I segni del potere in Oriente
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il lento declino e la violenta fine degli ultimi rappresentanti della dinastia paleologa hanno comportato una sostanziale scomparsa di insegne e simboli del potere in Oriente. A compensarci parzialmente di queste perdite sono le fonti storiche, i panegirici, i testi giuridico-normativi. Da questi è possibile ricavare preziosi dati sulle vesti e le insegne del basileus, confrontarle con le immagini raffigurate nelle rare e preziose stoffe rimaste, ricche di simboli per proclamare la potenza e le virtù dell’imperatore, e con le suggestive rappresentazioni diffuse su opere monumentali e di arte suntuaria.
Da un impero che, tra alterne fortune, è durato per più di mille e cento anni e ha visto quasi 90 basileis avvicendarsi sul suo trono, ci si sarebbe aspettati una cospicua conservazione di insegne e simboli del potere. Si deve invece constatare che non abbiamo, per Bisanzio, nulla di paragonabile, ad esempio, alle corone, agli scettri, ai manti regali degli imperatori germanici e svevi, tramandati e ostentati in Occidente come icone del potere imperiale ben oltre la soglia del Medioevo. Probabilmente il lento declino e quindi la violenta fine degli ultimi rappresentanti della dinastia paleologa hanno comportato una sostanziale scomparsa di questi oggetti: proprio il racconto delle fasi finali dell’assedio di Costantinopoli nel 29 maggio del 1453, con la morte di Costantino XI che indossa la cintura, la corona di broccato d’oro e i pedila purpurei su cui erano ricamate delle aquile – segno inequivocabile del proprio rango da cui il basileus non era stato capace di separarsi neppure nell’ora del pericolo – ci restituiscono gli ultimi fotogrammi dell’imperatore bizantino solennemente rivestito delle proprie insegne.
A compensarci parzialmente di queste perdite sono in primo luogo le fonti: quelle storiche, che hanno prevalentemente la capitale e il palazzo come teatro dell’azione e l’imperatore e la sua corte come protagonisti delle vicende narrate; i panegirici e altri componimenti retorici tessuti in lode dell’imperatore; e soprattutto un testo fondamentale come il De caerimoniis aulae byzantinae, il trattato sul cerimoniale di corte che l’erudito imperatore Costantino VII Porfirogenito compone nella prima metà del X secolo, registrando sia gli usi e i costumi a lui coevi che quelli risalenti a epoche precedenti. Da tutti questi testi è possibile ricavare preziosi dati sulle vesti e le insegne che il basileus sfoggiava nelle varie occasioni imposte dal cerimoniale e incrociarli con le numerose e suggestive rappresentazioni dell’imperatore e la sua corte diffuse su opere monumentali (mosaici, pitture, rilievi scolpiti) e di arte suntuaria (avori, miniature, icone, smalti).
“Così come noi siamo superiori a tutte le altre nazioni in ricchezza e cultura, è giusto che primeggiamo anche nelle vesti; coloro che sono unici nella grazia delle loro virtù dovrebbero essere unici nella bellezza del loro abbigliamento”.
