “Come la donna amata che dalla riva del mare segue con gli occhi colmi di pianto l’amato che si allontana anche a me... resta solo l’ombra dell’oggetto dei miei desideri... per cui io osservo le copie degli originali con maggiore attenzione di quanto farei se fossi in pieno possesso di quelli”. Una sorta di confessione in extremis del convertito Winckelmann, al quale otto anni di frequentazione dei cattolici romani avevano evidentemente insegnato qualcosa.
Winckelmann dunque sapeva, e un altro che certamente doveva sapere era Mengs, che di Winckelmann fu prima mentore e poi stretto sodale. Ebbene, solo dopo la morte di Winckelmann, e poco prima della propria, nel 1779, Mengs, richiesto di un parere sul famoso gruppo dei Niobidi, ammette che quelle sculture sono da considerarsi delle copie, e vi aggiunge per buon peso anche il Laocoonte, l’Ercole Farnese e perfino l’Apollo del Belvedere. Non è credibile che si tratti di una tardiva illuminazione. Si può invece capire la sua esitazione a smentire l’amico, rapidamente divenuto un’autorità indiscussa. Più coraggio dimostra Francesco Milizia, che sul finire del secolo, senza giri di parole, sostiene che le statue antiche dei musei di Roma “ci paiono bellissime perché non ne vediamo di più belle” e “forse queste nostre bellissime non saranno che copie”.
Una volta conclamato che il re è nudo, tocca all’archeologia tedesca, la più agguerrita dell’Ottocento, fare ordine nell’intricata materia. Nasce così una scienza nella scienza: la Kopienkritik. Essa opera secondo il paradigma della critica testuale, considerando le copie alla stregua di altrettanti codici che ci hanno tramandato un determinato testo. Prima procede alla recensione di tutte le copie pervenuteci, poi le confronta, crea l’equivalente di uno stemma codicum individuando quelli più vicini all’archetipo e infine cerca di restituirci quest’ultimo correggendo gli errori e i fraintedimenti dei copisti, eliminando le interpolazioni e integrando per congettura le parti mancanti o corrotte. Lavorando con tal metodo sulle copie di età romana l’archeologia filologica ottocentesca ritenne di poter ricostruire esattamente l’iconografia e lo stile delle creazioni originali dei grandi maestri dell’arte greca, perdute pressoché integralmente. In certi casi ricreò fisicamente in gesso il supposto originale, dandogli perfino il colore del bronzo per renderlo più vero. La summa di questo metodo è rappresentata dai Meisterwerke der griechischen Plastik di Adolf Furtwängler. Ancora oggi tutto ciò che nei manuali di arte antica si legge di artisti come Mirone, Policleto, Callimaco, Prassitele e altri – della cui mano non possediamo un solo frammento sicuro – si basa esclusivamente sulla Kopienkritik. Ma questa a sua volta si basa su un criterio di originalità che è sostanzialmente una creazione del romanticismo e non corrisponde affatto al pensiero degli antichi. Per quanto ciò possa sorprendere noi moderni, la verità è che per gli antichi l’originalità non è un valore primario, né copiare è considerato disdicevole.
Gli antichi non hanno un concetto della proprietà intellettuale simile al nostro, non conoscono nulla di paragonabile al moderno copyright. L’unico metro per valutare una pittura o una scultura è quello della téchne, dell’abilità artigianale, del saper fare “a regola d’arte”. Il copista non fa un lavoro diverso da quello dell’artista da cui copia, e dunque non si perita di firmare col proprio nome. Firmando, dice in sostanza: “ecco, questo è quello che so fare”, e ne va orgoglioso allo stesso modo dell’autore dell’originale.
L’Ercole Farnese replica certamente una statua bronzea creata da Lisippo verso la fine del IV secolo a.C., ma reca incisa la firma di un tal Glicone di Atene, non altrimenti noto. Un’erma in bronzo da Ercolano che replica la testa di una statua di Policleto di cui conosciamo molte altre copie di marmo è firmata da Apollonio di Atene. Del resto, discutendo opere di scultura o di pittura gli scrittori antichi non specificano mai se si tratta di originale o copia. Per loro la cosa è irrilevante. Ciò che importa è la bontà dell’esecuzione. Probabilmente anche la fedeltà al modello conta relativamente. Si è ormai smesso di attribuire sbrigativamente qualunque deviazione da ciò che si presume essere l’originale a trascurezza o incapacità del copista. Dopo tutto scolpire o dipingere non è scrivere: modificare l’angolazione di un arto, cambiare un gesto in un altro, aggiungere o spostare un elemento non è qualcosa che si fa per distrazione, come quando si copia una lettera per un’altra. Copiare, replicare non è mai un’operazione ingenua. Tipologizzare, combinare e reinterpretare la forma presuppone sempre la volontà di mediare tra due culture.