Queste parole, rivolte dagli ufficiali della corte di Costantinopoli all’ambasciatore Liutprando da Cremona, che nel 968 tenta di tornare in patria con alcune sete purpuree disinvoltamente procuratesi, danno un’idea abbastanza eloquente della preziosità dei tessuti serici prodotti a Bisanzio e del valore formale ma soprattutto ideologico che viene a essi attribuito. Se il ruolo delle vesti e dei tessuti di parata nelle teofanie del basileus e del suo seguito emerge quasi in ogni pagina del De caerimoniis, l’esclusivo appannaggio di vesti di seta all’ambito della corte – e comunque a un commercio interno rigidamente controllato – è ribadito da testi di carattere giuridico-normativo, come il Libro dell’Eparca(fine IX sec.) che vietava l’esportazione per i tessuti di porpora. Solo più tardi, tra XI e XII secolo, con il radicamento a Costantinopoli degli empori commerciali delle città marinare italiane, il monopolio bizantino della detenzione e dello smercio della seta comincia a sgretolarsi. Di contro a questo regime rigidamente protezionistico, resta il fatto però che tutti gli esemplari di tessuti in seta bizantini a noi noti si sono conservati perché giunti in Occidente già in età antica e subito riutilizzati per paramenti sacri, per avvolgere e custodire reliquie particolarmente venerate o come sudari per l’inumazione di re o vescovi: il canale di trasmissione è senz’altro quello degli scambi di doni tra la corte bizantina e personalità sia politiche che ecclesiastiche occidentali, effettuati per suggellare accordi diplomatici, intese economiche o strategie politiche. Si veda ad esempio la celebre seta con serie di elefanti entro orbicoli, proveniente dalla tomba di Carlo Magno (Aquisgrana, Tesoro della Cattedrale), dove l’avrebbe deposta Ottone III intorno al 1000.
L’estrema stilizzazione degli animali in posizione araldica e degli elementi vegetali, come l’esile Albero della Vita che fa da asse di simmetria della raffigurazione all’interno degli orbicoli con bordo perlinato, potrebbero far pensare a una manifattura orientale, ma l’iscrizione, che nomina un Michele primicerio e un Pietro arconte delle terme di Zeuxippo, la riconduce sicuramente a Costantinopoli, permettendo di identificare proprio nell’ambito dell’antico complesso termale adiacente il Grande Palazzo uno degli ergasteria dove si confezionano le preziose sete imperiali. Altri utili dati epigrafici sono contenuti nella seta del Museo Diocesano di Colonia recante iscrizioni con i nomi di Basilio II e Costantino VIII; è probabile che il soggetto prescelto per questo tipo di stoffe, ovvero l’immagine dei leoni affrontati, in atteggiamento reciprocamente solidale e minaccioso verso il riguardante, voglia alludere per traslato alla coppia di imperatori citati nell’iscrizione, sottolineandone al contempo l’unione e la potenza.
L’ideologia imperiale si esprime con accenti ancora più magniloquenti in altri tessuti come quello che il vescovo Gunther (1057-1065) di Bamberga, cancelliere di Enrico III, riceve a Costantinopoli e con il quale viene sepolto quando muore nel 1065, di ritorno dalla capitale bizantina (Bamberga, Museo Diocesano). Il tessuto, di notevoli dimensioni (cm 220 x 210) e largamente restaurato, presenta, tra due elaborate fasce di bordura con rotae annodate contenenti fioroni stilizzati, l’immagine di un imperatore nimbato a cavallo, cui si accostano due personaggi femminili che gli offrono rispettivamente un elmo crestato e una corona; per quello che si può discernere dalla sua figura molto danneggiata, l’imperatore indossa uno skaramangion purpureo su una clamide blu, sostiene un labaro gemmato nella destra e la stessa ricchezza è dispiegata nella bardatura del destriero, dalla cui coda e zampe pendono nastri purpurei annodati, reminiscenza del pativ, simbolo di regalità che i bizantini avevano conosciuto dalle opere d’arte suntuaria dei re sasanidi (secc. V-VII) e che, come ricorda il De caerimoniis, era prescritto per il cavallo montato dall’imperatore nella processione del lunedì di Pentecoste. Nei due personaggi femminili si sarebbero dovute riconoscere le personificazioni delle città di Atene e Costantinopoli dove, secondo alcune fonti bizantine, l’imperatore Basilio II aveva celebrato trionfi dopo la sua definitiva vittoria contro i Bulgari nel 1019; tale ipotesi è stata recentemente messa in discussione e si è proposto invece di riconoscere, nell’imperatore trionfante, Giovanni Zimisce di ritorno dalla fortunata campagna contro Russi e Bulgari nel 971, come riportano altre fonti che alludono a due diverse corone che Giovanni avrebbe ricevuto in tale occasione; sempre secondo questa ricostruzione, le due figure riccamente vestite e adornate con scialli purpurei, corone e splendidi gioielli – in palese contrasto con la nudità dei piedi – non sarebbero più Tychai di città, ma simboliche raffigurazione delle fazioni degli Azzurri e dei Verdi, identificabili per il colore della sopravveste che indossano.