Nel 1959 Arno Reiff pubblicò un importante lavoro sull’imitazione dei modelli letterari greci da parte degli scrittori romani. In esso distingueva tre pratiche diverse: l’interpretatio, l’imitatio e l’aemulatio. L’interpretatio è la traduzione fedele, l’imitatio una versione libera che che può combinare anche più fonti, mentre l’aemulatio comporta una competizione creativa che è possibile solo dopo una profonda assimilazione delle caratteristiche del modello. Una simile categorizzazione si può applicare anche alle arti plastiche, col vantaggio – fra gli altri – di recuperare alla storia dell’arte una vastissima serie di opere che la Kopienkritik scarta in quanto non immediatamente utili alla ricostruzione dell’archetipo, precludendosi così di comprenderle come espressione della temperie culturale che le ha prodotte.
Il committente romano “tipo” ha sufficiente familiarità con la cultura e l’arte greca, ma difficilmente pretenderà la copia esatta di un’opera che probabilmente non ha neanche mai visto di persona e conosce da altre copie, o magari solo da disegni più o meno fedeli. Quello che vuole in casa propria è piuttosto un’“occorrenza” – un token, si direbbe in termini semiotici – di un tipo ideale a cui unanimemente si riconosce eccellenza e valenza normativa. L’uso che ne fa è eminentemente decorativo. Le statue fanno parte dell’arredo domestico, e talvolta sono presenti due copie di una stessa opera – una delle quali invertita specularmente – poste a far pendant nel medesimo ambiente. I concetti di exemplum e auctoritas sono qui fondamentali, ma ancor più lo è quello di decor.
Decor è il termine latino che corrisponde al greco prépon e che possiamo tradurre con “appropriatezza”. Ciò che veramente conta per i Romani non è infatti un astratto valore artistico, ma la convenienza di un certo contenuto (cioè di un certo soggetto iconografico) e di una certa forma (cioè di un certo stile) a un certo contesto. Nelle terme sta bene un apoxyómenos, dato che il raschiarsi con lo strigile è appunto un’azione tipica da ambiente termale. L’apoxyómenos più famoso è quello di Lisippo, quindi è preferibile un apoxyómenos di stile lisippeo: non necessariamente una copia esatta di quello di Lisippo, ma una statua che comunque richiami quel modello. Lo stesso discorso vale per le palestre, dove si prediligono statue di atleti alla maniera di Policleto, o per i teatri, per i quali sono considerati molto adatti satiri nello stile di Prassitele. Delle migliaia di statue classiche se ne copiano in fin dei conti meno di un centinaio, sempre quelle, in tutto l’impero, però con una certa libertà, esercitandosi in variazioni sul tema. Quelle che la Kopienkritik marginalizza come copie non conformi o pastiches sono tali solo nell’ottica di una ricostruzione filologica. In realtà sono creazioni di artisti greci basate su un patrimonio formale ereditato dai maestri dell’età classica e rispondenti ai valori estetici condivisi dai committenti. Più che copiare passivamente, gli artisti citano, alludono, emulano; perciò più che quello di copia si dimostra utile il concetto di intertestualità. In ambito semiotico un testo è “qualsiasi prodotto di una determinata cultura dotato di significato”. E dunque anche i testi visuali fanno parte di un sistema più ampio di relazioni, dialogano a distanza, si richiamano in qualche modo l’un l’altro. Molte di quelle che frettolosamente vengono definite copie sono in realtà degli ipertesti che si innestano su un preesistente ipotesto (per usare la terminologia di Genette). L’intertestualità fa della copia non un’imitazione meccanica o un plagio bensì una riformulazione conscia e motivata.
Quintiliano non apprezza i copisti pedissequi, quelli che lavoravano mensuris et lineis. Tra conformatio e commutatio preferisce quest’ultima. Anche Seneca distingue la copia imitativa, tipica della fase di apprendistato, da quella creativa, frutto di una introiezione empatica dei modelli. L’aemulatio produce degli ipertesti in cui l’autore ha piuttosto il ruolo di manipolatore di linguaggi, di organizzatore di citazioni ed echi e referenze di altri testi.