I ritratti del basileus sono comunque relativamente rari sulle stoffe. Più frequentemente si fa ricorso a immagini simboliche per proclamare la potenza e le virtù dell’imperatore: una delle più diffuse e apprezzate è l’aquila in posizione araldica, come dimostra l’ampio sciamito giallo su fondo blu (cm 170 x 120), con due coppie di aquile stanti, proveniente dalla tomba di san Germano vescovo di Auxerre, frammento di un tessuto che presumibilmente doveva raggiungere una larghezza di m 2,36 con quattro aquile per ciascuna fila: i volatili poggiano i poderosi artigli su un suppedaneo perlinato e sono disposti frontalmente con il capo rivolto verso sinistra; la resa del piumaggio, estremamente elaborata, è articolata per motivi ornamentali differenziati secondo le diverse parti anatomiche degli animali e l’effetto di splendida e austera eleganza del tessuto è assicurato, oltre che dalla felice scelta degli accostamenti cromatici, proprio dall’uso sapiente di un numero relativamente limitato di motivi decorativi opportunamente variati e ripetuti. Anche il tessuto di Bressanone è un frammento di un più ampio sciamito nero su fondo porpora che condivide con quello di Auxerre il gusto per la disposizione paratattica dei grandi volatili e dei riempitivi a grandi fioroni, nonché gli stilemi minuziosi e altamente decorativi del piumaggio. Comune alle due stoffe è poi il particolare dell’anello con pendente che le aquile tengono nel becco, rielaborazione di un motivo iconografico attestato già in antico, in cui i rapaci mostrano, nel becco o appesa al collo, l’aetite, ovvero la pietra dell’aquila, una gemma cui le fonti classiche riconoscevano particolari poteri profilattici specialmente in caso di gravidanze e parti, tanto che è suggestivo pensare che stoffe di questo genere venissero prodotte in occasione della nascita di personaggi di rango imperiale e che venissero esposte in ambienti specifici del Grande Palazzo, come la Porphyra, luogo adibito alla gestazione e al parto, in purpuris, dei figli dell’imperatore. Aquile e altri animali caricati di valenze simboliche, come ad esempio i grifoni, potevano apparire sulle vesti degli imperatori o alti dignitari; a fronte dello scarso numero di esemplari conservati, sono ancora le fonti scritte e quelle iconografiche a fornirne una testimonianza: per le prime si veda la descrizione delle vesti da parata indossate da Manuele Comneno nel corso di una giostra cavalleresca (intrattenimento di tipo occidentale molto apprezzato a Costantinopoli nel XII secolo) tra le quali si distingue una veste con medaglioni contenenti grifoni addorsati; per le seconde, molto più numerose, si può far ricorso al repertorio delle miniature, tra le quali si segnalano le solenni esposizioni di vesti sfoggiate da Niceforo Botaniate e dalla sua corte nelle miniature poste in testa al codice contenente le Omelie di Giovanni Crisostomo (Parigi, Bibl. Nat., ms. Coislin 79).
A parte quella di Leone VI conservata nel Tesoro di San Marco in un riassemblaggio di inizi XIV secolo, sono essenzialmente due le corone di origine bizantina giunte sino a noi: la prima, nota come corona di Costantino IX Monomaco, è in realtà frutto anch’essa di un riallestimento di placchette d’oro con smalti a cloisonné riemerse tra 1861 e 1870, in circostanze poco chiare, per lavori agricoli nel villaggio di Nyitra-Ivanka in Slovacchia e attualmente conservate nel Museo Nazionale di Budapest. Proprio le modalità di ritrovamento e i vistosi errori ortografici e sintattici nelle iscrizioni hanno spinto alcuni studiosi a mettere in dubbio l’autenticità del pezzo; altri, per caratteristiche tecniche e per il posizionamento di alcuni fori di fissaggio delle placche, suggeriscono che queste potessero formare la decorazione di una cintura più che la cresta di un diadema. Le placche, a terminazione arcuata e di diversa altezza, mostrano il gruppo centrale dei basilei formato da Costantino IX, la moglie Zoe e la di lei sorella Teodora – che ritroviamo assieme in una miniatura del cod. 364 del monastero di Santa Caterina al Sinai – affiancato da due danzatrici e le personificazioni della Verità e dell’Umiltà. Tutte le figure sono immerse in una sorta di paesaggio incantato, formato da racemi sinuosi popolati da volatili, evocativi dei lussureggianti giardini del palazzo imperiale o, forse più appropriatamente, di quell’automa di bronzo con uccelli semoventi e canori, posto nella sala d’udienza della Magnaura, citato nel De caerimoniis e di cui ci parlano con accenti stupefatti i resoconti delle ambascerie straniere. Particolare curiosità hanno attirato le giovani danzatrici per la loro iconografia, memore di modelli islamici, e per il loro ruolo, da intendersi come coreografia delle grazie componenti un cerchio di lode all’imperatore, una metafora, questa, che ricorre tanto nelle declamazioni dei retori quanto nella stessa iconografia imperiale.
Il secondo diadema è anch’esso legato all’Ungheria, essendo parte costituente della sacra corona, dal 2000 custodita presso la Camera dei Deputati di Budapest. La corona greca è composta da una serie di placchette quadrate, con smalti su fondo d’oro alternati a pietre incastonate, sormontate da un ordine superiore di placchette smaltate, alternatamente circolari e triangolari (come nella corona sfoggiata da Irene nel noto mosaico con Giovanni II in Santa Sofia), sistemate sulla parte frontale del diadema ai lati della placchetta principale con il Cristo in trono, alla quale corrisponde, perfettamente in asse ma isolata, quella dell’imperatore Michele VII Ducas. La corona, per il suo bilanciato e organico disporsi delle figure è, in summa e per immagini, un compendio dell’ideologia bizantina del potere di Dio e dell’imperatore sul cosmo: panbasileus e basileus sono posti sullo stesso livello, ma la posizione frontale e la sua rappresentazione a figura intera sul trono lasciano chiaramente intendere che al primo è riservato un onore maggiore. Cristo ha una sorta di guardia armata, formata dalla coppia di arcangeli e dai santi militari Giorgio e Demetrio, cui seguono i santi Cosma e Damiano, particolarmente venerati dagli imperatori per le loro capacità taumaturgiche, tanto è vero che figurano su un altro signum della regalità bizantina (il cosiddetto scettro di Leone VI agli Staatliche Museen di Berlino) e che in loro onore Michele IV aveva fatto ricostruire un grandioso santuario nei sobborghi di Costantinopoli. L’imperatore ha come seguito il figlio Costantino e Géza I, re di Ungheria cui era andata sposa una principessa bizantina (nipote del futuro imperatore Niceforo Botaniate) per suggellare un’alleanza di tipo militare alla quale sembrano alludere le spade tenute in mano rispettivamente dal basileus dei Romani e dal “kral di Turchia”: in tal modo sono definiti difatti Michele e Géza, secondo una titolatura che rimarca le differenze gerarchiche tra i due. L’espressione della taxis che regola tanto la vita di corte quanto quella dell’intero cosmo è affidata invece allo studiato indirizzamento degli sguardi di tutti i personaggi verso i due elementi principali, le icone di Cristo e dell’imperatore, simboli del potere che da Dio è trasmesso al suo rappresentante in terra, il quale a sua volta lo esercita legittimamente su tutti i popoli.